La Gaxeta veneta, data alle stampe nel Cinquecento, è l’antenato dei nostri attuali giornali.
La “Gazeta” o “gazzetta” (in dialetto veneziano “gaxeta”), in origine era il nome popolare di una moneta d’argento della Serenissima Repubblica di Venezia del valore di due soldi. Il nome sembra derivare da “gazza”, ma in realtà si dibatte ancora riguardo al suo etimo che resta incerto. Questa moneta, emessa a partire dal 1539 sotto il dogato di Pietro Lando (1539-1548), aveva il titolo di 0,948 e un peso di 0,24 grammi. Su un lato era raffigurata la giustizia seduta, sul retro il leone di San Marco.
Nel 1563 a Venezia fu pubblicato il primo “foglio avviso”. Venduto al pubblico al prezzo di una gaxeta (due soldi), prese il nome proprio dalla moneta: “La gazeta dele novità” o “Gaxeta”. Denominarlo come una moneta fu abbastanza naturale: rispecchiava le attitudini commerciali di Venezia. Con il tempo, il nome fu italianizzato e si trasformò nel più ben noto “Gazzetta”.
La Gaxeta aveva come scopo di tenere costantemente aggiornata la popolazione. In quel periodo le relazioni fra Venezia e il sultano turco si erano incrinate e il governo della città aveva reagito diffondendo dei “Fogli di avviso”: cercava in tal modo di guidare le coscienze. I fogli della Gaxeta continuarono poi a essere prodotti e distribuiti in formati da otto o sedici pagine.
Nato come una sorta di bollettino aggiornato, la Gaxeta riportava notizie di battaglie, assedi e spostamenti di truppe. Tali argomenti erano preziosi in particolare per i commercianti e i banchieri che cercavano, tenendosi informati, di curare i loro interessi. Ovviamente, i problemi insorti con il sultano turco li riguardava da vicino: minacciava i floridi commerci che avevano correntemente con il mondo orientale.
Nello stesso periodo in cui si stampava la Gaxeta, nacque anche la prima forma di pubblicità. Sui fogli di giornale si riportavano i prezzi di merci da acquistare e persino notizie su fiere e mercati più importanti.
Tale genere di fogli informativi iniziano a comparire anche all’estero. Ad esempio, in Germania circolava un giornale manoscritto con contenuti simili alla Gaxeta veneziana, altrettanto accadeva in Inghilterra, dove le notizie erano riportate su fogli volanti.
I fogli volanti vennero abbandonati gradualmente, per passare al formato del giornale vero e proprio, anche se il foglio, singolo o multiplo, rimase per almeno altri cinquant’anni, dopo che il giornale aveva assunto più o meno le fattezze di quello attuale.
Cardarelli ha espresso nei suoi versi le emozioni create dal passare del tempo, dall’avvicendarsi delle stagioni, dal trascorrere dei giorni e delle ore. Due delle sue poesie più famose sono dedicate a Venezia, qui i versi che descrivono la città si fondono con le emozioni del poeta.
Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia, 1° maggio 1887 – Roma, 18 giugno 1959), il cui vero nome era Nazareno Caldarelli, è stato un poeta, scrittore e giornalista italiano. A Corneto Tarquinia, Vincenzo trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Due periodi della sua vita particolarmente duri, segnati dall’assenza della madre, che lasciò la famiglia quando il poeta era ancora piccolo, dalla solitudine e da problemi di salute.
Cardarelli compì studi irregolari e per la maggior parte, come autodidatta. A diciassette anni scappò di casa e si recò a Roma, per mantenersi si dedicò ai più svariati mestieri, poi nel 1909, intraprese la carriera giornalistica, iniziando a collaborare con vari quotidiani e riviste. Nel 1916, diede alle stampe la sua prima raccolta di poesie, “Prologhi”. Da quel momento, l’attività giornalistica si intrecciò con quella poetica.
