Autografi e tanta emozione in libreria

Scrivere è un mestiere solitario. Lo dicono i grandi scrittori e io, umilmente, condivido.

Condivido l’aspetto della solitudine, ma soprattutto, il fatto che fare lo scrittore è praticare un mestiere. Infatti, se cercate la voce “mestiere” nel vocabolario Treccani troverete: “attività, di carattere prevalentemente manuale e appresa, in genere, con la pratica e il tirocinio, che si esercita quotidianamente”, e in effetti, questa è l’attività principale di chi come me si ritrova a fare questo lavoro.

Inoltre, mi sento di aggiungere che per scrivere è necessaria anche una quotidiana ricerca. Documentarsi, infatti, è parte integrante del mestiere di scrittore e l’aspetto della manualità, almeno per me, è prendere appunti, a mano, per studiare l’eventuale location oppure per caratterizzare i personaggi o ancora, per registrare la cronologia degli eventi e fissare la trama.

Ogni giorno sento la necessità di scrivere, aggiungo, tolgo, leggo, studio e mi documento, ma la parte più difficile resta sempre quella: il romanzo è pronto e deve essere inviato a una casa editrice. È la parte più difficile perché in questa fase si concentrano le speranze e spesso si sperimentano le frustrazioni.

Quando ho spedito il giallo “Presente sospeso” alla “Golem Edizioni”, una casa editrice indipendente di Torino, mi sono giocata il tutto per tutto. Se avessi subìto un rifiuto, avrei “appeso le scarpe al chiodo”.

Il mio più grande desiderio era quello di tornare in libreria, per godere di quella particolare emozione che solo chi ama aggirarsi curioso tra scaffali pieni di libri può capire. Perché chi scrive deve amare anche leggere e la lettura ha i suoi rituali, e i libri sono oggetti quasi sacri e chi li ama, adora toccarli, annusarli, sfogliarli e magari desidera in qualche modo di interagire con loro.

A me, per esempio, capita di lasciare un libro sul comodino o accanto alla poltrona preferita, in attesa del momento in cui posso dedicarmi alla lettura.
Dopo una giornata frenetica di lavoro o piena di incombenze, leggere è un toccasana, una terapia per l’anima, e io tengo conto di ciò quando presto le parole ai protagonisti dei miei romanzi.

Scrivere poi, può essere paragonato a viaggiare e il viaggio è quello che ogni autore fa con se stesso, magari accompagnato dai suoi personaggi e dalle emozioni che loro trasmettono.

Molti dei miei personaggi sono nati per dare voce a chi in vita non ne ha avuta una, perché magari non ha trovato il coraggio oppure non ha avuto il tempo per raccontare la propria storia.

Per quanto riguarda il pubblico dei lettori, quando ho la possibilità di incontrarlo, come nel firmacopie di Presente sospeso – cosa che non mi capitava da un po’, avendo scelto negli ultimi anni l’autopubblicazione – il calore e l’emozione che si provano sono qualcosa di incredibile, che non si riesce a descrivere.

In certi momenti poi, si pensa a chi ti ha sempre sostenuto e ha creduto in te, e allora si ricordano in particolare coloro che non ci sono più, ma che sono comunque presenti e sai che vegliano su di te.

In memoria di Adria Pannelli
Sconosciute onde ti culleranno nel tuo amato mare.

“Presente sospeso” di Elisabetta Rossi. Firmacopie in Ancona

Ancona, sabato 27 aprile, presso la libreria Mondadori, c.so Mazzini 31, dalle ore 17:00 ci sarà il firmacopie del giallo “Presente sospeso” di Elisabetta Rossi. Siete tutti invitati.

Manhattan. Terrazza di un grattacielo. Una donna si risveglia. Non ricorda il suo nome e non sa di essere già morta.

Con lei c’è un uomo che condivide il suo stesso destino.
Una sanguinosa rapina è appena avvenuta nel quartiere di Chelsea, su cui indaga l’ispettore Michael Cox dell’11° Distretto della Polizia di New York e la sua squadra.

Il caso diventa sempre più complicato, ma due delle vittime colpite a morte durante la rapina prendono coscienza di quanto accaduto e a loro modo affiancano l’ispettore nelle indagini per assicurare alla giustizia il loro assassino.

Cox riuscirà a ricostruire che la rapina finita nel sangue, racchiude tanti lati oscuri che si intrecciano con il mercato e lo spaccio della droga, in un quartiere dove mettersi contro criminali come Billy Miller, può costare la vita.

