L’amore è un sentimento complicato, fatto di luci e ombre, come ci hanno fatto comprendere chiaramente Cecilia Cozzi e Martina Giordani con le loro interpretazioni differenti, ma entrambe illuminanti.
Sono arrivata con un discreto anticipo all’appuntamento con Sapere d’estate: “Amore: una sinfonia di luci (e ombre)” che si è svolto ieri, 11 agosto, in piazza del Municipio a Falconara. Ho potuto così assistere agli ultimi ritocchi prima di “andare in scena”, mentre una leggera brezza rendeva ancora più piacevole l’attesa.
Le due mattatrici dello spettacolo sono state: Cecilia Cozzi, in veste di relatrice e Martina Giordani, nel ruolo di pianista. Entrambe sono riuscite nell’intento di incantare e intrattenere il pubblico attento e partecipe. Piacevoli, interessanti e gestite con grande maestria le parole; superbe ed ispirate le esecuzioni di brani piuttosto impegnativi di Schubert, Liszt, Chopin, Rossini e Grieg.
L’amore è stato l’argomento principe della serata, come appunto, già annunciava il titolo dell’evento. Amore che è stato analizzato in tutte le sue declinazioni, passando dagli aspetti più luminosi di questo universale sentimento a quelli più “ombrosi”.
L’analisi si è compiuta attraverso un originale excursus tra i testi degli antichi Greci. Cecilia Cozzi ha letto e commentato versi, aggiungendo al già felice mix una buona dose di argute osservazioni che hanno evidenziato come gli atteggiamenti nei confronti dell’amore, dall’antichità fino a oggi, non abbiano subito sostanziali cambiamenti. Nei versi dei poeti dell’antichità, anche se le espressioni e le parole sono spesso diverse dalle nostre, si è denotato lo stesso ventaglio di emozioni che anche noi oggi sperimentiamo quotidianamente: delusione e rabbia per un amore non corrisposto; gelosia; gioco e leggerezza; tenerezza, ecc.
Anche la musica ha dato la sua personale visione dell’amore, attraverso il percorso sonoro affrontato al pianoforte da Martina Giordani che ci ha consentito di esplorare altre recondite sfumature di questo meraviglio e complicato sentimento.
Le spiegazioni fornite per ogni brano, nonché la notevole bravura esecutiva e interpretativa della pianista sono state il completamento perfetto di una serata magnifica, certamente da ripetere.
Nella magnifica cornice della terrazza del museo archeologico di Ancona, ieri sera, 26 luglio, un pubblico attento e nutrito ha assistito a un bellissimo concerto per contrabbasso solo.
Volevo ascoltare questo concerto non appena ho visto la locandina che lo pubblicizzava. Già l’immagine scelta per promuoverlo mi aveva colpito e al contempo, ero estremamente curiosa di assistere a un’esecuzione che abbinava uno strumento come il contrabbasso (che io ho trovato sempre intrigante) e un’esecutrice femminile.
Ero anche incuriosita dall’idea di ascoltare un concerto dall’inizio alla fine eseguito su uno strumento così particolare che, solitamente, non occupa un posto di primo piano, nonostante io abbia sempre ritenuto il contrabbasso uno strumento estremamente affascinante, sia nella musica classica sia nel jazz.
A volte, un po’ relegato in ruoli di secondo piano, immeritatamente, perché, la “voce” del contrabbasso è così particolare, e la sua stessa presenza fisica, a parer mio, ne fanno un personaggio di primo piano, un protagonista.
Per quanto riguarda la solista che si è esibita ieri sera ad Ancona, non sono di certo rimasta delusa. Valentina Ciardelli ha conquistato tutti con la sua bravura e la sua simpatia. Certamente, decidere di affrontare un pubblico da sola con uno strumento come il contrabbasso è un atto coraggioso, perché non siamo abituati a isolare la sonorità di questo strumento da quella degli altri elementi di un’orchestra o magari di un gruppo jazz, tranne che per brevi momenti di assolo, inclusi però in una composizione più ampia, dove il contrabbasso è solo uno dei tanti personaggi di un brano musicale.
