Gerrit Dou ritrae in modo eccezionalmente realistico la figura di una donna anziana che sta leggendo e in tale ritratto mostra tutto il suo talento e la sua straordinaria capacità tecnica.
“Donna anziana che legge” o “Donna anziana che legge la Bibbia” è un dipinto a olio del pittore olandese Gerrit Dou o Gerard Dou (Leida, 7 aprile 1613 – Leida, 9 febbraio 1675). Eseguito dall’artista nel 1631-1632 circa, dal novembre 1912, è entrato nella collezione del Rijksmuseum di Amsterdam. In passato fu ritenuta un’opera di Rembrandt; niente di strano, dato che nel 1628, il quattordicenne Dou fu il primo allievo di Rembrandt (Leida, 15 luglio 1606 – Amsterdam, 4 ottobre 1669) che era più grande di lui di soli sette anni.
Nel 1626, Rembrandt condivideva la sua bottega a Leida con un altro artista Jan Lievens (Leida, 24 ottobre 1607 – Amsterdam, 8 giugno 1674) e in quel periodo dipingeva con uno stile raffinato, impiegando forti contrasti tra luce e ombra. Questa tecnica, chiaramente espressa in “Donna anziana che legge”, fu successivamente abbandonata da Rembrandt che respinse tale raffinatezza, mentre il suo allievo si concentrò sul suo perfezionamento.
Quando nel 1632, il suo maestro si trasferì ad Amsterdam, Dou divenne il fondatore dei Fijnschilder (termine utilizzato per quei pittori olandesi che, in particolare tra il 1630 e il 1710, si adoperarono per una rappresentazione della realtà il più fedele possibile. Questo tipo di tecnica è stata portata a grandi altezze a Leida, specialmente da Gerrit Dou; si tratta di una tecnica estremamente raffinata e meticolosa, applicata principalmente nei cosiddetti dipinti di genere che ritraevano scene di attività quotidiane di piccolo formato) di Leida.
In “Donna anziana che legge”, Dou mostra tutto il suo talento e un grande abilità tecnica, nonostante la sua giovane età. La donna e i suoi abiti sono dipinti con estrema precisione, ma anche il testo biblico del lezionario e la stampa che lo accompagna sono altrettanto dettagliati e ben visibili.
Chi osserva il quadro vede chiaramente ciò che la donna sta leggendo: l’inizio del diciannovesimo capitolo del “Vangelo di Luca”, dove si afferma che chi desidera fare del bene dovrebbe dare il massimo dei suoi beni terreni ai poveri. Il messaggio stride con gli abiti costosi della donna anziana, che all’apparenza è ancora aggrappata ai suoi beni.
Dou raffigura l’anziana con un approccio eccezionalmente realistico per l’epoca e rispetto agli standard pittorici del Nord Europa. L’artista dà allo spettatore la sensazione di trovarsi vicino al soggetto, mentre la donna ritratta sembra ignara di essere osservata, raffigurata di profilo è chiaramente e totalmente presa dalla lettura.
L’impiego del chiaroscuro, che Dou aveva imparato da Rembrandt, è tipico ed evidenzia i dettagli più importanti del dipinto. Lo sfondo è liscio, sobrio e non è fonte di distrazione. A livello compositivo, l’artista crea una sorta di contrasto diagonale rilassante tra la parte superiore sinistra e quella inferiore destra.
Per lungo tempo, in pratica fino al 1900, quest’opera di Dou fu considerata il ritratto che Rembrandt fece di sua madre, Neeltgen Willemsdr van Zuijdtbroeck, da cui il titolo di “Madre di Rembrandt”. Questo fatto oltretutto si accordava con l’antica idea che Rembrandt avesse raffigurato molti dei suoi parenti nei suoi dipinti, per cui la sua paternità sembrava scontata.
Solo nel 1901, lo storico dell’arte Wilhelm Martin suggerì in un libro dedicato a Gerrit Dou che probabilmente “La donna anziana che legge” fosse di sua mano e non di quella del suo maestro. A rinforzo di tale tesi, citava le caratteristiche stilistiche, evidenziando l’utilizzo del chiaroscuro e la struttura superficiale liscia tipica di Dou e il fatto che Dou e Rembrandt, così come Lievens, usassero spesso gli stessi modelli. In effetti, la stessa anziana signora compare nei dipinti di tutti e tre gli artisti e lo stesso Dou la dipinse più volte.
Dopo il 1900, fu anche chiaro che la designazione di alcuni modelli di Rembrandt come suoi parenti era del tutto infondata. Quando nel novembre 1912, il dipinto fu offerto al Rijksmuseum dal lascito di A. H. Hoekwater, fu finalmente esposta come opera di Dou e con il suo attuale titolo.
In copertina: Gerrit Dou, “Lezende oude vrouw” (Donna anziana che legge) olio su tavola, 71,2 cm × 55,2 cm (1631-1632 ca.), conservato al Rijksmuseum, Amsterdam
Il romanzo gotico è un genere molto particolare che ebbe grande successo di pubblico. Terrore, turbamento, ambientazioni fosche e personaggi ambigui, a suo tempo, hanno sorpreso e affascinato un gran numero di lettori della media borghesia.
Il romanzo gotico, genere narrativo che ha fuso elementi del romanticismo con sfumature dell’orrore, nasce in seguito alla crescente alfabetizzazione della media borghesia, che nella letteratura cercava occasioni di evasione, e si evolve dalla seconda metà del XVIII secolo. Le storie di questo particolare filone sono ambientate in epoca medievale. I luoghi dell’azione preferiti sono castelli diroccati, sotterranei e altri ambienti cupi e tetri.
Gli argomenti più trattati nel romanzo gotico, definito successivamente “romanzo nero” (attualmente è chiamato così il genere noir), sono l’amore perduto, i conflitti interiori e il soprannaturale.
Il termine “gotico” fu coniato con intento spregiativo da Giorgio Vasari (1511 – 1574; pittore, architetto e storico dell’arte italiano) nel Cinquecento, come sinonimo di barbarico e spaventoso, e faceva riferimento allo stile artistico e architettonico che nacque in Francia nel 1100 e si diffuse in Europa tra il Trecento e il Quattrocento. Solo più avanti tale termine fu rivalutato e adottato per definire il genere narrativo che ebbe origine in Inghilterra dalla metà del Settecento e fu anticipatore del romanticismo. Inoltre, nell’Ottocento, il romanzo gotico trovò un altro parallelo architettonico, quello con lo stile neogotico, che si affermò in contrasto con quello neoclassico, ed ebbe una certa fortuna proprio come il suo omologo letterario.
Per quanto riguarda le caratteristiche del romanzo gotico esso mostra innanzitutto amore per la fantasia e il sogno. Questo genere, che si allaccia per vari aspetti alla fiaba anche se i suoi finali sono generalmente amari, si ammanta di tutto ciò che terrificante, abnorme, mostruoso, inverosimile, soprannaturale. Inoltre, il soprannaturale può assumere varie sembianze: quelle di un fantasma oppure di un animale, o ancora di un oggetto. Quello che contava per gli autori di queste storie era provocare sorpresa, angoscia, terrore e un turbamento profondo nei lettori.
