La figura del supereroe ha calcato nel tempo le scene letterarie prima di passare al fumetto e al cinema. Sono diverse le figure di uomini audaci e coraggiosi, anche se privi di superpoteri, che hanno sfidato le autorità e il male in genere. Andando a ritroso, possiamo individuare queste caratteristiche ne “La Primula Rossa” che combatteva per tutelare i nobili ai tempi di Robespierre.
La letteratura ha sempre avuto i suoi supereroi, ben prima che comparissero le ormai consuete figure in calzamaglia, dotate di superpoteri che popolano da diversi anni le strisce dei moderni fumetti. E anche questi supereroi ante litteram avevano un’identità segreta, portavano una maschera e combattevano per un bene supremo, per la giustizia, per la verità. Tentavano anche essi di proteggere le persone inermi, di difendere i buoni dai cattivi e di far trionfare il bene sul male. Uno di questi supereroi dei secoli scorsi, che non si avvale di superpoteri, ma solo del suo coraggio e della sua determinazione, è “The Scarlet Pimpernel” (La Primula Rossa).
Le sue gesta sono raccontate in un ciclo di romanzi, scritti dalla baronessa Emma Orczy (1865 – 1947; scrittrice britannica di origine ungherese) e stampati in fascicoli, agli inizi del Novecento. Il primo romanzo in volume apparve nel 1905, con il titolo “La Primula Rossa”.
La Orczy ha ambientato le vicende del suo eroico personaggio all’epoca della rivoluzione francese, nel periodo in cui Maximilien de Robespierre (1758 – 1794; politico, avvocato e rivoluzionario francese) e i membri del Comitato di salute pubblica (Comité de salut public) seminavano il Terrore. Mentre la ghigliottina faceva gli straordinari, giungeva in Francia il primo eroe con identità segreta nella storia della narrativa: La Primula Rossa, fantomatica figura a capo di una lega che lottava a favore dei nobili e si opponeva alla tirannia, diretta conseguenza della rivoluzione.
La Primula Rossa è ovviamente acclamata dai nobili decaduti e da quelli che in questo particolare momento storico sono considerati i nemici della repubblica, e il suo nome, così singolare, deriva dal fiore scarlatto (Anagallis arvensis) che lascia quale firma alle sue impavide imprese.
Dietro la maschera si celava il volto di un nobile inglese, sir Percy Blakeney, “damerino incipriato”, fedele amico del Principe di Galles. La Primula rappresenta il classico uomo coraggioso, raro esempio di eroe reazionario che lotta con fierezza contro le barbarie rivoluzionarie.
Le avventure del La Primula Rossa non si sono fermate alle pagine di un libro, ma grazie alla fortuna incontrata dal personaggio e dalle sue vicende, sono approdate anche al cinema, prima quello in bianco e nero e più recentemente, il coraggioso e avventuroso eroe è stato riproposto in un ciclo di film; l’attore che recita la sua parte è Richard E. Grant.
Nel mondo anglosassone, La Primula Rossa è ancora molto popolare, in Italia, invece, non ha avuto la stessa notorietà: l’ultima stampa integrale risale alla fine degli anni Sessanta.
Che cosa succede però se i supereroi abusano dei loro poteri, se sono cattivi, egoisti, ipocriti e bramosi di potere? A questo interrogativo tenta di rispondere una serie televisiva statunitense del 2019, “The Boys”, ideata da Eric Kripke per conto di Amazon. La serie si basa sull’omonimo fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson. Alla luce di questa nuova generazione di super, ma al contempo antieroi, possiamo pensare di aver raggiunto una nuova frontiera di questo particolare genere, dove l’aggettivo “super” si addice più alla gente comune che ai classici eroi in calzamaglia.
Il genere letterario che va, almeno in Italia, sotto il nome di “giallo” ha avuto negli anni una grande fortuna. Negli anni ha visto mutare le ambientazioni, le figure degli investigatori, il suo contenuto e persino le sue finalità, ciò che è rimasto intatto è il fascino che ancora esercita sui lettori.
Il termine “giallo”, usato per definire un genere letterario, è valido solo nella lingua italiana e deriva dalla collana “I Libri Gialli”, concepita da Lorenzo Montano (pseudonimo di Danilo Lebrecht, 1893 – 1958; scrittore e poeta italiano) e pubblicata in Italia, dal 1929 in poi da Arnoldo Mondadori (1889 – 1971; editore italiano fondatore della omonima casa editrice). Questa scelta editoriale ha influenzato il modo di riferirsi al genere poliziesco che, mentre nei paesi francofoni resta invariato (roman policier e polar), in Italia, mutuato dalle copertine gialle di Mondadori, sarà associato d’ora in poi a questo colore.
Parlare di storia del giallo significa fare riferimento alla storia del genere poliziesco, in quanto la nascita e lo sviluppo di nuove ramificazioni del genere si è verificata solo più avanti, con una produzione variegata che comprende: thriller, spy-story e giallo psicologico.
La nascita del genere giallo si fa risalire al mese di aprile del 1841, quando sulla rivista “The Graham’s Magazine di Filadelfia” fu pubblicato “The Murders in the Rue Morgue” (I delitti della Rue Morgue), un racconto di Edgar Allan Poe (1809 – 1849; scrittore, poeta, critico letterario, giornalista, editore e saggista statunitense) in cui compare Auguste Dupin, investigatore che risolve i casi, senza neppure recarsi sulla scena del crimine, ma che trae indizi da resoconti giornalistici e sfruttando le sue incredibili capacità deduttive.
Sulla scia di Dupin, comparirà un altro infallibile detective, Sherlock Holmes dalla penna di Arthur Conan Doyle (1859 – 1930). La sua prima indagine sarà narrata nel romanzo “Uno studio in rosso”, del 1887.
Il panorama giallo italiano si anima dal 1852, con “Il mio cadavere”, di Francesco Mastriani(1819 – 1891; scrittore, drammaturgo, giornalista; autore di romanzi d’appendice di grande successo). Il romanzo, inizialmente, apparve in appendice sul periodico napoletano di politica e cultura “L’Omnibus”. La prima puntata (‘’La famiglia dello stradiere’’) uscì in stampa il 13 dicembre 1851. Nel 1888, Emilio De Marchi (1851 – 1901; scrittore, poeta e traduttore italiano; fra i più importanti narratori del secondo Ottocento italiano) pubblica “Il cappello del prete”, romanzo giallo fra i più interessanti dell’epoca.
In Italia, il genere giallo inizia a prendere campo nel dopo guerra e nelle pagine dei nuovi romanzi si inizia a sentire l’influenza dalla scuola americana “Hard boiled” della narrativa poliziesca.