Vincenzo Cardarelli è famoso per le numerose raccolte poetiche, ma anche per le prose autobiografiche di costume e di viaggio: “Prologhi” (1916), “Viaggi nel tempo” (1920), “Favole e memorie” (1925), “Il sole a picco” (1929), “Il cielo sulle città” (1939), “Lettere non spedite” (1946), “Villa Tarantola” (1948). I suoi punti di riferimento letterari furono: Charles Baudelaire (1821-1867), Friedrich Nietzsche (1844-1900), Giacomo Leopardi (1798-1837), Blaise Pascal (1623-1662). Grazie a loro riuscì a dare forma alle proprie passioni incastonandole in una cornice razionale. La sua poesia era essenzialmente descrittiva, connessa ai ricordi: di paesaggi, di animali, di persone e di stati d’animo. Il poeta utilizzava un linguaggio discorsivo ma al contempo, passionale e profondo.
La vita di Cardarelli fu essenzialmente un’esistenza isolata; per similitudini poetiche, caratteriali e anche per problemi di salute (soffriva del morbo di Pott, una forma di tubercolosi extrapolmonare) fu accostato a Leopardi. Morì a Roma, il 18 giugno 1959, e il suo corpo fu sepolto nel cimitero di Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca, come da lui specificatamente richiesto nel testamento.
La sua opera poetica si colloca tra l’avanguardia del primo decennio del Novecento e la restaurazione classicista degli anni venti. Dello spirito avanguardistico restò sempre un’eco nella poesia di Cardarelli, anche quando formalmente se ne distaccò. Nelle poesie più vicine a quella corrente il poeta aderiva a particolari scelte espressive, come frammentismo ed espressionismo linguistico, e utilizzava argomenti, quali lo sradicamento, la perdita di identità, l’adolescenza, il viaggio. Il ritorno all’ordine, dopo le pulsioni avanguardiste, si verificò intorno agli anni Venti e fu la conseguenza di un’incertezza psicologica, causata dalla crisi della funzione sociale dell’intellettuale. Questo clima restaurativo fu accolto con entusiasmo da Cardarelli che reputò tale ritorno al passato e alla tradizione, come un’occasione per rilanciare l’identità del letterato e dell’intellettuale.
I versi di Cardarelli manifestano una grande chiarezza logica e limpidezza linguistica; lo stile è elegante e rigoroso. Il poeta nelle sue liriche ha sempre aspirato alla compostezza, a un tono colloquiale e a un atteggiamento distaccato, muovendosi sempre tra due poli contrastanti, quello dell’impulso trasgressivo e quello del desiderio di autocontrollo. Tra i due estremi, solitamente, prevaleva la moderazione che sfociava in un garbo formale.
Nelle poesie di Cardarelli, i temi ricorrenti sono il trascorrere delle stagioni, i ricordi dell’infanzia e dei paesaggi collegati a quel periodo. Il poeta esplorava allo stesso modo la vitalità estiva e il disfacimento malinconico dell’autunno. Per lui, il passare del tempo era l’emblema delle vicissitudini della vita.
Tra le due Guerre mondiali, Cardarelli visse tra Toscana, Lombardia e Veneto. Il Veneto sembra aver dato le ali alla sua ispirazione, specialmente la città di Venezia alla quale il poeta ha dedicato due tra le sue poesie più note.
La prima poesia sulla città veneta è: “Settembre a Venezia” che compare per la prima volta nella raccolta “Poesie”, del 1936. Il poeta raffigura la città lagunare durante un crepuscolo di settembre; gli ultimi raggi del sole fanno brillare gli ori dei mosaici di San Marco, mentre la luna sorge sulle Procuratie vecchie. Il componimento poetico è diviso in due parti. Nella prima, il poeta descrive gli effetti del tramonto sulla città; nella seconda, riflette sulle impressioni che susciterà in lui il ricordo, quando le immagini davanti ai suoi occhi si saranno sedimentate, diventando finalmente sue. I versi di questa lirica sono liberi, ci sono soltanto due casi di rima (vv.8 e 11; 20 e 22), mentre ci sono allitterazioni e rispondenze interne.
Settembre a Venezia
Già di settembre imbrunano a Venezia i crepuscoli precoci e di gramaglie vestono le pietre. Dardeggia il sole l’ultimo suo raggio sugli ori dei mosaici ed accende fuochi di paglia, effimera bellezza. E cheta, dietro le Procuratìe, sorge intanto la luna. Luci festive ed argentate ridono, van discorrendo trepide e lontane nell’aria fredda e bruna. Io le guardo ammaliato. Forse più tardi mi ricorderò di queste grandi sere che son leste a venire, e più belle, più vive le lor luci, che ora un po’ mi disperano (sempre da me così fuori e distanti!) torneranno a brillare nella mia fantasia. E sarà vera e calma felicità la mia.