Il capostipite dei romanzi gotici è ritenuto “Il castello di Otranto”, romanzo breve del 1764 di Horace Walpole (1717-1797). Questo testo è ritenuto il primo racconto fantastico della letteratura inglese moderna ed è un’opera innovativa nel panorama letterario dell’epoca. L’autore, conscio della novità del suo romanzo e temendo di coprirsi di ridicolo, se il libro non avesse incontrato il favore del pubblico, presentò la sua storia come la traduzione di un antico manoscritto, stampato a Napoli nel 1529 e trovato causalmente nella biblioteca di un’antica famiglia cattolica del nord Inghilterra. La storia si svolge nella Puglia medievale, più precisamente nel Regno di Sicilia del re Manfredi (Manfredi di Hohenstaufen o Manfredi di Svevia o Manfredi di Sicilia, 1232 – 1266; ultimo sovrano della dinastia sveva del Regno di Sicilia). Questo romanzo che divenne un modello cui fecero riferimento nei secoli molti intellettuali, è una miscela ben riuscita di realismo e grottesco. Inoltre, l’autore non ha lesinato su misteri da svelare, passaggi segreti e minacce. Queste ultime in genere provengono dall’autorità politica e religiosa, come è possibile rilevare in alcune opere in particolare, quali: “L’italiano, o il confessionale dei penitenti neri” (1797) di Ann Radcliffe e “Il monaco” (1795) di Matthew Lewis.
Walpole temeva inutilmente il ridicolo: il suo romanzo ebbe un immediato successo, al punto che lo scrittore decise di far uscire, a soli due mesi di distanza dalla prima edizione, una seconda edizione. In questa nuova pubblicazione, al sottotitolo “story”, fu aggiunto l’aggettivo “gothic” (a gothic story).
L’uso del termine “gotico” non era casuale e neppure limitato al raffronto con l’architettura omonima, esso includeva il forte interesse che nella seconda metà del Settecento si afferma nei confronti del Medioevo e di tutto ciò che è medievale: espressioni artistiche, oggetti dell’epoca, come: collezioni di monete, armature, antiche ballate. Tanto che l’aggettivo “gotico” finì per definire non solo lo stile architettonico, ma anche il periodo cui faceva riferimento e ben presto fu utilizzato come sinonimo di “medievale”. Simbolo di questa nuova tendenza e del recupero dell’epoca antica è Strawberry Hill, la casa di campagna che Walpole comprò nel 1747 e che trasformò secondo il gusto gotico, fino a farla diventare una fortezza nei pressi di Londra.
A fare compagnia a Walpole nell’Inghilterra della seconda metà del Settecento ci sono altri scrittori di questo genere narrativo, come: Clara Reeve (1729-1807), William Beckford (1760-1844), Matthew Lewis (1775-1818), Charles Robert Maturin (1782-1824) e John William Polidori (1795-1821).
Dopo Walpole e Clara Reeve, le storie gotiche, pur svolgendosi sempre in ambientazioni fosche e tenebrose, videro ridursi gli eventi soprannaturali. Fu Ann Radcliffe (1764 – 1823; popolare scrittrice inglese, pioniera della letteratura dell’orrore e in particolare, del romanzo gotico) a inaugurare questa nuova direzione del genere e importante in questo senso fu anche il romanzo epistolare “Dracula” (1897) di Bram Stoker (1847 – 1912; scrittore irlandese, noto in particolare per essere l’assistente personale dell’attore Henry Irving e il direttore economico del Lyceum Theatre di Londra) che rese popolare il personaggio del vampiro.
A livello temporale, il romanzo gotico è collocato preferibilmente in epoca medievale oppure nell’Ottocento. I temi più gettonati sono la morte, le antiche profezie e la possessione demoniaca, mentre le storie sono calate in un clima di terrore e di conflitti interiori senza soluzione.
Gli scrittori di romanzi gotici fanno a gara per destare nei lettori un senso di turbamento e di allarme costante, non si lasciano neppure sfuggire l’occasione di inserire scene violente, sangue e morti truculente. Anche i personaggi si allineano a tutto il resto, spesso misteriosi e ambigui sono tormentati da pene d’amore e soggetti a passioni violente.
Immancabile poi in questo genere narrativo è una certa tipologia di donna: la vergine perseguitata (vedi il romanzo epistolare “Clarissa Richardson” di Samuel Richardson, pubblicato nel 1748, Lewis, la Radcliffe e il già citato Walpole). Queste giovani donne sono spesso vittime delle loro stesse pulsioni e spesso in fuga da seduttori malvagi o da terribili creature, come vampiri, fantasmi e stregoni. Possono anche essere imprigionate o essere affette da turbe psichiche che impediscono loro di distinguere la realtà dall’immaginazione. A completare il quadretto idillico e richiamando scene consuete nei film horror, i personaggi dei romanzi gotici in generale vivono in luoghi isolati, lontani dai centri abitati oppure il loro isolamento è di matrice sociale, sono cioè degli emarginati.
In copertina: particolare del ritratto di Horace Walpole di Sir Joshua Reynolds (1756)
“La freccia nera” romanzo di Robert Louis Stevenson racconta le avventure di un eroe, Richard Shelton, nell’Inghilterra del XV secolo, durante la Guerra delle Due Rose e sotto il regno di Enrico VI.
“The Black Arrow: A Tale of the Two Roses” (La freccia nera: una storia delle due rose) è un romanzo del 1888 di Robert Louis Stevenson (Edimburgo, 13 novembre 1850 – Vailima, 3 dicembre 1894; scrittore, drammaturgo e poeta scozzese dell’età vittoriana) ed è sia un romanzo storico d’avventura sia un romanzo d’amore.
Apparve per la prima volta in diciassette puntate nel 1883, firmate con lo pseudonimo di Captain George North e con il sottotitolo “A Tale of Tunstall Forest” (Un racconto della foresta di Tunstall), in “Young Folks”, una rivista letteraria settimanale per bambini (pubblicata nel Regno Unito tra il 1871 e il 1897, inizialmente a Manchester, poi a Londra, nel 1873; è nota proprio per aver pubblicato per prima alcuni romanzi di Stevenson in forma seriale, tra cui: “L’isola del tesoro”, “Rapito” e, appunto, “La freccia nera”), “A Boys’ and Girls’ Paper of Instructive and Entertaining Literature” (Un giornale per ragazzi e ragazze di letteratura istruttiva e divertente) dal vol. XXII, n. 656 (sabato 30 giugno 1883) sino al vol. XXIII, n. 672 (sabato 20 ottobre 1883).
Le “Paston Letters” (Lettere Paston, una grande collezione di lettere che fanno parte della corrispondenza tra la famiglia Paston, una famiglia della piccola nobiltà del Norfolk, ed i loro congiunti ed altre persone a loro legate, fra il 1422 e il 1509. La collezione include diversi importanti documenti) furono la principale fonte letteraria di Stevenson per La freccia nera.
La trama di questo romanzo avventuroso è incentrata sulla storia di Richard (Dick) Shelton, di come diventò cavaliere, del modo in cui salvò la sua dama, Joanna Sedley, e anche di come ottenne giustizia per l’omicidio di suo padre, Sir Harry Shelton.
La storia è ambientata durante il regno del “vecchio re Enrico VI” (1422-1461, 1470-1471), nel periodo della Guerra delle due rose (“Wars of the Roses”), una sanguinosa lotta dinastica combattuta in Inghilterra tra il 1455 e il 1485 (1487 per una parte della storiografia inglese), tra due diversi rami della casa regnante dei Plantageneti: i Lancaster e gli York. La guerra fu così denominata, nel XIX secolo, dopo che Walter Scott (1771 – 1832; scrittore, poeta e romanziere scozzese, considerato il padre del moderno romanzo storico), nel 1829, ebbe pubblicato il romanzo “Anna di Geierstein”, facendo riferimento agli stemmi dei due casati che recavano rispettivamente una rosa di colore rosso e una bianca.