A essere considerati, universalmente, come primi gialli sono comunque le avventure di Sherlock Holmes. Il personaggio creato da Conan Doyle ha proiettato una lunga ombra sul genere, che è giunta fino agli anni trenta del Novecento, e molti personaggi concepiti sotto questo ascendente da autori europei e americani derivano direttamente da Holmes. Tra questi, appartenenti al periodo classico del giallo, citiamo i più famosi: Hercule Poirot e Miss Marple di Agatha Christie (1890 – 1976; scrittrice e drammaturga britannica); Philo Vance di S. S. Van Dine (pseudonimo di Willard Huntington Wright, 1887 – 1939; scrittore e critico d’arte statunitense); Lord Peter Wimsey di Dorothy L. Sayers (1893 – 1957; scrittrice, poetessa e drammaturga britannica) ed Ellery Queen, il più famoso degli pseudonimi di Frederick Dannay (1905 – 1982) e Manfred Bennington Lee (1905 – 1971), scrittori di letteratura poliziesca e inventori del detective che ha il nome del loro pseudonimo.
Questa messe di investigatori letterari non è, ovviamente, una pedissequa ripresa del modello, ma ogni detective citato presenta caratteristiche specifiche e ogni autore ha tentato a suo modo di proporre elementi nuovi, ad esempio, nello stile e nel contenuto. Ma restano molti aspetti in comune con l’originale. Prima di tutto la capacità deduttiva, a seguire l’abilità di riconoscere l’importanza di indizi che agli altri sembrano trascurabili e infine, la dote di mettere insieme i pezzi e trovare la soluzione di casi intricati o quasi impossibili.
L’arma della deduzione che questi abili investigatori possiedono deriva dal positivismo ottocentesco. Questi personaggi hanno una fede incrollabile nei confronti della logica, della scienza e della ragione. Ogni indagine conduce immancabilmente a una sola e unica soluzione che è possibile affermare grazie all’analisi delle tracce trovate sulla scena del crimine e attraverso tale analisi si può giungere alla verità, senza possibilità di errore.
Questo tipo di detective sono uniti anche perché appartengono a classi sociali assimilabili: spesso benestanti o di nobili origini e svolgono le loro indagini principalmente per vanità intellettuale oppure per curiosità o diletto, per il puro desidero di risolvere un mistero. Non rappresentano la legge e mirano essenzialmente a scoprire la verità. Inoltre, gli ambienti in cui avvengono i crimini sono spesso altolocati ed eleganti, lontani dai luoghi quotidiani in cui avvengono di norma fatti criminali.
Gli investigatori del giallo classico sono sempre dilettanti. Il motivo è semplice: questi personaggi non sono vincolati da regole e possono indagare in piena libertà, mentre un poliziotto o un funzionario dello Stato devono attenersi ad esempio, alle norme e alle direttive dei superiori.
I gialli di questo periodo hanno una forte componente morale, anche se sono stati ritenuti per molto tempo una “letteratura di evasione”. In queste storie, il colpevole, dopo essere stato individuato, subisce una punizione, la giustizia trionfa e torna l’ordine precostituito, che era stato sconvolto dalle azioni del criminale. Questo processo di ripristino delle regole rientrava nelle consuetudini sociali dell’epoca, ancora dipendente dalla visione moralistica di stampo vittoriano. (prosegue)
L’hard boiled è un genere letterario che si sviluppa negli Stati Uniti e darà il via a una vera e propria rivoluzione del genere poliziesco.
Pistola in pugno e bionda al fianco può essere una descrizione spiccia ma adeguata del detective del genere letterario hard boiled. Il termine deriva da un’espressione colloquiale riferita alle uova. Per un uovo essere “hard boiled” significa “essere sodo”, “duro”.
Questo genere letterario risale agli anni venti, prende forma nei romanzi di Dashiell Hammett ed è messo a punto negli anni trenta da Raymond Chandler. L’hard boiled fa parte della detective fiction e del genere poliziesco, come la variante francese del noir, ma in questo tipo di romanzi il crimine è rappresentato in modo realistico, così come il sesso e la violenza, lasciando ben poco spazio alla deduzione dei gialli classici.
Sin dai suoi esordi, questo particolare genere era saldamente connesso all’esistenza di certe riviste “pulp”, come “Black Mask”. Il termine “pulp”, cioè polpa, trae origine dalla carta con cui erano stampate questo tipo di riviste. Essa si otteneva dalla polpa dell’albero ed era di una qualità più scadente rispetto a quella proveniente dal resto del tronco. Era più ruvida e spessa e ingialliva in poco tempo. Queste riviste sono ricordate in particolare per le storie che contenevano: sfacciate, violente e a volte addirittura oscene. A colpire i lettori erano anche le copertine, generalmente sexy o raccapriccianti.
Dopo essere apparsi sulle riviste, i romanzi hard boiled finiscono negli scaffali delle librerie, pubblicati dalle case editrici specializzate. Si tratta di edizioni in brossura, note come “pulps”.
Gli eroi di questo genere letterario sono detective come Sam Spade di Hammett o Philip Marlowe di Chandler. Questo tipo di investigatori, oltre a risolvere i casi, fronteggiano ogni sorta di pericolo e spesso sono coinvolti in scontri violenti.
Il detective hard boiled è un “duro”, un solitario, sfrontato, freddo e irriverente. È un investigatore privato che lavora da solo; la sua età oscilla tra i trentacinque e i quarantacinque anni. Non è quello che si potrebbe definire un buon padre di famiglia; non ha molti amici e in genere, incontra le sue conoscenze nei luoghi che abitualmente frequenta, in particolare, locali notturni, dove mostra la sua natura di incallito bevitore. Ma si tratta di un vizio che non gli annebbia la mente e neppure i riflessi, sempre pronti, se necessario.
La dieta dell’eroe targato hard boiled è improntata a favorire l’infarto o gravi malattie cardiovascolari, costituita com’è da uova fritte, pancetta e caffè nero, cui si aggiungono sigarette e whiskey, tanto per accelerare la dipartita, se il piombo di coloro contro i quali incoccia non facessero prima il loro dovere.
Il linguaggio che utilizza il detective hard boiled è fortemente gergale e come la sua vita, spesso fuori dai binari della legalità, passa dai vocaboli malavitosi ai termini delle forze dell’ordine. In effetti, è un uomo di poche parole, ha una netta preferenza per i monosillabi, ma quando esprime un concetto è capace di allestire metafore colorite. È anche sarcastico, ma con scarso senso dell’umorismo.
Il protagonista del genere hard boiled non abbandona mai la sua pistola che non esita a usare contro i criminali. Le sue donne ideali sono bellissime e bionde. Tendenzialmente, sono delle clienti piombate nel suo ufficio per offrirgli l’incarico di seguire il marito infedele, e il più delle volte rivelano un lato oscuro.
In ogni caso, i suoi rapporti con il genere femminile sono difficili, conflittuali. Spesso il detective hard boiled deve fare i conti con una storia d’amore fallita, che gli ha lasciato delle ferite e una profonda amarezza e disillusione. All’apparenza sembra un misogino.
