Avete mai provato a osservare la città dove vivete come se foste dei turisti in vacanza?
Diamo tutti per scontato il luogo dove viviamo. Spesso ci lamentiamo del troppo traffico, della mancanza di servizi; del fatto che non ci siano poi tutte queste meraviglie da vedere o magari sì, ma sono sempre le stesse: ci passiamo davanti tutti i giorni e ormai non ci fanno più nessun effetto.
Eppure… se guardassimo meglio, scopriremmo cose mai notate prima: un dettaglio sopra l’arco di una finestra; un cortile che si apre all’improvviso dietro un portone; una statua quasi invisibile, perché per vederla bisogna alzare gli occhi al cielo.
Pensando alla mia città, che può sembrare priva di attrattiva, mi si stringe il cuore. Nonostante i suoi problemi, la sua mancanza di straordinarie meraviglie da annoverare, resta comunque la mia città, con i suoi ricordi e la sua sottile magia.
Dovremmo vivere la nostra città come una qualsiasi meta di viaggio: quando siamo in vacanza siamo più attenti, più pronti ad accogliere con tutti i sensi i particolari di un luogo sconosciuto.
Le città che visitiamo ci sembrano infinitamente più belle del luogo in cui viviamo, ma in realtà, ogni città ha i suoi misteri da scoprire, le sue piccole meraviglie per cui stupirsi, basta solo aprire bene gli occhi e non lasciare che il pregiudizio, legato all’abitudine, ci renda ciechi di fronte alla bellezza, anche quella che incontriamo ogni giorno.
A volte, sono i racconti degli altri a mostrarci l’invisibile, un po’ come per il Kublai Kan de “Le città invisibili” di Calvino: “Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”.
La pandemia e il conseguente lockdown mi hanno lasciato una piacevole abitudine, seguire dei corsi online. Qualche mese fa, ho visto delle mini conferenze su “Feltrinelli Education”, la piattaforma digitale di servizi formativi.
Tra le tante esperienze e possibilità offerte, ho scelto di esplorare il “Breve corso sulla letteratura del ‘900” con Paolo Di Paolo, dedicato nello specifico a “Il grande romanzo del ‘900: Proust, Joyce, Woolf”. È stato un viaggio interessante ed emozionante al tempo stesso.
Sono rimasta particolarmente colpita dalla lezione dedicata a Proust e non poche riflessioni ho tratto dalla parte in cui si parla di un personaggio creato da Marcel Proust: Bergotte.
Bergotte è uno scrittore e appartiene alla schiera dei personaggi minori descritti e fatti agire da Proust nella sua À la recherche du temps perdu (“Alla ricerca del tempo perduto”). Nel V volume, intitolato “La prigioniera”, veniamo a sapere che Bergotte sta per morire, ma che non vuole andarsene da questo mondo senza aver rivisto, almeno per una volta, un quadro di Jan Vermeer (1632-1675; pittore olandese), la Veduta di Delft.
È davvero singolare questo desiderio del personaggio proustiano e ci spinge a chiederci: che cosa può contenere di così affascinante questo dipinto, tale da scatenare un desiderio così intenso? E al contempo, che cosa porteremmo via con noi, come ultima cosa da questo mondo, se fossimo al suo posto?
Bergotte ha fatto la sua scelta: porterà con sé un assaggio di bellezza, quell’assaggio è contenuto nel quadro di Vermeer. Non lo interessa l’intero dipinto, bensì un piccolo dettaglio che lo spinge a indugiare, ancora una volta, davanti alla Veduta di Delft.
Proust ci dice che Bergotte muore a causa di una crisi di uremia (stadio terminale dell’insufficienza renale), abbastanza leggera, ma lo scrittore aveva trascurato le prescrizioni del medico che gli aveva consigliato di riposare. Ma Bergotte non può riposare, perché ha letto una recensione di un critico sul quadro di Vermeer, che lui amava particolarmente, ed era convinto di conoscerlo a fondo.
Nella recensione c’è segnalato che “una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa”.