Coraggioso e anche difficile il ruolo che si è ritagliata Valentina Ciardelli che ha fatto centro anche sulla scelta dei brani: un percorso variegato, dove ha brillato non solo la sua capacità interpretativa, ma anche la sua abilità di trascrittrice.
Espressiva in ogni passaggio, non solo musicalmente: le espressioni del suo volto e i gesti mostravano un grande coinvolgimento che è arrivato dritto anche al pubblico presente.
Personalmente, ho apprezzato moltissimo il brano di Emil Tabakov “Motivy”, ma anche il resto del programma non era da meno.
Sono perfettamente d’accordo poi, con le parole della Ciardelli che ad apertura concerto ha affermato che la cultura va preservata, perché è una parte importante della nostra vita, un segno distintivo dell’essere umano e per questo, deve essere coltivata e ancor più divulgata senza sosta, se non vogliamo perdere una parte fondamentale della nostra umanità.
“Nuper rosarum flores” è un brano musicale composto da Guillaume Dufay in occasione di una celebrazione fiorentina: la consacrazione della chiesa di Santa Maria del Fiore.
Chi non conosce la cupola di Brunelleschi, ma quanti sanno che un mottetto fu scritto appositamente da un musicista franco-fiammingo, Guillaume Dufay, per essere cantato durante la cerimonia della consacrazione della celebre cattedrale di Firenze?
Il mio ultimo soggiorno a Firenze risale a poco prima che esplodesse l’epidemia di covid. Ci sono un’infinità di luoghi interessanti e meravigliosi da visitare a Firenze, ma una delle cose più preziose da ammirare in città è la cupola di Santa Maria del Fiore. Impossibile non restare affascinati da una struttura così straordinaria.
Ai tempi della mia tesi di laurea, ho scoperto la relazione esistente tra questa grandiosa opera architettonica e una composizione musicale altrettanto pregevole. Si tratta di “Nuper rosarum flores” (Ecco fiori di rosa) di Guillaume Dufay (1397 ca. – 1474; compositore e teorico musicale franco-fiammingo, figura di rilievo della scuola di Borgogna e tra i più noti compositori europei della metà del Quattrocento. La sua opera ha dato inizio al periodo rinascimentale in musica), un mottetto isoritmico (isoritmia: ripetizione di una figura ritmica – successione di valori di durata delle note – nelle diverse frasi di una composizione musicale) composto nel 1436, che fa riferimento al nome e allo stemma di Firenze, e alla dedica della basilica a Santa Maria del Fiore.
“Nuper rosarum flores” fu scritto da Dufay in occasione della cerimonia per la consacrazione della cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, quando finalmente, la cupola edificata dall’architetto e scultore Filippo Brunelleschi (1377-1446) fu portata a compimento. Per rendere l’idea del fasto e della solennità della cerimonia basterà dire che il rito della dedicazione fu officiato da Papa Eugenio IV in persona, il 25 marzo del 1436.
I mottetti celebrativi come quello di Dufay erano una consuetudine per quell’epoca, si trattava di brani destinati a dare veste sonora a importanti eventi della vita pubblica. Inoltre, il musicista franco-fiammingo è riuscito in questa composizione a coniugare l’antico stile isoritmico con il nuovo stile contrappuntistico che fu sviluppato nel decennio successivo da lui stesso e dai suoi successori.
Possiamo solo immaginare l’effetto che produsse il prodigioso brano musicale in coloro che furono presenti, possiamo però farcene un’idea, leggendo le testimonianze scritte che sono rimaste di quei memorabili festeggiamenti. In particolare, è interessante la descrizione fornita da Giannozzo Manetti (1396-1459; scrittore, filologo e umanista italiano, importante esponente del primissimo Rinascimento letterario), uno dei pochi testi umanistici che descrivono, anche se in modo generico, una esecuzione di musica polifonica.
“Si udirono cantare voci così numerose e così varie, e tali sinfonie s’elevarono verso il cielo, che si sarebbe creduto di sentire un concerto d’angeli […] Quando il canto cessava […] si sentivano suonare gli strumenti in maniera […] allegra e soave […] Al momento dell’elevazione la basilica tutta intera risuonò di sinfonie così armoniose, accompagnate dal suono di diversi strumenti, che si sarebbe detto che il suono e il canto del paradiso fossero scesi dal cielo sulla terra” (Giannozzo Manetti, “Oratio de secularibus et pontificalibus pompis in consecratione basilicae florentinae”, 1436).