Non ha mai il becco di un quattrino, eppure è generoso: quando prende un caso il più delle volte si accontenta di una paga simbolica. Le vicende in cui si trova invischiato sembrano facili da risolvere, all’inizio, ma poi si rivelano complesse e ingarbugliate e lo costringono ad affrontare mille peripezie e disavventure. Spesso, seguendo le sue piste, si scontra con la malavita organizzata ed è costretto a muoversi per le strade più malfamate di città come New York, Los Angeles o Chicago.
I guai lo cercano e lui non può farne a meno. Spesso è un ex poliziotto e nelle sue nuove vesti di investigatore ha un rapporto ambiguo con le autorità, anche se a volte, intuisce che come lui sono dalla parte del bene, però la disillusione, specie se si trova a contrastare la corruzione, lo portano ad agire da solo, anche se questo significa infrangere le regole.
L’amore è un sentimento complicato, fatto di luci e ombre, come ci hanno fatto comprendere chiaramente Cecilia Cozzi e Martina Giordani con le loro interpretazioni differenti, ma entrambe illuminanti.
Sono arrivata con un discreto anticipo all’appuntamento con Sapere d’estate: “Amore: una sinfonia di luci (e ombre)” che si è svolto ieri, 11 agosto, in piazza del Municipio a Falconara. Ho potuto così assistere agli ultimi ritocchi prima di “andare in scena”, mentre una leggera brezza rendeva ancora più piacevole l’attesa.
Le due mattatrici dello spettacolo sono state: Cecilia Cozzi, in veste di relatrice e Martina Giordani, nel ruolo di pianista. Entrambe sono riuscite nell’intento di incantare e intrattenere il pubblico attento e partecipe. Piacevoli, interessanti e gestite con grande maestria le parole; superbe ed ispirate le esecuzioni di brani piuttosto impegnativi di Schubert, Liszt, Chopin, Rossini e Grieg.
L’amore è stato l’argomento principe della serata, come appunto, già annunciava il titolo dell’evento. Amore che è stato analizzato in tutte le sue declinazioni, passando dagli aspetti più luminosi di questo universale sentimento a quelli più “ombrosi”.
L’analisi si è compiuta attraverso un originale excursus tra i testi degli antichi Greci. Cecilia Cozzi ha letto e commentato versi, aggiungendo al già felice mix una buona dose di argute osservazioni che hanno evidenziato come gli atteggiamenti nei confronti dell’amore, dall’antichità fino a oggi, non abbiano subito sostanziali cambiamenti. Nei versi dei poeti dell’antichità, anche se le espressioni e le parole sono spesso diverse dalle nostre, si è denotato lo stesso ventaglio di emozioni che anche noi oggi sperimentiamo quotidianamente: delusione e rabbia per un amore non corrisposto; gelosia; gioco e leggerezza; tenerezza, ecc.
Anche la musica ha dato la sua personale visione dell’amore, attraverso il percorso sonoro affrontato al pianoforte da Martina Giordani che ci ha consentito di esplorare altre recondite sfumature di questo meraviglio e complicato sentimento.
Le spiegazioni fornite per ogni brano, nonché la notevole bravura esecutiva e interpretativa della pianista sono state il completamento perfetto di una serata magnifica, certamente da ripetere.
Il noir si distingue come genere letterario per vari aspetti, come: la figura del protagonista, le ambientazioni e le finalità delle vicende narrate.
Nel XX secolo, il termine “noir” subì una svolta: storici e critici letterari francesi ripresero il termine per identificare un importante genere narrativo: l’hard boiled, nato negli Stati Uniti, nei primi anni ’20 e che vede negli autori, Dashiell Hammett, John Carroll, John Daly, Raymond Chandler, Mickey Spillane, James Hadley Chase e gli scrittori della rivista “Black Mask” i principali esponenti del genere.
Questa sovrapposizione del termine, però, resta una convinzione tutta francese: negli Stati Uniti, il noir era ritenuto, e tuttora è così, un sottogenere narrativo distinto dall’hard boiled.
In America il termine noir è stato usato ufficialmente dal 1968, parlando però di opere cinematografiche, e solo dal 1984 si fa riferimento anche a opere narrative di autori, come: David Goodis; Jim Thompson; Cornell Woolrich.
Il genere hard boiled e quello noir presentano notevoli differenze che li distinguono nettamente l’uno dall’altro. Ad esempio, nel genere hard boiled, le storie per la maggior parte sono scritte in prima persona e la figura del detective è preponderante: protagonista della storia, conduce la linea narrativa principale, svolge le indagini e tenta di risolvere il caso. Nel noir classico invece non si svolgono attività investigative di rilievo. La narrazione si sviluppa e gira intorno ai fatti criminosi compiuti dal personaggio o dai personaggi principali e raramente si assiste a un lieto fine.
Inoltre, nel noir il protagonista non è un investigatore, bensì una vittima oppure un sospettato o ancora, un esecutore. In ogni caso, si tratta di un soggetto auto-distruttivo che si trova ad affrontare sia un persecutore sia il sistema legale e politico, solitamente corrotti, oppure deve perseguitare altri soggetti; in ogni caso, per lui non ci sarà alcuna possibilità di vittoria.
Spesso poi, il protagonista di un noir è un individuo comune che in apparenza vive una vita ordinaria e che a un certo punto della sua vita si trova a dover commettere un crimine. In altri casi, il personaggio principale è un criminale. È comunque sempre un antieroe, un soggetto che agisce tra ambiguità morale, avidità, cinismo e alienazione.
La storia di un noir si snoda intorno a uno o più crimini che avvengono in ambienti diversi, a volte anche familiari o malavitosi. L’atmosfera è cupa, densa di intrighi, violenza, rapine, tradimenti, corruzione, omicidi e ricatti.
L’ambientazione del noir è fondamentale per la nascita e l’evoluzione della storia. La città e la metropoli in queste storie non costituiscono un semplice sfondo, ma sono delle protagoniste a loro volta, tanto quanto la violenza, la criminalità, il degrado morale e ambientale. L’ambientazione nelle metropoli consente anche un certo grado di azione: inseguimenti, scontri fisici e sparatorie.
Nei romanzi noir la risoluzione del crimine non rappresenta l’obiettivo della storia, bensì narrare gli aspetti cupi e violenti della società, trasferendo al lettore l’immagine di una realtà negativa e drammatica.
È presente anche il sesso, privo solitamente dell’aspetto sentimentale. I personaggi femminili delle storie rispondono allo stereotipo della “femme fatale”, donna seducente e manipolatrice, spesso avida e interessata soltanto al denaro.
Il linguaggio del noir, soprattutto i dialoghi tra i personaggi, è crudo, realistico ed essenziale, e fa largo impiego del gergo metropolitano.
