“Dieci piccoli indiani”: una singolare lettura dell’assassino

Dieci piccoli indiani una singolare lettura dell’assassino

“Dieci piccoli indiani” è uno dei tanti capolavori gialli di Agatha Christie. In una prefazione, di una delle tante edizioni del libro, ho apprezzato l’originale punto di vista applicato al misterioso signor Owen.

In una strana associazione per contrasto, pensando a “Dieci piccoli indiani” mi è tornata in mente la frase evangelica “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8,3). In realtà nel famosissimo giallo, nonché pièce teatrale di Agatha Christie, accade l’esatto contrario: nel gruppo riunito a Nigger Island nessuno è innocente.

A partire dagli invitati del misterioso signor Owen: Anthony Marston, John Macarthur, Emily Brent, Lawrence Wargrave, William Blore, Edward Armstrong, Philip Lombard e Vera Claythorne, sino ai due coniugi, Thomas ed Ethel Rogers, assunti come domestici.

Io sono tra coloro che leggono prefazioni e postfazioni, a volte mi sento un po’ sciocca, a perdermi in tanti lunghi discorsi attorno all’autore o all’opera che sto per leggere, ma lo considero quasi un rito, un rito di attesa che non riesco a tralasciare.
Spesso, questo atteggiamento paga: si scoprono notizie interessanti e punti di vista curiosi che finiscono per assommarsi piacevolmente al ricordo del libro stesso. Leggendo “Dieci piccoli indiani” mi sono trovata in una di queste felici situazioni.

Nella prefazione di un’edizione di questo capolavoro della Christie – purtroppo, e me ne rammarico moltissimo, non ricordo chi ne fosse l’autore e neppure l’edizione del libro – ho trovato un’osservazione singolare sulla storia e in particolare, sul personaggio del misterioso ospite: il signor Owen.
Secondo l’autore della prefazione, la Christie ci ha deliziato con gialli in cui gli assassini uccidono per moventi tradizionali: denaro, vendetta, gelosia; moventi concreti e gli assassini non sono mai dei seriali, anche se ne “La serie infernale”, almeno per un certo lasso di tempo, crediamo proprio di trovarci di fronte a un serial killer, ma in realtà, le cose prenderanno una piega ben diversa.

In “Dieci piccoli indiani”, secondo l’autore della prefazione, invece, siamo proprio alle prese con un serial killer.
Secondo alcuni studi fatti sui seriali, si è stimato che alcuni di loro sceglievano delle professioni che consentivano loro di uccidere, in modo legale, alcuni diventavano boia, altri mercenari.
Anche il personaggio di Agatha Christie, Lawrence Wargrave, ha scelto una professione che gli consentiva, legalmente, di commettere degli omicidi, per interposta persona, e in più le vittime non erano innocenti, bensì dei criminali. Il suo desiderio di uccidere era così sublimato dal ruolo che svolgeva per la comunità.

Scoperto di avere poco tempo da vivere e spinto da un desiderio più forte di uccidere, il giudice decide di passare dall’altra parte della barricata: sceglie dieci vittime, dieci persone colpevoli di aver commesso un omicidio e tutte sfuggite alle maglie della legge.

La uccisione sequenziale di questi soggetti inizia dopo il verdetto, emesso da una voce proveniente da un grammofono che inchioda ognuno di loro, anche i domestici, alla propria colpa, elencando date e nomi delle vittime dei loro omicidi.

Da quel momento in poi gli invitati sull’isola iniziano a morire, e se il giudice, non ha un modus operandi identico per ogni omicidio, come accade per solitamente per i serial killer, in quanto le cause di morte sono sempre diverse, si può però intravedere una firma: la famosa filastrocca profetica e le statuine dei negretti che scompaiono a una a una dal centrotavola della sala da pranzo.

Giuseppe Ungaretti: la poesia pura che “porta in sé un segreto”

L’8 febbraio del 1888 nasceva Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1° giugno 1970), poeta, scrittore, traduttore, giornalista e accademico italiano.
Le sue poesie hanno lasciato un segno profondo nella letteratura italiana del XX secolo.

Ungaretti e in generale la poesia ermetica, che il famoso poeta ha anticipato, hanno sempre fatto risuonare in me delle profonde emozioni.
Il primo incontro con le poesie di Ungaretti è stato di ordine scolastico ed è stato un colpo di fulmine. C’è stato anche un secondo incontro, altrettanto forte, musicale stavolta: quando con il coro abbiamo affrontato una versione musicale della sua poesia “La madre”.

I versi di Ungaretti hanno il potere di toccare l’anima e la loro bellezza risiede in ciò che riescono a suggerire e nella loro capacità di far vibrare corde segrete nell’animo di chi legge.

In questo, a prima vista, scarno mondo poetico si avverte, sotto la superficie, un mondo di sentimenti e di emozioni espressi con poche essenziali parole, che però riescono a far percepire il tutto, anche e soprattutto, il non detto, perché ciò che sembra mancare è presente dentro di noi e si manifesta attraverso risonanze profonde. Le parole di Ungaretti sono una sorta di richiamo che ci consente, leggendo le sue poesie, di recuperare un mondo sommerso.

Giuseppe Ungaretti è stato una tra le voci più rilevanti nel panorama letterario italiano del XX secolo. Mosse i primi passi, seguendo il simbolismo francese e in un primo tempo, produsse componimenti poetici stringati, limitati a poche parole e animati da analogie originali. Successivamente, le sue poesie acquisirono una maggiore complessità, mentre i concetti si facevano più ardui.