L’altra poesia dedicata da Cardarelli alla città lagunare è: “Autunno veneziano”. Fu pubblicata nel 1942, nella raccolta “Poesie”. In questi versi, il poeta illustra un autunno fatto di morte e di disfacimento, privo di suoni e velato di una malinconia venefica.
Autunno veneziano
L’alito freddo e umido m’assale di Venezia autunnale, Adesso che l’estate, sudaticcia e sciroccosa, d’incanto se n’è andata, una rigida luna settembrina risplende, piena di funesti presagi, sulla città d’acque e di pietre che rivela il suo volto di medusa contagiosa e malefica. Morto è il silenzio dei canali fetidi, sotto la luna acquosa, in ciascuno dei quali par che dorma il cadavere d’Ofelia: tombe sparse di fiori marci e d’altre immondizie vegetali, dove passa sciacquando il fantasma del gondoliere. O notti veneziane, senza canto di galli, senza voci di fontane, tetre notti lagunari cui nessun tenero bisbiglio anima, case torve, gelose, a picco sui canali, dormenti senza respiro, io v’ho sul cuore adesso più che mai. Qui non i venti impetuosi e funebri del settembre montanino, non odor di vendemmia, non lavacri di piogge lacrimose, non fragore di foglie che cadono. Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore su un davanzale è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali non son che luci smarrite, luci che sognano la buona terra odorosa e fruttifera. Solo il naufragio invernale conviene a questa città che non vive, che non fiorisce, se non quale una nave in fondo al mare.
Venezia ha avuto un’eco nella vita e nella produzione poetica di Cardarelli. Mentre risiedeva nella città veneta, il poeta diede corpo al suo fascino, attraverso versi dotati di sensibilità ed eleganza. Le sue parole la raffigurano sospesa in un magico equilibrio tra decadenza e antichi splendori bizantini. Il punto di partenza di Cardarelli, anche nel caso delle due liriche dedicate a Venezia, è lo stesso che ricorre in tutta la sua poetica: una stagione, un ricordo, un’emozione.
Giacomo Casanova, il cui anniversario della nascita ricorre proprio oggi, 2 aprile, fu un uomo dai molti talenti. Grande viaggiatore, mente brillante passava dalla poesia all’alchimia e fu anche un notevole scrittore, soprattutto quando mise per iscritto le sue mirabolanti avventure.
Chi non conosce il termine “Casanova”? Immagino che tutti sappiano il significato acquisito di tale parola, cioè seduttore e donnaiolo, individuo che ha successo con le donne ed è sempre in cerca di avventure galanti. Scommetto che altrettanto nota sia la sua derivazione dal settecentesco scrittore e avventuriero veneziano, Giacomo Casanova.
Ma quanti conoscono la vita di questo singolare personaggio che era molto più di un raffinato seduttore?
Giacomo Girolamo Casanova (Venezia, 2 aprile 1725 – Duchov, 4 giugno 1798) oltre alle donne, aveva anche molti altri interessi, altrettanto impegnativi, quali l’esoterismo, l’alchimia, la filosofia e tra le tante professioni e mestieri che esercitò, un po’ per passione e un po’ per necessità, fu diplomatico, scienziato e persino agente segreto. Fu anche scrittore e autore di una considerevole produzione letteraria che abbracciava: trattati e testi saggistici di vari argomenti; opere letterarie in prosa e in versi.
A dargli fama e maggiore lustro e a fargli acquisire notorietà mondiale come conquistatore di cuori femminili, fu l’ “Histoire de ma vie” (Storia della mia vita). In questo testo, Casanova descrisse con una certa schiettezza le sue avventure, parlò dei suoi viaggi e narrò, in particolare, le sue relazioni amorose. L’autore scelse il francese per scrivere l’Histoire, questa decisione fu frutto di una ponderata valutazione: nel XVIII secolo, il francese era la lingua più nota ed era parlata dall’élite europea.