I più noti scrittori di noir metropolitano sono: Ed McBain (per New York), James Ellroy (per Los Angeles), Jean-Claude Izzo (per Marsiglia), Lawrence Block, Jim Thompson, Shane Stevens, James Mallahan Cain, David Goodis, Henry Kane, Jean Patrick Manchette, Giorgio Scerbanenco, Ruth Rendell, Derek Raymond, Horace McCoy, William Riley Burnett.
Noir, cioè nero, rimanda al concetto di cupo, malinconico e marcatamente pessimista, caratteristiche fondamentali delle storie noir, dove un protagonista, antieroe per eccellenza, si muove in metropoli violente tra intrighi, omicidi e corruzione.
In questi giorni di caldo intenso, leggere, sotto l’ombra provvidenziale di un ombrellone, sdraiati su un comodo lettino, può essere uno svago piacevole. In genere, durante le vacanze, specie quelle estive, i lettori apprezzano tuffarsi tra le pagine di un giallo, di un thriller o comunque, di un buon poliziesco o magari di un noir. Tutte queste definizioni non sono altro che delle sotto tracce di un genere molto amato, e chi gradisce questo tipo di letture ha davvero solo l’imbarazzo della scelta tra tante sfumature narrative, tutte ugualmente coinvolgenti.
Una di queste varianti di successo è appunto il noir o “romanzo nero”, che deriva dal sottogenere hard boiled nato alla fine degli anni venti del Novecento, negli Stati Uniti. L’aggettivo “nero” fa riferimento alle caratteristiche fondamentali di questo genere, cioè storie contraddistinte da tematiche e atmosfere cupe, tetre, malinconiche e pessimiste.
Il termine noir proviene dal mondo anglosassone e fu un genere particolarmente sfruttato in Francia, sulla traccia delle novelle tragiche (“Les Histoires tragiques de nostre temps”) di François de Rosset (1571-1619; traduttore e scrittore francese di successo) e le storie cupe e violente, ispirate alla tradizione dei racconti orrorifici, di Jean-Pierre Camus (1584 – 1652; scrittore e prelato francese).
Nel Settecento, gli stessi argomenti prendono una piega lacrimosa-sentimentale, in particolare in certe parti dei “Mémoires du comte de Comminges” (1735) di M.me de Tencin (1682 – 1749; baronessa de Saint-Martin-de-Ré, scrittrice francese, madre di D’Alembert), nei romanzi dell’abate Antoine-François Prévost (1697 – 1763; scrittore francese) e in alcune opere di Denis Diderot (1713 – 1784; filosofo, enciclopedista, scrittore e critico d’arte francese).
Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dopo Horace Walpole (1717 – 1797; quarto Conte di Orford, scrittore inglese, autore de “Il castello di Otranto”, primo romanzo gotico propriamente detto) e Clara Reeve (1729 – 1807; scrittrice inglese, autrice del romanzo gotico “Il vecchio barone inglese”) il romanzo gotico fu denominato “romanzo nero” (romain noir) o del terrore.
Con Ann Ward (nota come Ann Radcliff, 1764 – 1823; popolare scrittrice inglese, pioniera della letteratura dell’orrore e in particolare del romanzo gotico) poi, il genere del romanzo nero subisce un’evoluzione narrativa. La nuova tipologia contrappone tematiche all’estremo (innocenza virtuosa-crudeltà fisica e morale, religione-satanismo), come in “Han d’Islande” di Victor Hugo (1802 – 1885; scrittore, poeta, drammaturgo e politico francese, considerato il padre del Romanticismo in Francia) e ne “La morte amoureuse” di Pierre Jules Théophile Gautier (1811 – 1872; scrittore, poeta, giornalista e critico letterario francese), fino a giungere ai testi eccessivi di Pierre Mac Orlan (pseudonimo di Pierre Dumarchais, 1882 – 1970; artista e scrittore francese) e a quelli de “Les Mystères de la Morgue ou les Fiancés du IV arrondissement. Roman gai” (1918) di Francis Carco (pseudonimo di François Carcopino-Tusoli, 1886 – 1958; scrittore francese, ambientò le sue opere tra i bassifondi parigini e la vita bohèmienne di inizio Novecento).
Successivamente il filone noir fu assimilato al romanzo giallo, guadagnando un notevole successo, in particolare con Leo Malet (1909 – 1996; scrittore francese che con Georges Simenon e André Héléna è stato uno dei maggiori rappresentanti del romanzo poliziesco in lingua francese), Pierre Siniac (1928 – 2002), Tito Topin (1932) e A.D.G. (pseudonimo di Alain Fournier, detto Camille, 1947 – 2004; giornalista e scrittore francese).
La cornice narrativa è un espediente letterario di grande utilità; è una sorta di collante, un’efficiente intelaiatura impiegata principalmente nelle raccolte di novelle.
La cornice in letteratura è una tecnica molto utile per dare unitarietà a un’opera narrativa e per consentire una narrazione a più livelli. È una specie di guscio che contiene altre storie e l’autore la utilizza per costruire un racconto nel racconto, una storia dentro un’altra storia.
La cornice serve a manipolare l’intreccio e rappresenta un’alternativa alla fabula. Essa fornisce unitarietà alla varietà di voci narranti e all’impiego di diversi livelli di narrazione. Rappresenta un’efficace intelaiatura, studiata in particolare per dare compattezza e unità alla forma letteraria della novella. Grazie a tale sistema, le novelle possono essere raccontate da narratori diversi, descritti nella cornice, e saranno comunque legate da un contesto comune.
Il primo esempio di cornice narrativa compare nella letteratura indiana, nella raccolta “Pañcatantra”, scritta in sanscrito. Altri esempi successivi, sempre nella letteratura indiana sono la raccolta “Kathasaritsagara” del secolo XI.
Tra gli esempi più noti di questo artificio letterario, ricordiamo “Le mille e una notte”, dove a fare da cornice è la vicenda della saggia Sharāzād che, per salvarsi la vita, intrattiene il sultano, raccontando novelle incatenate fra loro.
