Ivan Kramskoj è un altro degli autori che ha rappresentato in diversi dipinti il tema della lettura. In questo specifico ritratto, “Lettura. Ritratto della moglie dell’artista”, il pittore ha raffigurato sua moglie, Sofia Kramskaya, immersa nella lettura di un libro.
“Lettura. Ritratto della moglie dell’artista” è un dipinto del 1866, del pittore e critico d’arte russo, Ivan Nikolaevič Kramskoj (Ostrogožsk, 8 giugno 1837 – San Pietroburgo, 6 aprile 1887), che fu anche capo e organizzatore del gruppo di artisti aderenti al Tovariščestvo peredvižnych chudožestvennych vystavok (Società per le esposizioni d’arte ambulanti). Gruppo che sorse nel 1870 a Pietroburgo, in reazione all’accademismo ufficiale, con il programma di rivolgere l’arte a motivi veristici e farne mezzo di educazione ed elevazione sociale.
“Lettura” fa parte dei lavori della fase iniziale dell’attività artistica di Kramskoj, ma già in questa tela si possono individuare gran parte dei tratti che caratterizzeranno la sua produzione pittorica futura. Nel quadro possiamo ammirare un incantevole ritratto di donna che, seduta all’aperto, in un parco o in un giardino, sta leggendo un libro.
La donna del quadro è Sofia Kramskaya, consorte del pittore. I due coniugi ebbero un matrimonio felice e armonioso; Kramskoj nutriva per sua moglie un grande affetto e spesso la troviamo raffigurata nei suoi dipinti. In questo specifico ritratto, Sofia è seduta su una panchina di pietra, ha un’espressione seria; gli occhi sono bassi, rivolti verso un grande libro che tiene aperto, sostenuto dalla sua mano sinistra. Il braccio destro è appoggiato con grazia su un cornicione di pietra, sul cui lato anteriore si affacciano delle foglie di una pianta rampicante.
Sofia è ritratta in una posa libera: la mano destra sorregge la fronte, la testa è inclinata leggermente in avanti, la mano sinistra aperta è posata sul grembo. Gli abiti che indossa sono alla moda: uno scialle verde chiaro a strisce rosse (le avvolge morbidamente i fianchi e sporge da sotto il braccio, posato sul davanzale di pietra della panchina); una camicetta bianca con il colletto a balze; un’ampia gonna marrone.
I colori dei suoi vestiti sono chiari e brillanti, specie la camicia. Inoltre, una fonte di luce è concentrata sulla figura e la fa spiccare sullo sfondo scuro, dando la sensazione che Sofia sia avvolta in un alone luminoso, mentre un riverbero della luce investe anche il suo volto assorto nella lettura. Un ciondolo compare al centro della sua scollatura a V, mentre attorno alla vita indossa una fascia di colore scuro. Sul davanti della gonna è appoggiato un ombrello, mentre alle sue spalle, sulla sinistra del dipinto, intravediamo un cappello di paglia, a tesa larga, che presenta una fascia scura intorno alla base, dietro di esso sporgono le foglie di una pianta.
L’artista ha curato con precisione e realismo ogni dettaglio: i capelli scuri, lucidi e ricci composti in un’elegante acconciatura; la costosa spilla sul vestito; lo squisito scialle che è sceso dalle spalle. Il pittore ha utilizzato colori espliciti e ha giocato con luci e ombre che donano una nota di morbidezza all’intera figura, al fine di esaltarne la sensualità, nonché la tenerezza. È una scena intima, caratterizzata da una compostezza aristocratica e sembra quasi che la donna fosse ignara di essere oggetto delle attenzioni dell’artista.
Lo sfondo è fatto di alberi dalle foglie rosse e verdi; il sole sta tramontando e intravvediamo sulla sinistra del quadro uno scorcio del suo viaggio verso la notte, testimoniato dal cielo tinto di arancione.
In copertina: “Lettura. Ritratto della moglie dell’artista” (1866-1869) di Ivan Nikolaevič Kramskoj, olio su tela (dimensioni 56 x 64 cm), Tretyakov Gallery – Mosca, Russia
“La lettrice” è un dipinto di Jean-Honoré Fragonard, risalente al 1776. Questo ritratto rappresenta una sorta di meditazione sulla bellezza e sugli effetti della lettura sull’animo femminile.
Jean-Honoré Fragonard (Grasse, 5 aprile 1732 – Parigi, 22 agosto 1806) è stato un pittore francese, un importante esponente del rococò e uno dei più importanti artisti francesi del Settecento.
Fragonard sapeva sfruttare al meglio le sue doti pittoriche. Faceva un uso particolare della luce e si avvaleva di una singolare rarefazione di specifiche parti, un valido artificio che gli consentiva di rappresentare con efficacia la leggerezza di alcuni elementi, come i panneggi o le bianche acconciature femminili.
Lavorò a Versailles fino alla rivoluzione, dopo la quale il suo stile fu rimpiazzato da quello neoclassico, caratterizzato da severità e tetraggine; l’opposto di quello di Fragonard che era assolutamente incapace di dipingere temi seri. Infatti, impossibilitato a gareggiare con i suoi pari aulici, aveva scelto di primeggiare tra i pittori di moda e i suoi dipinti più famosi raffigurano scene leggere e frivole, spesso erotiche.
Non disdegnò neppure i soggetti storici, i paesaggi e le opere di genere, ma la sua grande eleganza fu chiaramente impiegata nella pittura di carattere frivolo e malizioso.
Affascinato dalla bellezza femminile, Fragonard dipinse un nutrito gruppo di dipinti in cui sono raffigurate giovani donne in momenti di quieta solitudine. Questi dipinti sono una specie di evocazione; le fanciulle che l’artista amava dipingere sono una sorta di personificazione della musica e della poesia.
Uno di questi dipinti “al femminile” è “La lettrice”. Nel quadro è raffigurata una ragazza con uno sgargiante vestito giallo; ha il capo inclinato ed è appoggiata a un grande cuscino rosa, piacevolmente assorta nella lettura di un libro che sorregge con delicatezza con la mano destra; l’altra mano è appoggiata a una poltrona. Non sappiamo chi sia questa giovane concentrata a leggere, invece sappiamo, grazie ai raggi x, che sotto questo dipinto, l’artista aveva tracciato un disegno differente. L’opera è datata 1776 ed è stata utilizzata in svariate edizioni del romanzo “Madame Bovary” di Gustave Flaubert.