La sua poetica subì un’importante evoluzione indotta in particolare dal dolore per la morte del figlio. Le poesie di questo periodo assumono una veste meditativa e sono concentrate su un’intensa riflessione sul destino umano.
Negli ultimi anni di vita, nei versi di Ungaretti spiccano la saggezza raggiunta dal poeta ormai giunto a un’età avanzata e un senso di tristezza e distacco.

Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto, da genitori italiani.
Il padre morì due anni dopo la nascita del poeta e fu la madre, gestendo un forno di proprietà, a garantire i migliori studi al figlio che poté frequentare le più prestigiose scuole.
Proprio durante il periodo scolastico, il poeta iniziò ad avvicinarsi alla poesia, giovandosi degli stimoli che provenivano sia dalle antiche tradizioni sia dalle novità, garantite dalla multietnicità del suo luogo di nascita.
Fu particolarmente vicino alla letteratura francese ma anche a quella italiana: lesse le opere di Rimbaud, Mallarmé, Baudelaire, ma anche di Leopardi e persino di Nietzsche.

Dopo una breve esperienza lavorativa nel settore commerciale, il poeta si trasferì a Parigi per frequentare l’università. In questi anni conoscerà diverse importanti personalità del panorama artistico, quali: Guillaume Apollinaire, Georges Braque, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Pablo Picasso, Giorgio de Chirico, Amedeo Modigliani; iniziò anche a collaborare alla rivista “Lacerba”, pubblicando alcuni suoi componimenti poetici e liriche.

Nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale e quando l’Italia entrò nel conflitto, il poeta decise di arruolarsi.
Durante gli anni di guerra, Ungaretti teneva con sé un taccuino, su cui appuntava le sue poesie che furono stampate nel 1916, con il titolo: “Il porto sepolto”.
Proprio di questi anni sono le sue poesie più famose: “Mattina” scritta il 26 gennaio del 1917 e “Soldati” nel mese di luglio del 1918.

Negli anni che seguirono la prima guerra mondiale e precedettero la seconda, il poeta rimase a Parigi e fu, dapprima, corrispondente del giornale “Il Popolo d’Italia”, poi fu impiegato dell’ufficio stampa all’ambasciata italiana.

Nel 1920, conobbe Jeanne Dupoix e la sposò; l’anno successivo si trasferì a Marino (Roma), dove collaborò all’ufficio stampa del Ministero degli Esteri, mentre si dedicava a una fitta attività letteraria su riviste e quotidiani francesi. Nello stesso periodo, viaggiò molto e ottenne parecchi riconoscimenti ufficiali.

Dal 1931, Ungaretti divenne inviato speciale de “La Gazzetta del Popolo” e per tale incarico fu in Egitto, in Corsica, nei Paesi Bassi e in Italia meridionale.
Nel 1933, il poeta è all’apice della sua celebrità; dal 1936 al 1942 lo troviamo con la famiglia in Brasile, dove si era trasferito per ricoprire la cattedra di letteratura italiana, all’Università di San Paolo del Brasile.

Tornato in Italia, Ungaretti fu nominato Accademico d’Italia. Caduto il fascismo, nel luglio del 1944, il poeta fu sospeso dall’insegnamento e fu reintegrato solo nel febbraio del 1947; mantenne il ruolo di docente universitario fino al 1958 e fuori ruolo fino al 1965.

Dal 1942, Mondadori incominciò a pubblicare l’opera omnia del poeta, con il titolo “Vita di un uomo”. Inoltre, Ungaretti stesso, a partire dal secondo dopoguerra, mandò in stampa nuove raccolte poetiche e ricevette diversi premi.
Nel 1958, il poeta perse sua moglie Jeanne che morì dopo una lunga malattia.
Il 1° gennaio del 1970, Ungaretti scrisse la sua ultima poesia, “L’Impietrito e il Velluto” e nello stesso anno fece un viaggio a New York, dove ritirò il premio internazionale dall’Università dell’Oklahoma.
Morì all’età di 82 anni, nella notte tra il 1° e il 2 giugno 1970, a Milano, di broncopolmonite; fu seppellito nel Cimitero del Verano, a Roma, accanto alla moglie Jeanne.

Per quanto riguarda la poetica di Ungaretti, una delle sue raccolte di poesie: “L’allegria” rappresenta un momento fondamentale per la storia della letteratura italiana. Le poesie, scritte in gran parte tra il 1914 e il 1919, manifestano i sentimenti del poeta nei confronti di ciò che ha vissuto durante la prima guerra mondiale: c’è il dolore, ma sono presenti anche valori quali umanità e fratellanza e il desiderio di riscoprire un’armonia con il cosmo, come appare chiaramente nella poesia “Mattina”. Nelle opere successive si delineerà sempre più, non solo una particolare cura della parola, ma anche l’idea che la poesia sia l’unico mezzo per l’uomo o uno dei pochi per salvarsi dall’ “universale naufragio”. Inoltre, emerge anche uno “slancio vitale”, rafforzato dalla precarietà della vita e dalla visione della morte legate all’esperienza della guerra.

Non tutti furono concordi nell’affermare la grandezza della poesia di Ungaretti, infatti, oltre agli estimatori, ci furono anche molti critici, una condizione normale per qualsiasi precursore e riformatore.
Ad apprezzare in particolare i suoi versi furono i poeti dell’ermetismo che videro in lui un maestro e un iniziatore della poesia “pura”.