Così, Bergotte, mangia un po’ di patate, esce di casa e si dirige dritto filato alla mostra, dove è esposto il Vermeer. Già nel fare questi primi passi, si sente mancare. Entrato nelle sale della mostra, scorre rapidamente davanti agli altri dipinti, ricavandone un’impressione di inutilità e aridità; finché non giunge davanti al dipinto che è venuto a rivedere.
Ora, seguendo le indicazioni del critico, Bergotte nota altri particolari, nella Veduta di Delft, cui non aveva prestato attenzione in precedenza, e infine, si sofferma sulla “preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo”. Nonostante i suoi disturbi aumentino in modo preoccupante, lo scrittore è troppo preso dalla meravigliosa vista e insiste a fissare quel piccolo dettaglio, quel minuscolo barlume di giallo, come volesse afferrarlo e portarlo via con sé.
Quella minuta meraviglia dipinta, lo costringe anche a un parallelo con la sua scrittura e gli fa pronunciare: “È così che avrei dovuto scrivere […]. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo”.
Siamo alle ultime battute, Bergotte si rende conto, dall’aumentare dei suoi capogiri, che sta per morire e pensa che “in una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ala di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda”.
Pochi istanti dopo questi pensieri, Bergotte precipita su un divano e da qui finisce a terra. Morto. “Lo seppellirono, ma tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate e sembravano per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione”.
Con queste parole, Proust mette un suggello: è l’arte a renderci immortali. Per cui, Bergotte è morto, ma è più vivo che mai, almeno finché ci saranno lettori che continueranno a stupirsi, leggendo di lui e del suo speciale legame con il dipinto di Vermeer.
Le citazioni sono tratte da Marcel Proust, La prigioniera, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, edizione integrale a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso, condotta sul testo critico stabilito da Jean-Yves Tadié, Newton Compton editori, Roma 2010
Mentre si viaggia i pensieri corrono. Non è facile registrare lo stormo di idee che si muovono nella testa, mentre un treno sferraglia. La mente si riempie di sensazioni, di ricordi, di emozioni e, invariabilmente, di considerazioni, quasi filosofiche, che sembrano trovare terreno fertile nel viaggio, nello scorrere rapido dei paesaggi che altro ancora richiamano e altre idee e altre parole creano…
Sono di nuovo sul treno per Milano e la vita mi sembra correre come questo vagone tra l’azzurro del mare e i tetti delle case.
Tutto sembra sfuggire, come i particolari che non riesco a decifrare al di là del finestrino. Perdiamo sempre qualcosa: i personaggi dei libri che muoiono – sì, muoiono anche loro -; certe abitudini che abbiamo ormai rinserrato nelle nostre giornate, nei mesi trascorsi, negli anni passati.
Bisogna cedere all’evidenza del cambiamento, della mutazione per la mutazione; del moltiplicarsi dei segni nuovi; dell’affacciarsi di cose nuove dentro cose vecchie, come albe e tramonti che ci danno l’illusione che tutto resti uguale, mentre niente è lo stesso, perché se il mondo e le cose che abbiamo attorno non cambiassero, siamo noi, inevitabilmente, a cambiare.
I giapponesi che, sicuramente, sui cambiamenti hanno riflettuto più di noi, hanno addirittura un termine ad hoc, per un specifico tipo di cambiamento: Kaizen (composto da KAI: cambiamento, miglioramento e ZEN: buono, migliore) che significa cambiare in meglio, miglioramento continuo. Questa parola è stata coniata, nel 1986, da Masaaki Imai (Tokyo, 31 agosto 1930, economista giapponese, consulente sulla gestione della qualità), per illustrare la filosofia di business che sosteneva i successi dell’industria nipponica negli anni Ottanta.
Durante una delle mie passeggiate, ho osservato sul ciglio della strada una lumaca che procedeva pervicacemente nella sua direzione e mentre la guardavo muoversi alla sua caratteristica comoda andatura, ho pensato al tempo, alla velocità e a quanto siano relativi questi concetti.
La lumaca da sempre incarna la lentezza, ma questa considerazione si basa sul nostro modo di vedere il mondo. Noi esseri umani, più passano gli anni, più aumentiamo la velocità delle nostre azioni e da questo nostro rapido punto di vista giudichiamo quello che ci circonda.
