Storia della scrittura #24: si ritorna alla penna, ma d’acciaio!

Storia della scrittura 24 si ritorna alla penna ma d’acciaio

Mentre la stampa continua a crescere ed evolversi, la scrittura a mano ha ancora delle zone franche che le appartengono, dove si avverte l’esigenza di innovazioni: ben presto si passerà dalla penna d’oca a quella in acciaio.

Abbiamo visto che, con l’avvento della stampa litografica, avvenuta grazie alla scoperta di Aloys Senefelder (1771 – 1834) delle particolari proprietà delle pietre calcaree di Solenhofen, si avrà sin da subito un’influenza diretta sulla stampa dei libri e dei giornali, ma nonostante ciò, sopravvivono ancora ambiti della scrittura che restano esclusivi della penna.

Tra queste “zone d’ombra” ci sono gli atti notarili e giuridici che necessitavano della scrittura manuale, per una questione di autenticazione, grazie alla firma apposta, ad esempio: nei testamenti, nei contratti oppure negli atti di vendita.

In questa sorta di territorio esclusivo operano gli scrivani pubblici. In questa fase, però, si verifica una sorta di rovesciamento riguardo al prestigio di questo antico mestiere. Se un tempo, la professione dello scrivano era stimata e considerata ammirevole, ora subisce un degrado costante, perché coloro che redigono a mano dei documenti sono considerati alla stregua dei loro datori di lavoro: gli usurai.

La stampa aveva conosciuto notevoli progressi, perché c’era necessità di distribuire libri e giornali a più persone e anche di abbassare i costi, ovviamente, se c’è chi scrive ancora con la penna, sono indispensabili anche in questo ambito dei miglioramenti e delle innovazioni, per facilitare il lavoro e aumentare l’accessibilità anche a tali servizi.

Nel 1750, infatti, si ha notizia dell’invenzione di una penna di metallo, della quale sono in diversi a contendersi la paternità: un magistrato di Aix-la-Chapelle, Johann Jantssen; un “onorevole cittadino”, Peregrine Williamson, secondo il “Boston Mechanic”; un inventore dell’Hexagone (locuzione che designa la parte continentale della Francia metropolitana, ricordando che la sua forma geografica è un esagono quasi regolare: tre lati di terra e tre di mare), secondo un opuscolo francese del 1750; un maestro di scuola di Koenisberg (nome storico della città prussiana che attualmente corrisponde a Kaliningrad, in Russia), secondo una pubblicazione tedesca del 1808.

È molto probabile che tale invenzione fosse creazione contemporanea di inventori diversi in luoghi differenti, in quanto se ne avvertiva la necessità un po’ ovunque.
La questione da risolvere, al di là dell’invenzione di uno strumento più efficiente, era riuscire a riprodurre le caratteristiche della penna d’oca. Agli inizi, l’oro sembrava essere l’unica soluzione possibile per ottenere la stessa flessibilità.

Le penne d’acciaio realizzate a mano erano dure e laceravano la carta, in soccorso arrivarono specifici procedimenti meccanici che consentirono la produzione a livello industriale di penne di qualità.
I prezzi scesero rapidamente e la penna d’acciaio diventò l’antesignana dei prodotti “usa e getta” della civiltà moderna.

Storia della scrittura #23: progressi della stampa e proliferazione di giornali

Storia della scrittura 23 progressi della stampa e proliferazione di giornali

La stampa continua la sua corsa verso il progresso. La scoperta e lo sviluppo di nuove tecniche tipografiche consente una maggiore diffusione, in particolare dei periodici che iniziano a essere concepiti come delle vere strutture, dove testo e illustrazioni si combinano in armonia, per coinvolgere sempre di più i lettori.

Nel Settecento, i costanti progressi della stampa conducono a una considerevole produzione di giornali.
In Germania e nei Paesi Bassi, già agli inizi del Seicento, erano spuntati i primi periodici.
In Francia, il 30 maggio del 1631, compare il primo giornale, “la Gazette”, che nel 1762 diventerà la “Gazette de France. Ma sarà la Rivoluzione francese a sdoganare in modo ufficiale la libertà di stampa. Nell’articolo 11 della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 26 agosto 1789, leggiamo: “La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge”.

Nel 1790, già si contano più di trecento giornali e tutti volgono lo sguardo a un quotidiano in particolare: “The Times”, considerato un modello di notevole levatura. Il giornale britannico fu fondato nel 1785 da John Walter (1738 – 1812; imprenditore britannico, istruito alla Merchant Taylors’ School) e fu l’antesignano dei grandi giornali d’opinione contemporanei. Il suo “nome di battaglia” era “Thunderer” (tuono), tale definizione era dovuta al lavoro dei suoi editorialisti che non avevano alcun timore di esprimere le proprie opinioni.

Nonostante la grande fioritura, la stampa dei periodici ha un problema: deve trovare un modo per stampare, utilizzando un solo passaggio e sulla stessa carta, includendo testo e illustrazioni.
A risolvere la spinosa questione sarà un tedesco, Aloys Johann Nepomuk Franz Senefelder (più noto come Johann Alois Senefelder, 1771 – 1834), un inventore e commediografo austriaco che nel 1796, inventò la tecnica di stampa della litografia.

Senefelder rilevò la particolare proprietà delle pietre calcaree di Solenhofen (vicino Monaco di Baviera), cioè la loro capacità di respingere l’inchiostro grasso, quando erano umide.
Grazie alla scoperta della stampa litografica si avranno effetti immediati sulla stampa dei libri e dei giornali e in particolare, questa nuova tecnica consentì anche una notevole diffusione dei manifesti.