Mark Twain, “Le avventure di Tom Sawyer” e la scena della staccionata

Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer e la scena della staccionata

Oggi, 30 novembre, è l’anniversario della nascita di Mark Twain che molti di noi ricordano per le storie del suo scapestrato personaggio, Tom Sawyer.
Voglio onorare questo grande scrittore, parlando un po’ di lui, di un suo libro e in particolare, di una scena, tratta da un suo romanzo, che ho letto anni fa ma che ancora mi fa sorridere.

Mark Twain era lo pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens (Florida, 30 novembre 1835 – Redding, 21 aprile 1910), scrittore, umorista, aforista e docente, nonché autore di diversi capolavori della letteratura statunitense del XIX secolo.

Iniziò come giornalista, successivamente, passò a scrivere racconti umoristici. Con il passare degli anni e, dopo aver subito una serie di tragici lutti, diventò un cronista severo, estremamente critico nei confronti delle religioni e sospinto da un pessimismo venato di ironia.

Nella sua attività letteraria, Samuel Langhorne Clemens utilizzò diversi pseudonimi, il più noto è “Mark Twain” che ha un’origine curiosa; deriva da un grido: “by the mark, twain” (dal segno è due tese, cioè, l’acqua è profonda 12 piedi, quindi, era sicuro passare) che, nello slang della marineria fluviale degli Stati Uniti d’America, serviva a indicare la profondità delle acque.
La scelta di tale pseudonimo fu una sorta di omaggio, al lungo periodo trascorso dallo scrittore a pilotare battelli a vapore sul Mississippi.

Inoltre, il termine “Mark” è ambivalente perché è anche un nome proprio; “Twain”, invece, è la forma arcaica di “Two” (due).
Prima di usare definitivamente questo pseudonimo, lo scrittore ne adoperò altri: fino al 1863, firmò i suoi abbozzi umoristici e fantastici con il nome, “Josh”; utilizzò anche “Thomas Jefferson Snodgrass” e “Sieur Louis de Conte”, quest’ultimo solo per firmare la biografia di Giovanna d’Arco.

Uno dei maggiori meriti di Mark Twain come scrittore fu quello di aver dato vita a una letteratura specificatamente americana: nelle tematiche e nei linguaggi espressivi.
Hemingway disse di lui: “tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain, Huckleberry Finn […] Tutti gli scritti Americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza”.
Uno dei maggiori talenti che gli è riconosciuto è la sua capacità di tradurre in parole scritte la conversazione colloquiale.

Twain fu autore di molte opere conosciute, come: “Il principe e il povero; “Un americano alla corte di re Artù”; “Vita sul Mississippi”, ma, indubbiamente, i suoi due romanzi più noti, di genere picaresco (da pícaro: briccone, furfante; narrazione in apparenza autobiografica, dove il personaggio principale racconta le proprie avventure dalla nascita alla maturità) sono: “Le avventure di Tom Sawyer” e “Le avventure di Huckleberry Finn”.

Il primo romanzo della serie, “The Adventures of Tom Sawyer”, fu pubblicato nel 1876; è il primo di una serie di libri collegati tra loro: “Le avventure di Huckleberry Finn” (1884); “Tom Sawyer Abroad” (1894); il racconto, “Tom Sawyer Detective” (1896).
In tutti e quattro sono narrate le avventure di un ragazzino, Tom Sawyer, per l’appunto, che vive nel sud degli Stati Uniti, negli anni immediatamente antecedenti la guerra di secessione.

Le storie sono ambientate nella cittadina di St. Petersburg – non la cercate: non esiste – in Missouri, sulle rive del grande fiume Mississippi.
I personaggi sono ispirati alla vita dello scrittore, ai suoi amici e familiari, come veniamo a sapere da Twain stesso: “la gran parte delle avventure riportate in questo libro sono accadute realmente. Un paio sono esperienze personali, le altre di quei ragazzi che erano a scuola con me. Huck Finn è preso dal vero, e così Tom Sawyer. Tom, però, non nasce da una persona sola: per lui ho messo insieme il carattere di tre ragazzi che conoscevo, il risultato è quindi un’architettura d’ordine composito” (Mark Twain, prefazione dell’autore a “Le avventure di Tom Sayer”, 1876).

Ho letto il romanzo, “Le avventure di Tom Sawyer”, parecchi anni fa e ora, mi resta un vago e diluito ricordo della trama: un ragazzo vivace, a volte un po’ attaccabrighe che passa le giornate a combinare guai, ma dotato di una grande simpatia, di un grande senso dell’avventura e di un’arguzia, davvero senza confini.
I ricordi dei dettagli del libro sono annebbiati dal tempo, ma una scena del libro è rimasta – come dice ne “Il mestiere dello scrittore”, Haruki Murakami, “gettando dentro la mente le cose alla rinfusa, quello che deve sparire sparisce, quello che deve restare resta” – impigliata nei miei ricordi: l’imbroglio ben congegnato della staccionata.