Casanova visse in una fase di svolta della storia e persino la sua opera letteraria precorreva i tempi, anche se lui non se ne rese conto. Come non si rese conto che i valori e i principi dell’ancien régime e della sua classe dominante: l’aristocrazia, su cui lui aveva modellato la sua esistenza, erano avviati irrimediabilmente al declino.
Giacomo Casanova nacque in Calle della Commedia (attualmente Calle Malipiero), vicino alla chiesa di San Samuele. Suo padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino, mentre sua madre, Zanetta Farussi, era un’attrice veneziana che riscosse nella sua vita un certo successo professionale – ricevette elogi anche da Carlo Goldoni. Già la nascita di questo singolare personaggio nasconde un segreto, neanche troppo nascosto, perché circolava tra il popolo e fu confermato dallo stesso Casanova in un libello. Inoltre, non si spiegherebbero certi fatti, se appunto non si nutrissero dubbi sulla vera identità di suo padre. Le voci popolari indicavano, come più probabile genitore, il nobile veneziano, Michele Grimani, che aveva avuto una relazione con la madre di Casanova. Anche una certa somiglianza tra padre e figlio non faceva che confermare tale possibilità e piuttosto rivelatore fu anche l’aiuto e la protezione che la famiglia Grimani concesse a Casanova in tutto l’arco della sua esistenza.
Fu la nonna materna, Marzia Baldissera in Farussi, a occuparsi principalmente di lui che era rimasto orfano del padre in tenera età ed era poco seguito dalla madre, costretta a viaggiare per lavoro. A nove anni Casanova si trasferì a Padova per studiare e qui frequentò anche l’università. Alla fine degli studi, fece i suoi primi viaggi e nel 1742, comparve di nuovo a Venezia. L’anno successivo si verificarono diversi fatti spiacevoli per il nostro libertino: morì sua nonna, alla quale era particolarmente legato; la madre lasciò la casa in Calle della Commedia e si sistemò con i figli in un’abitazione più modesta. Questi cambiamenti influirono molto nella vita di Casanova che, per la prima volta, finì in carcere, a causa del suo atteggiamento ribelle.
Uscito di prigione, dapprima fu in Calabria, poi si spostò a Napoli e a Roma. Fu al servizio di vari prelati, ma ben presto fu liquidato per la sua condotta imprudente e nel 1744, approdò, per la seconda volta ad Ancona, qui si innamorò di un castrato: Bellino che in realtà era una donna, il suo nome era Teresa, con lei Casanova ebbe una lunga relazione e persino un figlio.
Tornato a Venezia, visse per un po’ dei proventi guadagnati suonando il violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei Grimani. Nel 1746, per un caso fortuito, strinse un’amicizia che durò tutta la vita con il senatore veneziano Matteo Bragadin e inoltre, conobbe i due più cari amici del patrizio veneziano, Marco Barbaro e Marco Dandolo. Queste conoscenze gli furono utili in più occasioni. Qualche anno dopo, invece, conobbe Henriette, uno dei suoi più grandi amori. Si pensa si trattasse di un’aristocratica di Aix-en-Provence, forse, Adelaide de Gueidan.
Nelle sue memorie, Casanova cita personaggi reali, a volte ne vela l’identità, specie quando si trattava di donne sposate che spesso sono menzionate con le sole iniziali oppure con nomi inventati, ma in generale è semplice individuare chi siano i soggetti di cui parla l’autore e anche i fatti sono corretti e verificabili. Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che alcuni passaggi siano romanzati e inventati dall’autore, pur facendo riferimento a personaggi esistiti storicamente. In ogni caso, episodi veri o romanzati, la qualità delle Memorie non muta: lo scrittore riesce a creare un ritmo serrato e persino la tensione emotiva dei suoi personaggi è dotata di un sorprendente realismo. Non sarà tutto vero, forse, ma il testo funziona ed è efficace.
Nel 1750, Casanova torna a Venezia, ma pochi mesi dopo parte di nuovo alla volta di Parigi. In questo periodo aderisce alla Massoneria che gli consente non solo di incontrare personaggi di un certo rilievo, quali Mozart e Franklin, ma di ottenere non poche facilitazioni di varia natura.