Comunque, agli inizi non ci furono sostanziali variazioni per quanto riguardava la concezione e l’uso dei procedimenti tipografici, solo in seguito si iniziò a studiare con cura, dove fosse più acconcio posizionare le illustrazioni, in relazione al testo e alla pagina. Da quel momento in poi, ogni pagina di giornale divenne un’architettura mobile, creata per stimolare e dialogare con i lettori, come tuttora avviene anche nell’editoria moderna.

“Dieci piccoli indiani”: una singolare lettura dell’assassino

Dieci piccoli indiani una singolare lettura dell’assassino

“Dieci piccoli indiani” è uno dei tanti capolavori gialli di Agatha Christie. In una prefazione, di una delle tante edizioni del libro, ho apprezzato l’originale punto di vista applicato al misterioso signor Owen.

In una strana associazione per contrasto, pensando a “Dieci piccoli indiani” mi è tornata in mente la frase evangelica “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8,3). In realtà nel famosissimo giallo, nonché pièce teatrale di Agatha Christie, accade l’esatto contrario: nel gruppo riunito a Nigger Island nessuno è innocente.

A partire dagli invitati del misterioso signor Owen: Anthony Marston, John Macarthur, Emily Brent, Lawrence Wargrave, William Blore, Edward Armstrong, Philip Lombard e Vera Claythorne, sino ai due coniugi, Thomas ed Ethel Rogers, assunti come domestici.

Io sono tra coloro che leggono prefazioni e postfazioni, a volte mi sento un po’ sciocca, a perdermi in tanti lunghi discorsi attorno all’autore o all’opera che sto per leggere, ma lo considero quasi un rito, un rito di attesa che non riesco a tralasciare.
Spesso, questo atteggiamento paga: si scoprono notizie interessanti e punti di vista curiosi che finiscono per assommarsi piacevolmente al ricordo del libro stesso. Leggendo “Dieci piccoli indiani” mi sono trovata in una di queste felici situazioni.

Nella prefazione di un’edizione di questo capolavoro della Christie – purtroppo, e me ne rammarico moltissimo, non ricordo chi ne fosse l’autore e neppure l’edizione del libro – ho trovato un’osservazione singolare sulla storia e in particolare, sul personaggio del misterioso ospite: il signor Owen.
Secondo l’autore della prefazione, la Christie ci ha deliziato con gialli in cui gli assassini uccidono per moventi tradizionali: denaro, vendetta, gelosia; moventi concreti e gli assassini non sono mai dei seriali, anche se ne “La serie infernale”, almeno per un certo lasso di tempo, crediamo proprio di trovarci di fronte a un serial killer, ma in realtà, le cose prenderanno una piega ben diversa.

In “Dieci piccoli indiani”, secondo l’autore della prefazione, invece, siamo proprio alle prese con un serial killer.
Secondo alcuni studi fatti sui seriali, si è stimato che alcuni di loro sceglievano delle professioni che consentivano loro di uccidere, in modo legale, alcuni diventavano boia, altri mercenari.
Anche il personaggio di Agatha Christie, Lawrence Wargrave, ha scelto una professione che gli consentiva, legalmente, di commettere degli omicidi, per interposta persona, e in più le vittime non erano innocenti, bensì dei criminali. Il suo desiderio di uccidere era così sublimato dal ruolo che svolgeva per la comunità.

Scoperto di avere poco tempo da vivere e spinto da un desiderio più forte di uccidere, il giudice decide di passare dall’altra parte della barricata: sceglie dieci vittime, dieci persone colpevoli di aver commesso un omicidio e tutte sfuggite alle maglie della legge.

La uccisione sequenziale di questi soggetti inizia dopo il verdetto, emesso da una voce proveniente da un grammofono che inchioda ognuno di loro, anche i domestici, alla propria colpa, elencando date e nomi delle vittime dei loro omicidi.

Da quel momento in poi gli invitati sull’isola iniziano a morire, e se il giudice, non ha un modus operandi identico per ogni omicidio, come accade per solitamente per i serial killer, in quanto le cause di morte sono sempre diverse, si può però intravedere una firma: la famosa filastrocca profetica e le statuine dei negretti che scompaiono a una a una dal centrotavola della sala da pranzo.

Codice 206: I casi del commissario Nick Raisi

In “Codice 206”, il commissario Nick Raisi si troverà coinvolto in un cold case. A trascinarlo dentro le indagini saranno i misteriosi messaggi lasciati da “Ala”, un writer che ha fatto della sua arte un’arma al servizio della giustizia.

Dopo “Rime Mortali“, torna con “Codice 206”, il personaggio di Nick Raisi, un tipo davvero singolare a cominciare dalle sue passioni: l’hip hop e i dolci. Il commissario romano odia la neve e la montagna, ma a causa di un’indagine scabrosa si ritrova catapultato, suo malgrado, dalla sua amata Roma a Brunico, in Alto Adige. Il suo arrivo ha portato diversi cambiamenti in città, soprattutto nel modo di condurre le indagini.

Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.” (Friedrich Nietzsche)

Nick Raisi è insolito, a volte divertente.
Conduce le indagini con una patina d’ironia e riesce sempre a fiutare la pista giusta che conduce alla verità.
Stavolta il commissario romano, trasferito a Brunico, deve indagare su un uomo scomparso anni prima, che i suoi concittadini credevano morto per un incidente in montagna.
Ad aiutarlo ci sarà un misterioso writer che si firma “ALA” e che lo sfiderà a risolvere i suoi rebus tappezzati per la città.
Raisi con l’aiuto della sua squadra e le felici intuizioni della sua ragazza, Larissa Meier, darà una luce completamente diversa al caso dell’uomo scomparso che dietro una impeccabile facciata nascondeva un terribile segreto.
Il commissario dovrà muoversi tra omertà e coni d’ombra, fino a svelare la vera natura della vittima e l’identità del suo assassino.

acquista l’ebook di Codice 206

Alessandro Manzoni, “I promessi sposi” e il personaggio dell’Innominato

Alessandro Manzoni, "I promessi sposi" e il personaggio dell’Innominato

Il 7 marzo del 1795 nasceva Alessandro Manzoni, uno dei maggiori romanzieri italiani, noto soprattutto per “I promessi sposi”, opera che gettò le basi del romanzo moderno.
I personaggi manzoniani sono così reali che fanno pensare di poterli incontrarli nella quotidianità; uno di loro resta saldo nei miei ricordi: l’Innominato.