Rispetto alle altre opere di Fragonard, questo dipinto è certamente più tranquillo. Si tratta di una scena di erudizione di una giovane donna e potrebbe essere definito un ritratto, anche se la donna non ci guarda. Da notare la postura delle mani e della schiena (molto dritta nonostante il grande cuscino) che denotano che la ragazza ha ricevuto un’educazione in materia di decoro ed etichetta.
La tecnica utilizzata da Fragonard è l’olio su tela. Notevole per la varietà dei tocchi, il dipinto è un buon esempio della pennellata rapida e vigorosa sviluppata dall’artista, e a volte definita “escrime” (scherma) dai suoi contemporanei.
Fragonard ha concepito questo dipinto, affinché fosse gradito agli occhi di chiunque, evitando gli interessi intellettuali e con l’intento di arrecare gioia e calore allo spettatore che l’artista coinvolge, inducendolo a porsi delle domande sulle conseguenze della lettura nel pensiero e nelle emozioni della fanciulla ritratta. In questo modo, “La lettrice” diventa una meditazione sulla bellezza, ma anche sulle implicazioni della lettura nell’animo femminile.
Attualmente, “La lettrice” è conservata alla National Gallery of Art di Washington. Fu donata al museo nel 1961, dalla signora Mellon Bruce, in memoria di suo padre, Andrew W. Mellon. In precedenza, era appartenuta al dottor Tuffier.
In copertina: “La lettrice”, olio su tela (dimensioni 81,1×64,8 cm) di Jean-Honoré Fragonard, conservato alla National Gallery of Art, Washington
La figura del supereroe ha calcato nel tempo le scene letterarie prima di passare al fumetto e al cinema. Sono diverse le figure di uomini audaci e coraggiosi, anche se privi di superpoteri, che hanno sfidato le autorità e il male in genere. Andando a ritroso, possiamo individuare queste caratteristiche ne “La Primula Rossa” che combatteva per tutelare i nobili ai tempi di Robespierre.
La letteratura ha sempre avuto i suoi supereroi, ben prima che comparissero le ormai consuete figure in calzamaglia, dotate di superpoteri che popolano da diversi anni le strisce dei moderni fumetti. E anche questi supereroi ante litteram avevano un’identità segreta, portavano una maschera e combattevano per un bene supremo, per la giustizia, per la verità. Tentavano anche essi di proteggere le persone inermi, di difendere i buoni dai cattivi e di far trionfare il bene sul male. Uno di questi supereroi dei secoli scorsi, che non si avvale di superpoteri, ma solo del suo coraggio e della sua determinazione, è “The Scarlet Pimpernel” (La Primula Rossa).
Le sue gesta sono raccontate in un ciclo di romanzi, scritti dalla baronessa Emma Orczy (1865 – 1947; scrittrice britannica di origine ungherese) e stampati in fascicoli, agli inizi del Novecento. Il primo romanzo in volume apparve nel 1905, con il titolo “La Primula Rossa”.
La Orczy ha ambientato le vicende del suo eroico personaggio all’epoca della rivoluzione francese, nel periodo in cui Maximilien de Robespierre (1758 – 1794; politico, avvocato e rivoluzionario francese) e i membri del Comitato di salute pubblica (Comité de salut public) seminavano il Terrore. Mentre la ghigliottina faceva gli straordinari, giungeva in Francia il primo eroe con identità segreta nella storia della narrativa: La Primula Rossa, fantomatica figura a capo di una lega che lottava a favore dei nobili e si opponeva alla tirannia, diretta conseguenza della rivoluzione.
La Primula Rossa è ovviamente acclamata dai nobili decaduti e da quelli che in questo particolare momento storico sono considerati i nemici della repubblica, e il suo nome, così singolare, deriva dal fiore scarlatto (Anagallis arvensis) che lascia quale firma alle sue impavide imprese.
Dietro la maschera si celava il volto di un nobile inglese, sir Percy Blakeney, “damerino incipriato”, fedele amico del Principe di Galles. La Primula rappresenta il classico uomo coraggioso, raro esempio di eroe reazionario che lotta con fierezza contro le barbarie rivoluzionarie.
Le avventure del La Primula Rossa non si sono fermate alle pagine di un libro, ma grazie alla fortuna incontrata dal personaggio e dalle sue vicende, sono approdate anche al cinema, prima quello in bianco e nero e più recentemente, il coraggioso e avventuroso eroe è stato riproposto in un ciclo di film; l’attore che recita la sua parte è Richard E. Grant.
Nel mondo anglosassone, La Primula Rossa è ancora molto popolare, in Italia, invece, non ha avuto la stessa notorietà: l’ultima stampa integrale risale alla fine degli anni Sessanta.
Che cosa succede però se i supereroi abusano dei loro poteri, se sono cattivi, egoisti, ipocriti e bramosi di potere? A questo interrogativo tenta di rispondere una serie televisiva statunitense del 2019, “The Boys”, ideata da Eric Kripke per conto di Amazon. La serie si basa sull’omonimo fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson. Alla luce di questa nuova generazione di super, ma al contempo antieroi, possiamo pensare di aver raggiunto una nuova frontiera di questo particolare genere, dove l’aggettivo “super” si addice più alla gente comune che ai classici eroi in calzamaglia.
Renoir è uno dei tanti artisti che ha raffigurato soggetti immersi nella nobile arte della lettura. Nei suoi quadri, a leggere sono sia uomini sia donne, ma anche molti bambini e adolescenti, tutti accomunati dalla stessa “devota” concentrazione. Una di queste attente figure è “La liseuse”, dipinta tra il 1875 e il 1876, in pieno periodo impressionista.
Il pittore Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 25 febbraio 1841 – Cagnes-sur-Mer, 3 dicembre 1919) è ritenuto uno tra i massimi esponenti dell’Impressionismo e uno degli interpreti più spontanei di questo particolare movimento.