È il 1755, quando lo troviamo di nuovo a Venezia, di rientro da viaggi in varie città: Dresda, Praga e Vienna. L’accoglienza non fu delle migliori: Casanova fu arrestato e imprigionato nei Piombi (antica prigione ubicata nel sottotetto del Palazzo Ducale di Venezia, nel sestiere di San Marco; il singolare nome deriva dal materiale con cui era fabbricato il loro tetto. Qui si era imprigionati per volontà del Consiglio dei Dieci, per crimini politici o perché si era in attesa di giudizio). Casanova però, restando fedele alla sua natura, sprezzante del pericolo e della possibile conseguente eliminazione da parte degli inquisitori, evade in maniera rocambolesca dalla prigione veneziana.
I motivi dell’arresto vedono fioccare molte ipotesi, ma ne parleremo in seguito, in un prossimo post…
In copertina: particolare di un presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo)
Oggi, 25 febbraio, ricorre l’anniversario della nascita di Carlo Goldoni. Il commediografo veneziano ha lasciato un’impronta tangibile nel mondo teatrale e per farlo, a sentire lui, non ha dovuto far altro che non scostarsi mai dalla natura.
Carlo Osvaldo Goldoni (Venezia, 25 febbraio 1707 – Parigi, 6 febbraio 1793), ritenuto uno dei padri della commedia moderna, è stato commediografo, appunto, scrittore, librettista e avvocato italiano. Le sue origini sono borghesi. Nato a Venezia, ancora giovane si trasferì con la famiglia a Perugia, dove studiò dapprima, con un precettore, poi in un collegio gesuitico. Trasferitosi ancora, stavolta a Rimini proseguì gli studi presso un istituto gestito dai domenicani.
Nel 1721, torna a Venezia con la madre e qui inizia il praticantato presso lo studio legale dello zio. Nel 1723, è a Pavia, dove prosegue gli studi presso l’Università della città. Successivamente, andrà a Udine e poi a Vipacco, insieme al padre che esercita come medico presso il conte Francesco Antonio Lantieri.
Negli anni successivi, Goldoni continuò a spostarsi, riprendendo ancora gli studi continuamente interrotti. Nel 1729, è a Feltre e già da qualche tempo ha iniziato a dedicarsi alla scrittura di opere teatrali: intermezzi comici per lo più, che già rivelano appieno la sua passione per il teatro. Nel 1731, morì suo padre e Goldoni tornò a Venezia, qui, finalmente terminò i suoi studi a Padova e iniziò la sua carriera forense.
È del 1734 un incarico per il teatro San Samuele, Goldoni deve scrivere dei testi, così nascono le prime tragicommedie: “Belisario” (1734); “Don Giovanni Tenorio” (1735); “Giustino” (1738). In questo stesso periodo, Goldoni si spostò a Genova, seguendo la compagnia teatrale per cui lavorava, e qui conobbe Nicoletta Conio che poi sposò e con lei tornò a Venezia.
La prima commedia di Goldoni è del 1738, il “Momolo cortesan” che presenta un’unica parte completamente scritta, quella del protagonista. Tra il 1742 e il 1743 scrisse invece la prima commedia con tutte le parti scritte: “La donna di garbo”.
Tra fughe per debiti, viaggi, esperienze teatrali e mestiere dell’avvocatura, Goldoni affronta diverse vicissitudini, prima di approdare di nuovo al teatro, con un’altra compagnia e un nuovo capocomico: Girolamo Medebach (1706-1790; attore teatrale). La nuova compagnia recitava a Venezia al teatro Sant’Angelo. Le commedie che l’autore veneziano scrive tra il 1748 e il 1753 si allontanano dai modelli della commedia dell’arte e iniziano a rivelare i principi di una “riforma” del teatro. In questo periodo scrive: “L’uomo prudente”, “La vedova scaltra”, “La putta onorata”, e altro ancora.