Crepuscolarismo: tra malinconia e poesie delle “piccole cose”

Crepuscolarismo tra malinconia e poesie delle piccole cose

Il crepuscolarismo è una corrente che nasce e si diffonde all’inizio del Novecento, e rappresenta un’ideale parabola della poesia italiana, che si spegne in un “mite e lunghissimo crepuscolo”.

La corrente letteraria del crepuscolarismo apparve e fiorì in Italia all’inizio del Novecento, grazie ad alcuni poeti tra i quali: Guido Gozzano (1883-1916), Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907), Antonia Pozzi (1912-1938) e Corrado Govoni (1884-1965).
Più che un movimento, si manifestò come una similitudine di stile e di intenti. In particolare, i poeti crepuscolari furono accomunati dal totale rifiuto di qualsiasi forma di poesia eroica o sublime.

Il termine “crepuscolarismo” deriva dal titolo di una recensione apparsa su “La Stampa”, il 1° settembre 1910, firmata da Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). Il critico utilizzò tale definizione per descrivere le poesie di Marino Moretti, Fausto Maria Martini (1886-1931) e Carlo Chiaves (1882-1919). Il termine passò poi a indicare una categoria letteraria.

L’adozione di questo particolare termine voleva sottolineare una situazione di spegnimento. Infatti, in queste poesie prevalgono i toni tenui e smorzati, e l’emozione preponderante è la malinconia, quella “di non aver nulla da dire e da fare“.

I crepuscolari restano fondamentalmente legati alla tradizione classica, pur essendo coscienti del suo decadimento. Rifiutano l’immagine dell’intellettuale protagonista della storia e svalutano la funzione del poeta. Riprendono Pascoli e le sue poesie “delle piccole cose” e il D’annunzio del “Poema paradisiaco”. Inoltre, nei loro versi si avverte l’influsso di Paul Verlaine (1844-1896) e di altri poeti decadenti francesi e fiamminghi.

I versi dei poeti crepuscolari, liberi da qualsiasi ornamento e privi del peso della tradizione, esprimono un costante bisogno di compianto e confessione.
Nelle liriche di questi autori si avverte la nostalgia per i valori tradizionali perduti e una perenne insoddisfazione che ha come unico obiettivo quello di scovare angoli conosciuti e tranquilli in cui trovare rifugio.

I temi tipici del crepuscolarismo sono facilmente rintracciabili in una dichiarazione epistolare del 1904 di Corrado Govoni, uno dei primi poeti di crepuscolari, indirizzata all’amico Gian Pietro Lucini (1867-1914).
Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie”.

Per quanto riguarda la scelta linguistica, i crepuscolari mostrano una piena coerenza con le tematiche trattate. Le loro poesie sono più vicine alla prosa che alla poesia e i versi, pur essendo animati da un ritmo poetico, spezzano il legame con la metrica tradizionale. Tale inclinazione, priva oltretutto di qualsiasi forma aulica e classicistica, apre la strada al verso libero.

I primi testi del crepuscolarismo compaiono tra il 1899 e il 1904, dall’attività di un gruppo romano, operante attorno a Tito Marrone (1882-1967), Corrado Govoni e Sergio Corazzini, e contemporaneamente, di un gruppo torinese che ha come esponente principale Guido Gozzano.
Accanto a questi due gruppi principali ci sono anche alcuni autori, come Fausto Maria Martini, Marino Moretti e solo per un certo periodo, Aldo Palazzeschi (1885-1974).

Il Romanzo, sequenze e procedimenti narrativi #3

Il Romanzo sequenze e procedimenti narrativi 3

Funzioni, sequenze, episodi, sono solo alcuni degli elementi in cui è possibile scomporre un racconto per comprenderne più a fondo la struttura.

Per comprendere ancora meglio la struttura di un romanzo è possibile attuare un’analisi più approfondita: lo smontaggio che consente, come dice la parola stessa, di scomporre in parti più piccole il racconto.
Avremo così le unità o funzioni, cioè delle azioni che sono in relazione con altri elementi della storia e che comportano delle conseguenze nello sviluppo della storia.

Le funzioni non sono tutte uguali, alcune sono più importanti di altre e sono denominate nuclei o cardinali, e si affiancano a quelle secondarie, impiegate per completare e arricchire la narrazione.
In una storia ci sono anche i cosiddetti indizi, una sorta di notazioni integrative che servono a dare informazioni sul carattere o sull’identità del personaggio oppure indicazioni sul tempo o sullo spazio.