Altri testi che utilizzano la cornice narrativa sono:
il “Libro de’ sette savi”, una raccolta medievale di novelle di origine orientale
Il “Decameron” di Giovanni Boccaccio, una raccolta di cento novelle
“Il Pecorone” di Giovanni Fiorentino (XIV secolo), raccolta di cinquanta novelle
Il “Novelliere” di Giovanni Sercambi (XIV secolo), raccolta di centocinquanta novelle
“L’Avventuroso Ciciliano”, sorta di romanzo trecentesco di Busone da Gubbio
“Le piacevoli notti”, settantacinque novelle di Giovanni Francesco Straparola (XV – XVI secolo)
“I racconti di Canterbury” (The Canterbury Tales), raccolta di 24 racconti scritti in medio inglese (Middle English, nome dato alla fase storica seguente all’inglese antico, parlato nel periodo tra l’invasione normanna e il tardo Rinascimento inglese) di Geoffrey Chaucer
gli “Ecatommiti”, raccolta di cento novelle (113 con le 10 dell’esordio e 3 incidentali) di Giambattista Giraldi Cinzio (XVI secolo)
“Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille”, raccolta di 50 fiabe in lingua napoletana scritte da Giambattista Basile, pseudonimo anagrammatico di Gian Alesio Abbattutis, edite fra il 1634 e il 1636 a Napoli. L’opera è nota anche con il titolo di “Pentamerone” (cinque giornate)
“Le città invisibili”, romanzo pubblicato nel 1972 di Italo Calvino
“Il bar sotto il mare”, raccolta di racconti pubblicata da Stefano Benni nel 1987
“Pastorale americana”, romanzo scritto nel 1997 da Philip Roth
“Raccontami una storia speciale”, romanzo di Chitra Banerjee Divakaruni (2011)
L’espediente della cornice non rappresenta un elemento fittizio aggiunto dall’esterno a scopo decorativo. Ha invece un grande valore strutturale e compositivo e svolge varie funzioni. A livello stilistico, giustifica e compensa la difformità del linguaggio e la diversità degli argomenti e dei registri stilistici. A livello artistico, consente allo scrittore di prendere le distanze dal testo. A livello morale, permette all’autore di discostarsi da eventuali temi scabrosi. A livello letterario, permette di legare la struttura narrativa dell’opera alla tradizione.
Il 22 maggio del 1859, nasceva Sir Arthur Conan Doyle (Edimburgo, 22 maggio 1859 – Crowborough, 7 luglio 1930), capostipite del giallo deduttivo, padre, almeno in veste letteraria, del genio investigativo, Sherlock Holmes.
Conan Doyle – insieme a Edgar Allan Poe (Boston, 19 gennaio 1809 – Baltimora, 7 ottobre 1849) – è considerato il fondatore di ben due generi letterari: il giallo e il fantastico. Nella sua vasta produzione, lo scrittore scozzese è passato dal romanzo d’avventura, alla fantascienza; dai temi storici al soprannaturale.
La prima opera di Doyle risale al 1879: “Il mistero di Sasassa Valley”, scritto pochi anni prima di laurearsi in Medicina e Chirurgia (1881), presso l’Università di Edimburgo. Non si trattava di un giallo, bensì di un racconto del terrore che Conan Doyle vendette al Chambers Journal. Fu proprio mentre faceva da assistente medico a diversi dottori che iniziò ad appassionarsi alla letteratura e a scrivere le sue prime opere. Si ritiene, oltretutto che, il personaggio di Sherlock Holmes fosse ispirato a uno dei suoi professori di medicina: il brillante e freddo dottor Joseph Bell. Lo scrittore riprese anche il suo particolare metodo scientifico, oltre che le sue capacità deduttive.
Conan Doyle era indubbiamente un uomo dalle forti convinzioni, con un notevole senso dell’onore e durante la sua vita, sostenne diverse battaglie per i motivi più disparati, utilizzando la stampa per propugnare e sostenere il suo punto di vista, in modo davvero efficace e intraprendente. Visse una gran varietà di esperienze umane: passò dalla povertà a una grande notorietà; conobbe anche molte persone importanti della sua epoca. Esercitò come medico ed ebbe una lunga carriera come scrittore, praticò anche molti sport, come: cricket, biliardo, boxe, sci, motociclismo e calcio.
Fu mentre passava da un incarico di lavoro all’altro, ancora come medico, che iniziò a scrivere le avventure di Sherlock Holmes, più precisamente, nel periodo in cui aveva aperto uno studio medico nel Southsea (sobborgo di Portsmouth). Le storie del singolare detective iniziarono ben presto ad avere un discreto successo. Il primo romanzo, dove compare questo singolare e arguto personaggio, risale al 1887: “Uno studio in rosso”, pubblicato sul Beeton’s Christmas Annual. In questa prima apparizione, Doyle presenta Sherlock Holmes, delineando le principali caratteristiche del suo acuto investigatore e esponendo, al contempo, la perspicace scienza della deduzione che contraddistingue il suo metodo di indagine. Lo fa, utilizzando la voce del dottor Watson che in un certo senso è il suo alter ego. Nel 1880, compare una seconda avventura di Sherlock Holmes, “Il segno dei quattro”, questa nuova avventura dell’infallibile detective gli decretò un enorme successo.
Nonostante la notorietà di Doyle sia dovuta proprio al personaggio di Holmes, il rapporto fra i due fu piuttosto contrastato: lo scrittore lo odiava, perché era diventato più famoso di lui. Inoltre, Doyle avrebbe preferito esplorare generi letterari diversi, come l’avventura o il fantastico oppure dedicarsi a opere di ricerca storica, invece di soffermarsi prevalentemente sui gialli. L’elemento fantastico penetra, però, anche in alcune storie di Sherlock Holmes, ad esempio, il romanzo “Il mastino dei Baskerville” (1902) e il racconto “Il vampiro del Sussex” (1927).
Il personaggio di Sherlock Holmes è comparso in quattro romanzi e cinquantasei racconti ed è diventato l’emblema del giallo. Inoltre, il successo di cui è stato oggetto lo ha portato a uscire dalle pagine scritte, per passare nel mondo del teatro, del cinema e della TV, e, secondo alcuni critici, è la più famosa figura di detective della storia del giallo.
Doyle ci presenta Holmes in questo modo: “il suo sguardo era acuto e penetrante; e il naso sottile aquilino conferiva alla sua espressione un’aria vigile e decisa. Il mento era prominente e squadrato, tipico dell’uomo d’azione. Le mani, invariabilmente macchiate d’inchiostro e di scoloriture provocate dagli acidi, possedevano un tocco straordinariamente delicato, come ebbi spesso occasione di notare quando lo osservavo maneggiare i fragili strumenti della sua filosofia” (La scienza della deduzione, II capitolo di “Uno studio in rosso”, Mondadori, 1976).
Non sappiamo molto del passato di Sherlock Holmes e neppure della sua vita personale. Le sue storie, poi, sono quasi tutte narrate in prima persona dal dottor John Watson, amico e biografo, che Holmes conosce nel 1881, quando cerca un coinquilino con cui condividere l’appartamento al 221B di Baker Street.
La convivenza tra l’investigatore e il dottore funziona alla perfezione e anche le indagini guadagnano da questa perfetta simbiosi, mentre il rapporto tra Doyle e il suo personaggio continua a essere tutt’altro che sereno: lo scrittore giunse a un punto da tale di insofferenza nei confronti del suo investigatore, da volersi liberare di lui in modo definitivo.