Padrone assoluto della scena è Tom, che una ne pensa e dieci ne fa.
In questo particolare frangente, il nostro “eroe” è costretto dalla zia Polly a ridipingere una staccionata: una punizione esemplare, per l’ennesimo guaio che ha combinato.
La sottile ironia di Mark Twain sembra esplodere nell’incipit, quando descrive l’inizio della giornata – piena di promesse, specie per un ragazzo che vive di avventure – in cui Tom deve subire la punizione e quindi, non potrà godere delle eccellenti condizioni atmosferiche che si preannunciano già dal mattino:
La mattina di sabato era spuntata e l’intero mondo estivo splendeva luminoso e traboccante di vita. Ogni cuore conteneva una canzone e, se il cuore era giovane, la musica scaturiva dalle labbra. Tutti i volti esprimevano allegria, tutti i passi avevano un che di elastico. I carrubi erano in fiore e la fragranza della fioritura colmava l’aria. Verdeggiante vegetazione rivestiva Colle Cardiff, che dominava il villaggio e ne distava abbastanza per sembrare una Terra Promessa, sognante, riposante e invitante”.

Tom entra in questa scena idilliaca, comparendo da un vialetto con un secchio e un pennello.
Il ragazzo osserva la staccionata: nove metri di lunghezza per due e settanta di altezza, e la tristezza già gli invade l’animo, soprattutto perché ha saggiato le condizioni della giornata che sarebbe degna di ben altri programmi.
Svogliato ma rassegnato inizia a tinteggiare le assi, ma la sua mente già si arrovella per uscire da quell’incubo.
Con l’approssimarsi di uno dei suoi amici, il ragazzo intravede già una soluzione al suo problema.
Ben arriva saltellando su un piede; ha il cuore leggero e colmo di piacevoli aspettative, e mentre procede, addenta una mela e lancia, a intervalli, un “lungo e melodioso grido di gioia, seguito da un ‘ding dong dong, ding dong dong’ in tono profondo”: sta fingendo di essere un battello a vapore.
Dopo uno scambio vivace di battute con Ben Rogers, “proprio il ragazzo, tra tutti quelli del villaggio, le cui prese in giro [Tom] temeva di più” – ci informa Twain – il gioco è fatto.

Tom è un abilissimo manipolatore e ha una mente brillante, specie quando si tratta di evitare un impegno gravoso e magari, di guadagnarci pure qualcosa.
Fatto sta che, il nostro novello tinteggiatore di staccionate, riesce a convincere il suo amico, Ben – che, fra parentesi, si sta avviando felicemente a fare una nuotata – a prendere il suo posto e a sgobbare con calce e pennello, per sbrigare il faticoso lavoro in sua vece.

Vale la pena studiare l’astuta strategia messa in atto da Tom per ottenere il suo scopo e, in particolare, l’abilità di Mark Twain nel rappresentare con le parole, il modo sottile con cui il raggiro è messo in pratica.
Tom contemplò per un momento il ragazzo e disse:
«Cos’è che chiami lavoro?»
«Perché, non è un lavoro, questo?»
Tom ricominciò a pitturare, e rispose, con noncuranza:
«Be’, forse lo è e forse no. Io so soltanto che si addice a Tom Sawyer.»
«Oh, andiamo, non vorrai farmi credere che ti piace?»
Il pennello continuò a muoversi.

«Se mi piace? Be’, non vedo perché non dovrebbe piacermi. Capita forse ogni giorno, a noi ragazzi, la possibilità di imbiancare a calce una recinzione?»
Queste parole fecero apparire la cosa sotto una nuova luce. Ben smise di mordicchiare la mela. Tom passò il pennello, delicatamente, avanti e indietro… indietreggiò di un passo per ammirare l’effetto… aggiunse un tocco qua e uno là… poi tornò a esaminare l’effetto con aria critica, mentre Ben seguiva ogni sua mossa e diventava sempre e sempre più interessato, sempre e sempre più affascinato. Infine disse:
«Ehi, Tom, lasciami imbiancare un po’.»
Tom rifletteva. Parve sul punto di acconsentire, ma poi cambiò idea:
«No, no; credo proprio che non sia possibile, Ben. Vedi, zia Polly ci tiene enormemente a questa recinzione… dà proprio sulla strada, capisci… se si trattasse della recinzione dietro casa non m’importerebbe, e non importerebbe nemmeno a lei. Sì, è tremendamente pignola per quanto concerne questa recinzione; il lavoro deve essere fatto con somma cura; non c’è un ragazzo su mille, forse su duemila, scommetto, che possa pitturarla come deve essere pitturata.
«Ah no… eh? Oh, andiamo, lasciami soltanto provare, soltanto per un po’. Se fossi al posto tuo io te lo consentirei, Tom.»
«Ben, vorrei lasciarti provare, te lo giuro, ma zia Polly… vedi, Jim voleva pitturarla lui la recinzione, e zia Polly non glielo ha consentito. Voleva pitturarla anche Sid, e lei non ha consentito nemmeno a Sid.

Andiamo, non lo capisci in che situazione mi trovo? Se tu dovessi pitturare questa recinzione, e il lavoro non riuscisse bene…»
«Oh, storie; starei molto attento. Su, lasciami provare. Senti… ti darò il torsolo della mela.»
«Be’, allora… No, Ben, non posso. Ho paura che…»
«Te la darò tutta!»