L’uso precipuo di uno dei due elementi definisce la classe di appartenenza di un racconto.
Alcuni sono orientati più verso l’utilizzo delle funzioni e per questo si dicono funzionali, ad esempio, i romanzi storici, dove sono narrate molte azioni. Chiaramente indiziali, invece, sono i romanzi psicologici.

Scomponendo ulteriormente il nostro tessuto narrativo, diciamo che le funzioni sono una combinazione di sequenze collegate fra loro. Le sequenze possono essere:

  • descrittive, quando, ad esempio, servono a descrivere il carattere dei personaggi oppure le caratteristiche dell’ambiente
  • narrative, quando sono costituite da azioni e danno vita alla trama
  • riflessive, quando veicolano le opinioni dei personaggi oppure dell’autore in merito alle vicende

Per individuare le sequenze ci sono di aiuto alcune evidenze:

  • un cambiamento di luogo o di tempo
  • l’entrata o l’uscita di un personaggio
  • variazione nel modo di narrare

Le sequenze, inoltre, possono anche raggrupparsi tra loro e dare vita agli episodi o macrosequenze.

Ovviamente, queste regole di scomposizione non si possono applicare in modo rigido e letterale, bensì devono essere adattate al testo che si sta prendendo in esame.

Trovare la parola giusta è un’arte: mai accontentarsi di un sinonimo

Trovare la parola giusta è un'arte mai accontentarsi di un sinonimo

Sono rimasta colpita da un’affermazione sulle parole: “Da un punto di vista espressivo non esistono sinonimi in una lingua, ossia, non esistono due parole che si possono considerare identiche o equivalenti“.

Capite che questa affermazione – espressa da Giuseppe Pontiggia nel suo “Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere” – scatena in uno scrittore molti pensieri e fa riflettere sulle responsabilità che investono chiunque abbia fatto della scrittura un mestiere.

La mia formazione musicale, inoltre, mi impone di scegliere le parole anche in base alla loro capacità di generare una sensazione di piacevolezza all’orecchio, ma ovviamente, mi pongo anche il problema del loro significato.

Quanto conosciamo davvero il senso di un termine?
Alcune parole sembrano significare la medesima cosa, ma in realtà ci sono mille sfumature o addirittura un oceano a distanziarle.

Alcuni termini hanno assunto con il tempo delle connotazioni particolari, negative o positive, in base all’uso che ne è stato fatto negli anni, e non solo: ci sono parole che hanno una sottile caratterizzazione e solo chi ha di una data lingua una conoscenza davvero approfondita può conoscerla e apprezzarla.

Io, ad esempio, ho notato che studiando altre lingue si finisce per conoscere meglio la propria; si notano delle singolarità cui non si era prestata attenzione fino a quel momento.

Le parole sono per me fonte di stupore continuo, alcune, se si sonda la loro etimologia, danno vita a scoperte sorprendenti.
Sono convinta, fin qui, che non deluda mai comprendere le parole sempre meglio e usarle in modo sempre più corretto e appropriato.

Questo atteggiamento non solo aiuta a ottenere una scrittura più coinvolgente e adeguata, ma ci consente soprattutto di comunicare in modo più efficace e di farci capire dagli altri: essere accurati con le parole ci rende, sicuramente, delle persone migliori.

Osservare: un’azione indispensabile per diventare un bravo scrittore

Osservare azione indispensabile per diventare un bravo scrittore

Leggere ad alcuni (sicuramente a me) fa l’effetto delle ciliegie: una tira l’altra.
Sono arrivata a John Gardner, al suo “Il mestiere dello scrittore”, attraverso molte ciliegie: consigli e suggerimenti giunti da altre proficue letture.

Mi interrogo da anni su argomenti inerenti la scrittura e mi immergo fra le righe dei libri, a ripescare perle preziose: nuovi ferri del mestiere o validi strumenti per affinare quelli che già possiedo.

A lungo ho riflettuto su un argomento che mi sta molto a cuore: l’osservazione, ovviamente rapportata alla scrittura.
Secondo Gardner, “il buon scrittore vede le cose in modo netto, vivido, preciso e selettivo (vale a dire che sceglie ciò che è importante) non necessariamente perché la sua capacità di osservazione sia per natura più acuta di quella delle altre persone (benché con la pratica diventi tale), ma perché si preoccupa di vedere le cose in modo chiaro e di metterle per iscritto in maniera convincente”.