L’artista francese ha lasciato una messe davvero nutrita di opere: ben cinquemila tele e un numero altrettanto elevato tra disegni e acquerelli. Si è anche distinto per la sua poliedricità, attraversando nella sua carriera artistica diversi periodi.
In un suo scritto disse che “l’opera d’arte deve afferrarti, avvolgerti, trasportarti”. Secondo me, queste parole, calzano perfettamente anche per l’arte della lettura. In uno dei tanti soggetti che Renoir ha raffigurato intento a leggere, possiamo ravvisare quel rapimento che l’artista ritiene si debba provare davanti a un’opera d’arte. Sto parlando del dipinto “La liseuse” (La lettrice) realizzato tra il 1875 e il 1876.
Nel dipinto, come afferma il titolo stesso, è raffigurata una donna immersa nella lettura di un libro. A fare da modella a Renoir fu Marguerite Legrand, detta Margot, una giovane graziosa di Montmartre che morì di febbre tifoidea nel febbraio del 1879. L’artista, che rimase molto colpito dalla sua morte, di lei disse che “aveva una pelle che rifletteva la luce”, e in questo ritratto, in effetti, il pittore è riuscito a mettere in risalto l’incarnato della sua amica, grazie alla nuova tecnica pittorica impressionista.
Realizzata in studio, l’opera è caratterizzata da una freschezza e da una spontaneità del tratto tipica dei dipinti eseguiti di getto, en plein air.
Nel quadro sono presenti pochissimi dettagli e un solo oggetto: un libro; perché Renoir intendeva concentrare l’attenzione dello spettatore sull’intensità della lettura. Lo sfondo è accennato, in quanto deve solo trasmettere l’idea della profondità, senza definire un ambiente preciso, mentre i colori, chiari e luminosi, sembrano ravvicinare il viso della giovane all’osservatore. Inoltre, per accrescere la luminosità cromatica della tela, Renoir accosta larghe e disordinate pennellate di colore, seguendo la tecnica impressionista.
L’artista ha anche fissato sulla tela dei punti di colore, quali: le labbra di un rosso brillante, lo jabot rosa che la ragazza indossa come ornamento sopra una blusa scura. Gli occhi della lettrice sono rivolti verso il basso: due semplici ed essenziali linee nere. L’espressione del viso è serena e trasmette a chi guarda la concentrazione della “Liseuse”, nonché il piacere della lettura che la ragazza, con il libro aperto davanti a sé, sta provando.
Renoir insiste sui colori, non traccia un contorno; utilizza il chiaroscuro per ravvivare il volto della ragazza, mentre le tonalità sono alterate da effetti di luce. Per l’incarnato, l’artista ha aggiunto dei violenti tocchi di giallo, sicuramente ispirati dall’ambientazione – probabilmente l’interno del Caffè Guerbois o del Café de la Nouvelle Athènes, luoghi tra i più frequentati dagli Impressionisti – cioè dalle tonalità dorate della luce artificiale a gas.
In questo dipinto, la luce gioca con il soggetto e i suoi riflessi creano dei richiami in vari punti della tela. Il pittore voleva dare la sensazione di un sole accecante che accende a tratti i capelli rossi della ragazza, illumina le pagine del libro aperto e poi si riflette dalla carta bianca sul viso della giovane.
Renoir ha applicato pennellate rapide, studiando con cura l’abbinamento di toni caldi e freddi, ad esempio: il rossore sfumato del volto di Margot si bilancia perfettamente con la zona blu-verde sul lato destro del dipinto. Inoltre, le zone caratterizzate da colori freddi contrastano con i colori caldi riservati in particolare al volto e ai capelli del soggetto, e persino con i contorni della cornice della finestra che si profilano dietro la testa della ragazza. Un tocco di luce compare leggero su una spalla e dona un accenno di volume alla figura.
In questo dipinto il disegno non detiene un ruolo speciale perché il soggetto è modellato dal colore. I contorni sono labili e incerti. Successivamente, le opere di Renoir cambieranno registro riguardo all’importanza del disegno. Ma in questa fase, esso ha un ruolo subordinato, al contrario della tendenza della pittura accademica di quegli anni in cui occupava un posto preminente.
Gustave Caillebotte (1848 – 1894; pittore francese) acquistò “La liseuse” nel 1876; nel 1893, il dipinto entrò nelle collezioni statali francesi e successivamente, fu esposto al museo parigino du Luxembourg e al Louvre. Ora, si trova al museo d’Orsay.
In copertina: “La liseuse” (La lettrice) di Auguste Renoir, olio su tela, 47×38 cm (1876) conservato al Museée d’Orsay, Parigi
Van Gogh era un lettore accanito. La lettura per il pittore olandese fu una consolazione, un rifugio, una compagnia, un’ispirazione e una passione profonda in tutto l’arco della sua vita.
Vincent van Gogh amava la lettura. In particolare, nel 1879, in un periodo oltremodo difficile per lui, leggeva senza sosta per tutto il giorno.
In questo periodo oscuro, l’artista interruppe anche la sua corrispondenza, con tutti, anche con il fratello Theo; leggere era il suo unico conforto, e in questa fase, quasi la sua unica ragione di vita: “Se non studio, se non cerco più, allora sono perduto”.
Al “Van Gogh Museum di Amsterdam” sono conservati solo tre i libri che per certo gli appartenevano. Due recano il nome Vincent sulla pagina dell’occhiello: “Chérie” di Edmond de Goncourt e “Histoire d’un paysan” di Èmile Erckmann e Alexandre Chatrian; il terzo, “Recueil de psaumes à l’usage des églises réformées” mostra tracce della sua inconfondibile scrittura. Se ne aggiunse un quarto, esposto l’ultima volta a Parigi nel 1972, poi andato disperso, “L’Amour” di Jules Michelet, un autore dall’artista molto amato, insieme a Dickens, Balzac, Zola, i fratelli Goncourt, Loti e vari critici d’arte come Charles Blanc o Sensier, Shakespeare.
È lo stesso Vincent a dichiarare il suo amore per la lettura: “Ho una passione pressoché irresistibile per i libri e sento continuamente il bisogno di istruirmi, così come ho bisogno di mangiare il pane”.