Il titolo del romanzo di Stevenson fa riferimento al “biglietto da visita”, nonché arma dei fuorilegge della foresta di Tunstall, una freccia nera, appunto. I fuorilegge, organizzati da Ellis Duckworth faranno sospettare a Dick che il suo tutore, Sir Daniel Brackley, e i suoi servitori siano responsabili dell’omicidio di suo padre. I sospetti di Dick basteranno a mettere Sir Daniel contro di lui, per cui al giovane non resterà che la fuga e in seguito, la decisione di unirsi ai fuorilegge della Freccia Nera contro l’assassino di suo padre. Questa lotta lo coinvolgerà anche nel più grande conflitto che li circonda.
La trama è piuttosto articolata e sono presenti numerosi personaggi, ne passiamo in rassegna alcuni: Richard (Dick) Shelton, protagonista del romanzo, figlio del defunto Sir Harry Shelton ed erede di Tunstall. Il ragazzo non ha ancora diciotto anni, nel maggio 1460, periodo in cui si svolge la prima parte della narrazione. Stevenson lo dipinge come “bruno e con gli occhi grigi“. È considerato il capo dei fuorilegge della Freccia Nera a Shoreby, mentre cercano di salvare Joanna Sedley da Sir Daniel. È nominato cavaliere da Richard Crookback nel corso della battaglia di Shoreby. Nicholas Appleyard, veterano settuagenario della battaglia di Agincourt (si svolse vicino l’omonima località nell’odierno dipartimento del Passo di Calais, il 25 ottobre 1415, durante la guerra dei cent’anni e vedeva contrapposte le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d’Inghilterra di Enrico V). Nel romanzo è descritto, così: “il suo viso era come un guscio di noce, sia per il colore che per le rughe; ma il suo vecchio occhio grigio era ancora abbastanza chiaro, e la sua vista non era diminuita“. Sir Oliver Oates, parroco locale di Tunstall e impiegato di Sir Daniel. Fisicamente Stevenson di lui ci dice che era un uomo “alto, corpulento, rubicondo e con gli occhi neri, di quasi cinquant’anni”. Nel romanzo è ritratto come una vile spia di Sir Daniel Brackley. Sir Daniel Brackley, l’antagonista, cavaliere egoista e senza scrupoli; noto per passare dai Lancaster agli York e viceversa “continuamente”, seguendo solo il suo tornaconto personale. Brackley si arricchì, ottenendo la tutela di ricchi eredi in minore età, come Dick Shelton, e procurando loro ricchi matrimoni. Il suo carattere vacillante ricorda quello dello storico conte Thomas Stanley e di suo fratello Sir William Stanley nella Guerra delle due Rose. Tuttavia, Sir Daniel era diverso dagli Stanley: non era un semplice opportunista, ma anche un furfante subdolo e avido. Stevenson dice che è calvo e ha un “viso magro e scuro“; aggiunge su lui anche qualche elemento positivo: era “un cavaliere molto allegro, nessuno più di lui in Inghilterra” e anche un buon capo militare. I Walsingham, nome dato da Stevenson ai Woodville delle Guerra delle due Rose. Non hanno alcun ruolo nella narrazione del romanzo, ma si dice che nel recente passato avessero esercitato la signoria e ricevuto affitti a e Kettley. Sono descritti come “poveri come ladri“: la famiglia Woodville durante la Guerra era povera, essendo composta in gran parte da popolani, nobilitati dal matrimonio sotto Edoardo IV d’Inghilterra. Joanna Sedley, l’eroina, nota anche come John Matcham, è la pupilla di Lord Foxham, rapita da Sir Daniel. Nel maggio del 1460, ha sedici anni, Stevenson, riferendosi a lei nel primo libro, parla spesso della sua morbidezza e della sua struttura minuta, in contrasto con gli abiti maschili che indossa. Will Lawless, fuorilegge, membro della Compagnia della Freccia Nera, che nella vita è stato molte cose, ad esempio: marinaio e persino frate francescano. Stevenson lo descrive come un uomo dal fisico imponente e grande bevitore. Ellis Duckworth, organizzatore della Black Arrow Fellowship (Compagnia della Freccia Nera), nata per vendicare Harry Shelton, Simon Malmesbury e se stesso. Fu accusato della morte di Harry Shelton e si dice che fosse un agente di Richard Neville, conte di Warwick. Lord Foxham, magnate Yorkista locale, tutore di Joanna Sedley, che si unisce a Dick Shelton e ai fuorilegge nel tentativo di salvarla. Lord Shoreby, magnate locale dei Lancaster, ucciso dai fuorilegge della Freccia Nera, nella chiesa dell’Abbazia di Shoreby, per impedire il suo matrimonio con Joanna Sedley. Richard Crookback, (personaggio storico), Riccardo Plantageneto, duca di Gloucester, futuro re Riccardo III d’Inghilterra. Sir William Catesby, (personaggio storico), servitore di Richard Crookback.
Per quanto riguarda alcuni riferimenti cronologici e geografici presenti nel romanzo, sono possibili dei parallelismi con avvenimenti e luoghi storici reali. Innanzitutto, il romanzo ci dà una serie di informazioni che conducono a due riferimenti temporali, per i due blocchi di azione che costituiscono la narrazione e cioè: Maggio 1460 e gennaio 1461. L’indicatore temporale fondamentale è la battaglia di Wakefield (30 dicembre 1460) che Stevenson descrive nel primo capitolo del terzo libro. Inoltre, la Battaglia di Shoreby, una battaglia fittizia, è l’evento principale del quinto libro ed è modellata sulla Prima Battaglia di St Albans, durante la Guerra delle due Rose. Questa battaglia, nella storia come nel romanzo, fu vinta dagli York. Inoltre, la presenza di una chiesa abbaziale a Shoreby ricorda la chiesa abbaziale di Tewkesbury, in cui i Lancaster si rifugiarono, dopo la battaglia del 4 maggio 1471.
Per quanto riguarda i luoghi, nel “prologo” Stevenson lascia intendere che Tunstall sia un luogo reale: “Il borgo di Tunstall a quel tempo, nel regno del vecchio re Enrico VI, aveva più o meno lo stesso aspetto che ha oggi“. In effetti, nel Suffolk sud-orientale, in Inghilterra, a 18 miglia a NE di Ipswich, a meno di 10 miglia dal Mare del Nord, si trova una “Tunstall” con una foresta annessa. Stevenson e la sua famiglia avevano visitato il Suffolk nel 1873. La somiglianza dei toponimi nei pressi della Tunstall, nel Suffolk, con quelli del romanzo fa pensare che si tratti della Tunstall di Stevenson. Kettley, Risingham e Foxham coincidono probabilmente con Kettleburgh, Framlingham e Farnham nella realtà. Shoreby-on-the-Till e Holywood dovrebbero corrispondere a Orford e Leiston. La prima è sul Mare del Nord ed è unita a Framlingham da una strada che va verso nord-ovest (la “strada maestra da Risingham a Shoreby”), e Leiston, anch’essa sul Mare del Nord, ha un’abbazia medievale, proprio come la Holywood del romanzo. Il fiume Till, che è citato in gran parte nel primo libro, sarebbe quindi il fiume Deben che scorre vicino a Kettleburgh.