Nuper rosarum flores è una composizione simbolica, essa rappresenta, più di qualunque altro esempio del genere, la tendenza quattrocentesca, ereditata dal Medioevo, di strutturare una composizione musicale sulla base di rapporti di grandezza stabiliti matematicamente.
La singolarità del brano di Dufay, però, si spinge oltre le semplici cifre matematiche. Il musicologo Charles Warren, in un suo articolo del 1973, sostenne che le strutture proporzionali del mottetto fossero collegate alle proporzioni della cupola di Brunelleschi. In realtà, questa tesi si rivelò errata: Craig Wright dimostrò, successivamente, che le proporzioni impiegate dal musicista, probabilmente, derivavano dalle indicazioni bibliche relative alle misure del tempio di Salomone. Le indagini in questo senso non si arrestarono: la possibilità di un rapporto diretto tra le proporzioni del mottetto e quelle della costruzione di Brunelleschi si ripresentarono e furono ampliate, includendo persino la simbologia legata all’Apocalisse.
Nuper rosarum flores è un mottetto a quattro voci: due tenores, motetus e triplum. La struttura del brano poggia su un cantus firmus (canto fermo, melodia eseguita da una voce – tenor – nell’arco della composizione; base su cui si sviluppava il gioco contrappuntistico delle altre voci) la cui melodia era tratta dal repertorio liturgico, nel caso specifico era l’incipit dell’introito dalla messa per la dedicazione di una chiesa: “Terribilis est locus iste” (Questo luogo incute rispetto). Tenor I e II (strumentali) eseguono la melodia con note lunghe e ritmicamente sfalsata, a distanza di una quinta l’uno dall’altro.
Il mottetto è diviso in quattro parti; in ognuna compare il cantus firmus che però è variato ritmicamente nelle sue quattro riproposizioni da parte dei due tenores. Le altre due voci: triplum e motetus intonano una lirica latina, iniziano ciascuna sezione da soli e tali restano per 28 brevi (breve: valore musicale di durata doppia dell’intero; è raffigurata come una testa rettangolare vuota o, più recentemente, come una testa ovale vuota tra due barre laterali), poi alle loro voci si uniscono i due tenores, per la durata di altre 28 brevi. Ogni sezione è formata da due segmenti (28+28 brevi), il primo è eseguito a due voci, il secondo a quattro.
Osservando esclusivamente la notazione del mottetto di Dufay si rilevano dimensioni identiche (56 brevi), ma il metro nella composizione è variato, per cui la durata autentica di note e pause non è la stessa. Considerando il numero di tactus (unità di misura del tempo e relativa figura di nota; nella musica rinascimentale, di solito, corrispondeva al battito medio del polso umano che era il punto di riferimento per stabilire il valore assoluto di durata di tutte le figure musicali della notazione) si ricavano quattro numeri dalle corrispondenti sezioni: 168, 112, 56, 84. Riducendo a i minimi termini questi numeri e affiancando a essi altre cifre – ricavate dai loro prodotti e dai divisori usati per semplificare i quattro numeri delle sezioni – si ottengono altre serie, tra cui compare il numero 7 che emerge anche dal testo (quello in latino cantato da motetus e triplum è composto da 4 strofe di 7 versi e ogni strofa possiede versi di 7 sillabe).
I numeri ottenuti rientrano nel panorama della metafisica medievale e umanistica che riteneva che la struttura del cosmo e dell’uomo fossero regolati da rapporti matematici. Il mottetto di Dufay non fa difetto a tale regola: l’esistenza di rapporti proporzionali tra le dimensioni delle sezioni e la presenza frequente di certi valori numerici nella struttura interna di Nuper rosarum flores rientrava nella consuetudine di ricreare l’ordine cosmico, anche all’interno di creazioni musicali, come in qualsiasi altra realizzazione umana. Inoltre, in Nuper rosarum flores sono presenti numeri con un significato simbolico, oltre ai riferimenti biblici al tempio di Salomone (le cifre 6, 4, 2 e 3 rimandano alle proporzioni secondo cui, stando all’antico testamento, era stato edificato il tempio) c’è anche un richiamo esplicito alla Vergine, attraverso il numero 7 che nel simbolismo medievale era a lei tradizionalmente collegato (sette dolori di Maria, sette gioie, sette opere di misericordia, sette anni di esilio trascorsi in Egitto, ecc.)