Van Gogh non è in ogni caso un collezionista di libri, non ha una biblioteca, perlomeno non fisica. Lui i libri li usa non li possiede e li fa suoi interiorizzandoli. Una volta che li aveva “digeriti”, li condivideva con gli amici, li regalava. La sua biblioteca era nella sua testa.
L’impossibilità di collezionare libri da parte dell’artista era dovuta anche alla sua vita errabonda: cambiò 37 indirizzi in 37 anni di vita e fu anche un uomo con poche risorse economiche. Questi due fattori non gli consentirono di accumulare molti volumi.
Conosciamo le sue preferenze in termini di lettura attraverso la sua corposa corrispondenza (ben 903 lettere!) e grazie a questa, sappiamo anche quali dei libri che l’artista ha letto nel corso della sua esistenza lo hanno maggiormente influenzato, quelli che hanno avuto un ruolo fondamentale nella sua arte e nella sua vita.
Per Vincent, leggere insegnava a vivere e a vedere, perché, secondo lui, letteratura, arte e vita erano intrecciate indissolubilmente.
L’artista olandese cercava nei libri la stessa libertà che cercava in pittura. E per lui, pittura e scrittura erano legate alla passione per i libri e per la natura. Inoltre, l’una completava l’altra e insieme facevano esistere il mondo.
La pittura poi, era per van Gogh una sorta di scrittura. Adoperare i colori giusti e tracciare una linea sulla tela per lui aveva la stessa valenza di uno scrittore che trova la parola giusta. Nelle sue lettere sono indicate centinaia di opere letterarie, di numerosi autori e in lingue diverse.
Van Gogh non aveva molti amici, la sua grande compagna era la sua arte pittorica, ma il suo genio artistico necessitava di ispirazione e sentiva anche il bisogno di staccare. Nei libri, l’artista trovava ciò che gli mancava, oltre a stimoli e suggerimenti per la sua creatività.
L’aspetto letterario fu fondamentale per la sua opera pittorica, basti pensare alle sue letture e ai temi che compaiono nei suoi quadri. Infatti, nelle sue opere, l’autore olandese mostra un particolare interesse per i poveri, i diseredati e le ingiustizie. Altresì, troviamo: la semplicità, il duro lavoro, l’umiltà, la terra, la natura, come pure, l’indagine dell’animo umano, la verità delle cose.
Van Gogh espresse il suo amore per i libri e la lettura in genere in venticinque opere pittoriche: cinque lavori su carta, diciotto dipinti, due schizzi sulle lettere. Tra queste, quella più affascinante ed enigmatica è la “Lettrice di romanzi”.
In questo dipinto l’artista ha raffigurato una donna che sta leggendo un libro. La figura ha colori scuri e netti ed è di profilo; le tinte sono marcate e definite. Il soggetto si staglia in primo piano, balzando dallo sfondo chiaro e luminoso.
Dal dipinto emerge la solitudine della donna, e la lettura cui è intenta è chiaramente un momento di evasione dalla realtà quotidiana.
In copertina: “La lettrice di romanzi” (1888) di Vincent Van Gogh
Il noir si distingue come genere letterario per vari aspetti, come: la figura del protagonista, le ambientazioni e le finalità delle vicende narrate.
Nel XX secolo, il termine “noir” subì una svolta: storici e critici letterari francesi ripresero il termine per identificare un importante genere narrativo: l’hard boiled, nato negli Stati Uniti, nei primi anni ’20 e che vede negli autori, Dashiell Hammett, John Carroll, John Daly, Raymond Chandler, Mickey Spillane, James Hadley Chase e gli scrittori della rivista “Black Mask” i principali esponenti del genere.
Questa sovrapposizione del termine, però, resta una convinzione tutta francese: negli Stati Uniti, il noir era ritenuto, e tuttora è così, un sottogenere narrativo distinto dall’hard boiled.
In America il termine noir è stato usato ufficialmente dal 1968, parlando però di opere cinematografiche, e solo dal 1984 si fa riferimento anche a opere narrative di autori, come: David Goodis; Jim Thompson; Cornell Woolrich.
Il genere hard boiled e quello noir presentano notevoli differenze che li distinguono nettamente l’uno dall’altro. Ad esempio, nel genere hard boiled, le storie per la maggior parte sono scritte in prima persona e la figura del detective è preponderante: protagonista della storia, conduce la linea narrativa principale, svolge le indagini e tenta di risolvere il caso. Nel noir classico invece non si svolgono attività investigative di rilievo. La narrazione si sviluppa e gira intorno ai fatti criminosi compiuti dal personaggio o dai personaggi principali e raramente si assiste a un lieto fine.
Inoltre, nel noir il protagonista non è un investigatore, bensì una vittima oppure un sospettato o ancora, un esecutore. In ogni caso, si tratta di un soggetto auto-distruttivo che si trova ad affrontare sia un persecutore sia il sistema legale e politico, solitamente corrotti, oppure deve perseguitare altri soggetti; in ogni caso, per lui non ci sarà alcuna possibilità di vittoria.
Spesso poi, il protagonista di un noir è un individuo comune che in apparenza vive una vita ordinaria e che a un certo punto della sua vita si trova a dover commettere un crimine. In altri casi, il personaggio principale è un criminale. È comunque sempre un antieroe, un soggetto che agisce tra ambiguità morale, avidità, cinismo e alienazione.
La storia di un noir si snoda intorno a uno o più crimini che avvengono in ambienti diversi, a volte anche familiari o malavitosi. L’atmosfera è cupa, densa di intrighi, violenza, rapine, tradimenti, corruzione, omicidi e ricatti.
L’ambientazione del noir è fondamentale per la nascita e l’evoluzione della storia. La città e la metropoli in queste storie non costituiscono un semplice sfondo, ma sono delle protagoniste a loro volta, tanto quanto la violenza, la criminalità, il degrado morale e ambientale. L’ambientazione nelle metropoli consente anche un certo grado di azione: inseguimenti, scontri fisici e sparatorie.