Il nome del protagonista, Richard Shelton, e la sua eredità, Tunstall, erano il nome e il titolo di un personaggio storico reale: Sir Richard Tunstall. Questi era un lancasteriano e sostenitore del re Enrico VI d’Inghilterra, tenne il castello di Harlech contro gli Yorkisti dal 1465 al 1468, durante la prima parte del regno di Edoardo IV. Al contrario, Richard Shelton de “La freccia nera” è un convinto Yorkista.
Metà dei manoscritti originali di Stevenson sono andati perduti, tra i quali: “L’isola del tesoro”, “La freccia nera” e “Il maestro di Ballantrae”. Durante la prima guerra mondiale, gli eredi dello scrittore vendettero le sue carte; molte furono messe all’asta nel 1918. Il testo, così come comparve per la prima volta a stampa, nel 1883, come serie in “Young Folks”, è stato reso disponibile dall’Università della Carolina del Sud. Stevenson modificò il testo del 1883 nel 1888, per pubblicarlo come libro.
Ivan Kramskoj è un altro degli autori che ha rappresentato in diversi dipinti il tema della lettura. In questo specifico ritratto, “Lettura. Ritratto della moglie dell’artista”, il pittore ha raffigurato sua moglie, Sofia Kramskaya, immersa nella lettura di un libro.
“Lettura. Ritratto della moglie dell’artista” è un dipinto del 1866, del pittore e critico d’arte russo, Ivan Nikolaevič Kramskoj (Ostrogožsk, 8 giugno 1837 – San Pietroburgo, 6 aprile 1887), che fu anche capo e organizzatore del gruppo di artisti aderenti al Tovariščestvo peredvižnych chudožestvennych vystavok (Società per le esposizioni d’arte ambulanti). Gruppo che sorse nel 1870 a Pietroburgo, in reazione all’accademismo ufficiale, con il programma di rivolgere l’arte a motivi veristici e farne mezzo di educazione ed elevazione sociale.
“Lettura” fa parte dei lavori della fase iniziale dell’attività artistica di Kramskoj, ma già in questa tela si possono individuare gran parte dei tratti che caratterizzeranno la sua produzione pittorica futura. Nel quadro possiamo ammirare un incantevole ritratto di donna che, seduta all’aperto, in un parco o in un giardino, sta leggendo un libro.
La donna del quadro è Sofia Kramskaya, consorte del pittore. I due coniugi ebbero un matrimonio felice e armonioso; Kramskoj nutriva per sua moglie un grande affetto e spesso la troviamo raffigurata nei suoi dipinti. In questo specifico ritratto, Sofia è seduta su una panchina di pietra, ha un’espressione seria; gli occhi sono bassi, rivolti verso un grande libro che tiene aperto, sostenuto dalla sua mano sinistra. Il braccio destro è appoggiato con grazia su un cornicione di pietra, sul cui lato anteriore si affacciano delle foglie di una pianta rampicante.
Sofia è ritratta in una posa libera: la mano destra sorregge la fronte, la testa è inclinata leggermente in avanti, la mano sinistra aperta è posata sul grembo. Gli abiti che indossa sono alla moda: uno scialle verde chiaro a strisce rosse (le avvolge morbidamente i fianchi e sporge da sotto il braccio, posato sul davanzale di pietra della panchina); una camicetta bianca con il colletto a balze; un’ampia gonna marrone.
I colori dei suoi vestiti sono chiari e brillanti, specie la camicia. Inoltre, una fonte di luce è concentrata sulla figura e la fa spiccare sullo sfondo scuro, dando la sensazione che Sofia sia avvolta in un alone luminoso, mentre un riverbero della luce investe anche il suo volto assorto nella lettura. Un ciondolo compare al centro della sua scollatura a V, mentre attorno alla vita indossa una fascia di colore scuro. Sul davanti della gonna è appoggiato un ombrello, mentre alle sue spalle, sulla sinistra del dipinto, intravediamo un cappello di paglia, a tesa larga, che presenta una fascia scura intorno alla base, dietro di esso sporgono le foglie di una pianta.
L’artista ha curato con precisione e realismo ogni dettaglio: i capelli scuri, lucidi e ricci composti in un’elegante acconciatura; la costosa spilla sul vestito; lo squisito scialle che è sceso dalle spalle. Il pittore ha utilizzato colori espliciti e ha giocato con luci e ombre che donano una nota di morbidezza all’intera figura, al fine di esaltarne la sensualità, nonché la tenerezza. È una scena intima, caratterizzata da una compostezza aristocratica e sembra quasi che la donna fosse ignara di essere oggetto delle attenzioni dell’artista.
Lo sfondo è fatto di alberi dalle foglie rosse e verdi; il sole sta tramontando e intravvediamo sulla sinistra del quadro uno scorcio del suo viaggio verso la notte, testimoniato dal cielo tinto di arancione.
In copertina: “Lettura. Ritratto della moglie dell’artista” (1866-1869) di Ivan Nikolaevič Kramskoj, olio su tela (dimensioni 56 x 64 cm), Tretyakov Gallery – Mosca, Russia
Rocambole, avventuriero e ladro gentiluomo, è un singolare personaggio della letteratura ottocentesca. Un eroe dalle tinte fosche, che a un certo punto della sua vita decide di lasciare il “lato oscuro” per difendere i più deboli.
Rocambole, il cui nome originale era Joseph Fipart dit Rocambole, è un personaggio inventato, protagonista del romanzo a puntate, “Les Drames de Paris” (I drammi di Parigi), del 1857, dello scrittore francese Pierre Alexis Ponson du Terrail (Montmaur, 8 luglio 1829 – Bordeaux, 10 gennaio 1871; autore di romanzi popolari o roman-feuilleton). Le vicende di questo singolare personaggio hanno avuto una grande influenza sullo sviluppo della narrativa d’avventura, precorrendo la narrativa eroica moderna.
Ponson du Terrail iniziò a scrivere il primo romanzo del ciclo “Les Drames de Paris”, cioè “L’Héritage Mysterieux” (L’eredità misteriosa) nel 1857, per il quotidiano “La Patrie”. La sua idea era quella di sfruttare il successo dei “Misteri di Parigi” di Eugène Sue (1804 – 1857; scrittore francese, noto soprattutto per i suoi romanzi d’appendice a carattere sociale), scritto circa quindici anni prima.
Il protagonista della saga, Rocambole, ottenne un enorme successo popolare che garantì al suo autore un’ottima e costante fonte di reddito. Du Terrail scrisse in totale nove romanzi con protagonista Rocambole. I testi erano destinati a vari giornali dell’epoca e l’autore fu costretto a produrli in fretta, questo, purtroppo, andò a discapito della qualità della scrittura e dello stile che risulta stereotipato. Per questi motivi, probabilmente, l’interesse per Rocambole decadde quasi del tutto nei secoli successivi al suo periodo d’oro.
In ogni caso, Rocambole ha la sua importanza: per la prima volta con i suoi romanzi ci troviamo di fronte ad avventure di fantasia. Il suo personaggio segna il passaggio dagli eroi del romanzo gotico a quelli più moderni, intraprendenti e dotati di un carattere oscuro.
Quando scriveva le peripezie di Rocambole, Ponson du Terrail fu sottoposto a notevoli pressioni da parte dei suoi affezionati lettori. Tutti erano ansiosi di conoscere il seguito delle sue avventure. Queste pressioni spiegano gli sviluppi imprevisti della serie, come la cancellazione di alcuni personaggi e l’ascesa di altri, in particolare, quella del protagonista che dall’ottobre del 1858, diventò l’eroe principale con “Les Exploits de Rocambole” (Le imprese di Rocambole).