Se il mottetto Nuper rosarum flores di Dufay è un capolavoro sonoro che ha travalicato i secoli, la cupola di Brunelleschi non è certo da meno: è una realizzazione architettonica grandiosa che tuttora suscita ammirazione e stupore (ne parleremo in un prossimo post).
Testo e traduzione del mottetto
Nuper rosarum flores Ex dono pontificis Hieme licet horrida Tibi, virgo coelica, Pie et sancte deditum Grandis templum machinae Condecorarunt perpetim.
Hodie vicarius Jesu Christi et Petri Successor Eugenius Hoc idem amplissimum Sacris templum manibus Sanctisque liquoribus Consecrare dignatus est.
Igitur, alma parens Nati tui et filia Virgo decus virginum, Tuus te Florentiae Devotus orat populus, Ut qui mente et corpore Mundo quicquam exorarit
Oratione tua Cruciatus et meritis Tui secundum carnem Nati Domini sui Grata beneficia Veniamque reatum Accipere mereatur. Amen
Recentemente fiori di rose, come dono del pontefice, – nonostante il terribile inverno – hanno ornato questo tempio di eccezionale costruzione dedicato devotamente e solennemente a te, vergine del cielo.
Oggi il vicario di Gesù Cristo e il successore di Pietro, Eugenio, si è degnato di consacrare questo grandissimo tempio con le sue sante mani e con i sacri oli.
Ora, benevola madre e figlia di tuo figlio, vergine e decoro di tutte le vergini, il tuo devoto popolo di Firenze prega che chiunque abbia richiesto qualcosa con una mente e un corpo sani
sia degno di ottenere con la tua preghiera e per i meriti di tuo figlio nella sua sofferenza carnale i graditi doni del Signore e il perdono dei peccati. Amen
In copertina: Guillaume Dufay e Gilles Binchois (a destra). Miniatura tratta da Martin Le Franc, “Champion des dames” (Arras 1451), collezione BnF, ms. en 12476, foglio 98.
Stille Nacht o Silent Night o Astro del Ciel è considerata la canzone simbolo del Natale. Originaria dell’Austria è arrivata in tutto il mondo e quando le sue note risuonano nell’aria, cantate da un solista o da un coro, si sente nell’aria la festa. Si sente che è arrivato Natale.
Stille Nacht, heilige Nacht è uno fra i più famosi canti di Natale al mondo: conta traduzioni in più di 300 lingue e dialetti. Per conoscere la sua storia bisogna risalire al 1816, quando Joseph Mohr (1792-1848), prete salisburghese, all’epoca assistente parrocchiale nella chiesa di Mariapfarr (Lungau, regione di Salisburgo), mise per iscritto le parole di questa commovente canzone, in attesa di trovare chi fosse in grado di musicarle.
Devono trascorrere due anni prima che si verifichi il felice incontro tra testo e musica. Il compositore che rivestì di note il testo di Mohr fu Franz Xaver Gruber (1787-1863), maestro elementare ad Arnsdorf e organista a Oberndorf, il quale compose di getto la musica per questa canzone.
Nel 1816, ancora priva di musica, Stille Nacht fu semplicemente recitata. Mohr aveva scritto quelle parole ispirate per dare conforto e un barlume di speranza alla popolazione, provata dalle recenti guerre napoleoniche e dalla miseria che ne era derivata. Finalmente, nel 1818, il giorno della vigilia di Natale, i versi di Stille Nacht furono anche cantati.
