La Turandot di Puccini entra nella schiera delle opere al nero, grazie alla crudeltà della protagonista e alla scia di sangue che si lascia alle spalle.
Il soggetto dell’opera di Giacomo Puccini (Lucca, 22 dicembre 1858 – Bruxelles, 29 novembre 1924) ha origini difficili da individuare sia cronologicamente sia geograficamente. Si è potuti risalire a una Turandot (pers. Tūrāndokht “fanciulla del Tūrān”), eroina di una novella iraniana che, almeno inizialmente, è anonima e compare nel poema “Heft Peiker” di Niẓāmī (sec. 13°).
Successivamente, la prima menzione della principessa sanguinaria nella letteratura europea è contenuta nella raccolta di materia narrativa orientale “Les Mille et un jours” (I mille e un giorno, 1710-12) di François Pétis de la Croix (1653-1713; orientalista francese), dove la storia è menzionata come di origine cinese, mentre studi filologici ci indirizzano verso una possibile origine turca.
Più avanti ancora, il soggetto fu divulgato in Italia attraverso la celebre fiaba teatrale, “Turandot”, (1762) di Carlo Gozzi (1720 – 1806; drammaturgo e scrittore italiano), verseggiata poi da Schiller (1802) e più volte musicata: Carl Maria von Weber (1786 – 1826; compositore, direttore d’orchestra e pianista tedesco) compose delle musiche di scena su questo tema nel 1809; Ferruccio Busoni (1866 – 1924; compositore e pianista italiano, considerato uno tra i più grande geni pianistici italiani) scrisse una suite orchestrale op. 41 (eseguita per la prima volta nel 1906 e poi trasformata in opera lirica, rappresentata nel 1917).
Il libretto della Turandot di Puccini, fra tutte le varie fonti si ispira, liberamente, alla traduzione di Andrea Maffei (1798 – 1885; poeta, librettista e traduttore italiano) dell’adattamento tedesco di Friedrich Schiller (1759 – 1805; poeta, filosofo, drammaturgo, medico e storico tedesco) del lavoro di Gozzi.
L’idea di scrivere un’opera sulla fiaba di Turandot venne a Puccini, dopo un incontro a Milano, nel marzo 1920, con i librettisti Giuseppe Adami (1878 – 1946; drammaturgo, librettista, giornalista, scrittore, biografo e critico musicale) e Renato Simoni (1875 – 1952; critico teatrale, giornalista, commediografo, poeta, librettista, regista e sceneggiatore). In estate, quello stesso anno, Puccini che era a Bagni di Lucca ascoltò un carillon con temi musicali provenienti dalla Cina e alcuni di questi temi si trovano nella partitura, ad esempio, la canzone popolare “Mo Li Hua”.
La trama della Turandot e semplice da riassumere. In tutte le elaborazioni della sua storia, la crudele principessa propone degli enigmi ai suoi pretendenti e manda a morte quelli che non sanno scioglierli. Solo un pretendente, il principe Khalaf, sarà in grado di risolvere i quesiti e alla fine, otterrà l’amore di Turandot.
L’opera di Puccini è articolata in tre atti e cinque quadri. Il compositore la lasciò incompiuta e fu completata più avanti da Franco Alfano (1875 – 1954).
La prima rappresentazione della Turandot di Puccini, ebbe luogo alla Scala di Milano, il 25 aprile 1926, nell’ambito della stagione lirica del teatro. Gli interpreti di quella serata furono: Rosa Raisa, Francesco Dominici, Miguel Fleta, Maria Zamboni, Giacomo Rimini, Giuseppe Nessi e Aristide Baracchi. A dirigere l’opera c’era Arturo Toscanini (1867 – 1957) che bloccò la rappresentazione a metà del terzo atto, alla morte di Liù, due battute dopo il verso “Dormi, oblia, Liù, poesia!”, in pratica dopo l’ultima pagina completata da Puccini. Le sere successive la Turandot fu messa in scena con il finale rivisto di Alfano e diretta da Ettore Panizza (1875 – 1967).
L’incompletezza di Turandot ha fatto discutere gli studiosi. Il problema fondamentale di questo dramma che Puccini tentò inutilmente di risolvere era la mutazione della principessa che da algida e sanguinaria si trasforma in una donna innamorata. Oltretutto, Puccini riteneva già la scena della morte di Liù un finale soddisfacente, poiché la considerava perfettamente in grado di suggerire al pubblico il resto della storia, appunto, il cambio di carattere di Turandot, dopo il sacrificio d’amore della sua ancella. Quindi, secondo questo punto di vista, l’opera di Puccini si può ritenere narrativamente completa anche se bruscamente interrotta.