Ho letto “I promessi sposi” di Manzoni molti anni fa, fu una lettura scolastica, imposta dal programma. Ricordo a grandi linee la trama del romanzo e la simpatia/antipatia che ho nutrito per alcuni dei personaggi del libro. Uno, però, ha colpito la mia immaginazione, forse per il timore che incuteva e il mistero che lo circondava: l’Innominato.

Alessandro Manzoni, il cui nome completo era, Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – Milano, 22 maggio 1873), è stato non solo scrittore, ma anche poeta e drammaturgo.
L’autore de “I promessi sposi” fu anche un patrocinatore dell’unità linguistica italiana, anche lui seguiva la tendenza tutta illuminista della letteratura impegnata sia civilmente sia moralmente.
Nell’arco della sua vita, lo scrittore fu a contatto con la migliore cultura intellettuale francese (Johann Wolfgang von Goethe 1749-1832) e con grandi intellettuali (Antonio Rosmini 1797-1855), inoltre, era ben informato sulle novità britanniche (Walter Scott 1771-1832).

Per quanto riguarda la formazione culturale, come già si nota nelle poesie che Manzoni scrisse durante l’adolescenza, lo scrittore, all’epoca era particolarmente interessato alla mitologia e alla letteratura latina.
Prediligeva, soprattutto, Virgilio e Orazio, ma è forte nella sua scrittura anche l’impronta di Dante e quella di Petrarca. Tra i contemporanei, oltre a Vincenzo Monti (1754-1828), Manzoni subì l’influsso anche di Giuseppe Parini (1729-1799) e Vittorio Alfieri (1749-1803).

Le prime esperienze poetiche di Manzoni sono databili alla metà del 1801, insieme ad esse, lo scrittore ci ha lasciato delle traduzioni di alcune parti della “Eneide” e della “Satira terza” di Orazio.
Il periodo più creativo per lo scrittore, però, fu indubbiamente il quindicennio tra il 1812 e il 1827.
All’epoca, Manzoni si era già convertito al cattolicesimo e alle idee del romanticismo e in questo periodo scrisse le sue opere principali, passando dalla poesia – sacra e civile – ai saggi filosofico-religiosi, alle tragedie, fino ad arrivare alla realizzazione del primo grande romanzo della storia della letteratura italiana: “I promessi sposi”.

In queste opere si avverte già il desiderio di verosimiglianza e il crescente interesse per i sentimenti umani che saranno pienamente manifestati nel romanzo, alla cui stesura Manzoni iniziò a dedicarsi dall’autunno del 1821.
In un primo tempo il titolo dell’opera fu “Fermo e Lucia” e in questa prima stesura è evidente l’influenza esercitata dai romanzi europei, soprattutto quelli inglesi. Inoltre, per dare veridicità ai fatti che avrebbe descritto e per conoscere le ambientazioni e gli usi dell’epoca, Manzoni si dedicò anche a una minuziosa attività di ricerca storica.

Furono necessari molti altri impegnativi anni di lavoro, di rielaborazione strutturale e linguistica, per arrivare al romanzo che tutti conosciamo, il cui titolo fu mutato in “I promessi sposi”, e fu pubblicato nella versione definitiva tra il 1840 e il 1842.

Il romanzo è ambientato in Lombardia, nel periodo tra il 1628 e il 1630, durante il dominio spagnolo.
“I promessi sposi” sono il primo esempio di romanzo storico della letteratura italiana.
Manzoni si avvalse della sua approfondita ricerca storica per diversi episodi: le vicende della monaca di Monza (Marianna de Leyva y Marino); le vicissitudini legate alla Grande Peste (1629-1631). Sono tutti basati su documenti d’archivio e cronache dell’epoca.

Oltre a rappresentare un passaggio essenziale per la nascita della lingua italiana, il romanzo di Manzoni è anche il testo più significativo del romanticismo italiano, soprattutto per la profondità dei temi e perché, per la prima volta, un romanzo di successo ha come protagonisti, gli umili, invece dei potenti della storia.

Leggendo “I promessi sposi”, ricordo che rimasi colpita da un personaggio, in particolare, che, pur non appartenendo alla schiera degli umili, si staglia all’interno della complessa vicenda, ed è l’Innominato. Credo che ne fui affascinata per il timore reverenziale da cui era circondato, grande nel male quanto poi nel bene, e dall’alone di mistero dal quale era avvolto, tanto da rendere impossibile farlo passare inosservato.

L’Innominato è un personaggio singolare anche perché, mentre gli altri personaggi maturano nel corso dei due anni in cui si svolgono gli eventi, subisce nell’arco di una sola notte – anche se il cambiamento era già in atto da più tempo – una mutazione profonda.
Manzoni di lui dice: “Di costui non possiamo dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo” (“I promessi sposi”, capitolo XIX, pp. 371-372)

L’innominato, che in “Fermo e Lucia” era denominato come, il Conte del Sagrato, è tra i personaggi più complessi e inquietanti di tutto il romanzo.
Fu identificato storicamente con Bernardino Visconti (1579-1647), un nobile che guerreggiava con gli spagnoli, potentissimo e sanguinario.
Quando Manzoni ce lo presenta, l’Innominato è vicino alla vecchiaia, è pieno di dubbi per la vita che ha condotto: tra omicidi e soprusi nei confronti dei più deboli.
Nella storia è chiamato ad agire da don Rodrigo che gli chiede di rapire Lucia dal monastero di Monza, dove si è rifugiata, sotto la protezione di Gertrude.
L’Innominato incarica il Nibbio, capo dei bravi al suo servizio, del delicato compito, questi, con l’aiuto di Egidio e la complicità di Gertrude, riesce a rapire Lucia e a condurla al castello del suo padrone.