Nei romanzi noir la risoluzione del crimine non rappresenta l’obiettivo della storia, bensì narrare gli aspetti cupi e violenti della società, trasferendo al lettore l’immagine di una realtà negativa e drammatica.
È presente anche il sesso, privo solitamente dell’aspetto sentimentale. I personaggi femminili delle storie rispondono allo stereotipo della “femme fatale”, donna seducente e manipolatrice, spesso avida e interessata soltanto al denaro.
Il linguaggio del noir, soprattutto i dialoghi tra i personaggi, è crudo, realistico ed essenziale, e fa largo impiego del gergo metropolitano.
I più noti scrittori di noir metropolitano sono: Ed McBain (per New York), James Ellroy (per Los Angeles), Jean-Claude Izzo (per Marsiglia), Lawrence Block, Jim Thompson, Shane Stevens, James Mallahan Cain, David Goodis, Henry Kane, Jean Patrick Manchette, Giorgio Scerbanenco, Ruth Rendell, Derek Raymond, Horace McCoy, William Riley Burnett.
Noir, cioè nero, rimanda al concetto di cupo, malinconico e marcatamente pessimista, caratteristiche fondamentali delle storie noir, dove un protagonista, antieroe per eccellenza, si muove in metropoli violente tra intrighi, omicidi e corruzione.
In questi giorni di caldo intenso, leggere, sotto l’ombra provvidenziale di un ombrellone, sdraiati su un comodo lettino, può essere uno svago piacevole. In genere, durante le vacanze, specie quelle estive, i lettori apprezzano tuffarsi tra le pagine di un giallo, di un thriller o comunque, di un buon poliziesco o magari di un noir. Tutte queste definizioni non sono altro che delle sotto tracce di un genere molto amato, e chi gradisce questo tipo di letture ha davvero solo l’imbarazzo della scelta tra tante sfumature narrative, tutte ugualmente coinvolgenti.
Una di queste varianti di successo è appunto il noir o “romanzo nero”, che deriva dal sottogenere hard boiled nato alla fine degli anni venti del Novecento, negli Stati Uniti. L’aggettivo “nero” fa riferimento alle caratteristiche fondamentali di questo genere, cioè storie contraddistinte da tematiche e atmosfere cupe, tetre, malinconiche e pessimiste.
Il termine noir proviene dal mondo anglosassone e fu un genere particolarmente sfruttato in Francia, sulla traccia delle novelle tragiche (“Les Histoires tragiques de nostre temps”) di François de Rosset (1571-1619; traduttore e scrittore francese di successo) e le storie cupe e violente, ispirate alla tradizione dei racconti orrorifici, di Jean-Pierre Camus (1584 – 1652; scrittore e prelato francese).
Nel Settecento, gli stessi argomenti prendono una piega lacrimosa-sentimentale, in particolare in certe parti dei “Mémoires du comte de Comminges” (1735) di M.me de Tencin (1682 – 1749; baronessa de Saint-Martin-de-Ré, scrittrice francese, madre di D’Alembert), nei romanzi dell’abate Antoine-François Prévost (1697 – 1763; scrittore francese) e in alcune opere di Denis Diderot (1713 – 1784; filosofo, enciclopedista, scrittore e critico d’arte francese).
Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dopo Horace Walpole (1717 – 1797; quarto Conte di Orford, scrittore inglese, autore de “Il castello di Otranto”, primo romanzo gotico propriamente detto) e Clara Reeve (1729 – 1807; scrittrice inglese, autrice del romanzo gotico “Il vecchio barone inglese”) il romanzo gotico fu denominato “romanzo nero” (romain noir) o del terrore.
Con Ann Ward (nota come Ann Radcliff, 1764 – 1823; popolare scrittrice inglese, pioniera della letteratura dell’orrore e in particolare del romanzo gotico) poi, il genere del romanzo nero subisce un’evoluzione narrativa. La nuova tipologia contrappone tematiche all’estremo (innocenza virtuosa-crudeltà fisica e morale, religione-satanismo), come in “Han d’Islande” di Victor Hugo (1802 – 1885; scrittore, poeta, drammaturgo e politico francese, considerato il padre del Romanticismo in Francia) e ne “La morte amoureuse” di Pierre Jules Théophile Gautier (1811 – 1872; scrittore, poeta, giornalista e critico letterario francese), fino a giungere ai testi eccessivi di Pierre Mac Orlan (pseudonimo di Pierre Dumarchais, 1882 – 1970; artista e scrittore francese) e a quelli de “Les Mystères de la Morgue ou les Fiancés du IV arrondissement. Roman gai” (1918) di Francis Carco (pseudonimo di François Carcopino-Tusoli, 1886 – 1958; scrittore francese, ambientò le sue opere tra i bassifondi parigini e la vita bohèmienne di inizio Novecento).
Successivamente il filone noir fu assimilato al romanzo giallo, guadagnando un notevole successo, in particolare con Leo Malet (1909 – 1996; scrittore francese che con Georges Simenon e André Héléna è stato uno dei maggiori rappresentanti del romanzo poliziesco in lingua francese), Pierre Siniac (1928 – 2002), Tito Topin (1932) e A.D.G. (pseudonimo di Alain Fournier, detto Camille, 1947 – 2004; giornalista e scrittore francese).
Il 22 maggio del 1859, nasceva Sir Arthur Conan Doyle (Edimburgo, 22 maggio 1859 – Crowborough, 7 luglio 1930), capostipite del giallo deduttivo, padre, almeno in veste letteraria, del genio investigativo, Sherlock Holmes.
Conan Doyle – insieme a Edgar Allan Poe (Boston, 19 gennaio 1809 – Baltimora, 7 ottobre 1849) – è considerato il fondatore di ben due generi letterari: il giallo e il fantastico. Nella sua vasta produzione, lo scrittore scozzese è passato dal romanzo d’avventura, alla fantascienza; dai temi storici al soprannaturale.