Partendo da questo presupposto, possiamo dedurre che, in realtà, la lumaca non è lenta, ma semplicemente mantiene la sua andatura, quella che la natura le ha conferito e che lei rispetta nei suoi gesti quotidiani, conducendo la sua vita alla stessa meditata e moderata velocità.
Solo noi umani viviamo spesso al di fuori di un ritmo naturale: affastelliamo mille cose nelle nostre giornate; impiliamo impegni su impegni in precario equilibrio; vogliamo arrivare dappertutto e nel minor tempo possibile.
Per cui, quando mangiamo ci ingozziamo e non assaporiamo più il cibo, respiriamo in modo affannoso, corriamo con l’auto per spostarci senza fare sforzi e il più rapidamente possibile, non riusciamo a vedere neppure le cose macroscopiche che ci circondano, non siamo capaci di goderci un istante di tranquillità.
Abbiamo perso completamente l’idea stessa di un ritmo naturale nel quale avvolgere la nostra vita.
Io credo che se riuscissimo almeno in parte a recuperare questo diverso senso del tempo e lo adattassimo al nostro carattere, alla nostra personalità, la nostra salute ci guadagnerebbe.
E non sempre la risposta che non possiamo perché dobbiamo fare tante cose in poco tempo è la risposta giusta…
A volte frenare ci fa acquistare tempo, ci consente di fare le cose molto meglio, e potremmo anche accorgerci che è possibile rallentare, che spesso siamo proprio noi che ci imponiamo questi ritmi infernali e insostenibili, e finiamo per ammalarci, perdendoci al contempo tante cose meravigliose che ci circondano.
In certe occasioni, concediamoci questo lusso: imitiamo la saggia lumaca… rallentiamo.
“La chiave magica entra, tutti i bicchieri cadono di colpo e la porta si spalanca”.
Non è l’inizio di una favola per bambini e neppure l’ultimo fantasy di grido, bensì una frase di John Gardner da “Il mestiere dello scrittore“, e la frase serve a spiegare il magico processo – e lo è davvero – che avviene quando si cade in quella sorta di trance, quando la musa – in questo caso della scrittura (ma ci sono anche le altre) – ci afferra saldamente.
Le dita battono sui tasti come fossero guidate da una misteriosa entità, sanno quello che devono fare e non c’è bisogno di un intervento razionale, anzi, un tale intervento potrebbe arrestare, irreparabilmente, il viaggio che le parole fanno dal nostro inconscio al foglio bianco.
In questi momenti perfetti, tutto sembra diventare fluido e semplice, le parole sgorgano come acqua da una sorgente, e bisogna essere rapidi (oserei dire fulminei) per non perdersi soggetti, verbi, aggettivi che si incastrano perfettamente a grande velocità.
E quando esausti e felici ci si ferma, ci si accorge, rileggendo, che tutto funziona alla perfezione, a parte qualche refuso da imputare alla velocità della “trascrizione”.
Chi ha sperimentato questa magia, sa bene di cosa parlo.
In un prossimo post scopriremo come in realtà questa ispirazione non abbia nulla di soprannaturale…
Chi dice che le parole non contano? Le parole contano, eccome.
Le parole hanno potere, specie se arrivano alle orecchie giuste, se vengono comprese in tutta la loro multiforme complessità.
Le parole hanno un’anima, hanno un colore, bruciano e fanno male; a volte, sono un balsamo per il cuore. Usiamole con parsimonia e preferiamo il silenzio a parole vuote o delle quali non siamo sicuri.
Impariamo a cercare le parole giuste: non accontentiamoci di falsi simulacri che non esprimono nulla, di parole dette da altri e con poca convinzione.
Sondiamo il nostro vocabolario e scoviamo quelle che si adattano ai nostri sentimenti e alle nostre emozioni come un guanto che calzi alla perfezione. Ma soprattutto, amiamo le parole che ci permettono di entrare in comunicazione con gli altri, che ci fanno sentire più forti, più giusti, più umani.
Scegliamo con cura le nostre parole e creeremo un mondo migliore, più vero, più libero, dove ci sarà spazio per le parole di tutti.
