Scrivere è un mestiere complesso.
Si devono raccogliere più dati possibili dal mondo circostante e tenere in serbo ogni pensiero per un loro eventuale uso futuro.
Dettagli colti dalla natura e dalle persone sono valori inestimabili, terreno fertile da cui ricavare storie, ma c’è anche l’altro lato della medaglia: in questo vasto mare, bisogna saper scegliere.
Perché al di là della capacità di osservare, qualità indispensabile per chi scrive, è anche necessario saper filtrare quanto arriva dal mondo esterno per giungere all’accuratezza estrema, altro requisito indispensabile di una buona scrittura.
Prima di tutto, si screma il materiale quotidiano che ci arriva attraverso i sensi, poi si costruisce una storia, valutando i percorsi, le svolte e l’andamento generale. Poi si revisiona con cura il materiale, più e più volte, tagliando e affinando le frasi e vagliando con puntigliosità i termini con cui esprimersi, per lasciare alla fine, solo quelli esatti, quelli che possano comunicare con precisione il nostro messaggio al lettore, comprese le sfumature che ogni frase, parola e persino ogni segno di punteggiatura portano con sé.
Per un periodo ho studiato canto e ricordo ancora un consiglio che la mia insegnante mi ripeteva sulla posizione dei suoni.
Diceva che più si sale verso l’acuto e più la voce, idealmente, dovrebbe uscire da un punto posto sulla fronte, un punto piccolissimo: una punta di spillo, per intenderci, e più si riesce a indirizzare il suono verso questo “punto immaginario di sfogo”, più il suono sarà giusto, alto, in maschera.
La voce è essenzialmente un’entità invisibile all’interno del corpo e sono necessari punti di riferimento concreti per orientarsi e districarsi, anche se di concreto hanno solo il fatto di servire al cervello come spunto per controllare i suoni e veicolarli attraverso l’apparato vocale (corde vocali e tutto il resto) nel modo migliore possibile.
Perché questo esempio?
Perché oggi, pensando all’accuratezza indispensabile per scrivere in modo corretto, mi sono figurata come traguardo, quello stesso punto minuscolo e invisibile dal quale dovrebbero passare pensieri, sensazioni e dati per diventare una storia. Quello spazio ristretto non è altro che un filtro attraverso il quale andranno scremati anche i termini che utilizziamo per esprimerci, al fine di individuare la parola giusta, quella che definisce con estrema esattezza quello che vogliamo dire.
Riprendendo l’esempio del canto, è concentrare il suono in quel punto immaginario di spilla per ottenere il risultato perfetto o quasi.
Scrivere, a conti fatti, non è che l’estremo tentativo di far passare il cammello per la cruna dell’ago.