La prima opera di Doyle risale al 1879: “Il mistero di Sasassa Valley”, scritto pochi anni prima di laurearsi in Medicina e Chirurgia (1881), presso l’Università di Edimburgo. Non si trattava di un giallo, bensì di un racconto del terrore che Conan Doyle vendette al Chambers Journal. Fu proprio mentre faceva da assistente medico a diversi dottori che iniziò ad appassionarsi alla letteratura e a scrivere le sue prime opere. Si ritiene, oltretutto che, il personaggio di Sherlock Holmes fosse ispirato a uno dei suoi professori di medicina: il brillante e freddo dottor Joseph Bell. Lo scrittore riprese anche il suo particolare metodo scientifico, oltre che le sue capacità deduttive.
Conan Doyle era indubbiamente un uomo dalle forti convinzioni, con un notevole senso dell’onore e durante la sua vita, sostenne diverse battaglie per i motivi più disparati, utilizzando la stampa per propugnare e sostenere il suo punto di vista, in modo davvero efficace e intraprendente. Visse una gran varietà di esperienze umane: passò dalla povertà a una grande notorietà; conobbe anche molte persone importanti della sua epoca. Esercitò come medico ed ebbe una lunga carriera come scrittore, praticò anche molti sport, come: cricket, biliardo, boxe, sci, motociclismo e calcio.
Fu mentre passava da un incarico di lavoro all’altro, ancora come medico, che iniziò a scrivere le avventure di Sherlock Holmes, più precisamente, nel periodo in cui aveva aperto uno studio medico nel Southsea (sobborgo di Portsmouth). Le storie del singolare detective iniziarono ben presto ad avere un discreto successo. Il primo romanzo, dove compare questo singolare e arguto personaggio, risale al 1887: “Uno studio in rosso”, pubblicato sul Beeton’s Christmas Annual. In questa prima apparizione, Doyle presenta Sherlock Holmes, delineando le principali caratteristiche del suo acuto investigatore e esponendo, al contempo, la perspicace scienza della deduzione che contraddistingue il suo metodo di indagine. Lo fa, utilizzando la voce del dottor Watson che in un certo senso è il suo alter ego. Nel 1880, compare una seconda avventura di Sherlock Holmes, “Il segno dei quattro”, questa nuova avventura dell’infallibile detective gli decretò un enorme successo.
Nonostante la notorietà di Doyle sia dovuta proprio al personaggio di Holmes, il rapporto fra i due fu piuttosto contrastato: lo scrittore lo odiava, perché era diventato più famoso di lui. Inoltre, Doyle avrebbe preferito esplorare generi letterari diversi, come l’avventura o il fantastico oppure dedicarsi a opere di ricerca storica, invece di soffermarsi prevalentemente sui gialli. L’elemento fantastico penetra, però, anche in alcune storie di Sherlock Holmes, ad esempio, il romanzo “Il mastino dei Baskerville” (1902) e il racconto “Il vampiro del Sussex” (1927).
Il personaggio di Sherlock Holmes è comparso in quattro romanzi e cinquantasei racconti ed è diventato l’emblema del giallo. Inoltre, il successo di cui è stato oggetto lo ha portato a uscire dalle pagine scritte, per passare nel mondo del teatro, del cinema e della TV, e, secondo alcuni critici, è la più famosa figura di detective della storia del giallo.
Doyle ci presenta Holmes in questo modo: “il suo sguardo era acuto e penetrante; e il naso sottile aquilino conferiva alla sua espressione un’aria vigile e decisa. Il mento era prominente e squadrato, tipico dell’uomo d’azione. Le mani, invariabilmente macchiate d’inchiostro e di scoloriture provocate dagli acidi, possedevano un tocco straordinariamente delicato, come ebbi spesso occasione di notare quando lo osservavo maneggiare i fragili strumenti della sua filosofia” (La scienza della deduzione, II capitolo di “Uno studio in rosso”, Mondadori, 1976).
Non sappiamo molto del passato di Sherlock Holmes e neppure della sua vita personale. Le sue storie, poi, sono quasi tutte narrate in prima persona dal dottor John Watson, amico e biografo, che Holmes conosce nel 1881, quando cerca un coinquilino con cui condividere l’appartamento al 221B di Baker Street.
La convivenza tra l’investigatore e il dottore funziona alla perfezione e anche le indagini guadagnano da questa perfetta simbiosi, mentre il rapporto tra Doyle e il suo personaggio continua a essere tutt’altro che sereno: lo scrittore giunse a un punto da tale di insofferenza nei confronti del suo investigatore, da volersi liberare di lui in modo definitivo.
Nel racconto “L’ultima avventura”, Sherlock Holmes muore, durante un duello con il suo formidabile antagonista: Moriarty. Purtroppo per Doyle, il suo pubblico si oppose alla prematura dipartita del personaggio e lo scrittore, a malincuore, si convinse a scrivere un nuovo romanzo con lo stesso protagonista: “Il mastino dei Baskerville”, ambientato prima della presunta morte, avvenuta nel 1891. Successivamente, siccome il corpo dell’incredibile detective non era stato rinvenuto, Doyle lo fece risuscitare e tornare alacremente al lavoro ne “L’avventura della casa vuota”, ambientata nel 1894. Nei tre anni mancanti, Sherlock Holmes – veniamo a sapere dallo scrittore – sarebbe stato nascosto, per occuparsi di un incarico segreto da parte del governo britannico.
La carriera investigativa di Sherlock Holmes termina con un tranquillo pensionamento: il detective si ritira dapprima nel Sussex, a studiare l’apicoltura, poi in una fattoria vicino a Eastbourne, dove si occuperà di agricoltura e filosofia, ma solo dopo aver dato man forte all’Inghilterra, come agente del governo, durante la prima guerra mondiale.
Sherlock Holmes è un personaggio complesso, pieno di sorprese. Oltre a una mente brillante, il nostro intraprendente detective non disdegna di affrontare faccia a faccia i suoi avversari, anche contrastandoli fisicamente: è un eccellente schermidore e pratica il pugilato a mani nude. Inoltre, conosce il bartitsu (sistema di lotta derivato dal jujitsu giapponese), ciò lo rende uno dei primi occidentali ad aver praticato le arti marziali orientali.
