Il “Giornale de’ Letterati”, una delle prime riviste pubblicate in Italia, fu la capostipite di una serie di periodici che portavano lo stesso nome e che aiutarono a vivacizzare discussioni di argomento culturale e scientifico a cavallo tra il Seicento e il Settecento.
“La vera destinazione di una rivista è rendere noto lo spirito della sua epoca“, questo è ciò che sosteneva Walter Benjamin (1892 – 1940, filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco) nell’annuncio della rivista: “Angelus Novus“. In effetti, le riviste non servivano solo a comunicare notizie ai lettori contemporanei, ma erano anche luogo di discussioni e dibattiti su temi di vario genere: culturali, artistico-letterari, politici, sociali e persino scientifici e religiosi. Le pagine stampate consentivano una partecipazione più concreta, soprattutto perché prendevano in esame i vari fenomeni dall’interno.
Tra le prime riviste italiane che si occupò di diffondere argomenti culturali, ci fu il “Giornale de’ Letterati”, nome che non fu utilizzato da un’unica rivista: in realtà ce ne furono diverse che impiegarono lo stesso titolo e furono fondate in varie città italiane fra il XVII e il XVIII secolo. Comunque, la prima a fregiarsi di questo nome fu stampata a Roma e il suo fondatore fu l’abate Francesco Nazzari (1638 – 1714).
Il primo numero del “Giornale de’ Letterati” vide la luce il 28 gennaio 1668. Questo trimestrale è ritenuto una delle più antiche riviste della stampa italiana. Esso conteneva notizie ed estratti, sull’esempio del “Journal des Savants”, di opere prevalentemente scientifiche che si pubblicavano in Italia e all’estero e divenne un modello per varie e successive riviste letterarie.
Inizialmente, la rivista di Nazzari fu pubblicata con i caratteri tipografici dello stampatore Nicolò Angelo Tinassi. Per procurarsi materiale da stampare, il suo fondatore, incoraggiato dal futuro cardinale Michelangelo Ricci (1619 – 1682), diede vita a una società di letterati e di intellettuali, incaricati di fornire i riassunti delle opere in lingua straniera pubblicate in Europa. Dal canto suo, Nazzari curava le novità che giungevano dalla Francia.
Nel 1675, la rivista cambiò stampatore. I nuovi caratteri impiegati furono quelli di Giacomo Mascardi (1637-1722, nipote omonimo del fondatore della stamperia) e Benedetto Carrara ne divenne il finanziatore.
Tinassi, il precedente stampatore di Nazzari, proseguì con la pubblicazione di una rivista parallela che impiegò lo stesso nome, diretta da Giovanni Giustino Ciampini (1633 – 1698, storico, matematico, giornalista, archeologo e scienziato). Da quel momento, uscirono due periodici differenti, stampati nella stessa città e con lo stesso titolo: il trimestrale di Nazzari, che continuò ad essere stampato fino al 1679 e il mensile omonimo che proseguì la sua attività fino al 1683 (dal 1681, cambiò la direzione che da Giovanni Ciampini passò all’abate Filippo Maria Vettori).
Negli anni successivi, il titolo “Giornale de’ Letterati” fu usato per altre riviste stampate in altre città e in periodi diversi:
a Parma, dal 1686 al 1690;
a Ferrara, nel 1688;
a Modena, dal 1692 al 1698 (direttore, come quello di Parma, fu Benedetto Bacchini e finanziata anch’essa da Gaudenzio Roberti);
a Roma, stampata dai fratelli Pagliarini dal 1742 al 1759. Ebbe fra i principali ispiratori Giovanni Gaetano Bottari;
a Firenze, fondata da Ottaviano Buonaccorsi, pubblicata dall’aprile 1742 a tutto il 1753;
a Pisa, nel 1771, fondata da Angelo Fabroni e chiusa nel 1796 per l’invasione napoleonica. Lo stampatore fu il Pizzorno (l’ultimo volume fu stampato dal Landi).
La Gaxeta veneta, data alle stampe nel Cinquecento, è l’antenato dei nostri attuali giornali.
La “Gazeta” o “gazzetta” (in dialetto veneziano “gaxeta”), in origine era il nome popolare di una moneta d’argento della Serenissima Repubblica di Venezia del valore di due soldi. Il nome sembra derivare da “gazza”, ma in realtà si dibatte ancora riguardo al suo etimo che resta incerto. Questa moneta, emessa a partire dal 1539 sotto il dogato di Pietro Lando (1539-1548), aveva il titolo di 0,948 e un peso di 0,24 grammi. Su un lato era raffigurata la giustizia seduta, sul retro il leone di San Marco.