Fu lo stesso Mohr a chiedere a Gruber di mettere in musica le sue parole, per due voci soliste, coro e chitarra. Ciò avvenne il 24 dicembre del 1818, la partitura fu stesa rapidamente e il paroliere la approvò immediatamente. Sembra che la richiesta di questa composizione fosse avanzata al musicista in quanto l’organo della chiesa di San Nicola era guasto e impossibile da sistemare in breve tempo, questo fatto giustificava anche la scelta della chitarra come accompagnamento.
Quindi, la prima esecuzione pubblica in assoluto di Stille Nacht ebbe luogo la notte del 24 dicembre 1818, durante la Messa di Natale, nella chiesa di San Nicola a Oberndorf, presso Salisburgo. La canzone natalizia fu suonata e cantata dai due autori: Mohr cantò la parte del tenore, mentre suonava la chitarra; Gruber eseguì la parte del basso.
Musica e testo furono raccolti da un fabbricante di organi della Zillertal (la maggiore tra le valli laterali della Inntal, nel Tirolo austriaco), Karl Mauracher (1789-1844), che li portò con sé in Tirolo, dove si diffusero rapidamente. Tutti gli anni, dalla regione dello Zillertal, molte persone si spostavano per vendere nei paesi vicini i prodotti dell’artigianato locale e da quel momento, fecero viaggiare anche la musica e le parole di Stille Nacht. In particolare, due famiglie, Strasser e Rainer, diffusero la melodia di Gruber in tutta Europa e poi, nel mondo.
Attualmente, è una delle più celebri canzoni natalizie: più di due miliardi persone la conoscono. Nel 2018, anno cui ricorreva il bicentenario della nascita di Stille Nacht, in Austria sono stati programmati una serie di eventi: una mostra regionale che coinvolgeva 13 località (collegate ai luoghi dove presero vita i versi e dove fu scritta la musica, ma anche dove insegnò Gruber, dove morì e fu sepolto); l’inaugurazione di alcuni musei dedicati al canto; un musical, in lingua inglese composto da John Cardon Debney (1956; compositore e direttore d’orchestra statunitense).
La versione italiana di Stille Nacht è Astro del ciel, pur in una veste diversa, questa emozionante canzone non manca mai di risuonare durante le feste natalizie e di commuovere il pubblico, dovunque sia eseguita, nei luoghi di culto ma anche nelle sale concerto durante il periodo natalizio. Il testo italiano non è una traduzione di quello tedesco, ma è originale, scritto dal prete bergamasco, Angelo Meli (1901-1970).
Testo originale in tedesco
Stille Nacht! Heilige Nacht! Alles schläft; einsam wacht Nur das traute hochheilige Paar. Holder Knab´ im lockigen Haar, Schlafe in himmlischer Ruh! Schlafe in himmlischer Ruh!
Stille Nacht! Heilige Nacht! Gottes Sohn! O wie lacht Lieb´ aus deinem göttlichen Mund, Da uns schlägt die rettende Stund´, Jesus in deiner Geburt! Jesus in deiner Geburt!
Stille Nacht! Heilige Nacht! Die der Welt Heil gebracht, Aus des Himmels goldenen Höhn Uns der Gnaden Fülle läßt seh´n Jesum in Menschengestalt, Jesum in Menschengestalt
Stille Nacht! Heilige Nacht! Wo sich heut’ alle Macht Väterlicher Liebe ergoss Und als Bruder huldvoll umschloss Jesus die Völker der Welt, Jesus die Völker der Welt. Stille Nacht! Heilige Nacht! Lange schon uns bedacht, Als der Herr vom Grimme befreit, In der Väter urgrauer Zeit Aller Welt Schonung verhieß, Aller Welt Schonung verhieß.
Stille Nacht! Heilige Nacht! Hirten erst kundgemacht Durch der Engel Alleluja. Tönt es laut bei Ferne und Nah: Jesus, der Retter ist da! Jesus, der Retter ist da!
Auguri a tutti voi di cuore, che il Natale vi porti gioia e tanta serenità. Buon ascolto!