Nel racconto “L’ultima avventura”, Sherlock Holmes muore, durante un duello con il suo formidabile antagonista: Moriarty. Purtroppo per Doyle, il suo pubblico si oppose alla prematura dipartita del personaggio e lo scrittore, a malincuore, si convinse a scrivere un nuovo romanzo con lo stesso protagonista: “Il mastino dei Baskerville”, ambientato prima della presunta morte, avvenuta nel 1891. Successivamente, siccome il corpo dell’incredibile detective non era stato rinvenuto, Doyle lo fece risuscitare e tornare alacremente al lavoro ne “L’avventura della casa vuota”, ambientata nel 1894. Nei tre anni mancanti, Sherlock Holmes – veniamo a sapere dallo scrittore – sarebbe stato nascosto, per occuparsi di un incarico segreto da parte del governo britannico.
La carriera investigativa di Sherlock Holmes termina con un tranquillo pensionamento: il detective si ritira dapprima nel Sussex, a studiare l’apicoltura, poi in una fattoria vicino a Eastbourne, dove si occuperà di agricoltura e filosofia, ma solo dopo aver dato man forte all’Inghilterra, come agente del governo, durante la prima guerra mondiale.
Sherlock Holmes è un personaggio complesso, pieno di sorprese. Oltre a una mente brillante, il nostro intraprendente detective non disdegna di affrontare faccia a faccia i suoi avversari, anche contrastandoli fisicamente: è un eccellente schermidore e pratica il pugilato a mani nude. Inoltre, conosce il bartitsu (sistema di lotta derivato dal jujitsu giapponese), ciò lo rende uno dei primi occidentali ad aver praticato le arti marziali orientali.
Holmes possiede anche curiose conoscenze e abitudini: è in grado di distinguere all’istante vari tipi di terreno; è edotto di ogni dettaglio, riguardante misfatti commessi nel suo secolo; è un profondo conoscitore di tabacco (ha scritto un trattato su questo argomento); non disdegna i travestimenti nei quali è piuttosto abile. Inoltre, è anche un buon violinista, oltre che un accanito fumatore di pipa.
Per quanto riguarda le capacità sociali e relazionali, nei vari romanzi, il personaggio di Sherlock Holmes mostra di avere un buon rapporto solo con il suo amico Watson, mentre sembra emotivamente distaccato e disinteressato a tutti gli altri. Non si interessa neppure alle donne: vuole avere la mente lucida, mentre “l’amore è un’emozione, e tutto ciò che è emozione contrasta con la fredda logica che io pongo al di sopra di tutto” (“Il segno dei Quattro”).
Per le sue investigazioni, Sherlock Holmes applica il metodo scientifico: osserva la realtà circostante, raccoglie prove e indizi e poi trae le sue mirabili deduzioni. Un’attenta osservazione dei dettagli è sempre il primo passo, cui segue la raccolta di prove inoppugnabili, grazie alle quali è possibile formulare le giuste conclusioni.
Per quanto riguarda la scrittura di Doyle, in riferimento alle storie di Sherlock Holmes, il suo linguaggio appare serratissimo, anche quando ci sono in corso dei monologhi o delle descrizioni. In entrambi i casi la scrittura è asciutta e quasi concatenata, da tale modo di procedere, si ottiene un quadro netto e preciso. Interessante poi, è la contrapposizione tra i casi che Holmes deve risolvere, che sono di una singolarità estrema e la semplicità della loro soluzione, ovviamente, una volta risolti.
Il personaggio di Sherlock Holmes, al di là delle sue caratteristiche psicologiche e fisiche che lo contraddistinguono, risulta particolare per il contrasto tra il modo in cui appare e quello che invece è (es. tenente Colombo). È alto, ha una figura esile, all’apparenza sembra debole, mentre in realtà, è esattamente il contrario; appare come uno sciocco, mentre è chiaramente tutt’altro.
In ogni caso, le capacità di Conan Doyle non si fermano qui: non solo lo scrittore è abile nel descrivere le situazioni e i personaggi, ma sa sfruttare brillantemente anche gli elementi atmosferici, associandoli all’andamento della storia: es. una sera tempestosa collegata a eventi drammatici e straordinari.
Cardarelli ha espresso nei suoi versi le emozioni create dal passare del tempo, dall’avvicendarsi delle stagioni, dal trascorrere dei giorni e delle ore. Due delle sue poesie più famose sono dedicate a Venezia, qui i versi che descrivono la città si fondono con le emozioni del poeta.
Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia, 1° maggio 1887 – Roma, 18 giugno 1959), il cui vero nome era Nazareno Caldarelli, è stato un poeta, scrittore e giornalista italiano. A Corneto Tarquinia, Vincenzo trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Due periodi della sua vita particolarmente duri, segnati dall’assenza della madre, che lasciò la famiglia quando il poeta era ancora piccolo, dalla solitudine e da problemi di salute.
Cardarelli compì studi irregolari e per la maggior parte, come autodidatta. A diciassette anni scappò di casa e si recò a Roma, per mantenersi si dedicò ai più svariati mestieri, poi nel 1909, intraprese la carriera giornalistica, iniziando a collaborare con vari quotidiani e riviste. Nel 1916, diede alle stampe la sua prima raccolta di poesie, “Prologhi”. Da quel momento, l’attività giornalistica si intrecciò con quella poetica.
Vincenzo Cardarelli è famoso per le numerose raccolte poetiche, ma anche per le prose autobiografiche di costume e di viaggio: “Prologhi” (1916), “Viaggi nel tempo” (1920), “Favole e memorie” (1925), “Il sole a picco” (1929), “Il cielo sulle città” (1939), “Lettere non spedite” (1946), “Villa Tarantola” (1948). I suoi punti di riferimento letterari furono: Charles Baudelaire (1821-1867), Friedrich Nietzsche (1844-1900), Giacomo Leopardi (1798-1837), Blaise Pascal (1623-1662). Grazie a loro riuscì a dare forma alle proprie passioni incastonandole in una cornice razionale. La sua poesia era essenzialmente descrittiva, connessa ai ricordi: di paesaggi, di animali, di persone e di stati d’animo. Il poeta utilizzava un linguaggio discorsivo ma al contempo, passionale e profondo.
La vita di Cardarelli fu essenzialmente un’esistenza isolata; per similitudini poetiche, caratteriali e anche per problemi di salute (soffriva del morbo di Pott, una forma di tubercolosi extrapolmonare) fu accostato a Leopardi. Morì a Roma, il 18 giugno 1959, e il suo corpo fu sepolto nel cimitero di Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca, come da lui specificatamente richiesto nel testamento.
La sua opera poetica si colloca tra l’avanguardia del primo decennio del Novecento e la restaurazione classicista degli anni venti. Dello spirito avanguardistico restò sempre un’eco nella poesia di Cardarelli, anche quando formalmente se ne distaccò. Nelle poesie più vicine a quella corrente il poeta aderiva a particolari scelte espressive, come frammentismo ed espressionismo linguistico, e utilizzava argomenti, quali lo sradicamento, la perdita di identità, l’adolescenza, il viaggio. Il ritorno all’ordine, dopo le pulsioni avanguardiste, si verificò intorno agli anni Venti e fu la conseguenza di un’incertezza psicologica, causata dalla crisi della funzione sociale dell’intellettuale. Questo clima restaurativo fu accolto con entusiasmo da Cardarelli che reputò tale ritorno al passato e alla tradizione, come un’occasione per rilanciare l’identità del letterato e dell’intellettuale.