Nel 1563 a Venezia fu pubblicato il primo “foglio avviso”. Venduto al pubblico al prezzo di una gaxeta (due soldi), prese il nome proprio dalla moneta: “La gazeta dele novità” o “Gaxeta”. Denominarlo come una moneta fu abbastanza naturale: rispecchiava le attitudini commerciali di Venezia. Con il tempo, il nome fu italianizzato e si trasformò nel più ben noto “Gazzetta”.
La Gaxeta aveva come scopo di tenere costantemente aggiornata la popolazione. In quel periodo le relazioni fra Venezia e il sultano turco si erano incrinate e il governo della città aveva reagito diffondendo dei “Fogli di avviso”: cercava in tal modo di guidare le coscienze. I fogli della Gaxeta continuarono poi a essere prodotti e distribuiti in formati da otto o sedici pagine.
Nato come una sorta di bollettino aggiornato, la Gaxeta riportava notizie di battaglie, assedi e spostamenti di truppe. Tali argomenti erano preziosi in particolare per i commercianti e i banchieri che cercavano, tenendosi informati, di curare i loro interessi. Ovviamente, i problemi insorti con il sultano turco li riguardava da vicino: minacciava i floridi commerci che avevano correntemente con il mondo orientale.
Nello stesso periodo in cui si stampava la Gaxeta, nacque anche la prima forma di pubblicità. Sui fogli di giornale si riportavano i prezzi di merci da acquistare e persino notizie su fiere e mercati più importanti.
Tale genere di fogli informativi iniziano a comparire anche all’estero. Ad esempio, in Germania circolava un giornale manoscritto con contenuti simili alla Gaxeta veneziana, altrettanto accadeva in Inghilterra, dove le notizie erano riportate su fogli volanti.
I fogli volanti vennero abbandonati gradualmente, per passare al formato del giornale vero e proprio, anche se il foglio, singolo o multiplo, rimase per almeno altri cinquant’anni, dopo che il giornale aveva assunto più o meno le fattezze di quello attuale.
Giornali e riviste a stampa compaiono più o meno negli stessi anni, un po’ in tutta Europa, sulla scia dell’invenzione di Gutenberg. La loro fortuna e diffusione aumenta considerevolmente nel corso dei secoli.
La nascita dei giornali è strettamente legata all’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455). Questa nuova tecnica, introdotta in Europa da Gutenberg (1400 ca. – 1468), orafo e tipografo tedesco, rappresentò una vera e propria rivoluzione e produsse al contempo molti cambiamenti nella società dell’epoca.
Inizialmente, i giornali erano dei semplici fogli di informazioni che venivano distribuiti alla popolazione. Verso la metà del 1500, a Venezia, si stampava la “Gaxeta” un foglio che prendeva il nome dall’omonima moneta che si pagava per acquistarla. Successivamente, il nome mutò in “Gazzetta”. Questo termine fu adottato non solo in Italia ma anche in altri paesi ed era sinonimo di giornale.
Aumentano le informazioni e di pari passo cresce il numero di pagine dei giornali che riportano notizie di vario genere.
Quasi contemporaneamente, nel 1600 compaiono in Francia e in Inghilterra le prime riviste. Negli anni seguenti, accade lo stesso in Italia e in Germania e, ancora più avanti si affermano anche nel resto d’Europa e negli Stati Uniti.
Questi giornali escono con cadenza periodica, di solito una volta al mese, e trattano di scienza, filosofia, letteratura. Sono chiaramente rivolti a dei lettori colti e intendono diffondere informazioni sui progressi della scienza e anche su ciò che avviene nel mondo della cultura.
Dal 1700, tali periodici aumentano notevolmente e si specializzano, ognuno eleggendo un unico tra gli argomenti culturali finora trattati. Queste riviste hanno un’ampia diffusione, grazie soprattutto alla maggiore alfabetizzazione delle persone che sono quindi più attratte dalla lettura, ma anche perché i progressi della scienza e le nuove scoperte attirano l’interesse. In questa fase, c’è anche una certa diffusione del romanzo, di ogni genere, in particolare quelli d’avventura e la lettura diventa uno dei passatempi preferiti della nuova classe borghese. Inoltre, la grande diffusione della stampa comporta un abbassamento dei prezzi e quindi, consente a molte più persone di poter accedere a libri e riviste.