Leggere e scrivere sono due attività che non subiscono battute d’arresto a causa del Coronavirus: si possono tranquillamente praticare restando a casa.
Inoltre, mi sono chiesta: che cosa può fare uno scrittore in tempi di Coronavirus per essere d’aiuto? Scrivere, ovviamente. Così ho pensato di scrivere qualche breve riflessione sulle mie giornate e sulle meste osservazioni giornaliere dalle mie stanze.
Non è un gran contributo, ma ci tengo a dedicarlo a tutti quelli che si sacrificano, affinché la nostra vita possa andare avanti, nonostante le limitazioni, e a tutti coloro che hanno bisogno di un istante di distrazione e di sollievo in questi momenti così difficili.
Dall’alto della terrazza, la mia città è strana: lontana eppure vicina, quasi potessi toccare le sue case di cartapesta colorata.
I gialli, gli aranci, il verde appena accennato, il rosso bruciato dei tetti sono affastellati, uno sull’altro; mentre alberi svettanti lanciano le loro chiome verso il cielo.
Rari passanti misurano i loro passi lungo i marciapiedi; auto sparute scorrono rapide, senza dover più contendere l’asfalto ad altri veicoli all’assalto.
Il mare è un tappeto screziato, un miraggio nel deserto solitario del paesaggio.
Come ignorare un fenomeno che ci tiene incollati davanti alla TV o su internet a sondare dati, a sincerarci sulle nuove scoperte, a fare un bilancio di morti, guariti e contagiati?
Il virus, sani o malati, ci ha contagiato tutti. Ha superato i confini delle nazioni ed è l’argomento principe ovunque: nei talk show, al telegiornale, sui social.
Ci sta facendo esplorare le nostre fragilità, la nostra solitudine, il nostro attaccamento alla vita; sta mettendo alla prova il nostro senso di responsabilità, ma anche il grado della nostra umanità, la capacità di essere solidali verso gli altri. Ci ha messo davanti agli occhi che non possiamo più marciare da soli, che serve coesione, condivisione, empatia.
Abbiamo anche scoperto che ci sono moltissimi eroi, gente comune che si è ritrovata a dover fronteggiare con coraggio questa terribile emergenza: medici, infermieri, forze dell’ordine, sacerdoti, volontari, e non dobbiamo neppure dimenticare tutte quelle persone che ci consentono di portare in tavola il cibo: gli agricoltori, ad esempio, e tutte le persone legate a questa filiera, i trasportatori e i commessi che, anche nascosti dietro una mascherina, ci accolgono con gentilezza nei negozi, nei supermercati.
Come voi, sto sperimentando il tormentone #iorestoacasa e lo vivo bene: mi sto rendendo conto di quante cose ci sono da fare in casa e mi sento più vicina alle persone che condividono con me questa quotidianità.
Sperimento il desiderio di cercare sui social persone che non sento da un po’ e chiedo loro come stanno. Forse, sono anche più connessa di prima alle emozioni e ai sentimenti, perché ho più tempo per riflettere e sto riconsiderando la mia vita, le mie priorità, e so che, come voi, uscirò trasformata da questa esperienza. Sono certa che una volta fuori da questa emergenza, i miei passi prenderanno un’altra direzione.
Questo virus danneggia i polmoni, uccide le persone, anche quelle che amiamo; sta mettendo in ginocchio l’economia mondiale, ma ci ha anche fatto capire che dobbiamo guardare il mondo con occhi diversi, che solo uniti possiamo ottenere dei risultati, che dobbiamo salvaguardare il nostro pianeta, che dobbiamo aiutarci l’un l’altro, perché essere più umani non vuol dire essere deboli, e forse, da tutto questo, il nostro cuore uscirà rinnovato.
Che cosa vi viene in mente se vi dico la parola dettagli?
La prima cosa che è venuta in mente a me è una pietanza cui sono state aggiunte delle spezie o una particolare decorazione, ad esempio, una piccola foglia di menta posta a scopo estetico su un piatto ricercato.
Quante volte mangiando qualcosa avete avvertito nel sapore una nota singolare?
Un dettaglio, appunto! Nel caso specifico, magari del peperoncino o una particolare spezia che rende il sapore di quel piatto unico.