I romanzi di du Terrail oltre a portare qualcosa di nuovo, sono un ottimo spiraglio per conoscere la vita parigina. Lo stesso personaggio dell’avventuriero spericolato è una miscela ben riuscita di sfacciataggine parigina e fascino orgoglioso del bandito romantico.
Scendendo più nei dettagli, riguardo a Rocambole, l’autore ci informa che era orfano e già da bambino, viveva rubando. Poi, dopo un arresto e una fuga dalla colonia penale completerà la sua formazione criminale, grazie a due personaggi chiave della sua vita: la vedova Fipart e Sir Williams (vero nome Andréa Felipone).
La vita di Rocambole può essere divisa in due fasi principali. Nella prima, si industria a compiere ogni sorta di crimine: ricatti, furti e persino omicidi. Poi, dopo varie vicissitudini, finito di nuovo in prigione e successivamente evaso, ancora una volta, decide di cambiare vita e di dedicare le sue “arti” al bene. In questa seconda fase della sua esistenza, Rocambole trova diversi alleati, ad esempio: pentiti come lui e persino alcuni che in passato erano stati suoi avversari. Con essi inizia una sorta di crociata, a favore di orfani defraudati delle loro eredità da persone malvage e di bambini rapiti e strappati ai loro genitori.
Viaggia anche molto, arrivando persino in India. Fa diverse tappe a Londra e continua a entrare e uscire di galera. Le sue evasioni, come le sue avventure sono in tutto e per tutto delle vere acrobazie. Di romanzo in romanzo, lo vediamo coinvolto in situazioni sempre più complicate e pericolose, pronto ad affrontare mille pericoli e a gettarsi nella mischia, per vivere peripezie sempre più audaci e temerarie. Non per niente, il termine “rocambolesco”, mutuato dal nome del personaggio, è entrato nell’uso corrente, quando si vuole descrivere azioni particolarmente spericolate e azzardate.
Dopo Ponson du Terrail, altri scrittori hanno proseguito la saga di Rocambole e sull’avventuriero sprezzante del pericolo sono stati girati anche diversi film e serie televisive.
In copertina: a sinistra, “Rocambole: les drames de Paris”, copertina di Gino Starace per la ristampa della libreria Arthème Fayard del 1909; a destra, copertina del primo numero di una ristampa del ciclo di romanzi Rocambole, pubblicato in 219 numeri dalle Éditions Rouff (1908-1910). Illustrazione di Louis Bombled
“La lettrice” è un dipinto di Jean-Honoré Fragonard, risalente al 1776. Questo ritratto rappresenta una sorta di meditazione sulla bellezza e sugli effetti della lettura sull’animo femminile.
Jean-Honoré Fragonard (Grasse, 5 aprile 1732 – Parigi, 22 agosto 1806) è stato un pittore francese, un importante esponente del rococò e uno dei più importanti artisti francesi del Settecento.
Fragonard sapeva sfruttare al meglio le sue doti pittoriche. Faceva un uso particolare della luce e si avvaleva di una singolare rarefazione di specifiche parti, un valido artificio che gli consentiva di rappresentare con efficacia la leggerezza di alcuni elementi, come i panneggi o le bianche acconciature femminili.
Lavorò a Versailles fino alla rivoluzione, dopo la quale il suo stile fu rimpiazzato da quello neoclassico, caratterizzato da severità e tetraggine; l’opposto di quello di Fragonard che era assolutamente incapace di dipingere temi seri. Infatti, impossibilitato a gareggiare con i suoi pari aulici, aveva scelto di primeggiare tra i pittori di moda e i suoi dipinti più famosi raffigurano scene leggere e frivole, spesso erotiche.
Non disdegnò neppure i soggetti storici, i paesaggi e le opere di genere, ma la sua grande eleganza fu chiaramente impiegata nella pittura di carattere frivolo e malizioso.
Affascinato dalla bellezza femminile, Fragonard dipinse un nutrito gruppo di dipinti in cui sono raffigurate giovani donne in momenti di quieta solitudine. Questi dipinti sono una specie di evocazione; le fanciulle che l’artista amava dipingere sono una sorta di personificazione della musica e della poesia.
Uno di questi dipinti “al femminile” è “La lettrice”. Nel quadro è raffigurata una ragazza con uno sgargiante vestito giallo; ha il capo inclinato ed è appoggiata a un grande cuscino rosa, piacevolmente assorta nella lettura di un libro che sorregge con delicatezza con la mano destra; l’altra mano è appoggiata a una poltrona. Non sappiamo chi sia questa giovane concentrata a leggere, invece sappiamo, grazie ai raggi x, che sotto questo dipinto, l’artista aveva tracciato un disegno differente. L’opera è datata 1776 ed è stata utilizzata in svariate edizioni del romanzo “Madame Bovary” di Gustave Flaubert.
Rispetto alle altre opere di Fragonard, questo dipinto è certamente più tranquillo. Si tratta di una scena di erudizione di una giovane donna e potrebbe essere definito un ritratto, anche se la donna non ci guarda. Da notare la postura delle mani e della schiena (molto dritta nonostante il grande cuscino) che denotano che la ragazza ha ricevuto un’educazione in materia di decoro ed etichetta.
La tecnica utilizzata da Fragonard è l’olio su tela. Notevole per la varietà dei tocchi, il dipinto è un buon esempio della pennellata rapida e vigorosa sviluppata dall’artista, e a volte definita “escrime” (scherma) dai suoi contemporanei.
Fragonard ha concepito questo dipinto, affinché fosse gradito agli occhi di chiunque, evitando gli interessi intellettuali e con l’intento di arrecare gioia e calore allo spettatore che l’artista coinvolge, inducendolo a porsi delle domande sulle conseguenze della lettura nel pensiero e nelle emozioni della fanciulla ritratta. In questo modo, “La lettrice” diventa una meditazione sulla bellezza, ma anche sulle implicazioni della lettura nell’animo femminile.
Attualmente, “La lettrice” è conservata alla National Gallery of Art di Washington. Fu donata al museo nel 1961, dalla signora Mellon Bruce, in memoria di suo padre, Andrew W. Mellon. In precedenza, era appartenuta al dottor Tuffier.
In copertina: “La lettrice”, olio su tela (dimensioni 81,1×64,8 cm) di Jean-Honoré Fragonard, conservato alla National Gallery of Art, Washington
Renoir è uno dei tanti artisti che ha raffigurato soggetti immersi nella nobile arte della lettura. Nei suoi quadri, a leggere sono sia uomini sia donne, ma anche molti bambini e adolescenti, tutti accomunati dalla stessa “devota” concentrazione. Una di queste attente figure è “La liseuse”, dipinta tra il 1875 e il 1876, in pieno periodo impressionista.
Il pittore Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 25 febbraio 1841 – Cagnes-sur-Mer, 3 dicembre 1919) è ritenuto uno tra i massimi esponenti dell’Impressionismo e uno degli interpreti più spontanei di questo particolare movimento.
L’artista francese ha lasciato una messe davvero nutrita di opere: ben cinquemila tele e un numero altrettanto elevato tra disegni e acquerelli. Si è anche distinto per la sua poliedricità, attraversando nella sua carriera artistica diversi periodi.