“I Buddenbrook” è il primo romanzo di Thomas Mann, dove l’autore segue le vicende di una famiglia per ben quattro generazioni. L’opera è una sorta di complessa partitura musicale, dove i personaggi sono gli strumenti. Nella parte finale, lo scrittore, attraverso l’improvvisazione al pianoforte di Hanno, ci fa assaporare in modo concreto la sua grande musica fatta di parole.
Paul Thomas Mann, più conosciuto come Thomas Mann (Lubecca, 6 giugno 1875 – Zurigo, 12 agosto 1955), è stato uno scrittore e saggista tedesco. All’inizio, la sua vita professionale sembra essere orientata verso il settore commerciale, ma la scrittura è una forte tentazione, tanto che ben presto finirà per dedicarsi solo alla letteratura. La sua affermazione come scrittore avviene nel primo dopoguerra e, passando di successo in successo, Mann finirà per diventare il massimo rappresentante della letteratura tedesca e nel 1929, vincerà persino il Premio Nobel.
Una delle opere più famose di Thomas Mann è il romanzo, “I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia”, pubblicato nel 1901, è il primo romanzo dello scrittore tedesco. Nel libro è narrata la progressiva rovina di una famiglia benestante della borghesia mercantile di Lubecca. E la vicenda che si svolge tra il 1835 e il 1877, abbraccia ben quattro generazioni.
Per costruire il complesso intreccio de “I Buddenbrook”, Mann si ispirò alla sua storia familiare e, al contempo, si profuse in letture e studi di opere simili alla sua, che trattavano saghe familiari, ad esempio, Il ciclo de “I Rougon-Macquart” di Émile Zola; le opere di Jonas Lie e Alexander Kielland, che trattavano vicende di famiglie di estrazione borghese. Inoltre, furono di ispirazione anche i libri dei fratelli Jules e Edmond de Goncourt e quelli di Paul Bourget.
Mann consegnò il manoscritto de “I Buddenbrook” il 15 agosto 1900 all’editore Fischer, che lo considerò di lunghezza eccessiva. La prima edizione del romanzo, uscì nell’agosto del 1901. Il successo dell’opera arrivò più tardi, con la stampa di un’edizione economica che a Lubecca letteralmente spopolò: c’era una forte curiosità, per il fatto che il figlio di un senatore aveva messo in piazza la vita della sua famiglia.
Le novità che Mann introduce con questo romanzo sono: la scrupolosa ricostruzione sociale e il minuzioso approfondimento delle componenti psicologiche dei personaggi. La storia si dipana in un lungo arco di tempo e, ovviamente, non c’è un solo protagonista. Lo scrittore si sofferma sui vari componenti della famiglia, spostandosi di generazione in generazione, prestando particolare attenzione ad alcuni più che ad altri.
La parte finale de “I Buddenbrook” è ad esempio dedicata quasi completamente ad Hanno, l’ultimo erede maschio della famiglia. Hanno ha un carattere sensibile, è timido e fragile, tutto l’opposto dell’erede che avrebbe voluto avere suo padre, Thomas Buddenbrook, che considera la spiccata sensibilità dell’animo di suo figlio, una debolezza che si aggiunge a quella fisica.
Uno dei pochi svaghi che Hanno si concede è la musica, suonando il pianoforte di casa. La musica consente al ragazzo di essere se stesso, di esprimere i più profondi moti del suo animo, soprattutto, quando si concede delle improvvisazioni alla tastiera.
Se il padre cerca inutilmente di instradarlo verso il mondo degli affari, senza riuscirvi, questo tentativo, destinato all’insuccesso, non rappresenta nell’economia del romanzo una sconfitta, bensì una vittoria: perché Hanno segue la sua passione artistica e non si sacrifica alla volontà della famiglia. Questo personaggio è riuscito a raggiungere, a differenza degli altri, una dimensione più alta della vita.
Anche per Thomas Mann la musica aveva una notevole importanza e lo si percepisce dalla cura con cui descrive il monologo sonoro improvvisato da Hanno al pianoforte. Il ragazzo rimasto solo nel salone dà liberamente sfogo alla sua interiorità e lo scrittore delinea con grande precisione ogni passaggio, dal comparire di una melodia, un tema di breve respiro che si evolve in variazioni sempre nuove, mentre il ritmo incalza. Seguendo le parole dello scrittore, possiamo quasi udire la musica prendere vita, dipanarsi dalle mani di Hanno.