Nel 1750 altro tour de force del nostro commediografo che riuscì a scrivere sedici commedie in un solo anno, tra queste ricordiamo: “Il teatro comico” (manifesto della sua riforma teatrale); “La bottega del caffè”, “Il bugiardo”, “Il poeta fanatico”, “La finta ammalata”, “I pettegolezzi delle donne”. Sempre per la compagnia del Medebach, Goldoni produsse altri testi fino a giungere a “La locandiera” e a “Le donne curiose”.
Nel 1753, Goldoni ruppe i suoi rapporti con la compagnia del Medebach e firmò un nuovo contratto con il teatro San Luca. Furono anni difficili per l’autore che dovette affrontare la sfida di un edificio teatrale molto più grande e attori che non conoscevano il suo stile, lontano dai modelli della commedia dell’arte. In questo periodo fu particolarmente apprezzata la “Trilogia persiana” e diverse commedie, tra le quali primeggia il capolavoro “Il campiello”.
Nel 1761, il commediografo ricevette un invito per recarsi nella capitale francese a prendersi cura della Comédie Italienne. Prima della partenza, Goldoni regalò al Teatro San Luca un’ultima vivace stagione, producendo diverse opere teatrali: “La trilogia della villeggiatura”, “Sior Todero brontolon”, “Le baruffe chiozzotte”, “Una delle ultime sere di carnovale”.
A Parigi dal 1762, Goldoni ebbe il suo daffare per far valere la Commedia Italiana e qui riprese la sua battaglia per la riforma del teatro. Quando giunse, la rivoluzione francese sconvolse la sua vita e nel 1793, il 6 febbraio, morì in miseria alla soglia degli 86 anni.
Goldoni scrisse avendo sempre ben presente precise contingenze: occasioni specifiche; necessità degli attori, dei teatri e delle compagnie. Tutta la sua opera è un’interrotta serie di situazioni; giocata su un parlare quotidiano e volta a rappresentare in modo attento il reale. Inoltre, Goldoni passava sovente dall’italiano al veneziano e viceversa, lasciando spazio ai vari usi sociali del linguaggio, consentendogli così di aderire alle situazioni più svariate in cui erano calati i personaggi. Il veneziano adottato dall’autore era quello del mondo borghese, e il dialetto, quando lo utilizzava, non era uno strumento di gioco, bensì un linguaggio concreto e indipendente che si differenziava in base alle diverse classi sociali dei personaggi che ne facevano uso.
Goldoni nella sua riforma pose come elemento fondamentale: il richiamo alla natura, in un confronto costante con la realtà quotidiana. Il commediografo ostentava nella sua opera un illuminismo popolare che si opponeva a qualsiasi forma di ipocrisia e al contempo dava rilevanza alla classe sociale dei piccoli borghesi. Goldoni mirava a rappresentare un mondo razionale pacifico, dove esistevano le gerarchie sociali e ognuno aveva un ruolo ben preciso: dalla nobiltà alla borghesia sino al popolo.
Il commediografo rivolse la sua attenzione ai vizi – per colpirli, aspirando al contempo a correggerli – contrapposti alle virtù. Nelle sue opere c’era sempre una precisa morale e i caratteri avevano uno scopo pedagogico. Il suo teatro faceva riferimento alla vita quotidiana e racchiudeva tutta la vita della Venezia e dell’Italia del suo tempo. Facendo riferimento alle classi sociali, Goldoni diede ai borghesi il ruolo centrale, mentre i nobili si rivelavano senza valori. I servi, dal canto loro, facevano ancora riferimento alla commedia dell’arte, erano trattati con maggiore schematicità e risaltavano per la loro intelligenza. Negli ultimi anni a Venezia, l’autore garantì loro un maggiore respiro e attraverso essi avanzò critiche alla ragione borghese dei loro padroni.
Un elemento fondamentale del mondo per Goldoni era l’amore: un sentimento spesso affermato sulla scena dai giovani e costretto a sottostare alle regole sociali e familiari e che doveva anche tenere conto dell’onore e della reputazione.
Per riassumere nel complesso l’avventura teatrale di Goldoni e per definire lo scopo e il modo in cui fu attuata la sua riforma teatrale possiamo appoggiarci alle sue affermazioni: “Sebben non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali, come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro”.
In Copertina: Canaletto, “Piazza San Marco” (1723 ca., Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza)
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.OkLeggi di più