In un suo scritto disse che “l’opera d’arte deve afferrarti, avvolgerti, trasportarti”. Secondo me, queste parole, calzano perfettamente anche per l’arte della lettura. In uno dei tanti soggetti che Renoir ha raffigurato intento a leggere, possiamo ravvisare quel rapimento che l’artista ritiene si debba provare davanti a un’opera d’arte. Sto parlando del dipinto “La liseuse” (La lettrice) realizzato tra il 1875 e il 1876.
Nel dipinto, come afferma il titolo stesso, è raffigurata una donna immersa nella lettura di un libro. A fare da modella a Renoir fu Marguerite Legrand, detta Margot, una giovane graziosa di Montmartre che morì di febbre tifoidea nel febbraio del 1879. L’artista, che rimase molto colpito dalla sua morte, di lei disse che “aveva una pelle che rifletteva la luce”, e in questo ritratto, in effetti, il pittore è riuscito a mettere in risalto l’incarnato della sua amica, grazie alla nuova tecnica pittorica impressionista.
Realizzata in studio, l’opera è caratterizzata da una freschezza e da una spontaneità del tratto tipica dei dipinti eseguiti di getto, en plein air.
Nel quadro sono presenti pochissimi dettagli e un solo oggetto: un libro; perché Renoir intendeva concentrare l’attenzione dello spettatore sull’intensità della lettura. Lo sfondo è accennato, in quanto deve solo trasmettere l’idea della profondità, senza definire un ambiente preciso, mentre i colori, chiari e luminosi, sembrano ravvicinare il viso della giovane all’osservatore. Inoltre, per accrescere la luminosità cromatica della tela, Renoir accosta larghe e disordinate pennellate di colore, seguendo la tecnica impressionista.
L’artista ha anche fissato sulla tela dei punti di colore, quali: le labbra di un rosso brillante, lo jabot rosa che la ragazza indossa come ornamento sopra una blusa scura. Gli occhi della lettrice sono rivolti verso il basso: due semplici ed essenziali linee nere. L’espressione del viso è serena e trasmette a chi guarda la concentrazione della “Liseuse”, nonché il piacere della lettura che la ragazza, con il libro aperto davanti a sé, sta provando.
Renoir insiste sui colori, non traccia un contorno; utilizza il chiaroscuro per ravvivare il volto della ragazza, mentre le tonalità sono alterate da effetti di luce. Per l’incarnato, l’artista ha aggiunto dei violenti tocchi di giallo, sicuramente ispirati dall’ambientazione – probabilmente l’interno del Caffè Guerbois o del Café de la Nouvelle Athènes, luoghi tra i più frequentati dagli Impressionisti – cioè dalle tonalità dorate della luce artificiale a gas.
In questo dipinto, la luce gioca con il soggetto e i suoi riflessi creano dei richiami in vari punti della tela. Il pittore voleva dare la sensazione di un sole accecante che accende a tratti i capelli rossi della ragazza, illumina le pagine del libro aperto e poi si riflette dalla carta bianca sul viso della giovane.
Renoir ha applicato pennellate rapide, studiando con cura l’abbinamento di toni caldi e freddi, ad esempio: il rossore sfumato del volto di Margot si bilancia perfettamente con la zona blu-verde sul lato destro del dipinto. Inoltre, le zone caratterizzate da colori freddi contrastano con i colori caldi riservati in particolare al volto e ai capelli del soggetto, e persino con i contorni della cornice della finestra che si profilano dietro la testa della ragazza. Un tocco di luce compare leggero su una spalla e dona un accenno di volume alla figura.
In questo dipinto il disegno non detiene un ruolo speciale perché il soggetto è modellato dal colore. I contorni sono labili e incerti. Successivamente, le opere di Renoir cambieranno registro riguardo all’importanza del disegno. Ma in questa fase, esso ha un ruolo subordinato, al contrario della tendenza della pittura accademica di quegli anni in cui occupava un posto preminente.
Gustave Caillebotte (1848 – 1894; pittore francese) acquistò “La liseuse” nel 1876; nel 1893, il dipinto entrò nelle collezioni statali francesi e successivamente, fu esposto al museo parigino du Luxembourg e al Louvre. Ora, si trova al museo d’Orsay.
In copertina: “La liseuse” (La lettrice) di Auguste Renoir, olio su tela, 47×38 cm (1876) conservato al Museée d’Orsay, Parigi
Van Gogh era un lettore accanito. La lettura per il pittore olandese fu una consolazione, un rifugio, una compagnia, un’ispirazione e una passione profonda in tutto l’arco della sua vita.
Vincent van Gogh amava la lettura. In particolare, nel 1879, in un periodo oltremodo difficile per lui, leggeva senza sosta per tutto il giorno.
In questo periodo oscuro, l’artista interruppe anche la sua corrispondenza, con tutti, anche con il fratello Theo; leggere era il suo unico conforto, e in questa fase, quasi la sua unica ragione di vita: “Se non studio, se non cerco più, allora sono perduto”.
Al “Van Gogh Museum di Amsterdam” sono conservati solo tre i libri che per certo gli appartenevano. Due recano il nome Vincent sulla pagina dell’occhiello: “Chérie” di Edmond de Goncourt e “Histoire d’un paysan” di Èmile Erckmann e Alexandre Chatrian; il terzo, “Recueil de psaumes à l’usage des églises réformées” mostra tracce della sua inconfondibile scrittura. Se ne aggiunse un quarto, esposto l’ultima volta a Parigi nel 1972, poi andato disperso, “L’Amour” di Jules Michelet, un autore dall’artista molto amato, insieme a Dickens, Balzac, Zola, i fratelli Goncourt, Loti e vari critici d’arte come Charles Blanc o Sensier, Shakespeare.
È lo stesso Vincent a dichiarare il suo amore per la lettura: “Ho una passione pressoché irresistibile per i libri e sento continuamente il bisogno di istruirmi, così come ho bisogno di mangiare il pane”.
Van Gogh non è in ogni caso un collezionista di libri, non ha una biblioteca, perlomeno non fisica. Lui i libri li usa non li possiede e li fa suoi interiorizzandoli. Una volta che li aveva “digeriti”, li condivideva con gli amici, li regalava. La sua biblioteca era nella sua testa.
L’impossibilità di collezionare libri da parte dell’artista era dovuta anche alla sua vita errabonda: cambiò 37 indirizzi in 37 anni di vita e fu anche un uomo con poche risorse economiche. Questi due fattori non gli consentirono di accumulare molti volumi.
Conosciamo le sue preferenze in termini di lettura attraverso la sua corposa corrispondenza (ben 903 lettere!) e grazie a questa, sappiamo anche quali dei libri che l’artista ha letto nel corso della sua esistenza lo hanno maggiormente influenzato, quelli che hanno avuto un ruolo fondamentale nella sua arte e nella sua vita.
Per Vincent, leggere insegnava a vivere e a vedere, perché, secondo lui, letteratura, arte e vita erano intrecciate indissolubilmente.
L’artista olandese cercava nei libri la stessa libertà che cercava in pittura. E per lui, pittura e scrittura erano legate alla passione per i libri e per la natura. Inoltre, l’una completava l’altra e insieme facevano esistere il mondo.
La pittura poi, era per van Gogh una sorta di scrittura. Adoperare i colori giusti e tracciare una linea sulla tela per lui aveva la stessa valenza di uno scrittore che trova la parola giusta. Nelle sue lettere sono indicate centinaia di opere letterarie, di numerosi autori e in lingue diverse.