Per delineare la figura di questo statuario cattivo, Manzoni si serve anche del paesaggio e nel delineare la valle, dove si trova il castello dell’Innominato, ci dice che: il territorio è aspro, arido, minaccioso e incutente paura, con il chiaro intento di riflettere la personalità e lo stile di vita del personaggio.

Al cospetto dell’Innominato, Lucia è terrorizzata; lo prega di lasciarla libera, esortandolo al contempo a redimersi: “Dio perdona molte cose per un atto di misericordia”.
L’uomo resta turbato dalla semplicità della ragazza, dalla sua vulnerabilità e dalle sue parole. Queste emozioni, unite alle sue crisi di coscienza già in atto, lo spingeranno verso la conversione.

Famosa è la notte al castello dell’Innominato, subito dopo il rapimento di Lucia.
Una notte terribile per entrambi i personaggi: Lucia sconvolta dalla paura pronuncia un voto, mentre l’Innominato è tormentato dai sensi di colpa che lo condurranno a un passo dal suicidio.
L’alba e il suono delle campane, che annunciano l’imminente visita del cardinale Federico Borromeo, distolgono l’Innominato dai suoi propositi di morte e lo spingono a incontrarsi con il prelato e infine, alla conversione.
Dopo questo cruciale cambiamento, l’Innominato, innanzitutto, libererà Lucia e poi comincerà a condurre una vita all’opposto della precedente: si dedicherà a opere di misericordia e, più avanti nel romanzo, ne abbiamo una chiara testimonianza, quando si offrirà di ospitare gli abitanti della zona nella sua fortezza, in occasione della temuta discesa dei lanzichenecchi.

Non solo l’Innominato, ma anche altri personaggi manzoniani analizzano costantemente le proprie dinamiche interiori, rispecchiando quel “guazzabuglio del cuore umano“, particolarmente caro all’autore. Questo emerge in particolare nella figura dell’Innominato, ma anche in quella di Renzo.
Tali analisi conducono a dei cambiamenti, dovuti anche all’accumulo delle nuove esperienze e al passare del tempo, e sono evidenti, anche se in modo più sottile, anche in altri personaggi, come fra Cristoforo e Lucia. La giovane, in particolare, sembra restare la stessa dall’inizio alla fine della storia, ma in realtà anche lei subisce una maturazione costante e progressiva che il Manzoni non mancherà di registrare.

In copertina: particolare de “l’Innominato” di Andrea Gastaldi (olio su tela, 1860)

Storia della scrittura #21: la stampa mette le ali

Storia della scrittura 20: la stampa mette le ali

I progressi tecnologici consentono il più delle volte di migliorare le cose e spesso rendono accessibili a un pubblico più vasto beni, in precedenza, destinati solo ai privilegiati.
Anche la storia della scrittura vede cambiare il suo corso grazie a una serie di invenzioni.

Da Gutenberg fino al 1783, per stampare i libri si utilizzava il torchio a mano che consentiva una tiratura al massimo di trecento fogli al giorno. Ma proprio nel 1783, Didot aggiunge alla sua macchina da stampa un bancone in ferro e una piastra di rame, ciò gli consentirà di stampare grandi formati; inoltre, nello stesso periodo si appronta la realizzazione di carta in bobine.

Nel 1812, al torchio sono apportati dei miglioramenti: se prima si imprimeva piatto contro piatto, ora al piatto si contrappone un cilindro.
Questo nuovo tipo di macchina a stampa è realizzata in Inghilterra da Friedrich Gottlob Koenig (17 aprile 1774 – 17 gennaio 1833), un inventore tedesco.
La sua macchina da stampa andava a vapore e lavorava ad alta velocità; il suo rivoluzionario sistema fu realizzato in collaborazione con l’orologiaio Andreas Friedrich Bauer (18 agosto 1783 – 27 Dicembre 1860). Questo nuovo tipo di macchina da stampa poteva produrre fino a 1.100 fogli all’ora ed era in grado di stampare su ambo i lati della carta allo stesso tempo.

Nel 1819, si fa un ulteriore passo in avanti: l’inchiostratura dei rulli diventa automatica.
Siamo ormai sulla strada della più grande conquista tipografica dell’Ottocento: la rotativa, un sistema di stampa che prevede l’uso di due elementi cilindrici.
Però, bisogna attendere fino al 1846, per vedere realizzata la prima macchina tipografica moderna che fu realizzata a Filadelfia. I suoi numeri sono davvero impressionanti: 95.000 copie l’ora, eppure è trascorso meno di un secolo dalle trecento copie tirate a mano…

Natale a Regalpetra: le feste natalizie narrate da Sciascia

Natale a Regalpetra le feste natalizie narrate da Sciascia

Quale migliore augurio di Natale per chi ama la letteratura di un cammeo tratto da un’opera di Leonardo Sciascia?

Natale è ormai alle porte, per celebrare questa festa ho scelto un brano tratto da “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia (1921-1989), autore di cui quest’anno si è celebrato il centenario della nascita.
Nel testo, alcuni bambini raccontano come hanno trascorso le feste natalizie.

“Le parrocchie di Regalpetra” fu pubblicato nel 1956. Il punto di partenza di quest’opera letteraria è stato un capitolo: “Cronache scolastiche”, uscito autonomamente nel 1955, sul numero 12 della rivista “Nuovi Argomenti” e successivamente incluso nel testo stampato l’anno successivo.
Il libro di Sciascia nel suo complesso narra la vita di un paese qualunque della Sicilia e, in particolare, parla della scuola; è suddiviso in parti che si differenziano per l’argomento trattato.