Quindi, ricapitoliamo: che cos’è un dettaglio?
Ora, la risposta può essere: un elemento che rende particolare qualcosa; un elemento che rende unico un oggetto, un edificio, un piatto di un grande chef.
Un altro esempio interessante di cosa sono dei dettagli potete scoprirlo osservando la vostra città.
Avete mai osservato gli edifici accanto cui passate ogni giorno?
Non intendo un’occhiata e via – che al massimo coglie il colore e il materiale di cui è fatto un palazzo oppure una sagoma al limitare del campo visivo.
No, io parlo proprio di un’osservazione acuta, approfondita, magari attraverso l’ottica di una macchina fotografica, che vi consenta di vedere quello che sfugge all’occhio.
Vi assicuro che scoprirete un’infinità di cose che neppure sospettavate e tornerete a casa stupiti di quanto possa essere affascinante la vostra città; sorprendente e speciale, proprio come quel sapore che avete sentito in bocca, assaggiando quella particolare pietanza, di cui, magari, siete riusciti a individuare e classificare quel dettaglio che fa la differenza.
I dettagli sono importanti, non vanno mai trascurati, anzi, vanno corteggiati e studiati a fondo; anche quando si scrive, perché i dettagli sono il “sale della terra” e la “luce del mondo” (Vangelo, Mt 5,13-16); non dimenticatelo.
Se è vero quello che diceva la mia insegnante di danza sui finali, allora, noi scrittori, e non solo noi, dobbiamo essere molto accorti.
Lei sosteneva che gli spettatori ricordano maggiormente le ultime cose viste, quindi, errori nel finale avrebbero compromesso tutto il lavoro precedente, insomma, l’intero saggio di danza.
Poche sere fa ho rivisto il finale di un film che mi era piaciuto e mi aveva divertito molto e mi sono resa conto che sì, la mia insegnante di danza aveva ragione.
Il film che ha contribuito a convincermi era “Mr. Crocodile Dundee“.
Il finale della divertente e avventurosa storia d’amore in questione ha la giusta dose di tensione.
Lui sta per andarsene, lei lo insegue: ha saputo che intende lasciare New York e non vuole perderlo.
Dopo l’inseguimento, lei lo raggiunge in un’affollatissima metropolitana, lo vede, ma sono separati da tutte le persone stipate in attesa dei treni.
Due provvidenziali estranei (la gentilezza degli estranei è sempre gradita nei film) consentono ai due di parlarsi, grazie a una specie di telefono senza fili, e lui, ovvio, non se ne va più. Immagino conosciate il resto.
Non intendo fermarmi qui nel resoconto di finali altrettanto memorabili.
Chi non ricorda il finale di “Dirty Dancing“?
Lui che dice: “Nessuno può mettere Baby in un angolo” e poi, dopo aver afferrato la sua ragazza e consumate le poche battute di rito, c’è l’accattivante ballo finale.
E “Il laureato“?
Che cosa mi dite della fuga dall’altare, la lotta con i genitori e i parenti inferociti, la corsa, il balzo sul provvidenziale autobus di passaggio e poi la risata liberatoria e lo sguardo scambiato tra i due fuggitivi e i passeggeri del mezzo pubblico sbalorditi?
Non credo di dover continuare per dimostrare che il finale, che si tratti di quello di una serie di numeri di danza o di un film o appunto di un libro (era qui che volevo arrivare), è fondamentale.
La chiusura è un sigillo magico, è ciò che resta per ultimo nel cuore di chi assiste a uno spettacolo o legge un libro e per questo deve essere della lunghezza giusta: non troppo breve, come se si avesse fretta di liquidare la storia, e neppure troppo lungo da far desiderare di anticipare l’ultima riga o l’ultima immagine.
Il finale deve avere la giusta lunghezza, ogni storia ha la sua.
Deve riassumere ciò che si è visto, spiegare ogni cosa se ce n’è bisogno e se poi, c’è anche il giusto crescendo e il tanto atteso climax è anche meglio.
Non importa se lo spettatore o il lettore si prefigura già come andrà a finire la storia: l’importante è come lo si conduce fino alla parola fine.
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