Van Gogh non aveva molti amici, la sua grande compagna era la sua arte pittorica, ma il suo genio artistico necessitava di ispirazione e sentiva anche il bisogno di staccare. Nei libri, l’artista trovava ciò che gli mancava, oltre a stimoli e suggerimenti per la sua creatività.
L’aspetto letterario fu fondamentale per la sua opera pittorica, basti pensare alle sue letture e ai temi che compaiono nei suoi quadri. Infatti, nelle sue opere, l’autore olandese mostra un particolare interesse per i poveri, i diseredati e le ingiustizie. Altresì, troviamo: la semplicità, il duro lavoro, l’umiltà, la terra, la natura, come pure, l’indagine dell’animo umano, la verità delle cose.
Van Gogh espresse il suo amore per i libri e la lettura in genere in venticinque opere pittoriche: cinque lavori su carta, diciotto dipinti, due schizzi sulle lettere. Tra queste, quella più affascinante ed enigmatica è la “Lettrice di romanzi”.
In questo dipinto l’artista ha raffigurato una donna che sta leggendo un libro. La figura ha colori scuri e netti ed è di profilo; le tinte sono marcate e definite. Il soggetto si staglia in primo piano, balzando dallo sfondo chiaro e luminoso.
Dal dipinto emerge la solitudine della donna, e la lettura cui è intenta è chiaramente un momento di evasione dalla realtà quotidiana.
In copertina: “La lettrice di romanzi” (1888) di Vincent Van Gogh
Noir, cioè nero, rimanda al concetto di cupo, malinconico e marcatamente pessimista, caratteristiche fondamentali delle storie noir, dove un protagonista, antieroe per eccellenza, si muove in metropoli violente tra intrighi, omicidi e corruzione.
In questi giorni di caldo intenso, leggere, sotto l’ombra provvidenziale di un ombrellone, sdraiati su un comodo lettino, può essere uno svago piacevole. In genere, durante le vacanze, specie quelle estive, i lettori apprezzano tuffarsi tra le pagine di un giallo, di un thriller o comunque, di un buon poliziesco o magari di un noir. Tutte queste definizioni non sono altro che delle sotto tracce di un genere molto amato, e chi gradisce questo tipo di letture ha davvero solo l’imbarazzo della scelta tra tante sfumature narrative, tutte ugualmente coinvolgenti.
Una di queste varianti di successo è appunto il noir o “romanzo nero”, che deriva dal sottogenere hard boiled nato alla fine degli anni venti del Novecento, negli Stati Uniti. L’aggettivo “nero” fa riferimento alle caratteristiche fondamentali di questo genere, cioè storie contraddistinte da tematiche e atmosfere cupe, tetre, malinconiche e pessimiste.
Il termine noir proviene dal mondo anglosassone e fu un genere particolarmente sfruttato in Francia, sulla traccia delle novelle tragiche (“Les Histoires tragiques de nostre temps”) di François de Rosset (1571-1619; traduttore e scrittore francese di successo) e le storie cupe e violente, ispirate alla tradizione dei racconti orrorifici, di Jean-Pierre Camus (1584 – 1652; scrittore e prelato francese).
Nel Settecento, gli stessi argomenti prendono una piega lacrimosa-sentimentale, in particolare in certe parti dei “Mémoires du comte de Comminges” (1735) di M.me de Tencin (1682 – 1749; baronessa de Saint-Martin-de-Ré, scrittrice francese, madre di D’Alembert), nei romanzi dell’abate Antoine-François Prévost (1697 – 1763; scrittore francese) e in alcune opere di Denis Diderot (1713 – 1784; filosofo, enciclopedista, scrittore e critico d’arte francese).
Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dopo Horace Walpole (1717 – 1797; quarto Conte di Orford, scrittore inglese, autore de “Il castello di Otranto”, primo romanzo gotico propriamente detto) e Clara Reeve (1729 – 1807; scrittrice inglese, autrice del romanzo gotico “Il vecchio barone inglese”) il romanzo gotico fu denominato “romanzo nero” (romain noir) o del terrore.
Con Ann Ward (nota come Ann Radcliff, 1764 – 1823; popolare scrittrice inglese, pioniera della letteratura dell’orrore e in particolare del romanzo gotico) poi, il genere del romanzo nero subisce un’evoluzione narrativa. La nuova tipologia contrappone tematiche all’estremo (innocenza virtuosa-crudeltà fisica e morale, religione-satanismo), come in “Han d’Islande” di Victor Hugo (1802 – 1885; scrittore, poeta, drammaturgo e politico francese, considerato il padre del Romanticismo in Francia) e ne “La morte amoureuse” di Pierre Jules Théophile Gautier (1811 – 1872; scrittore, poeta, giornalista e critico letterario francese), fino a giungere ai testi eccessivi di Pierre Mac Orlan (pseudonimo di Pierre Dumarchais, 1882 – 1970; artista e scrittore francese) e a quelli de “Les Mystères de la Morgue ou les Fiancés du IV arrondissement. Roman gai” (1918) di Francis Carco (pseudonimo di François Carcopino-Tusoli, 1886 – 1958; scrittore francese, ambientò le sue opere tra i bassifondi parigini e la vita bohèmienne di inizio Novecento).
Successivamente il filone noir fu assimilato al romanzo giallo, guadagnando un notevole successo, in particolare con Leo Malet (1909 – 1996; scrittore francese che con Georges Simenon e André Héléna è stato uno dei maggiori rappresentanti del romanzo poliziesco in lingua francese), Pierre Siniac (1928 – 2002), Tito Topin (1932) e A.D.G. (pseudonimo di Alain Fournier, detto Camille, 1947 – 2004; giornalista e scrittore francese).
Il 22 maggio del 1859, nasceva Sir Arthur Conan Doyle (Edimburgo, 22 maggio 1859 – Crowborough, 7 luglio 1930), capostipite del giallo deduttivo, padre, almeno in veste letteraria, del genio investigativo, Sherlock Holmes.
Conan Doyle – insieme a Edgar Allan Poe (Boston, 19 gennaio 1809 – Baltimora, 7 ottobre 1849) – è considerato il fondatore di ben due generi letterari: il giallo e il fantastico. Nella sua vasta produzione, lo scrittore scozzese è passato dal romanzo d’avventura, alla fantascienza; dai temi storici al soprannaturale.
La prima opera di Doyle risale al 1879: “Il mistero di Sasassa Valley”, scritto pochi anni prima di laurearsi in Medicina e Chirurgia (1881), presso l’Università di Edimburgo. Non si trattava di un giallo, bensì di un racconto del terrore che Conan Doyle vendette al Chambers Journal. Fu proprio mentre faceva da assistente medico a diversi dottori che iniziò ad appassionarsi alla letteratura e a scrivere le sue prime opere. Si ritiene, oltretutto che, il personaggio di Sherlock Holmes fosse ispirato a uno dei suoi professori di medicina: il brillante e freddo dottor Joseph Bell. Lo scrittore riprese anche il suo particolare metodo scientifico, oltre che le sue capacità deduttive.
Conan Doyle era indubbiamente un uomo dalle forti convinzioni, con un notevole senso dell’onore e durante la sua vita, sostenne diverse battaglie per i motivi più disparati, utilizzando la stampa per propugnare e sostenere il suo punto di vista, in modo davvero efficace e intraprendente. Visse una gran varietà di esperienze umane: passò dalla povertà a una grande notorietà; conobbe anche molte persone importanti della sua epoca. Esercitò come medico ed ebbe una lunga carriera come scrittore, praticò anche molti sport, come: cricket, biliardo, boxe, sci, motociclismo e calcio.