Regalpetra non esiste: è un paese di fantasia. È nato dalla fusione tra il nome Racalmuto (borgo nativo dello scrittore) e il libro di Nino Savarese, “Fatti di Petra”.
Sciascia in questo libro racconta le condizioni delle classi povere e descrive le difficoltà che ogni giorno devono affrontare.
Nel brano che segue ci troviamo sui banchi di scuola, le feste natalizie sono terminate e un maestro legge i diari che gli allievi hanno scritto come compito a casa.

– Il vento porta via le orecchie – dice il bidello.
Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa.
I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni.
L’aula ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo.
Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale:
tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette e mezzo e ti-vitti (ti ho visto :un gioco che non consente la minima distrazione); sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo.
Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente.
In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca: “La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù”.
Alcuni hanno scritto, senza consapevole amarezza, amarissime cose:
“Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa”.
Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre pagandogli il biglietto del cinema…
Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato.
“La mattina del Santo Natale – scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto”.
La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre “per fare la spesa”. Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone.
“E così ho passato il Santo Natale”
.
(tratto da “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia)

Pirandello e il ragioniere, Belluca, de “Il treno ha fischiato”

Pirandello e il ragioniere Belluca de Il treno ha fischiato

Nell’anniversario della morte di Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) voglio dedicare al famoso drammaturgo, scrittore e poeta italiano, scomparso, un breve ricordo, legato a una delle sue novelle: “Il treno ha fischiato”.

Pirandello è stato uno dei più grandi scrittori di novelle.
I personaggi delle sue storie hanno sempre a che fare con il male di vivere, con il caso e con la morte. Si tratta di gente comune, il classico vicino della porta accanto, come: sarte, professori, piccoli proprietari di negozi, semplici impiegati che vivono piccole tragedie quotidiane, sconvolti dalla sorte e da drammi familiari.

Negli anni è rimasto sempre vivo in me, il ricordo di un personaggio, di uno di questi poveri cristi che popolano le sue pagine, Belluca, il “computista”, cioè il ragioniere, protagonista della novella: “Il treno ha fischiato”.

Pirandello ci immette subito nel vivo della scena: il viavai di gente che va a visitare il malato e c’è un passaggio di notizie: le diagnosi spicciole sulla salute del poveretto, tra quelli che ritornano dall’ospedale e quelli che stanno andando a saggiare la follia del collega di lavoro.
I resoconti sono unanimi: Il povero Belluca è impazzito, dice frasi senza senso; vittima di una sorta di insanabile frenesia, parla di un treno che ha fischiato. Per di più, si è ribellato, lui che era sempre sottomesso, quasi spento; una bestia da soma che si caricava di ogni insulto, di ogni crudele angheria e sopruso, di ogni rimprovero – quasi sempre ingiusto – senza fiatare, senza reagire, come fosse privo di volontà, avvezzo a sopportare tutto, come colui che evangelicamente porge sempre l’altra guancia.

Solo un suo vicino di casa, che è anche il narratore della novella, comprende che in questa singolare rivolta, in questo fraseggiare inconsulto deve esserci un’orditura di fondo, un motivo preciso, una scintilla che deve aver fatto avvampare questa presunta e improvvisa follia. E lo dice in maniera illuminante, con una ineguagliabile metafora: “Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro. ‘Una coda naturalissima’ ” (Luigi. Pirandello, “Tutte le novelle”, RLI CLASSICI).

La spiegazione è semplice: il treno di cui farnetica Belluca che, improvvisamente, nella notte profonda, lui ha sentito fischiare, gli ha aperto gli occhi e le orecchie; quel fischio non è altro che il richiamo della vita, il richiamo del mondo, mondo che ha continuato a esistere al di fuori della menagrama vita condotta dal povero “computista”.

Mark Twain, “Le avventure di Tom Sawyer” e la scena della staccionata

Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer e la scena della staccionata

Oggi, 30 novembre, è l’anniversario della nascita di Mark Twain che molti di noi ricordano per le storie del suo scapestrato personaggio, Tom Sawyer.
Voglio onorare questo grande scrittore, parlando un po’ di lui, di un suo libro e in particolare, di una scena, tratta da un suo romanzo, che ho letto anni fa ma che ancora mi fa sorridere.

Mark Twain era lo pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens (Florida, 30 novembre 1835 – Redding, 21 aprile 1910), scrittore, umorista, aforista e docente, nonché autore di diversi capolavori della letteratura statunitense del XIX secolo.

Iniziò come giornalista, successivamente, passò a scrivere racconti umoristici. Con il passare degli anni e, dopo aver subito una serie di tragici lutti, diventò un cronista severo, estremamente critico nei confronti delle religioni e sospinto da un pessimismo venato di ironia.

Nella sua attività letteraria, Samuel Langhorne Clemens utilizzò diversi pseudonimi, il più noto è “Mark Twain” che ha un’origine curiosa; deriva da un grido: “by the mark, twain” (dal segno è due tese, cioè, l’acqua è profonda 12 piedi, quindi, era sicuro passare) che, nello slang della marineria fluviale degli Stati Uniti d’America, serviva a indicare la profondità delle acque.
La scelta di tale pseudonimo fu una sorta di omaggio, al lungo periodo trascorso dallo scrittore a pilotare battelli a vapore sul Mississippi.

Inoltre, il termine “Mark” è ambivalente perché è anche un nome proprio; “Twain”, invece, è la forma arcaica di “Two” (due).
Prima di usare definitivamente questo pseudonimo, lo scrittore ne adoperò altri: fino al 1863, firmò i suoi abbozzi umoristici e fantastici con il nome, “Josh”; utilizzò anche “Thomas Jefferson Snodgrass” e “Sieur Louis de Conte”, quest’ultimo solo per firmare la biografia di Giovanna d’Arco.