Se nei primi due terzi del romanzo la musica ha un ruolo secondario, nell’ultimo terzo de “I Buddenbrook”, il soggetto musicale diventa centrale e addirittura fondamentale per gli sviluppi e per la conclusione della storia.
Liste, elenchi, cataloghi possono essere espedienti mnemonici della quotidianità o assurgere ad alte vette letterarie e musicali. Un esempio famoso: l’aria del catalogo di Mozart.
Se pensiamo alla parola “lista”, è facile associarla a quel prezioso foglietto che ci fa da bussola tra gli scaffali del supermercato. Ma le liste possono essere ben altro, specie se contenute in opere letterarie, come ad esempio in un libro di Sciascia che usa una lista piuttosto farcita, per descrivere l’arredamento di una casa e darci al contempo l’idea di un affastellamento di cose.
Un massiccio tavolo di rovere e quattro credenze, dello stesso legno, con dentro piatti, zuppiere, bicchieri e cuccume; ma anche vecchi giocattoli, carte, biancheria. […] Mozziconi di sigarette erano nei portacenere, e fondi di vino nei bicchieri, cinque, che erano stati portati in cucina certo con l’intenzione di sciacquarli. […] focolari a legna, forno, mattonelle valenziane murate intorno; pentole di rame e tegami appesi alle pareti (Leonardo Sciascia, “Una storia semplice”, Piccola biblioteca Adelphi).
Le liste possono anche fornirci un valido aiuto, specie quando si tratta di mostrare carrellate di elementi, inoltre, certi esempi artistici contengono una buona dose di ironia e sono creati per divertire, con la loro tendenza all’esagerazione, all’eccesso e alla dismisura.
Tra le liste assurte a stereotipo, specie nell’ambito musicale, troviamo l’aria del catalogo: uno degli ingredienti più antichi dell’opera buffa, di cui abbiamo molti assaggi nella commedia dell’arte e più tardi nelle opere liriche. Una famosa aria del catalogo è quella per basso: Madamina, il catalogo è questo di Wolfgang Amadeus Mozart, su libretto di Lorenzo Da Ponte, tratta dall’opera buffa Don Giovanni.
Mentre il cantante, Leporello – servo di Don Giovanni – esegue l’aria, mostra anche fisicamente il catalogo a Donna Elvira – una delle tante donne sedotte e abbandonate dal suo padrone – sotto forma di libro o di lungo papiro. Il mezzo fisico era indispensabile, almeno per gli attori della commedia dell’arte che ne facevano largo uso, per aiutare la memoria.
Carlo Goldoni ha utilizzato in molte sue commedie l’espediente istrionico delle liste: L’Arcadia in Brenta (1749); l’aria-catalogo nel Viaggiatore ridicolo (1761), qui lo stereotipo delle elencazione diventa un efficace veicolo di comicità.
L’aria del Catalogo mozartiana consiste nell’elencazione e descrizione di tutte le conquiste di Don Giovanni, snocciolate da Leporello a una sconvolta Donna Elvira ed è collocata nel primo atto dell’opera, (scena V). Dopo una breve presentazione del “Catalogo”, Leporello si lancia in una serie sfrenata di liste:
In Italia seicentoquaranta; In Alemagna duecento e trentuna; Cento in Francia, in Turchia novantuna; Ma in Ispagna son già mille e tre.
Dal conteggio, associato ai luoghi delle conquiste, il servo di Don Giovanni si sposta all’estrazione sociale delle vittime:
V’han fra queste contadine, Cameriere, cittadine, V’han contesse, baronesse, Marchesane, principesse. E v’han donne d’ogni grado, D’ogni forma, d’ogni età.
Poi, Leporello si sofferma sulle caratteristiche fisiche e caratteriali delle donne del suo padrone, senza mai abbandonare l’espediente della lista:
Nella bionda egli ha l’usanza Di lodar la gentilezza, Nella bruna la costanza, Nella bianca la dolcezza.
Vuol d’inverno la grassotta, Vuol d’estate la magrotta; È la grande maestosa, La piccina è ognor vezzosa.