Tom consegnò il pennello, con riluttanza sulla faccia, ma alacrità nel cuore. E mentre [il suo amico] […] sgobbava e sudava al sole, l’artista a riposo sedette all’ombra su un barile lì accanto, fece dondolare le gambe, rosicchiò la mela e progettò il massacro di altri innocenti. La materia prima non mancò; altri ragazzi passarono di lì per caso, di tanto in tanto; si avvicinarono per prendere in giro e rimasero a imbiancare a calce. Quando Ben non ne poteva ormai più, Tom aveva barattato la possibilità successiva con Billy Fisher contro un aquilone in buono stato; e quando anche Billy fu sfinito, Johnny Miller pagò lo spasso di pitturare con un topo morto e un pezzo di spago per farlo girare in aria; e così via e così via, un’ora dopo l’altra. E allorché giunse la metà pomeriggio, Tom, che quel mattino era stato un ragazzo afflitto dalla miseria, si rotolava, letteralmente, tra le ricchezze. Oltre alle cose che ho già menzionato, possedeva dodici bilie, parte di uno scacciapensieri, un frammento di bottiglia blu per guardarci attraverso, un rocchetto, una chiave che non avrebbe mai aperto niente, un pezzo di gesso, il tappo di vetro di una caraffa, un soldatino di stagno, due girini, sei petardi, un gattino con un occhio solo, una maniglia di porta in ottone, un collare per cani, ma non il cane, il manico di un coltello, quattro pezzi di buccia d’arancia e un vecchio e malconcio telaio di finestra. Per tutto il tempo era rimasto in ozio divertendosi piacevolmente, in buona e numerosa compagnia, e la recinzione aveva ben tre strati di imbiancatura a calce! Se non fosse rimasto senza calce per imbiancare, avrebbe mandato in bancarotta tutti i ragazzi del villaggio.
Tom disse a se stesso che il mondo non era poi così desolato, in fin dei conti. Senza rendersene conto, aveva scoperto una grande legge delle azioni umane, vale a dire che per indurre un uomo o un ragazzo a bramare qualcosa, è necessario soltanto far sì che quella cosa sia difficile da ottenere
” (Mark Twain, “Le avventure di Tom Sawyer”)

La scena descritta da Twain non solo è vivace e divertente ma è anche facile da immaginare, quasi fosse lo stralcio della sceneggiatura di un film o magari il testo di un fumetto per ragazzi.
Al contempo, dobbiamo fare i complimenti al nostro Tom che, con la sua sottile psicologia, darebbe, oggi, filo da torcere al più abile stratega del marketing.

Proust e Bergotte alla “Recherche” di un’ala di muro giallo

Proust e Bergotte alla "Recherche" di un’ala di muro giallo

La pandemia e il conseguente lockdown mi hanno lasciato una piacevole abitudine, seguire dei corsi online.
Qualche mese fa, ho visto delle mini conferenze su “Feltrinelli Education”, la piattaforma digitale di servizi formativi.

Tra le tante esperienze e possibilità offerte, ho scelto di esplorare il “Breve corso sulla letteratura del ‘900” con Paolo Di Paolo, dedicato nello specifico a “Il grande romanzo del ‘900: Proust, Joyce, Woolf”.
È stato un viaggio interessante ed emozionante al tempo stesso.

Sono rimasta particolarmente colpita dalla lezione dedicata a Proust e non poche riflessioni ho tratto dalla parte in cui si parla di un personaggio creato da Marcel Proust: Bergotte.

Bergotte è uno scrittore e appartiene alla schiera dei personaggi minori descritti e fatti agire da Proust nella sua À la recherche du temps perdu (“Alla ricerca del tempo perduto”).
Nel V volume, intitolato “La prigioniera”, veniamo a sapere che Bergotte sta per morire, ma che non vuole andarsene da questo mondo senza aver rivisto, almeno per una volta, un quadro di Jan Vermeer (1632-1675; pittore olandese), la Veduta di Delft.

È davvero singolare questo desiderio del personaggio proustiano e ci spinge a chiederci: che cosa può contenere di così affascinante questo dipinto, tale da scatenare un desiderio così intenso? E al contempo, che cosa porteremmo via con noi, come ultima cosa da questo mondo, se fossimo al suo posto?

Bergotte ha fatto la sua scelta: porterà con sé un assaggio di bellezza, quell’assaggio è contenuto nel quadro di Vermeer. Non lo interessa l’intero dipinto, bensì un piccolo dettaglio che lo spinge a indugiare, ancora una volta, davanti alla Veduta di Delft.

Proust ci dice che Bergotte muore a causa di una crisi di uremia (stadio terminale dell’insufficienza renale), abbastanza leggera, ma lo scrittore aveva trascurato le prescrizioni del medico che gli aveva consigliato di riposare. Ma Bergotte non può riposare, perché ha letto una recensione di un critico sul quadro di Vermeer, che lui amava particolarmente, ed era convinto di conoscerlo a fondo.

Nella recensione c’è segnalato che “una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa”.

Così, Bergotte, mangia un po’ di patate, esce di casa e si dirige dritto filato alla mostra, dove è esposto il Vermeer. Già nel fare questi primi passi, si sente mancare. Entrato nelle sale della mostra, scorre rapidamente davanti agli altri dipinti, ricavandone un’impressione di inutilità e aridità; finché non giunge davanti al dipinto che è venuto a rivedere.

Ora, seguendo le indicazioni del critico, Bergotte nota altri particolari, nella Veduta di Delft, cui non aveva prestato attenzione in precedenza, e infine, si sofferma sulla “preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo”.
Nonostante i suoi disturbi aumentino in modo preoccupante, lo scrittore è troppo preso dalla meravigliosa vista e insiste a fissare quel piccolo dettaglio, quel minuscolo barlume di giallo, come volesse afferrarlo e portarlo via con sé.

Quella minuta meraviglia dipinta, lo costringe anche a un parallelo con la sua scrittura e gli fa pronunciare: “È così che avrei dovuto scrivere […]. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo”.