I versi di Cardarelli manifestano una grande chiarezza logica e limpidezza linguistica; lo stile è elegante e rigoroso. Il poeta nelle sue liriche ha sempre aspirato alla compostezza, a un tono colloquiale e a un atteggiamento distaccato, muovendosi sempre tra due poli contrastanti, quello dell’impulso trasgressivo e quello del desiderio di autocontrollo. Tra i due estremi, solitamente, prevaleva la moderazione che sfociava in un garbo formale.
Nelle poesie di Cardarelli, i temi ricorrenti sono il trascorrere delle stagioni, i ricordi dell’infanzia e dei paesaggi collegati a quel periodo. Il poeta esplorava allo stesso modo la vitalità estiva e il disfacimento malinconico dell’autunno. Per lui, il passare del tempo era l’emblema delle vicissitudini della vita.
Tra le due Guerre mondiali, Cardarelli visse tra Toscana, Lombardia e Veneto. Il Veneto sembra aver dato le ali alla sua ispirazione, specialmente la città di Venezia alla quale il poeta ha dedicato due tra le sue poesie più note.
La prima poesia sulla città veneta è: “Settembre a Venezia” che compare per la prima volta nella raccolta “Poesie”, del 1936. Il poeta raffigura la città lagunare durante un crepuscolo di settembre; gli ultimi raggi del sole fanno brillare gli ori dei mosaici di San Marco, mentre la luna sorge sulle Procuratie vecchie. Il componimento poetico è diviso in due parti. Nella prima, il poeta descrive gli effetti del tramonto sulla città; nella seconda, riflette sulle impressioni che susciterà in lui il ricordo, quando le immagini davanti ai suoi occhi si saranno sedimentate, diventando finalmente sue. I versi di questa lirica sono liberi, ci sono soltanto due casi di rima (vv.8 e 11; 20 e 22), mentre ci sono allitterazioni e rispondenze interne.
Settembre a Venezia
Già di settembre imbrunano a Venezia i crepuscoli precoci e di gramaglie vestono le pietre. Dardeggia il sole l’ultimo suo raggio sugli ori dei mosaici ed accende fuochi di paglia, effimera bellezza. E cheta, dietro le Procuratìe, sorge intanto la luna. Luci festive ed argentate ridono, van discorrendo trepide e lontane nell’aria fredda e bruna. Io le guardo ammaliato. Forse più tardi mi ricorderò di queste grandi sere che son leste a venire, e più belle, più vive le lor luci, che ora un po’ mi disperano (sempre da me così fuori e distanti!) torneranno a brillare nella mia fantasia. E sarà vera e calma felicità la mia.
L’altra poesia dedicata da Cardarelli alla città lagunare è: “Autunno veneziano”. Fu pubblicata nel 1942, nella raccolta “Poesie”. In questi versi, il poeta illustra un autunno fatto di morte e di disfacimento, privo di suoni e velato di una malinconia venefica.
Autunno veneziano
L’alito freddo e umido m’assale di Venezia autunnale, Adesso che l’estate, sudaticcia e sciroccosa, d’incanto se n’è andata, una rigida luna settembrina risplende, piena di funesti presagi, sulla città d’acque e di pietre che rivela il suo volto di medusa contagiosa e malefica. Morto è il silenzio dei canali fetidi, sotto la luna acquosa, in ciascuno dei quali par che dorma il cadavere d’Ofelia: tombe sparse di fiori marci e d’altre immondizie vegetali, dove passa sciacquando il fantasma del gondoliere. O notti veneziane, senza canto di galli, senza voci di fontane, tetre notti lagunari cui nessun tenero bisbiglio anima, case torve, gelose, a picco sui canali, dormenti senza respiro, io v’ho sul cuore adesso più che mai. Qui non i venti impetuosi e funebri del settembre montanino, non odor di vendemmia, non lavacri di piogge lacrimose, non fragore di foglie che cadono. Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore su un davanzale è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali non son che luci smarrite, luci che sognano la buona terra odorosa e fruttifera. Solo il naufragio invernale conviene a questa città che non vive, che non fiorisce, se non quale una nave in fondo al mare.
Venezia ha avuto un’eco nella vita e nella produzione poetica di Cardarelli. Mentre risiedeva nella città veneta, il poeta diede corpo al suo fascino, attraverso versi dotati di sensibilità ed eleganza. Le sue parole la raffigurano sospesa in un magico equilibrio tra decadenza e antichi splendori bizantini. Il punto di partenza di Cardarelli, anche nel caso delle due liriche dedicate a Venezia, è lo stesso che ricorre in tutta la sua poetica: una stagione, un ricordo, un’emozione.
Giacomo Casanova era un uomo colto e grande viaggiatore, in un’epoca, il Settecento, in cui la gente non viaggiava molto. Nella sua vita avventurosa finì varie volte in carcere e affrontò persino un duello.
Nel 1755, Giacomo Casanova fu arrestato a Venezia, i motivi del suo imprigionamento sono stati oggetto di varie discussioni. La sua non fu di certo una vita irreprensibile e indubbiamente non lo si poteva definire un uomo dalle specchiate virtù. Anzi, proprio a causa della sua vita spregiudicata, era controllato dagli inquisitori, come dimostrano molti rapporti delle spie al servizio dei suoi accusatori. In questi documenti sono riferiti in maniera puntuale tutti i suoi comportamenti, specialmente quelli immorali e disdicevoli. Le accuse che, in particolare, furono rivolte a Casanova, al tempo dell’imprigionamento ai Piombi, riguardavano il “libertinaggio”, attuato con donne sposate, il vilipendio della religione, i raggiri ai danni di alcuni nobili e un contegno pericoloso sia per il buon nome sia per la stabilità del regime aristocratico.
L’esistenza sregolata – anche se molto simile a quella che conducevano molti giovani eredi di grandi casate: giocava e barava, aveva idee non del tutto ortodosse in materia di religione e soprattutto faceva ogni cosa alla luce del sole – il fatto di essere un membro della Massoneria, la scandalosa relazione con una suora “M.M.”, di sicuro una nobile, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in Murano, non deponevano a suo favore e l’oligarchia veneziana non poteva accettare che un uomo di tale risma potesse restare in circolazione. Ma Casanova aveva dalla sua amicizie di un certo peso nell’aristocrazia, amicizie che gli garantirono una condanna lieve durante la reclusione e forse gli furono di aiuto anche per l’evasione.