In Europa, nei secoli successivi, proliferano i periodici, curati da Accademie, da intellettuali, da scrittori o da giornalisti. Alcuni hanno breve durata, mentre altri godono di successo e fortuna, arrivando addirittura ai nostri giorni.
Nell’Ottocento, nelle riviste iniziano a comparire anche delle illustrazioni. Le prime sono di xilografie in bianco e nero. Successivamente, si passa alle litografie anche a colori. Si cerca in tutti i modi di interessare i lettori, puntando anche su copertine sempre più accattivanti.
Dalla fine del XIX secolo fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’arte dell’illustrazione grafica acquista sempre più importanza, dando vita a una vera e propria arte che gareggia con la pittura, grazie all’intervento di grandi artisti.
Per quanto riguarda i contenuti testuali, le riviste letterarie di questo periodo pubblicano saggi, articoli in tema, interviste, recensioni e biografie, Inoltre, tra le pagine si possono trovare anche racconti e poesie sia di autori affermati sia di esordienti.
Il romanzo d’appendice è un genere di romanzo che iniziò a circolare diffusamente a partire dai primi decenni del XIX secolo e che ebbe un grande successo.
Conosciuto anche con il termine francese: “feuilleton”, il romanzo detto d’appendice, comparve sulla stampa popolare in Francia e in Inghilterra ed era pubblicato su quotidiani o riviste, a episodi di poche pagine, solitamente nell’edizione domenicale.
Si tratta di una categoria di romanzo che si definisce per la sua forma e non per il suo contenuto. Infatti, i romanzi d’appendice spaziano tra argomenti molto diversi: dall’amore all’avventura, dal mistero all’erotismo.
Questo genere di letture era chiaramente indirizzato a un pubblico di massa e lo scopo di chi le pubblicava era quello di vendere più copie e per più settimane del giornale dove tali storie apparivano. Questo lato dichiaratamente commerciale di tale letteratura, spinse i detrattori del genere a ritenere questi romanzi un sottogenere, piuttosto che un genere letterario a sé stante.
Il termine feuilleton era un diminutivo di “feuillet” (foglio, pagina di un libro) e in Francia designava la parte bassa della pagina di un giornale, definita anche “rez-de-chaussée” (piè di pagina). Il primo feuilleton fu di natura “drammatica”, cioè una cronaca del teatro, inaugurato da Julien Louis Geoffroy (Rennes 17 agosto 1743 – Parigi 27 febbraio 1814; giornalista e critico teatrale e letterario francese) nel primo decennio del XIX secolo. I primi autori (feuilletonistes) che si occuparono di queste note a piè di pagina furono: Dussault e Feletz (“Journal des débats”), Michaud e Châteaubriand (“Mercure de France”) e, sotto pseudonimo, lo stesso Primo Console (“Moniteur universel”).
Tra il 1836 e il 1840-41 si ebbe un notevole sviluppo dei “feuilletons-nouvelles”, prima di arrivare al “feuilleton-roman”, che è il risultato di un costante allungamento delle opere pubblicate e della loro suddivisione in un numero sempre maggiore di episodi.
Questa modalità di pubblicazione piacque al pubblico e ciò si notò in particolare a partire dal 1841-42 con “Les Mystères de Paris”, primo vero trionfo del genere feuilleton. In questa prima fase, la scrittura di romanzi non ha ancora subìto l’influsso di questa particolare modalità di pubblicazione, che era ancora una semplice presentazione dell’opera al pubblico a puntate, prima dell’uscita in volume. Ma già si stava avviando verso una radicale trasformazione che farà del romanzo d’appendice una vera e propria tecnica letteraria: la democratizzazione della stampa.
Per l’affermarsi del genere fu necessaria una contemporanea evoluzione nel campo della stampa. All’epoca i giornali avevano un costo di produzione piuttosto alto e una tiratura bassa, fu così che Émile de Girardin (pseudonimo di Émile Delamothe, Parigi, 22 giugno 1802 – Parigi, 27 aprile 1881; giornalista, editore, commediografo e uomo politico francese) decise di mettere in commercio un quotidiano meno costoso che fosse alla portata di un maggior numero di persone.
Affinché il tutto funzionasse e i giornali potessero reggersi a costi inferiori, era necessario attirare nuovi inserzionisti, considerato che il canone di abbonamento era al momento appena sufficiente a coprire i costi di produzione. Si doveva quindi rinfoltire il pubblico di lettori fedeli e per ottenere ciò era necessario pubblicare romanzi completi”. È ciò che Alfred François Nettement (Parigi, 21 agosto 1805 – Parigi, 14 novembre 1869; scrittore francese) chiamò: “la nascita della stampa a 40 franchi”, inseparabile dalla storia del feuilleton-roman come genere letterario.