Siamo alle ultime battute, Bergotte si rende conto, dall’aumentare dei suoi capogiri, che sta per morire e pensa che “in una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ala di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda”.

Pochi istanti dopo questi pensieri, Bergotte precipita su un divano e da qui finisce a terra. Morto.
Lo seppellirono, ma tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate e sembravano per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione”.

Con queste parole, Proust mette un suggello: è l’arte a renderci immortali. Per cui, Bergotte è morto, ma è più vivo che mai, almeno finché ci saranno lettori che continueranno a stupirsi, leggendo di lui e del suo speciale legame con il dipinto di Vermeer.

Le citazioni sono tratte da Marcel Proust, La prigioniera, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, edizione integrale a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso, condotta sul testo critico stabilito da Jean-Yves Tadié, Newton Compton editori, Roma 2010

In copertina: Veduta di Delft di Jan Vermeer

Italo Calvino, la leggerezza e il mito di Perseo e Medusa

Italo Calvino la leggerezza e il mito di Perseo e Medusa

Oggi 19 settembre cade l’anniversario della morte di Italo Calvino (Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 – Siena, 19 settembre 1985).

Per me questo grande scrittore è indissolubilmente legato a un ricordo e a un libro magnifico: “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”.
Calvino scrisse queste lezioni in occasione dei sei discorsi da tenere all’Università di Harvard, per l’anno accademico 1985-1986, nell’ambito delle prestigiose “Charles Eliot Norton Poetry Lectures”.

Purtroppo, non riuscì a partecipare: morì improvvisamente, il 19 settembre, a seguito di un ictus, ma le sue lezioni erano a buon punto, mancava solo l’ultima, la sesta.
Il libro fu pubblicato postumo, nel 1988 e il titolo dell’edizione italiana fu scelto dalla moglie, Esther Judith Singer.

L’argomento di ogni lezione trae ispirazione da un valore della letteratura che Calvino riteneva fondamentale e che per lui, era alla base della letteratura per il millennio che si stava affacciando.
Calvino aveva scelto l’ordine delle lezioni e delle parole a esse associate in base alla loro importanza. Si parte con quella che riteneva fondamentale e si prosegue con quelle meno essenziali: Leggerezza; Rapidità; Esattezza; Visibilità; Molteplicità; Coerenza (solo progettata).

Della prima lezione, quella appunto dedicata alla leggerezza, ho un ricordo preciso e su questo intendo soffermarmi: attraverso la vicenda di Medusa e Perseo, scelta tra gli altri esempi che illustrano in modo magistrale questa particolare qualità.

Intanto, andiamo a conoscere meglio i due protagonisti della storia.
Medusa (“protettrice”, “guardiana”) è una figura della mitologia greca; è una Gorgone (mostro della mitologia greca).
In tutto le Gorgoni sono tre: Medusa, appunto, Steno ed Euriale. Tutte figlie di Forco e Ceto, divinità marine.

Queste creature mitologiche avevano un incredibile potere: erano in grado di pietrificare chiunque incrociasse il loro sguardo, ed erano immortali, a parte Medusa.
L’aspetto delle Gorgoni cambia con il passare del tempo: anticamente, erano rappresentate come donne orrende, munite di ali d’oro e mani di bronzo; avevano un viso rotondo e al posto dei capelli, una massa di serpenti. Erano dotate di una grande bocca con zanne suine.
In versioni cronologicamente più avanzate, il loro aspettò mutò decisamente in meglio: avevano sembianze di bellissime ragazze, ma per chioma avevano sempre dei serpenti.
Anche il luogo in cui vivevano muta con il passare degli anni e degli autori da cui sono nominate, prima pare fossero rintracciabili nell’Oceano Occidentale, poi in Libia.

Come Medusa, anche Perseo appartiene al mondo della mitologia greca, è un eroe, figlio di Zeus e di Danae, nipote del re di Argo, Acrisio, ed è ricordato soprattutto per le sue imprese eroiche: l’uccisione di Medusa e il salvataggio di Andromeda (diventata poi sua moglie) da un mostro marino.
Dalla moglie Andromeda ebbe diversi figli, tra cui spiccano: Elettrione (nonno di Eracle) e Gorgofone (madre di Icario e nonna di Penelope, sposa di Odisseo).

Presentati i due protagonisti, possiamo procedere con il racconto mitologico che li riguarda: la morte di Medusa.
Fu Polidette, re di Serifo, a inviare Perseo a uccidere la Gorgone, con la speranza di sbarazzarsi di lui, per poter sposare sua madre, Danae.
Prima di affrontare Medusa, Perseo deve rintracciare le ninfe dello Stige, invisibili e introvabili, per questo si trova a dover convincere le Graie (o Forcidi, custodivano l’accesso al luogo in cui vivevano le Gorgoni e simboleggiavano i vari momenti della vecchiaia; non erano mai state giovani e possedevano un solo occhio e un solo dente, in comune) a rivelargli la dimora delle ninfe dello Stige, per poter ottenere gli oggetti che gli erano indispensabili per condurre a termine la sua impresa.

Le ninfe dello Stige consegnano all’eroe alcuni gadget davvero straordinari: sandali alati e l’elmo dell’invisibilità di Ade. Inoltre, da Ermes, Perseo riceve un falcetto adamantino.
Così attrezzato, giunge al cospetto delle Gorgoni e le trova addormentate.
Atena guida l’eroe e sorregge lo scudo, dal cui riflesso Perseo osserva l’immagine di Medusa per colpirla, senza rischiare di restare pietrificato.
L’eroe taglia la testa della Gorgone e dalla ferita mortale escono: Pegaso, il mitico cavallo alato, e il gigante Crisaore, i figli che Medusa ha concepito con Poseidone.