Quando fu arrestato, Giacomo Casanova non si perse d’animo e si organizzò per fuggire. Il primo tentativo andò a vuoto a causa di uno spostamento di cella, ma il secondo, nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1756, andò a buon fine. Per evadere passò dalla cella alle soffitte, sfruttando un’apertura procurata da un suo compagno di prigione, il frate Marino Balbi, da qui uscirono sul tetto e poi scesero all’interno del palazzo attraverso un abbaino. Insieme al complice varcarono diverse stanze, finché non li vide un passante che li scambiò per visitatori rimasti chiusi all’interno. Prontamente avvisato un addetto del palazzo, fu aperto loro il portone e i due fuggitivi, guadagnata l’uscita, si involarono rapidamente con una gondola.
La fuga condusse i due ex galeotti verso nord. Ripararono per un po’ a Bolzano, poi si rifugiarono a Monaco di Baviera, da qui, Giacomo Casanova proseguì da solo verso Augusta prima e poi Strasburgo. Il 5 gennaio 1757, il nostro fuggitivo giunse a Parigi, dove trovò accoglienza e appoggio dal suo amico François-Joachim de Pierre de Bernis (1715-1794) che nel frattempo era diventato ministro. Sistematosi a dovere, riprese le sue normali attività, facendosi notare in società e frequentando la crème de la crème della capitale. Provvidenziale fu la conoscenza della marchesa d’Urfé, un’aristocratica ricchissima e stravagante. Con lei Casanova intrecciò una lunga e fruttuosa relazione: sperperò notevoli somme di denaro che la donna, conquistata dal suo fascino, gli elargiva.
Giacomo Casanova promosse anche una lotteria nazionale per rimettere in sesto le finanze dello Stato. Fu autorizzato ufficialmente e nominato “Ricevitore”. La sua idea fu così brillante che tuttora è ancora utilizzata. Nello stesso periodo, fu coinvolto in un’intricata e incresciosa vicenda da cui riuscì a salvarsi grazie alla sua proverbiale prontezza. Successivamente, abbandonò la lotteria e tentò di mettere in piedi un’attività imprenditoriale: una manifattura di tessuti che fu un totale fallimento, anche a causa della guerra in corso. Il fallimento e i debiti lo condussero di nuovo in carcere, ma la marchesa d’Urfé intervenne prontamente a soccorrerlo.
Successivamente, viaggiò per l’Europa, nei Paesi Bassi e poi in Svizzera, infine tornò in Italia, a Genova, poi a Firenze e infine, a Roma. Nel 1762 è di nuovo a Parigi, dove tornò a praticare rituali magici insieme alla marchesa d’Urfé, almeno finché la donna non fu consapevole di essere stata ingannata e raggirata da Casanova, a quel punto, la donna interruppe ogni rapporto e Casanova si trasferì a Londra, poi andò a Berlino e nel 1764, giunse in Russia, a San Pietroburgo, mentre l’anno successivo lo troviamo a Mosca.
Dovunque andasse, Giacomo Casanova era accolto da membri altolocati dell’aristocrazia, da imperatori e personaggi storici di notevole rilevanza. Sorprende di questa straordinaria vita non solo la quantità e la varietà di avvenimenti, ma anche questa facilità di poter incontrare persone a dir poco inaccessibili, o comunque avvicinabili solo da pochi e centellinati visitatori. È quasi certo fosse la fama che lo precedeva a spalancargli innanzi tutte queste porte e la curiosità che circondava la sua persona.
Inoltre, non guastava il fatto che, Casanova fosse un abile intrallazzatore: trovava agganci, si procurava lettere di presentazione e si muoveva con grande destrezza. Era anche largamente favorito dalla sua vasta cultura, dalla sua capacità di intessere conversazioni brillanti e si avvantaggiava del fascino del viaggiatore.
Nel 1766, un episodio spiacevole segnò il suo soggiorno in Polonia: il duello con il conte Branicki. Durante un litigio, il conte offese Casanova che non si ritirò in buon ordine di fronte a quell’uomo potente e pericoloso, come avrebbe fatto chiunque altro. Giacomo Casanova che era anche un uomo coraggioso: sfidò a duello Branicki e nonostante fosse ferito, riuscì a lasciare la Polonia; il conte, ferito gravemente, riconobbe la correttezza del suo avversario e impedì ai suoi di fermarlo.
Casanova si spostò poi a Vienna e da qui a Parigi, da dove fu espulso a causa di un provvedimento voluto dai parenti della marchesa d’Urfé. Lasciata la capitale francese si diresse in Spagna, dove finì di nuovo in prigione. La tappa successiva fu la Provenza e dopo una brutta malattia riprese a viaggiare: Roma, Napoli, Bologna, Trieste. Intanto, sperava di ottenere la grazia da Venezia che finalmente arrivò il 3 settembre 1774.
Tornato a Venezia, Giacomo Casanova si riavvicinò alle sue vecchie frequentazioni e amicizie. Essendo in ristrettezze si dedicò alla scrittura, sfruttando la sua ampia rete di relazioni per assicurarsi sottoscrittori per le sue opere letterarie, trovando molti consensi. Di questi anni è la relazione con Francesca Buschini, una ragazza semplice e incolta. Casanova rimase molto legato a questa donna, anche quando fu costretto ad allontanarsi da lei.
Negli anni a seguire, pubblicò altre opere, ma fu di nuovo vittima della sua indole passionale e impetuosa. Fece pubblicare un libello, per vendicarsi della famiglia Grimani che non aveva preso le sue parti in una discussione. Nello scritto rivelò di essere il vero figlio di Michele Grimani e dichiarò che un altro Grimani era nato da una relazione adulterina. La nobiltà si schierò contro di lui e Giacomo Casanova fu costretto all’esilio. Lasciò Venezia per sempre, nel gennaio 1783 e si recò dapprima a Vienna. Gli ultimi anni li passò in Boemia, dove finì i suoi giorni.
Da lontano, ascoltò gli echi della Rivoluzione francese, ricevette le notizie della caduta della Repubblica di Venezia e vide crollare a poco a poco il suo mondo. Unico conforto in tanta desolazione, oltre alla nutrita corrispondenza con i suoi amici veneziani, fu la stesura della “Histoire de ma vie”, l’opera autobiografica che impegnò le sue residue energie. Casanova si dedicò alla scrittura di questo testo con foga e tenacia, per scongiurare che la morte sopravvenisse prima che avesse concluso il suo lavoro.
La sua opera letteraria ebbe un destino opposto a quello che l’autore avrebbe desiderato. I testi di ordine filosofico, storico e matematico non ebbero mai il riconoscimento letterario e scientifico che lo scrittore aveva agognato, mentre le opere autobiografiche ebbero grande successo, soprattutto l’Histoire, ma dopo la sua morte, qui Casanova si rivela un moderno scrittore di costume.
In copertina: particolare del dipinto di Jean-Honoré Fragonard “I fortunati casi dell’altalena”
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.OkLeggi di più