Il 1° luglio 1836, Émile de Girardin e Armand Dutacq (Rugles, 19 giugno 1810 – Parigi, 11 luglio 1856; proprietario ed editore di giornali francese) pubblicarono “Le Siècle” e “La Presse”. Ne “La Presse”, Girardin pubblicò romanzi a puntate di vari autori famosi, tra i quali: “La comtesse de Salisbury” (dal 15 luglio all’11 settembre 1836) di Alexandre Dumas padre (Villers-Cotterêts, 24 luglio 1802 – Neuville-lès-Dieppe, 5 dicembre 1870) e “La signorina Cormon” (La Vieille fille, dal 23 ottobre al 30 novembre 1836) di Honoré de Balzac. Successivamente, nel “Journal des débats” pubblicò le “Mémoires du diable” (da settembre a dicembre 1837) di Frédéric Soulié (Foix, 23 dicembre 1800 – Bièvres, 23 settembre 1847).
La novità di tali pubblicazioni, dal punto di vista letterario, è che la pubblicazione “in forma seriale” precede la stesura delle opere dei feuilletonistes. Non si trattava di suddividere nel miglior modo possibile romanzi scritti in precedenza, bensì di scrivere romanzi di cui era già prevista la pubblicazione a puntate.
A questo punto si può parlare di “romanzo d’appendice” come di un genere a sé stante. Gli editori ritenevano queste pubblicazioni delle efficaci operazioni pubblicitarie e ingaggiavano team di autori per scrivere romanzi che rispondessero ai gusti del pubblico. Alcuni di questi team hanno anche lavorato insieme, scrivendo romanzi a più mani.
Dedicare lo spazio che gli altri giornali riservavano alla critica letteraria a racconti inediti a puntate fu un cambiamento di grande successo per i giornali: ci fu un aumento esponenziale dei lettori e anche di abbonati.
La definizione “romanzo d’appendice” deriva dal fatto che queste storie a puntate erano pubblicate in ultima o penultima pagina, in appendice, appunto. Solo successivamente, le storie erano stampate sotto forma di libro. Una delle più importanti case editrici del settore fu la fiorentina Salani che si adeguò rapidamente all’evolversi del mercato editoriale iniziato verso la metà dell’Ottocento, proprio in concomitanza con la rivoluzione industriale, in Inghilterra e in Francia.
Al genere feuilleton appartengono delle vere pietre miliari della letteratura, come: “I miserabili” di Victor Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885); “I misteri di Parigi” di Eugène Sue (Parigi, 26 gennaio 1804 – Annecy, 3 agosto 1857); “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas padre.
Le storie di questo tipo funzionavano un po’ come il detto sulle ciliegie: una tira l’altra. Ad esempio, Ponson du Terrail, ispirato dal romanzo di Sue, pubblicò la prima opera del ciclo dei “Drames de Paris”, “L’Héritage mystérieux”, sul giornale La Patrie nel 1857 e diede vita a un singolare eroe, Rocambole che ottenne un tale successo da ispirare a sua volta l’aggettivo “rocambolesco”, tuttora impiegato per descrivere eventi o avventure incredibili.
Aggiungo in calce una segnalazione del Sig. Vittorio Sarti che, molto gentilmente, mi ha fatto notare una clamorosa mancanza nel mio testo. Riporto in modo integrale le sue parole. “Ancora una volta si ignora Emilio Salgàri, il nostro maggiore scrittore di avventure che come tale prese abbrivio su quotidiani di fine 800. – “La favorita del Mahdi” 124 puntate su “La Nuova Arena” di Verona da 31 marzo al 7 agosto 1884 – “I misteri della Jungla Nera” su “Il Telefono” di Livorno, con il titolo “Gli strangolatori del Gange” dal 10 gennaio al 15 aprile del 1887. Ripubblicato su “La Provincia” di Vicenza, con il titolo “L’amore di un selvaggio” in 191 puntate dal 21 agosto del 1893 al 13 novembre 1894. – Le Tigri di Mompracem” su “La Nuova Arena” di Verona con il titolo “La Tigre della Malesia” in 150 puntate dal 16 ottobre 1883 al 13 marzo 1884. Ripubblicato su “Il Telefono” di Livorno nel 1886 dal 21/3 al 31/8, sempre a puntate con lo stesso titolo. In seguito 1890/1891 su “La Gazzetta” di Treviso” (Cfr. “Nuova Bibliografia Salgariana” Pignatone, Torino 1994)“.