La scena narrativa trae la sua forza e la sua concretezza dalla capacità di chi scrive di associare il gesto alle affermazioni dei personaggi. Se lo scrittore non conosce a fondo che cosa farebbero i suoi personaggi in una data situazione, il risultato potrebbe essere poco convincente e il lettore avvertirebbe la sensazione che i personaggi di quel dato libro siano “stati manipolati, costretti a fare cose che nella realtà non farebbero”.

Per costruire una scena credibile bisogna partire da un’osservazione attenta e approfondita dei personaggi, avere una loro visione mentale precisa; è necessario saper cogliere gli spunti emozionali che servono all’evoluzione successiva dell’azione. Per fare questo è utile fermarsi (sollevare la penna o le dita dai tasti) e “capire esattamente come si presenta un certo oggetto o gesto e trovare le parole giuste per descriverlo”.

Inserire i dettagli giusti è fondamentale: il lettore ben indirizzato da una scrittura precisa, potrà costruire nella sua testa le scene che a mano a mano va leggendo e più lo scrittore sarà stato accurato nell’esame delle azioni dei personaggi e avrà utilizzato termini esatti, più le immagini saranno vivide nella mente dei lettori che aggiungeranno addirittura alla scena connotazioni che l’autore ha lasciato semplicemente sottintese: “scegliendo il dettaglio giusto, lo scrittore, abilmente, ne fa venire in mente altri; il dettaglio significativo suggerisce più di quanto non dica”.

Uno scrittore eccellente “è preciso sia nei dettagli letterali che nelle corrispondenze metaforiche”. La metafora ha un grande potere visivo: “spesso un gesto importante o un insieme di gesti non può essere afferrato con pari efficacia da nessun altro mezzo”.

Per evocare scene efficaci e veritiere, dettagli e metafore, oltre a essere correttamente utilizzati, devono essere tratti dalla vita vissuta. Nella visione dei grandi romanzieri “non c’è nulla di seconda mano”.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #11 Copisti e Scriptorium

Storia della scrittura dai geroglifici agli emoticon 11 Copisti e Scriptorium

Dal IX-X secolo, l’arte della scrittura ha un luogo dove esprimersi: lo scriptorium.

In gran parte, questo sancta sanctorum dei copisti, era collocato, nei monasteri e nelle abbazie, vicino alla biblioteca.
In questo luogo, i manoscritti si copiavano, si decoravano e si rilegavano.

Lo scriptorium poteva essere una sala speciale (l’unica a essere riscaldata) o una serie di celle individuali.
Solitamente, i copisti avevano a disposizione un sedile con braccioli e spalliera molto alta e un leggio con un doppio piano inclinato.

Per scrivere utilizzavano una penna d’oca, tagliata a seconda delle esigenze della grafia.
In media, un copista realizzava quattro fogli di pergamena di 35-50 cm di altezza e 25-30 cm di larghezza al giorno.

I copisti lavoravano sotto dettatura e spesso, su un identico manoscritto operavano più persone, a conferma di ciò, le grafie diverse rilevate nei documenti ritrovati.
Al lavoro di copiatura partecipavano a volte anche le monache: nel Medioevo erano aumentate le comunità miste.
Fare il copista era piuttosto faticoso: il lavoro era interrotto solo dalle preghiere quotidiane.

Il lavoro di copiatura prevedeva una suddivisione dei compiti che consentiva di rendere più scorrevole e funzionale il lavoro e che permetteva, al contempo, ai principianti di imparare il mestiere. Ad esempio, tracciare le righe sulle quali i copisti avrebbero poi scritto, era compito dei novizi che iniziavano così il loro apprendistato.
Nelle fasi successive, i principianti si dedicavano ai lavori comuni, più spediti e più semplici da eseguire. Questo tipo di testi era molto richiesto e costituiva la maggiore fonte di guadagno per le comunità monastiche.

I lavori più complessi e di maggior rilievo erano rimessi nelle mani dei copisti migliori. Queste speciali commesse venivano da dignitari della nobiltà o del clero.

Le decorazioni erano eseguite da miniaturisti e alluminatori. Questi artisti realizzavano capilettera in lamine d’oro e si sbizzarrivano, per i libri più preziosi, anche con disegni floreali, personaggi e paesaggi pieni di colori brillanti.