Holmes possiede anche curiose conoscenze e abitudini: è in grado di distinguere all’istante vari tipi di terreno; è edotto di ogni dettaglio, riguardante misfatti commessi nel suo secolo; è un profondo conoscitore di tabacco (ha scritto un trattato su questo argomento); non disdegna i travestimenti nei quali è piuttosto abile. Inoltre, è anche un buon violinista, oltre che un accanito fumatore di pipa.
Per quanto riguarda le capacità sociali e relazionali, nei vari romanzi, il personaggio di Sherlock Holmes mostra di avere un buon rapporto solo con il suo amico Watson, mentre sembra emotivamente distaccato e disinteressato a tutti gli altri. Non si interessa neppure alle donne: vuole avere la mente lucida, mentre “l’amore è un’emozione, e tutto ciò che è emozione contrasta con la fredda logica che io pongo al di sopra di tutto” (“Il segno dei Quattro”).
Per le sue investigazioni, Sherlock Holmes applica il metodo scientifico: osserva la realtà circostante, raccoglie prove e indizi e poi trae le sue mirabili deduzioni. Un’attenta osservazione dei dettagli è sempre il primo passo, cui segue la raccolta di prove inoppugnabili, grazie alle quali è possibile formulare le giuste conclusioni.
Per quanto riguarda la scrittura di Doyle, in riferimento alle storie di Sherlock Holmes, il suo linguaggio appare serratissimo, anche quando ci sono in corso dei monologhi o delle descrizioni. In entrambi i casi la scrittura è asciutta e quasi concatenata, da tale modo di procedere, si ottiene un quadro netto e preciso. Interessante poi, è la contrapposizione tra i casi che Holmes deve risolvere, che sono di una singolarità estrema e la semplicità della loro soluzione, ovviamente, una volta risolti.
Il personaggio di Sherlock Holmes, al di là delle sue caratteristiche psicologiche e fisiche che lo contraddistinguono, risulta particolare per il contrasto tra il modo in cui appare e quello che invece è (es. tenente Colombo). È alto, ha una figura esile, all’apparenza sembra debole, mentre in realtà, è esattamente il contrario; appare come uno sciocco, mentre è chiaramente tutt’altro.
In ogni caso, le capacità di Conan Doyle non si fermano qui: non solo lo scrittore è abile nel descrivere le situazioni e i personaggi, ma sa sfruttare brillantemente anche gli elementi atmosferici, associandoli all’andamento della storia: es. una sera tempestosa collegata a eventi drammatici e straordinari.
“Dieci piccoli indiani” è uno dei tanti capolavori gialli di Agatha Christie. In una prefazione, di una delle tante edizioni del libro, ho apprezzato l’originale punto di vista applicato al misterioso signor Owen.
In una strana associazione per contrasto, pensando a “Dieci piccoli indiani” mi è tornata in mente la frase evangelica “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8,3). In realtà nel famosissimo giallo, nonché pièce teatrale di Agatha Christie, accade l’esatto contrario: nel gruppo riunito a Nigger Island nessuno è innocente.
A partire dagli invitati del misterioso signor Owen: Anthony Marston, John Macarthur, Emily Brent, Lawrence Wargrave, William Blore, Edward Armstrong, Philip Lombard e Vera Claythorne, sino ai due coniugi, Thomas ed Ethel Rogers, assunti come domestici.
Io sono tra coloro che leggono prefazioni e postfazioni, a volte mi sento un po’ sciocca, a perdermi in tanti lunghi discorsi attorno all’autore o all’opera che sto per leggere, ma lo considero quasi un rito, un rito di attesa che non riesco a tralasciare. Spesso, questo atteggiamento paga: si scoprono notizie interessanti e punti di vista curiosi che finiscono per assommarsi piacevolmente al ricordo del libro stesso. Leggendo “Dieci piccoli indiani” mi sono trovata in una di queste felici situazioni.
Nella prefazione di un’edizione di questo capolavoro della Christie – purtroppo, e me ne rammarico moltissimo, non ricordo chi ne fosse l’autore e neppure l’edizione del libro – ho trovato un’osservazione singolare sulla storia e in particolare, sul personaggio del misterioso ospite: il signor Owen. Secondo l’autore della prefazione, la Christie ci ha deliziato con gialli in cui gli assassini uccidono per moventi tradizionali: denaro, vendetta, gelosia; moventi concreti e gli assassini non sono mai dei seriali, anche se ne “La serie infernale”, almeno per un certo lasso di tempo, crediamo proprio di trovarci di fronte a un serial killer, ma in realtà, le cose prenderanno una piega ben diversa.
In “Dieci piccoli indiani”, secondo l’autore della prefazione, invece, siamo proprio alle prese con un serial killer. Secondo alcuni studi fatti sui seriali, si è stimato che alcuni di loro sceglievano delle professioni che consentivano loro di uccidere, in modo legale, alcuni diventavano boia, altri mercenari. Anche il personaggio di Agatha Christie, Lawrence Wargrave, ha scelto una professione che gli consentiva, legalmente, di commettere degli omicidi, per interposta persona, e in più le vittime non erano innocenti, bensì dei criminali. Il suo desiderio di uccidere era così sublimato dal ruolo che svolgeva per la comunità.
Scoperto di avere poco tempo da vivere e spinto da un desiderio più forte di uccidere, il giudice decide di passare dall’altra parte della barricata: sceglie dieci vittime, dieci persone colpevoli di aver commesso un omicidio e tutte sfuggite alle maglie della legge.
La uccisione sequenziale di questi soggetti inizia dopo il verdetto, emesso da una voce proveniente da un grammofono che inchioda ognuno di loro, anche i domestici, alla propria colpa, elencando date e nomi delle vittime dei loro omicidi.
Da quel momento in poi gli invitati sull’isola iniziano a morire, e se il giudice, non ha un modus operandi identico per ogni omicidio, come accade per solitamente per i serial killer, in quanto le cause di morte sono sempre diverse, si può però intravedere una firma: la famosa filastrocca profetica e le statuine dei negretti che scompaiono a una a una dal centrotavola della sala da pranzo.
Il manoscritto Voynich, custodito presso la Biblioteca Beinecke di manoscritti e libri rari dell’Università di Yale, è un codice illustrato, risalente al XV secolo. La sua datazione è stata precisata al radiocarbonio e colloca la sua stesura tra il 1404 e il 1438.