Fu mentre passava da un incarico di lavoro all’altro, ancora come medico, che iniziò a scrivere le avventure di Sherlock Holmes, più precisamente, nel periodo in cui aveva aperto uno studio medico nel Southsea (sobborgo di Portsmouth). Le storie del singolare detective iniziarono ben presto ad avere un discreto successo. Il primo romanzo, dove compare questo singolare e arguto personaggio, risale al 1887: “Uno studio in rosso”, pubblicato sul Beeton’s Christmas Annual. In questa prima apparizione, Doyle presenta Sherlock Holmes, delineando le principali caratteristiche del suo acuto investigatore e esponendo, al contempo, la perspicace scienza della deduzione che contraddistingue il suo metodo di indagine. Lo fa, utilizzando la voce del dottor Watson che in un certo senso è il suo alter ego. Nel 1880, compare una seconda avventura di Sherlock Holmes, “Il segno dei quattro”, questa nuova avventura dell’infallibile detective gli decretò un enorme successo.
Nonostante la notorietà di Doyle sia dovuta proprio al personaggio di Holmes, il rapporto fra i due fu piuttosto contrastato: lo scrittore lo odiava, perché era diventato più famoso di lui. Inoltre, Doyle avrebbe preferito esplorare generi letterari diversi, come l’avventura o il fantastico oppure dedicarsi a opere di ricerca storica, invece di soffermarsi prevalentemente sui gialli. L’elemento fantastico penetra, però, anche in alcune storie di Sherlock Holmes, ad esempio, il romanzo “Il mastino dei Baskerville” (1902) e il racconto “Il vampiro del Sussex” (1927).
Il personaggio di Sherlock Holmes è comparso in quattro romanzi e cinquantasei racconti ed è diventato l’emblema del giallo. Inoltre, il successo di cui è stato oggetto lo ha portato a uscire dalle pagine scritte, per passare nel mondo del teatro, del cinema e della TV, e, secondo alcuni critici, è la più famosa figura di detective della storia del giallo.
Doyle ci presenta Holmes in questo modo: “il suo sguardo era acuto e penetrante; e il naso sottile aquilino conferiva alla sua espressione un’aria vigile e decisa. Il mento era prominente e squadrato, tipico dell’uomo d’azione. Le mani, invariabilmente macchiate d’inchiostro e di scoloriture provocate dagli acidi, possedevano un tocco straordinariamente delicato, come ebbi spesso occasione di notare quando lo osservavo maneggiare i fragili strumenti della sua filosofia” (La scienza della deduzione, II capitolo di “Uno studio in rosso”, Mondadori, 1976).
Non sappiamo molto del passato di Sherlock Holmes e neppure della sua vita personale. Le sue storie, poi, sono quasi tutte narrate in prima persona dal dottor John Watson, amico e biografo, che Holmes conosce nel 1881, quando cerca un coinquilino con cui condividere l’appartamento al 221B di Baker Street.
La convivenza tra l’investigatore e il dottore funziona alla perfezione e anche le indagini guadagnano da questa perfetta simbiosi, mentre il rapporto tra Doyle e il suo personaggio continua a essere tutt’altro che sereno: lo scrittore giunse a un punto da tale di insofferenza nei confronti del suo investigatore, da volersi liberare di lui in modo definitivo.
Nel racconto “L’ultima avventura”, Sherlock Holmes muore, durante un duello con il suo formidabile antagonista: Moriarty. Purtroppo per Doyle, il suo pubblico si oppose alla prematura dipartita del personaggio e lo scrittore, a malincuore, si convinse a scrivere un nuovo romanzo con lo stesso protagonista: “Il mastino dei Baskerville”, ambientato prima della presunta morte, avvenuta nel 1891. Successivamente, siccome il corpo dell’incredibile detective non era stato rinvenuto, Doyle lo fece risuscitare e tornare alacremente al lavoro ne “L’avventura della casa vuota”, ambientata nel 1894. Nei tre anni mancanti, Sherlock Holmes – veniamo a sapere dallo scrittore – sarebbe stato nascosto, per occuparsi di un incarico segreto da parte del governo britannico.
La carriera investigativa di Sherlock Holmes termina con un tranquillo pensionamento: il detective si ritira dapprima nel Sussex, a studiare l’apicoltura, poi in una fattoria vicino a Eastbourne, dove si occuperà di agricoltura e filosofia, ma solo dopo aver dato man forte all’Inghilterra, come agente del governo, durante la prima guerra mondiale.
Sherlock Holmes è un personaggio complesso, pieno di sorprese. Oltre a una mente brillante, il nostro intraprendente detective non disdegna di affrontare faccia a faccia i suoi avversari, anche contrastandoli fisicamente: è un eccellente schermidore e pratica il pugilato a mani nude. Inoltre, conosce il bartitsu (sistema di lotta derivato dal jujitsu giapponese), ciò lo rende uno dei primi occidentali ad aver praticato le arti marziali orientali.
Holmes possiede anche curiose conoscenze e abitudini: è in grado di distinguere all’istante vari tipi di terreno; è edotto di ogni dettaglio, riguardante misfatti commessi nel suo secolo; è un profondo conoscitore di tabacco (ha scritto un trattato su questo argomento); non disdegna i travestimenti nei quali è piuttosto abile. Inoltre, è anche un buon violinista, oltre che un accanito fumatore di pipa.
Per quanto riguarda le capacità sociali e relazionali, nei vari romanzi, il personaggio di Sherlock Holmes mostra di avere un buon rapporto solo con il suo amico Watson, mentre sembra emotivamente distaccato e disinteressato a tutti gli altri. Non si interessa neppure alle donne: vuole avere la mente lucida, mentre “l’amore è un’emozione, e tutto ciò che è emozione contrasta con la fredda logica che io pongo al di sopra di tutto” (“Il segno dei Quattro”).
Per le sue investigazioni, Sherlock Holmes applica il metodo scientifico: osserva la realtà circostante, raccoglie prove e indizi e poi trae le sue mirabili deduzioni. Un’attenta osservazione dei dettagli è sempre il primo passo, cui segue la raccolta di prove inoppugnabili, grazie alle quali è possibile formulare le giuste conclusioni.
Per quanto riguarda la scrittura di Doyle, in riferimento alle storie di Sherlock Holmes, il suo linguaggio appare serratissimo, anche quando ci sono in corso dei monologhi o delle descrizioni. In entrambi i casi la scrittura è asciutta e quasi concatenata, da tale modo di procedere, si ottiene un quadro netto e preciso. Interessante poi, è la contrapposizione tra i casi che Holmes deve risolvere, che sono di una singolarità estrema e la semplicità della loro soluzione, ovviamente, una volta risolti.
Il personaggio di Sherlock Holmes, al di là delle sue caratteristiche psicologiche e fisiche che lo contraddistinguono, risulta particolare per il contrasto tra il modo in cui appare e quello che invece è (es. tenente Colombo). È alto, ha una figura esile, all’apparenza sembra debole, mentre in realtà, è esattamente il contrario; appare come uno sciocco, mentre è chiaramente tutt’altro.
In ogni caso, le capacità di Conan Doyle non si fermano qui: non solo lo scrittore è abile nel descrivere le situazioni e i personaggi, ma sa sfruttare brillantemente anche gli elementi atmosferici, associandoli all’andamento della storia: es. una sera tempestosa collegata a eventi drammatici e straordinari.
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