Uno dei maggiori meriti di Mark Twain come scrittore fu quello di aver dato vita a una letteratura specificatamente americana: nelle tematiche e nei linguaggi espressivi.
Hemingway disse di lui: “tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain, Huckleberry Finn […] Tutti gli scritti Americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza”.
Uno dei maggiori talenti che gli è riconosciuto è la sua capacità di tradurre in parole scritte la conversazione colloquiale.

Twain fu autore di molte opere conosciute, come: “Il principe e il povero; “Un americano alla corte di re Artù”; “Vita sul Mississippi”, ma, indubbiamente, i suoi due romanzi più noti, di genere picaresco (da pícaro: briccone, furfante; narrazione in apparenza autobiografica, dove il personaggio principale racconta le proprie avventure dalla nascita alla maturità) sono: “Le avventure di Tom Sawyer” e “Le avventure di Huckleberry Finn”.

Il primo romanzo della serie, “The Adventures of Tom Sawyer”, fu pubblicato nel 1876; è il primo di una serie di libri collegati tra loro: “Le avventure di Huckleberry Finn” (1884); “Tom Sawyer Abroad” (1894); il racconto, “Tom Sawyer Detective” (1896).
In tutti e quattro sono narrate le avventure di un ragazzino, Tom Sawyer, per l’appunto, che vive nel sud degli Stati Uniti, negli anni immediatamente antecedenti la guerra di secessione.

Le storie sono ambientate nella cittadina di St. Petersburg – non la cercate: non esiste – in Missouri, sulle rive del grande fiume Mississippi.
I personaggi sono ispirati alla vita dello scrittore, ai suoi amici e familiari, come veniamo a sapere da Twain stesso: “la gran parte delle avventure riportate in questo libro sono accadute realmente. Un paio sono esperienze personali, le altre di quei ragazzi che erano a scuola con me. Huck Finn è preso dal vero, e così Tom Sawyer. Tom, però, non nasce da una persona sola: per lui ho messo insieme il carattere di tre ragazzi che conoscevo, il risultato è quindi un’architettura d’ordine composito” (Mark Twain, prefazione dell’autore a “Le avventure di Tom Sayer”, 1876).

Ho letto il romanzo, “Le avventure di Tom Sawyer”, parecchi anni fa e ora, mi resta un vago e diluito ricordo della trama: un ragazzo vivace, a volte un po’ attaccabrighe che passa le giornate a combinare guai, ma dotato di una grande simpatia, di un grande senso dell’avventura e di un’arguzia, davvero senza confini.
I ricordi dei dettagli del libro sono annebbiati dal tempo, ma una scena del libro è rimasta – come dice ne “Il mestiere dello scrittore”, Haruki Murakami, “gettando dentro la mente le cose alla rinfusa, quello che deve sparire sparisce, quello che deve restare resta” – impigliata nei miei ricordi: l’imbroglio ben congegnato della staccionata.

Padrone assoluto della scena è Tom, che una ne pensa e dieci ne fa.
In questo particolare frangente, il nostro “eroe” è costretto dalla zia Polly a ridipingere una staccionata: una punizione esemplare, per l’ennesimo guaio che ha combinato.
La sottile ironia di Mark Twain sembra esplodere nell’incipit, quando descrive l’inizio della giornata – piena di promesse, specie per un ragazzo che vive di avventure – in cui Tom deve subire la punizione e quindi, non potrà godere delle eccellenti condizioni atmosferiche che si preannunciano già dal mattino:
La mattina di sabato era spuntata e l’intero mondo estivo splendeva luminoso e traboccante di vita. Ogni cuore conteneva una canzone e, se il cuore era giovane, la musica scaturiva dalle labbra. Tutti i volti esprimevano allegria, tutti i passi avevano un che di elastico. I carrubi erano in fiore e la fragranza della fioritura colmava l’aria. Verdeggiante vegetazione rivestiva Colle Cardiff, che dominava il villaggio e ne distava abbastanza per sembrare una Terra Promessa, sognante, riposante e invitante”.

Tom entra in questa scena idilliaca, comparendo da un vialetto con un secchio e un pennello.
Il ragazzo osserva la staccionata: nove metri di lunghezza per due e settanta di altezza, e la tristezza già gli invade l’animo, soprattutto perché ha saggiato le condizioni della giornata che sarebbe degna di ben altri programmi.
Svogliato ma rassegnato inizia a tinteggiare le assi, ma la sua mente già si arrovella per uscire da quell’incubo.
Con l’approssimarsi di uno dei suoi amici, il ragazzo intravede già una soluzione al suo problema.
Ben arriva saltellando su un piede; ha il cuore leggero e colmo di piacevoli aspettative, e mentre procede, addenta una mela e lancia, a intervalli, un “lungo e melodioso grido di gioia, seguito da un ‘ding dong dong, ding dong dong’ in tono profondo”: sta fingendo di essere un battello a vapore.
Dopo uno scambio vivace di battute con Ben Rogers, “proprio il ragazzo, tra tutti quelli del villaggio, le cui prese in giro [Tom] temeva di più” – ci informa Twain – il gioco è fatto.

Tom è un abilissimo manipolatore e ha una mente brillante, specie quando si tratta di evitare un impegno gravoso e magari, di guadagnarci pure qualcosa.
Fatto sta che, il nostro novello tinteggiatore di staccionate, riesce a convincere il suo amico, Ben – che, fra parentesi, si sta avviando felicemente a fare una nuotata – a prendere il suo posto e a sgobbare con calce e pennello, per sbrigare il faticoso lavoro in sua vece.