Le sorelle della Gorgone si destano e cercano di inseguire Perseo, ma l’elmo l’ha reso invisibile e l’eroe fugge in groppa a Pegaso, portando con sé la testa di Medusa rinchiusa in un sacco.
Secondo altre versioni del mito, dal sangue di Medusa si originò l’anfesibena (mitico serpente con due teste, dotato di occhi che rilucono come lampade) e alcune alghe pietrificate, al contatto con la sua testa, si trasformarono in corallo (o “gorgonia”).

Il mito di Perseo e la morte di Medusa sono ripresi da Calvino per simboleggiare la leggerezza: Perseo indossa sandali alati e decapita Medusa sostenendosi a ciò che vi è di più leggero, venti e nuvole; inoltre, l’eroe evita la visione diretta della Gorgone: osserva la sua immagine riflessa nel suo scudo.
Le immagini di leggerezza non finiscono qui. Dal sangue di Medusa nasce Pegaso: dalla pesantezza della pietra si manifesta l’opposto, la leggerezza di un cavallo alato.

Calvino recupera il mito di Medusa e Perseo e nel complesso rapporto che li lega individua diversi richiami alla leggerezza, come la delicatezza con cui l’eroe si prende cura della testa della Gorgone che è uno strumento così potente tanto che Perseo la usa con grande efficacia contro i suoi nemici, ma al contempo è molto fragile e l’eroe la posa con gentilezza quando deve abbandonarla temporaneamente per svolgere delle faccende.

Ma il vero miracolo della leggerezza si manifesta nella mutazione provocata dalla testa di Medusa, posata su ramoscelli marini che vengono trasformati in coralli, così le ninfe, per potersi adornare di coralli, si avvicinano all’orribile testa del mostro e aggiungono alghe e ramoscelli.

In copertina: Pegaso e Crisaore nascono dal corpo di Medusa in un’illustrazione di Edward Burne-Jones

Leggere poesie e scoprire in un “lampo” quanto siamo cambiati

Leggere poesie e scoprire in un "lampo" quanto siamo cambiati

Rileggere a distanza di tempo poesie studiate a scuola è un’esperienza che invito tutti a fare.
Anche scoprire poesie non ancora lette di un poeta, sul quale l’insegnante di italiano insisteva, anni fa, a fare domande durante le interrogazioni – e noi a chiederci perché – può riservare gradite sorprese.

Il famoso senno del poi nella letteratura ha un senso concreto.
Le esperienze che abbiamo vissuto, i libri che abbiamo letto negli anni, i viaggi che abbiamo intrapreso hanno cambiato i nostri punti di vista, irrimediabilmente – e per fortuna – siamo persone diverse da quelle che hanno letto Pascoli, Leopardi, Dante, Foscolo, ecc. sui banchi di scuola.

Io ho fatto un tuffo nel passato proprio in questi giorni, grazie a un post da scrivere, e sono riemersa diversa.
La poesia che ha suscitato il mio interesse e ha fatto scaturire queste riflessioni è una poesia di Giovanni Pascoli, dalla raccolta Myricae che – udite, udite – non avevo letto a scuola e chissà quante altre ce ne sono in attesa di una mia lettura, che possono suscitare emozioni analoghe.

La poesia è Il lampo e credo che, in assenza di un titolo, si sarebbe capito ugualmente di che cosa stesse parlando il poeta.

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.


Leggendo questi pochi versi si può vedere in azione un lampo, il suo effetto sulle cose e lo sgomento improvviso che crea in chi assiste al suo repentino arrivo.
Non serve concentrarsi troppo per sentire anche il tuono.
E quell’occhio esterrefatto che si apre e si chiude in un baleno è l’incarnazione stessa dell’attimo in cui la luce del lampo rivela, come la luce di un enorme flash, il mondo e poi lo getta in un istante, di nuovo, nell’oscurità totale.

Osservare: un’azione indispensabile per diventare un bravo scrittore

Osservare azione indispensabile per diventare un bravo scrittore

Leggere ad alcuni (sicuramente a me) fa l’effetto delle ciliegie: una tira l’altra.
Sono arrivata a John Gardner, al suo “Il mestiere dello scrittore”, attraverso molte ciliegie: consigli e suggerimenti giunti da altre proficue letture.

Mi interrogo da anni su argomenti inerenti la scrittura e mi immergo fra le righe dei libri, a ripescare perle preziose: nuovi ferri del mestiere o validi strumenti per affinare quelli che già possiedo.

A lungo ho riflettuto su un argomento che mi sta molto a cuore: l’osservazione, ovviamente rapportata alla scrittura.
Secondo Gardner, “il buon scrittore vede le cose in modo netto, vivido, preciso e selettivo (vale a dire che sceglie ciò che è importante) non necessariamente perché la sua capacità di osservazione sia per natura più acuta di quella delle altre persone (benché con la pratica diventi tale), ma perché si preoccupa di vedere le cose in modo chiaro e di metterle per iscritto in maniera convincente”.