La scena del catalogo mozartiano non è una novità: era già presente in diverse versioni della storia dell’impenitente seduttore, come ad esempio: Il convitato di pietra di Andrea Cicognini; Don Giovanni, o sia Il convitato di pietra, di Giuseppe Gazzaniga (libretto di Giovanni Bertati).
Esistono molti altri esempi letterari/musicali di liste ben riuscite: Il campanello di Gaetano Donizetti; l’aria delle medaglie (Viaggio a Reims), di Gioachino Rossini (libretto di Luigi Balocchi); Udite, udite, o rustici dell’elisir d’amore (L’elisir d’amore) di Donizetti (libretto di Felice Romani).
Gli elementi delle liste differiscono, ma lo scopo è lo stesso: l’elenco deve stupire e divertire, anche se nel caso del Don Giovanni, la povera Donna Elvira ha ben poco di cui gioire, dopo aver ascoltato le frizzanti rime di Leporello.
Nel n. 3 di Confidenze potete trovare il mio racconto “Sogno Rock”.
Sarei molto felice se lo leggeste in tanti e mi auguro che la storia che ho raccontato possa, se non toccare il vostro cuore, almeno sfiorarlo per qualche istante e farvi dimenticare pensieri e preoccupazioni almeno per qualche momento.
Sto leggendo l’ennesimo libro sulla punteggiatura, mai stanca di approdare a nuovi lidi ritmici che riguardino frasi e e parole; e più leggo e più mi rendo conto che scrivere ha davvero molto a che fare con la musica.
Incantata, affascinata dai leggiadri segni di interpunzione, ogni giorno metto a punto la musica contenuta nella mia scrittura, seguendo il mio orecchio.
La musica è un punto di riferimento forte. Leggo e rileggo quando scrivo le frasi e le ascolto, mentre leggo ad alta voce con grande attenzione, le provo, sondo la loro musicalità, finché non suonano perfette, fin quando il loro accordo è simile a una melodia orecchiabile e godibile.
A volte, amo le asperità, le punte aguzze di certi termini che si assiepano sulla carta e spiccano, creando strane atmosfere, per poi sciogliersi in parole più morbide e sinuose.
Cerco la polifonia nella pagina, la inseguo come un miraggio, tra verbi, soggetti e complementi.
Punti e virgola decisi, due punti sussiegosi e virgole sconnesse sono le mie pause musicali, gli abbellimenti tra le parole.
Ogni frase è una sfida, un duello tra cervello, cuore e immaginazione. L’arco melodico di una battuta ha bisogno di parole connesse tra loro, di suoni che s’accordano o vanno in contrasto, ma che comunque siano accolti dall’orecchio, da lui approvati, adorati o assolutamente inaspettati.
Nella maratona inesausta delle mie letture, oltre a scegliere il genere, mi lascio guidare dal ritmo dell’autore che mi aiuta anche nel mestiere di scrivere.
Ogni storia ha il suo ritmo. Credo sia utile per ognuno di noi scegliere quello che ci è più congeniale. Di solito, quando le mie letture hanno il ritmo giusto riesco a scrivere diverse pagine nello stesso giorno; le parole escono senza fatica, rallentate solo dalla capacità delle mie mani di stare dietro ai miei pensieri.
Questo accade perché la musica ha sempre avuto una parte da protagonista nella mia vita. Anche quando apparentemente credevo di averla accantonata, la musica è sempre tornata alla ribalta nella mia vita, nei più svariati modi. Sono convinta che la musica influenzi profondamente il mio modo di scrivere: anche quando non viene citata esplicitamente, è comunque presente, in altre forme, ad esempio, nel ritmo delle parole o nella scelta dei termini.
Leggo e rileggo spesso quello che ho già scritto, prima di procedere con la scrittura, e scelgo le parole anche per il loro suono, oltre che per il loro senso all’interno di una frase e rileggo sempre ad alta voce, per valutare se all’orecchio suona tutto nel modo giusto.
I miei libri sono diventati il mio strumento personale e io premo tasti, pizzico corde o intono note, ogni volta che scrivo.
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