Mentre la stampa continua a crescere ed evolversi, la scrittura a mano ha ancora delle zone franche che le appartengono, dove si avverte l’esigenza di innovazioni: ben presto si passerà dalla penna d’oca a quella in acciaio.
Abbiamo visto che, con l’avvento della stampa litografica, avvenuta grazie alla scoperta di Aloys Senefelder (1771 – 1834) delle particolari proprietà delle pietre calcaree di Solenhofen, si avrà sin da subito un’influenza diretta sulla stampa dei libri e dei giornali, ma nonostante ciò, sopravvivono ancora ambiti della scrittura che restano esclusivi della penna.
Tra queste “zone d’ombra” ci sono gli atti notarili e giuridici che necessitavano della scrittura manuale, per una questione di autenticazione, grazie alla firma apposta, ad esempio: nei testamenti, nei contratti oppure negli atti di vendita.
In questa sorta di territorio esclusivo operano gli scrivani pubblici. In questa fase, però, si verifica una sorta di rovesciamento riguardo al prestigio di questo antico mestiere. Se un tempo, la professione dello scrivano era stimata e considerata ammirevole, ora subisce un degrado costante, perché coloro che redigono a mano dei documenti sono considerati alla stregua dei loro datori di lavoro: gli usurai.
La stampa aveva conosciuto notevoli progressi, perché c’era necessità di distribuire libri e giornali a più persone e anche di abbassare i costi, ovviamente, se c’è chi scrive ancora con la penna, sono indispensabili anche in questo ambito dei miglioramenti e delle innovazioni, per facilitare il lavoro e aumentare l’accessibilità anche a tali servizi.
Nel 1750, infatti, si ha notizia dell’invenzione di una penna di metallo, della quale sono in diversi a contendersi la paternità: un magistrato di Aix-la-Chapelle, Johann Jantssen; un “onorevole cittadino”, Peregrine Williamson, secondo il “Boston Mechanic”; un inventore dell’Hexagone (locuzione che designa la parte continentale della Francia metropolitana, ricordando che la sua forma geografica è un esagono quasi regolare: tre lati di terra e tre di mare), secondo un opuscolo francese del 1750; un maestro di scuola di Koenisberg (nome storico della città prussiana che attualmente corrisponde a Kaliningrad, in Russia), secondo una pubblicazione tedesca del 1808.
È molto probabile che tale invenzione fosse creazione contemporanea di inventori diversi in luoghi differenti, in quanto se ne avvertiva la necessità un po’ ovunque. La questione da risolvere, al di là dell’invenzione di uno strumento più efficiente, era riuscire a riprodurre le caratteristiche della penna d’oca. Agli inizi, l’oro sembrava essere l’unica soluzione possibile per ottenere la stessa flessibilità.
Le penne d’acciaio realizzate a mano erano dure e laceravano la carta, in soccorso arrivarono specifici procedimenti meccanici che consentirono la produzione a livello industriale di penne di qualità. I prezzi scesero rapidamente e la penna d’acciaio diventò l’antesignana dei prodotti “usa e getta” della civiltà moderna.
La stampa continua la sua corsa verso il progresso. La scoperta e lo sviluppo di nuove tecniche tipografiche consente una maggiore diffusione, in particolare dei periodici che iniziano a essere concepiti come delle vere strutture, dove testo e illustrazioni si combinano in armonia, per coinvolgere sempre di più i lettori.
Nel Settecento, i costanti progressi della stampa conducono a una considerevole produzione di giornali. In Germania e nei Paesi Bassi, già agli inizi del Seicento, erano spuntati i primi periodici. In Francia, il 30 maggio del 1631, compare il primo giornale, “la Gazette”, che nel 1762 diventerà la “Gazette de France. Ma sarà la Rivoluzione francese a sdoganare in modo ufficiale la libertà di stampa. Nell’articolo 11 della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 26 agosto 1789, leggiamo: “La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge”.
Nel 1790, già si contano più di trecento giornali e tutti volgono lo sguardo a un quotidiano in particolare: “The Times”, considerato un modello di notevole levatura. Il giornale britannico fu fondato nel 1785 da John Walter (1738 – 1812; imprenditore britannico, istruito alla Merchant Taylors’ School) e fu l’antesignano dei grandi giornali d’opinione contemporanei. Il suo “nome di battaglia” era “Thunderer” (tuono), tale definizione era dovuta al lavoro dei suoi editorialisti che non avevano alcun timore di esprimere le proprie opinioni.