Vale la pena studiare l’astuta strategia messa in atto da Tom per ottenere il suo scopo e, in particolare, l’abilità di Mark Twain nel rappresentare con le parole, il modo sottile con cui il raggiro è messo in pratica.
Tom contemplò per un momento il ragazzo e disse:
«Cos’è che chiami lavoro?»
«Perché, non è un lavoro, questo?»
Tom ricominciò a pitturare, e rispose, con noncuranza:
«Be’, forse lo è e forse no. Io so soltanto che si addice a Tom Sawyer.»
«Oh, andiamo, non vorrai farmi credere che ti piace?»
Il pennello continuò a muoversi.

«Se mi piace? Be’, non vedo perché non dovrebbe piacermi. Capita forse ogni giorno, a noi ragazzi, la possibilità di imbiancare a calce una recinzione?»
Queste parole fecero apparire la cosa sotto una nuova luce. Ben smise di mordicchiare la mela. Tom passò il pennello, delicatamente, avanti e indietro… indietreggiò di un passo per ammirare l’effetto… aggiunse un tocco qua e uno là… poi tornò a esaminare l’effetto con aria critica, mentre Ben seguiva ogni sua mossa e diventava sempre e sempre più interessato, sempre e sempre più affascinato. Infine disse:
«Ehi, Tom, lasciami imbiancare un po’.»
Tom rifletteva. Parve sul punto di acconsentire, ma poi cambiò idea:
«No, no; credo proprio che non sia possibile, Ben. Vedi, zia Polly ci tiene enormemente a questa recinzione… dà proprio sulla strada, capisci… se si trattasse della recinzione dietro casa non m’importerebbe, e non importerebbe nemmeno a lei. Sì, è tremendamente pignola per quanto concerne questa recinzione; il lavoro deve essere fatto con somma cura; non c’è un ragazzo su mille, forse su duemila, scommetto, che possa pitturarla come deve essere pitturata.
«Ah no… eh? Oh, andiamo, lasciami soltanto provare, soltanto per un po’. Se fossi al posto tuo io te lo consentirei, Tom.»
«Ben, vorrei lasciarti provare, te lo giuro, ma zia Polly… vedi, Jim voleva pitturarla lui la recinzione, e zia Polly non glielo ha consentito. Voleva pitturarla anche Sid, e lei non ha consentito nemmeno a Sid.

Andiamo, non lo capisci in che situazione mi trovo? Se tu dovessi pitturare questa recinzione, e il lavoro non riuscisse bene…»
«Oh, storie; starei molto attento. Su, lasciami provare. Senti… ti darò il torsolo della mela.»
«Be’, allora… No, Ben, non posso. Ho paura che…»
«Te la darò tutta!»

Tom consegnò il pennello, con riluttanza sulla faccia, ma alacrità nel cuore. E mentre [il suo amico] […] sgobbava e sudava al sole, l’artista a riposo sedette all’ombra su un barile lì accanto, fece dondolare le gambe, rosicchiò la mela e progettò il massacro di altri innocenti. La materia prima non mancò; altri ragazzi passarono di lì per caso, di tanto in tanto; si avvicinarono per prendere in giro e rimasero a imbiancare a calce. Quando Ben non ne poteva ormai più, Tom aveva barattato la possibilità successiva con Billy Fisher contro un aquilone in buono stato; e quando anche Billy fu sfinito, Johnny Miller pagò lo spasso di pitturare con un topo morto e un pezzo di spago per farlo girare in aria; e così via e così via, un’ora dopo l’altra. E allorché giunse la metà pomeriggio, Tom, che quel mattino era stato un ragazzo afflitto dalla miseria, si rotolava, letteralmente, tra le ricchezze. Oltre alle cose che ho già menzionato, possedeva dodici bilie, parte di uno scacciapensieri, un frammento di bottiglia blu per guardarci attraverso, un rocchetto, una chiave che non avrebbe mai aperto niente, un pezzo di gesso, il tappo di vetro di una caraffa, un soldatino di stagno, due girini, sei petardi, un gattino con un occhio solo, una maniglia di porta in ottone, un collare per cani, ma non il cane, il manico di un coltello, quattro pezzi di buccia d’arancia e un vecchio e malconcio telaio di finestra. Per tutto il tempo era rimasto in ozio divertendosi piacevolmente, in buona e numerosa compagnia, e la recinzione aveva ben tre strati di imbiancatura a calce! Se non fosse rimasto senza calce per imbiancare, avrebbe mandato in bancarotta tutti i ragazzi del villaggio.
Tom disse a se stesso che il mondo non era poi così desolato, in fin dei conti. Senza rendersene conto, aveva scoperto una grande legge delle azioni umane, vale a dire che per indurre un uomo o un ragazzo a bramare qualcosa, è necessario soltanto far sì che quella cosa sia difficile da ottenere
” (Mark Twain, “Le avventure di Tom Sawyer”)

La scena descritta da Twain non solo è vivace e divertente ma è anche facile da immaginare, quasi fosse lo stralcio della sceneggiatura di un film o magari il testo di un fumetto per ragazzi.
Al contempo, dobbiamo fare i complimenti al nostro Tom che, con la sua sottile psicologia, darebbe, oggi, filo da torcere al più abile stratega del marketing.

Anniversari letterari: Émile Zola, uno scrittore tutto d’un pezzo

Anniversari letterari: Émile Zola, uno scrittore tutto d’un pezzo

Émile Zola fu un grande scrittore che impiegò il metodo scientifico nei suoi romanzi, per analizzare e mettere a nudo la società francese del suo tempo.

29 settembre 1902, muore Émile Édouard Charles Antoine Zola (Parigi, 2 aprile 1840 – Parigi, 29 settembre 1902); figura poliedrica fu: scrittore, giornalista, saggista, critico letterario, ma anche filosofo e fotografo.
È stato uno degli esponenti di maggior spicco del naturalismo. Le sue opere ebbero un enorme successo e sono state tradotte, pubblicate e commentate in tutto il mondo.
La sua attività di scrittore ha lasciato un segno profondo nel mondo letterario francese e molti sono gli studi storici fatti sui suoi romanzi e sulla sua vita.