La scena narrativa trae la sua forza e la sua concretezza dalla capacità di chi scrive di associare il gesto alle affermazioni dei personaggi. Se lo scrittore non conosce a fondo che cosa farebbero i suoi personaggi in una data situazione, il risultato potrebbe essere poco convincente e il lettore avvertirebbe la sensazione che i personaggi di quel dato libro siano “stati manipolati, costretti a fare cose che nella realtà non farebbero”.

Per costruire una scena credibile bisogna partire da un’osservazione attenta e approfondita dei personaggi, avere una loro visione mentale precisa; è necessario saper cogliere gli spunti emozionali che servono all’evoluzione successiva dell’azione. Per fare questo è utile fermarsi (sollevare la penna o le dita dai tasti) e “capire esattamente come si presenta un certo oggetto o gesto e trovare le parole giuste per descriverlo”.

Inserire i dettagli giusti è fondamentale: il lettore ben indirizzato da una scrittura precisa, potrà costruire nella sua testa le scene che a mano a mano va leggendo e più lo scrittore sarà stato accurato nell’esame delle azioni dei personaggi e avrà utilizzato termini esatti, più le immagini saranno vivide nella mente dei lettori che aggiungeranno addirittura alla scena connotazioni che l’autore ha lasciato semplicemente sottintese: “scegliendo il dettaglio giusto, lo scrittore, abilmente, ne fa venire in mente altri; il dettaglio significativo suggerisce più di quanto non dica”.

Uno scrittore eccellente “è preciso sia nei dettagli letterali che nelle corrispondenze metaforiche”. La metafora ha un grande potere visivo: “spesso un gesto importante o un insieme di gesti non può essere afferrato con pari efficacia da nessun altro mezzo”.

Per evocare scene efficaci e veritiere, dettagli e metafore, oltre a essere correttamente utilizzati, devono essere tratti dalla vita vissuta. Nella visione dei grandi romanzieri “non c’è nulla di seconda mano”.

Uso scrupoloso delle parole per aiutare il lettore a visualizzare una scena

uso delle parole

Fondamentale per una lettura coinvolgente è riuscire a scrivere in modo che il lettore possa visualizzare la scena che state descrivendo.

I termini da usare vanno scelti con grande oculatezza, in particolare i verbi che sono il propellente dell’azione.
Se utilizzate le parole giuste, con poche frasi ben delineate e una serie di verbi trascinanti, potrete costruire una scena che possiederà grande chiarezza e consentirà ai vostri lettori di entrare nella storia e farne in qualche modo parte.

Ad esempio, una frase semplice, tratta da “Le molliche del commissario” di Carlo F. De Filippis:
Il commissario spense la sigaretta, infilò la giacca e si alzò“.
Questa frase contiene nella sua brevità una scena perfettamente costruita e facilmente immaginabile dal lettore.
Si riesce a vedere il commissario che compie le tre azioni descritte; i verbi danno ritmo alla frase che è composta da tre segmenti che segnalano i tre gesti dell’uomo.

Nei gialli, in particolare, dove spesso le descrizioni sono usate ai minimi termini, è importante tracciare con rapidità una scena o i tratti caratteristici di un personaggio; è importante non far “soffrire” l’azione né farla stagnare, per questo, spesso, nei romanzi gialli compaiono frasi scarne ed efficaci e verbi incalzanti.

“Sogno Rock”: il mio racconto è uscito su Confidenze

racconto Sogno Rock

Nel n. 3 di Confidenze potete trovare il mio racconto “Sogno Rock”.


Sarei molto felice se lo leggeste in tanti e mi auguro che la storia che ho raccontato possa, se non toccare il vostro cuore, almeno sfiorarlo per qualche istante e farvi dimenticare pensieri e preoccupazioni almeno per qualche momento.

Ora potete leggerlo anche online: qui

Leggere: un aiuto per vivere e coltivare le emozioni

ragazza che legge

Leggere un libro, per me, non è solo entrare in una storia e viverla a fianco dei personaggi.
Quando leggo sviluppo simpatie e antipatie per le persone che animano il libro e finisco per schierarmi con loro o contro di loro.

Li critico, ci discuto a voce alta, chiedendo perché si sono comportati in un certo modo. Approvo o meno le loro scelte e a volte persino mi infurio per certi comportamenti assurdi che si ostinano a tenere.

Ad esempio, il libro della Bronte, Cime tempestose che ho comunque amato molto, mi ha fatto quasi infuriare in certi momenti, e avrei voluto esprimere con note piuttosto colorite tutto il mio disappunto nei confronti di Heathcliff e Catherine che a turno riuscivano a rovinarsi la vita tra ripicche e orgoglio autolesivo.

Che dire poi delle mie ultime letture? I gialli. Lì, la gamma di reazioni si estende alla gestione delle indagini, alla pesantezza riscontrata nelle eventuali lungaggini, poi si passa alla frenesia, quando ci si avvicina alla soluzione, alla quota di rabbia nei confronti dei cattivi o alla comprensione, quando il male è causato per una giusta vendetta.

Chi legge visita molti luoghi, vive certamente molte altre vite, come è stato già detto a più riprese, ma soprattutto leggere ci consente di provare una gamma di sensazioni ed emozioni in molti casi davvero forti.
Credo sia ormai dimostrato da molte ricerche che leggere aiuta a sviluppare empatia, a essere più coinvolti e disponibili verso il prossimo.

Ma più di tutto, leggere ci consente di piangere, di indignarci, di innamorarci o di ridere a crepapelle in qualsiasi momento e praticamente dovunque. Basta avere un libro a portata di mano…