Il manoscritto Voynich, deve la definizione di “libro più misterioso del mondo” e l’aura arcana che lo circonda a diversi aspetti che lo riguardano:
è stato scritto con un sistema di scrittura tuttora non decifrato
nel testo compaiono immagini di piante non raffrontabili con alcun vegetale conosciuto
l’idioma utilizzato non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico finora noto
Questo singolare volume deve il suo nome a Wilfrid Michael Voynich, in origine Michał Wojnicz (1865 – 1930), un antiquario e mercante di libri rari polacco, successivamente naturalizzato inglese. Il manoscritto finì nelle mani di Voynich grazie a padre Giuseppe Strickland (1864 – 1915), un religioso gesuita che, nel 1912, fece da tramite tra l’antiquario e il collegio gesuita di Villa Mondragone, vicino Frascati. L’ordine di cui Strickland faceva parte necessitava di fondi per restaurare la villa, li ottenne vendendo trenta volumi della sua biblioteca, tra questi era compreso il manoscritto Voynich.
Entrato in possesso del libro, Voynich rilevò nel testo delle annotazioni in greco antico e stimò che il libro appartenesse al XIII secolo. Inoltre, all’interno del volume, trovò una lettera di Jan Marek Marci (1595 – 1667), rettore dell’Università di Praga e medico reale di Rodolfo II di Boemia (1552 – 1612). Nella missiva era specificato che Marci lo inviava a Roma, all’amico poligrafo, Athanasius Kircher (1602 – 1680; gesuita, filosofo, storico e museologo tedesco del XVII secolo), affinché lo decifrasse.
Nella lettera, datata “Praga, 19 agosto 1665” (o 1666), Marci sosteneva di avere ereditato il manoscritto medievale da un amico, Georg Barches (1585 – 1662), un alchimista (si conobbe il suo nome solo successivamente, grazie a delle ricerche). Il proprietario antecedente del libro era stato l’imperatore Rodolfo II che lo aveva comprato per una cifra considerevole per l’epoca, ben 600 ducati, poiché credeva fosse stato scritto da Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292 ca.; filosofo, scienziato, teologo ed alchimista inglese). Infine, dalle mani di Voynich il manoscritto passò a quelle di Hans P. Kraus (1907 – 1988; antiquario e libraio austriaco naturalizzato statunitense) che ne fece dono all’Università di Yale.
Il manoscritto Voynich è redatto su pergamena di vitello; ha dimensioni ridotte: 16 cm di larghezza per 22 di altezza e 5 di spessore. Grazie alle due numerazioni, presenti sui margini delle pagine, si è dedotto che il libro fosse composto da 116 fogli, suddivisi in 20 fascicoli. Inoltre, nel volume sono presenti pagine più grandi che sono state ripiegate, mentre si è riscontrato che all’insieme mancano 14 fogli.
Il libro non contiene solo testo, ma è impreziosito da un certo numero di illustrazioni a colori che raffigurano molti soggetti diversi. La presenza delle immagini ha consentito di comprendere sia la natura del manoscritto di Voynich sia le sezioni in cui è suddiviso:
La sezione I (fogli 1-66), “botanica”, presenta 113 disegni di piante sconosciute.
La sezione II (fogli 67-73), “astronomica o astrologica”, ha 25 diagrammi che sembrano richiamare delle stelle e sono riconoscibili anche alcuni segni zodiacali. Nonostante ciò, non è possibile definire di cosa parli questa sezione.
La sezione III (fogli 75-86), “biologica”, in quanto presenta molte figure femminili nude, spesso immerse fino al ginocchio in un liquido scuro, in delle vasche intercomunicanti.
Dopo la sezione III è presente un foglio ripiegato sei volte, dove sono rappresentati nove medaglioni con figure di stelle, raggiere di petali e fasci di tubi.
La sezione IV (fogli 87-102), “farmacologica”, è definita così, perché vi sono raffigurate ampolle e fiale. Inoltre, in questa parte del manoscritto Voynich ci sono anche disegni di piccole piante e radici, forse, erbe medicinali.
L’ultima sezione (dal foglio 103 sino alla fine) presenta unicamente delle stelline, a sinistra delle righe. Si pensa possa trattarsi di una specie di indice.
La datazione, almeno fino all’inizio del 2011, è stata oggetto di varie ipotesi; tutte scartate nel febbraio 2011, grazie alla datazione del manoscritto Voynich effettuata con la tecnica del carbonio-14. La datazione precisa si è ottenuta prelevando dei piccoli campioni dai margini di alcune pagine e si è precisato che le pergamene che compongono il volume appartengono a un periodo compreso tra il 1404 e il 1438. Inoltre, recenti analisi dei pigmenti presenti nel manoscritto, hanno evidenziato affinità con quelli di altri manoscritti del Quattrocento e medievali in genere.
In un primo momento, si pensò si trattasse di un falso, realizzato nel Cinquecento, per ingannare Rodolfo II. L’autore dell’abile truffa fu individuato in Edward Kelley (1555 – 1597; alchimista, mago, astrologo, glottoteta e medium inglese. La glottopoiesi è l’arte di creare linguaggi artificiali sviluppandone la fonologia, il vocabolario e la grammatica), aiutato nella singolare malefatta da John Dee (1527 – 1608; filoso, matematico, geografo, alchimista, astrologo e astronomo inglese).
Altre interessanti teorie stimavano che il libro fosse databile agli inizi del Seicento, in seguito alla scoperta di una firma, grazie all’infrarosso, di Jacobi à Tepenecz, noto come Jacobus Horcicki (1575 – 1622), alchimista al servizio di Rodolfo II. Un’altra possibile datazione fu suggerita da una delle piante rappresentate nella sezione “botanica”, simile al comune girasole, questo pianta giunse in Europa solo dopo la scoperta dell’America, per cui si immaginò che il libro fosse stato scritto dopo il 1492.
I misteri attorno al manoscritto non hanno interessato solo la datazione, ora svelata grazie alla scienza, ma anche la sua decifrazione, ma di questo parliamo in un prossimo post…
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