Nonostante la grande fioritura, la stampa dei periodici ha un problema: deve trovare un modo per stampare, utilizzando un solo passaggio e sulla stessa carta, includendo testo e illustrazioni. A risolvere la spinosa questione sarà un tedesco, Aloys Johann Nepomuk Franz Senefelder (più noto come Johann Alois Senefelder, 1771 – 1834), un inventore e commediografo austriaco che nel 1796, inventò la tecnica di stampa della litografia.
Senefelder rilevò la particolare proprietà delle pietre calcaree di Solenhofen (vicino Monaco di Baviera), cioè la loro capacità di respingere l’inchiostro grasso, quando erano umide. Grazie alla scoperta della stampa litografica si avranno effetti immediati sulla stampa dei libri e dei giornali e in particolare, questa nuova tecnica consentì anche una notevole diffusione dei manifesti.
Comunque, agli inizi non ci furono sostanziali variazioni per quanto riguardava la concezione e l’uso dei procedimenti tipografici, solo in seguito si iniziò a studiare con cura, dove fosse più acconcio posizionare le illustrazioni, in relazione al testo e alla pagina. Da quel momento in poi, ogni pagina di giornale divenne un’architettura mobile, creata per stimolare e dialogare con i lettori, come tuttora avviene anche nell’editoria moderna.
La tipografia continua a evolversi: il complesso e delicato lavoro dei compositori sarà semplificato con l’avvento della linotype.
Dall’epoca di Johannes Gutenberg (1400-1468), per comporre i testi, i tipografi avevano bisogno di alcuni strumenti: il compositoio; le pinze; il vantaggio; il tirabozze; il taglietto (per interlinee e angoli); il curva filetti e altri ancora. In tipografia, il primo passo che conduceva alla stampa era scegliere le lettere, una per una dalle casse tipografiche, poi bisognava disporle sul compositoio, per realizzare la linea. Era essenziale inserire anche gli spazi (caratteri che non erano stampati e avevano un’altezza di poco inferiore alle lettere), in seguito la linea assemblata andava posta sul “vantaggio”.
Le pinze erano indispensabili per correggere in piombo. Questo particolare utensile era dotato di una punta acuminata che serviva ad abbassare gli spazi nella composizione e a effettuare la legatura del pacco di composizione. Poi le linee combinate nel compositoio andavano piazzate sul “vantaggio”, allineate una sotto l’altra. Se si dovevano creare composizioni di grandi dimensioni al posto del “vantaggio” si utilizzava la “balestra”.
L’addetto alla composizione faceva riferimento all’originale che gli era stato fornito e realizzava le linee seguendo la “giustezza” di riga (lunghezza delle linee di una composizione) che gli era stata indicata. Terminata la composizione, il blocco era legato con lo spago e portato al tirabozze che realizzava la bozza, usata poi dal compositore per controllare eventuali refusi, doppioni o altri errori che erano corretti sul vantaggio. Successivamente, si procedeva alla tiratura delle bozze in colonna. Una volta stampato il testo, i caratteri dovevano essere riordinati uno per uno e ricollocati nelle rispettive cassette.
Con questo procedimento si riusciva a comporre un testo alla velocità di 1.200-1.500 caratteri tipografici all’ora. Con l’arrivo della linotype si potevano invece mettere insieme dai 6.000 ai 9.000 caratteri l’ora. Un bel progresso, tanto che diventa possibile raccontare un fatto nel momento stesso in cui avviene. Giunti a questo punto, quotidiani, periodici e stampati commerciali ridussero il libro a occupare una quota modesta nel totale delle pubblicazioni.
In Francia, alcuni decenni prima dell’affermarsi dell’Illuminismo, viene fatto il primo valido studio scientifico sui caratteri tipografici, da cui avranno origine una serie di font con un luminoso futuro, tra questi il carattere Romain du Roi.
Mentre in Olanda, il libro continuava a incontrare grande successo; in Francia, il Re Sole (Luigi XIV di Borbone 1638 – 1715), forse infastidito da tanto trionfo, pensò fosse il caso di riformare la stampa francese. Saranno intrapresi studi sulle proporzioni dei font tipografici e nascerà anche un nuovo carattere.
Nel 1692, il ministro, Jean-Baptiste Colbert, incaricò la Commissione Bignon di compilare la “Description des Métiers”, in pratica, un compendio di arti e mestieri. Della commissione facevano parte quattro scienziati: Jean-Paul Bignon (1662 – 1743; capo della commissione), Padre Sébastien Truchet (1657 – 1729), Jacques Jaugeon (1690 – 1710) e Gilles Filleau des Billettes (1634 – 1720).