Il lavoro seguiva una prassi consolidata:

  • il motivo era schizzato con un punteruolo
  • i dettagli si ripassavano con la penna d’oca e l’inchiostro
  • i contorni colorati si realizzavano a penna
  • il disegno era completato con un pennello molto sottile

I monasteri che non disponevano di artisti sufficientemente abili a eseguire un dato lavoro, si rivolgevano a laici noti per le loro capacità; altrettanto facevano in caso servissero rilegatori che dovevano realizzare la copertina di cuoio e il fermaglio, spesso molto elaborati.

in copertina: Ritratto di Jean Miélot, segretario, copista e traduttore del duca Filippo III di Borgogna

Scrittori e investigatori: due professioni da accomunare

Scrittori e investigatori: due professioni da accomunare

Scrittori e investigatori hanno in comune una cosa: non smettono mai di pensare.

La scrittura è un’indagine sempre aperta, una ricerca appassionata di elementi, un lavorio continuo per recuperare materiale. Tutto per produrre una storia, per lo scrittore; per impostare un caso se ci riferiamo all’investigatore.

Qualsiasi narrazione vede la luce dopo un lungo lavoro di accumulo: il nostro cervello non smette mai di immagazzinare informazioni, durante il giorno, ma anche nel corso della notte, attraverso i sogni.

Il lavoro cosciente dello scrittore si basa sulla ricerca di nozioni specifiche su un dato argomento o su spunti in generale, spesso, però, questo lavoro occupa una percentuale inferiore rispetto all’accumulo casuale di notizie e indicazioni che ci arrivano da ogni angolo della nostra vita quotidiana: un dialogo di un film, un articolo postato sui social, la frase di un libro, un concetto espresso da qualcuno.

Anche l’investigatore raccoglie materiali e informazioni e poi, entrambi, quando hanno elementi sufficienti, accostano i pezzi e formulano ipotesi; poi, lo scrittore plasmerà una storia, mentre l’investigatore giungerà alla soluzione del caso; da una parte ci sarà un libro, dall’altra, un colpevole assicurato alla giustizia.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #10 Arriva la pergamena

Per tutto il Medioevo la scrittura fu un’attività di appannaggio esclusivo dei monaci.
L’arte della calligrafia era praticata nelle scuole (scriptoria) annesse alle cattedrali o ai monasteri.

I monaci copisti medievali non creano né inventano: si limitano a scrivere, ma la loro scrittura elaborata diventa un’arte dal grande fascino.
Ogni lettera è tracciata interamente a mano e gli scritti sono ornati con stupende miniature.

Gli antichi scrivani utilizzavano come supporto rotoli di papiro (volumina), purtroppo, questo materiale aveva parecchi difetti: era costoso, fragile, utilizzabile solo da un lato, poco maneggevole, difficile da consultare.

Il supporto condizionava la scrittura e quando si passò dal papiro alla pergamena si assistette a una vera rivoluzione nell’arte di scrivere e di leggere.

Il termine “pergamena” si traduce dal greco come “pelle di Pergamo” e si pensa sia stata inventata in Asia Minore, appunto, a Pergamo.

La pergamena è frutto di una necessità pratica: secondo la tradizione riferita da Plinio il Vecchio, attorno al II secolo a.C., fu introdotta per sostituire il papiro.

Pergamo possedeva una biblioteca che rivaleggiava con quella di Alessandria; a causa della concorrenza culturale tra il sovrano egiziano (Tolomeo V Epifane) e il re di Pergamo (Eumene II), gli Egiziani decisero di non rifornire più di papiri i loro rivali, così, gli scribi asiatici furono costretti a organizzarsi e a trovare un altro materiale che facesse da supporto alla loro scrittura: la scelta cadde sul cuoio.

La pelle usata per produrre pergamene non era una novità: era già stata usata in passato; le pelli provenivano da molti animali diversi: montone, vitello, capra, struzzo, gazzella, antilope.
La pergamena aveva anche un’innegabile vantaggio rispetto al papiro: era utilizzabile da entrambi i lati.

Una pergamena particolarmente pregiata è il velino che si ottiene trattando la pelle di vitelli giovanissimi o abortiti. Il termine “velino” deriva dal francese veel che vuol dire vitello. Il suo maggior pregio è quello di non assorbire l’inchiostro o i colori e di conservare molto bene le tinte originali.

Scrivere ai tempi del Coronavirus: poesia in… fumo #4

Scrivere ai tempi del Coronavirus poesia in... fumo 4

Mi sono chiesta: che cosa può fare uno scrittore in tempi di coronavirus per essere d’aiuto?
scrivere, ovviamente, liberando i propri pensieri…

Il fumo dei camini
sinuoso
si spinge verso il cielo.
In anse vaporose
disegnate dai vaghi e mutevoli
desideri del vento.