Tra le sue opere più note citiamo un ciclo di venti romanzi, pubblicati tra il 1871 e il 1893, i “Rougon-Macquart”, dove è descritta la vita di una ricca famiglia, attraverso il suo albero genealogico, e al contempo, è mostrata la storia di un’epoca: dal colpo di Stato di Napoleone III, nel dicembre 1851, fino alla sconfitta di Sedan che condusse la Francia sull’orlo della rovina.

Zola fu un assiduo sostenitore della ricerca della verità che trasfuse nelle sue opere letterarie, applicando il metodo scientifico all’osservazione della realtà sociale. Diede vita a un mondo immaginario di grande potenza ed efficacia che suscitava domande angosciate sulla società. Annotava osservazioni e documentazioni su qualsiasi argomento; illustrò la società del Secondo Impero, mostrandone: la durezza (specie verso i lavoratori); le aberrazioni; i successi.

Lo scrittore non prese posizione solo attraverso i suoi romanzi, ma fece sentire la sua voce di fronte a delle ingiustizie, anche pubblicamente. Negli ultimi anni della sua vita, fu coinvolto nell’affare Dreyfus.
Nel gennaio del 1898, pubblicò sul quotidiano L’Aurore il famoso “J’Accuse… !”, una lettera, diretta al Presidente della Repubblica.

“L’affare Dreyfus” andò così: nel 1894, Alfred Dreyfus, ufficiale di artiglieria dell’esercito francese, fu accusato di essere una spia dei tedeschi e per questo, fu degradato e poi processato e condannato all’ergastolo.
Alcuni intellettuali fecero notare diverse anomalie riguardo alle accuse rivolte all’ufficiale ebreo, ma la voce che si fece sentire più forte di tutte, fu proprio quella di Zola. Nel suo “J’Accuse”, lo scrittore parlava di complotto, di documenti d’accusa falsificati e fece persino i nomi degli ufficiali dell’esercito che avevano architettato la congiura ai danni di Dreyfus. Una congiura che aveva tutto il sapore dell’antisemitismo, in un clima politico avvelenato dalla recente perdita, per opera dell’Impero tedesco di Bismarck, dell’Alsazia e di parte della Lorena.

Per le sue accuse, Zola fu multato e condannato a un anno di carcere, che evitò con l’esilio.
Le sue parole però, avevano scosso le coscienze. Oltre a svelare la verità, ebbero un effetto dirompente: l’edizione de L’Aurore che conteneva la sua lettera, vendette oltre 300.000 copie (di media ne vendeva 20.000 al giorno).
A furore di popolo si ottenne la revisione del processo, ma era ancora lunga la strada per il re-integro e la liberazione di Dreyfus.
Bisogna attendere il 12 luglio del 1906: dopo 11 anni dall’inizio del processo, finalmente, la Corte di Cassazione accolse la richiesta di revisione del processo a carico di Dreyfus. Era ormai chiaro che tutto “l’affaire” era stato un errore giudiziario, una terribile macchinazione messa in piedi solo per individuare un capro espiatorio.

Quando finalmente Dreyfus fu liberato, Zola era già morto, da ben quattro anni (29 settembre 1902).
La sua morte è rimasta un mistero e tuttora, ci si chiede se sia stato un incidente o un omicidio orchestrato dalla Destra reazionaria, proprio per la posizione da lui assunta nell’ “affare Dreyfus”.
Lo scrittore aveva un nutrito numero di nemici: durante la sua esistenza espresse sempre la sua opinione e non accettò compromessi.

La morte di Zola fu archiviata dagli investigatori come morte accidentale, da avvelenamento da monossido di carbonio, dovuta alle esalazioni di una stufa.
Nel 1953, Pierre Hacquin, un farmacista, disse al giornalista Jan Bedel che era stato il fumista, Henri Buronfosse – che lo aveva confessato ad Hacquin – a ostruire intenzionalmente il camino di casa dello scrittore.

Dopo tali rivelazioni, si profilò l’ipotesi di assassinio politico: il farmacista e il fumista facevano parte di un gruppo di nazionalisti antisemiti e reazionari. Buronfosse era però già morto, nel 1928, e non si trovarono sufficienti prove per riaprire il caso.

Zola aveva costruito tutta la sua vita e anche la sua arte sull’onestà intellettuale e non tacque mai di fronte a ciò che riteneva scorretto o ingiusto sia che si trattasse dell’ipocrisia e dell’immoralità della borghesia francese sia che riguardasse questioni artistiche. Si schierò, ad esempio, dalla parte degli Impressionisti e di Manet, mentre schernì i pittori dell’Accademia, con il loro dipinti ammantati di retorica e privi di qualsiasi attinenza con la realtà del tempo.

Non ebbe molti amici, non solo perché non accettava compromessi, ma anche per il suo carattere aspro. Nonostante ciò, alcuni grandi lo apprezzarono e gli furono vicini per tutta la vita: Anatole France (1844-1924), ad esempio, che al suo funerale fece un’orazione commovente ed Édouard Manet (1832-1883), altro amico fedele, che riuscì, in un dipinto, a ritrarre con grande accuratezza il temperamento ombroso di Zola.

P.S. “L’affaire Dreyfus” e il J’Accuse di Zola determinarono la nascita dell’impegno intellettuale.
L’editoriale di Zola fece della parola intellettuale un simbolo dell’impegno civile, un titolo di gloria. Prima dell’affare Dreyfus, invece, “intellettuale” aveva una connotazione negativa: si parlava di “giudizio intellettuale”, come di qualcosa di trascurabile o incomprensibile.

In copertina: particolare del Ritratto di Émile Zola di Édouard Manet (1868)