Uno dei primi compiti della commissione fu occuparsi della stampa e della tipografia. Jaugeon assistette padre Truchet nella creazione del primo sistema di punti tipografici e del “Romain du Roi” (Romano del Re). Essi fissarono la proporzione delle lettere di questo nuovo carattere, da cui è derivato il “Times New Roman”.
Il Re, in quello stesso periodo, aveva fatto costruire l’Ospedale Generale di Parigi (27 aprile 1656), per far imprigionare vagabondi, prostitute, pazzi e poveri; allo stesso modo, in una strana corrispondenza, le lettere, che sarebbero andate a costituire il nuovo alfabeto, furono collocate dietro a delle griglie e inserite in diagrammi. Ogni lettera era inscritta in un quadrato, suddiviso mediante un reticolo, composto da 44 caselle: archetipo della perfezione tipografica.
A questo carattere si ispirarono in molti: Pierre Simon Fournier (1712 – 1768), i Didot e Giovanni Battista Bodoni. Questa iniziativa francese rappresenta il primo studio scientifico di una certa valenza sui caratteri tipografici, ed è anche alla base del concetto di punto tipografico (la prima definizione è del tipografo francese, Pierre Simon Fournier, nel 1737).
Lo studio fatto sui font si rivelò utile anche durante l’Illuminismo. I lettori del Settecento sono cambiati, non desiderano più svagarsi con le letture, ma essere informati. Nasce in questo periodo, L’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert che utilizza tavole tecniche, per illustrare in modo più chiaro gli argomenti di cui tratta; lo stile impiegato è semplice, privo di inutili ghirigori. I caratteri, quindi, in linea con tale pensiero, devono essere altrettanto semplici e facilitare la lettura. A ciò pensano i fratelli Didot che realizzano un carattere, perfettamente, al passo con i tempi.
Il nuovo alfabeto fu disegnato e poi inciso nel 1755, rispettivamente da Francois-Ambroise Didot (1730 – 1804) e da Pierre-Louis Wafflard. I nuovi caratteri sono semplici, di una purezza esemplare. Una costruzione perfettamente bilanciata di pieni e di filetti puliti e taglienti, che faranno di questo carattere il “gioiello” della tipografia francese.
Nel 1716, in Inghilterra, William Caslon (1692/1693 – 1766) disegnò il carattere romano che sarà usato per la Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776. È però Giambattista Bodoni (1740 – 1813) l’imitatore più geniale. Questo ingegnoso italiano creò un carattere che porta il suo nome e si ispira ai “garamond”, che papa Sisto V (1521 – 1590) aveva fatto incidere a Claude Garamond (1480 – 1561) e Guillaume Le Bè (1524 – 1598). Questo carattere ebbe un grande successo. Diffuso in tutta Europa, sarà usato in Inghilterra per stampare i giornali fino alla metà del XX secolo.
La Controriforma mette dei paletti alla diffusione della cultura, per fortuna, stampatori, editori e tipografi trovano un’isola felice dove continuare a svolgere il loro lavoro: l’Olanda. Inoltre, prende campo la riduzione di formato del libro che diventa a tutti gli effetti un tascabile, consentendo una più rapida diffusione della cultura.
Alla fine del ’500, l’Olanda protestante accolse stampatori e tipografi, e rappresentò un rifugio per il libro, di fronte all’avanzata delle tendenze repressive della Controriforma e dell’Inquisizione. Intanto dal 1550, gli eruditi passano dal latino – utilizzato fino a quel momento per stampare i classici greci e latini – alle lingue nazionali.
Gli stampatori erano consapevoli di cosa significasse andare contro gli inquisitori. Avevano ancora ben presente il martirio di Étienne Dolet (1509 – 1546) umanista, poeta ed editore che, accusato di ateismo, perché aveva osato pubblicare Rabelais, Marot e soprattutto, l’ “Enchiridion militis christiani” di Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469 – 1536), fu impiccato e bruciato sul rogo, il 3 agosto del 1546, a Parigi. L’Olanda diventa quindi la patria della letteratura che era proibita in altri luoghi.
In questo periodo prende campo il libro tascabile che consente una maggiore diffusione. L’idea partì da Venezia, con Aldo Manuzio (tra il 1449 e il 1452 – 1515) che già nel 1501 diede il via a una collana di libri (in formato ridotto, conosciuto come in-8° piccolo), nella quale, per la prima volta, fu usato lo stile corsivo che, essendo più compatto, consentì una riduzione del formato.
Manuzio stampò libri in ottavo (un singolo foglio di stampa è piegato in otto, corrisponde a sedici pagine), invece che nei soliti formati in folio (un singolo foglio piegato in due, quattro pagine) e in quarto (un singolo foglio piegato in quattro, otto pagine). Manuzio lo battezzò: enchiridion forma, dall’ “Encheiridion” (che sta in una mano) o Manuale di Epitteto (scritto di filosofia ed etica stoica, compilato dallo scrittore greco-romano, Arriano, discepolo del filosofo greco, Epitteto), uno dei primi libri a essere stampati con questo nuovo formato; leggeri, maneggevoli e facilmente trasportabili.
Questa soluzione rivoluzionaria fu subito adottata dagli Elzevier (celebre famiglia di tipografi, editori e librai), molto attivi in Olanda tra il 1583 e il 1713. Al loro nome è associata una serie di classici latini in piccolo formato, che aiutarono non poco la diffusione della cultura.
La stampa consentì una vera proliferazione di libri in tutto il mondo e contribuì ad allargare l’uso e la conoscenza delle lingue scritte. Novità e tradizione andavano a braccetto: gli stampatori crearono nuovi caratteri, ma imitando le scritture a mano.
Il primo libro stampato con caratteri mobili metallici vide la luce in Cina nel 1390. Da qui, la prodigiosa invenzione della macchina a stampa passò in Europa, dove dal 1462, conobbe una rapida diffusione: da Lione a Norimberga, da Venezia ad Anversa, da Parigi a Praga.
Nel Cinquecento, iniziano a formarsi dinastie di stampatori; nel termine “stampatore” erano racchiuse diverse professionalità: fonditore, incisore e tipografo.
I caratteri ispirati alla scrittura a mano, iniziano a comparire in Italia durante il Rinascimento. A Venezia, Aldo Manuzio (tra 1449 e 1452 – 1515, editore, grammatico e umanista) inventa la “lettera antiqua” nel tentativo di riprodurre in versione tipografica un’elegante calligrafia; questi caratteri saranno imitati da molti altri stampatori. Per riprodurre la scrittura a mano, invece, Manuzio assunse come modello la calligrafia di Petrarca e ideò il suo “italico” – un corsivo inclinato.
Un altro interessante studio dei caratteri, costruiti seguendo delle regole precise, lo dobbiamo a Luca Pacioli (1445 ca. – 1517, religioso, matematico ed economista) che incise il “De divina proportione”, un manuale contenente le lettere dell’alfabeto, regolate sulle proporzioni del corpo umano e collocate all’interno di una cornice geometrica.
Intanto, in Francia, si affermano esperienze analoghe: Geoffroy Tory (1480 ca. – 1533, editore-libraio, calligrafo e disegnatore, “imprimeur du Roi” dal 1530) crea lo stile “champfleury” e diventa il decoratore di Simone de Colines (1480 – 1546, uno dei primi stampatori del Rinascimento; attivo a Parigi tra il 1520 ed il 1546) che per comporre utilizza un carattere derivato dalla “lettera antiqua” e successivamente, disegnerà e poi inciderà un carattere greco.
Nel 1540-41, i lavori di De Colines serviranno alla realizzazione del “greco del re”, che Claude Garamond (1480 – 1561, tipografo francese) inciderà, seguendo i modelli del calligrafo cretese Angelo Vergezio. I punzoni per la stampa furono commissionati da Francesco I di Francia (1494 – 1547, figlio di Carlo di Valois-Angoulême e di Luisa di Savoia, fu re di Francia dal 1515 fino alla morte). Nel 1946, i punzoni insieme alle relative matrici furono classificati come monumenti storici e, attualmente, sono conservati presso l’Imprimerie Nationale (stamperia nazionale; stabilimento tipografico della Repubblica francese, con sede a Parigi).
Garamond realizzò anche dei caratteri romani, ispirati a quelli di Geoffroy Tory che sono considerati, secondo la formula del “champfleury” (trattato di estetica del 1529, importante per la storia della lingua francese e della riforma scrittoria rinascimentale di Geoffroy Tory), un alfabeto che possiede: “l’arte e la scienza della giusta e vera proporzione delle lettere”.
In copertina: Ritratto di Luca Pacioli (1495), attribuito a Jacopo de’ Barbari, museo nazionale di Capodimonte
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