In copertina: particolare della locandina di Turandot del 1926
La “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi è una composizione sacra per coro, voci soliste e orchestra, che il compositore ha dedicato ad Alessandro Manzoni e che esprime tutta l’angoscia e lo smarrimento dell’uomo di fronte alla morte.
La genesi della “Messa da Requiem” (1874) di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901) si colloca in un periodo in cui il musicista ha deciso di abbandonare la composizione per il teatro d’opera. Successivamente, sarà convinto a tornare a comporre altre opere, ma nel 1871, reduce dai grandi consensi ottenuti da Aida, Verdi si prende una lunga pausa dalle scene teatrali, pur continuando a comporre musica.
Il compositore accarezza da tempo il progetto di realizzare una Messa da Requiem. Nel 1869, l’aveva addirittura proposta in occasione della morte di Gioachino Rossini (Pesaro, 29 febbraio 1792 – Passy, 13 novembre 1868). La composizione avrebbe dovuto essere un collage realizzato da dodici musicisti. Per sé, Verdi aveva riservato la sezione conclusiva, il “Libera me”. Purtroppo, questo interessante progetto, pensato per Bologna, fallì per motivi politico-economici, ma Verdi compose comunque il Libera me e successivamente, lo inserirà nella Messa da Requiem da lui composta nel 1874.
Fu la morte di Manzoni, il 22 maggio 1873, che spinse Giuseppe Verdi a rinnovare il suo proposito di una Messa per i morti, dopo il fallito progetto rossiniano. La scomparsa dell’autore de “I promessi sposi” colpì profondamente il musicista che condivideva con Manzoni i valori risorgimentali, quali, libertà e giustizia, e come lui si era adoperato per l’Unità d’Italia.
Verdi si attivò per attuare il suo progetto già dal 3 giugno del 1873, rivolgendosi all’editore Ricordi: “vorrei dimostrare quanto affetto e venerazione ho portato e porto a quel grande che non è più e che Milano ha tanto degnamente onorato. Vorrei mettere in musica una Messa da morto da eseguirsi l’anno venturo per l’anniversario della sua morte. La Messa avrebbe proporzioni piuttosto vaste, ed oltre ad una grande orchestra ed un grande coro, ci vorrebbero anche […] quattro o cinque cantanti principali”.
Il Requiem fu offerto dal musicista alla città di Milano e la sua prima esecuzione si tenne nella Chiesa di San Marco, a Milano, il 22 maggio 1874. A dirigere la messa fu lo stesso Verdi, a interpretare le quattro parti solistiche furono: Teresa Stolz (soprano); Maria Waldmann (mezzosoprano); Giuseppe Capponi (tenore); Ormondo Maini (basso). L’esecuzione ottenne un grandissimo successo e la fama della Messa superò rapidamente i confini nazionali.
La Messa era suddivisa in: Requiem et Kyrie (quartetto solista, coro) Dies Irae (coro) Tuba Mirum (basso e coro) Mors stupebit (basso e coro) Liber Scriptus (mezzosoprano, coro) Quid sum miser (soprano, mezzosoprano, tenore) Rex tremendae (solisti, coro) Recordare (soprano, mezzosoprano) Ingemisco (tenore) Confutatis (basso, coro) Lacrymosa (solisti, coro) Offertorium (solisti) Sanctus (a doppio coro) Agnus Dei (soprano, mezzosoprano, coro) Lux Aeterna (mezzosoprano, tenore, basso) Libera Me (soprano, coro)
L’organico, oltre ai quattro solisti e al coro misto, prevedeva: 3 flauti (3 anche ottavino); 2 oboi; 2 clarinetti; 4 fagotti; 4 corni; 4 trombe; 3 tromboni; basso tuba; timpani; grancassa; archi.
La Messa da Requiem di Verdi è ispirata ai temi fondamentali della spiritualità: dalla ricerca della fede alla paura della morte e di ciò che ci riserva l’aldilà. Quando mette mano alla composizione il musicista sta attraversando una fase difficile della sua vita: si sente lontano dalla fede e i lutti che ha affrontato lo hanno spinto a porsi domande sulla morte e sul trascendente.
La Messa rispecchia nel suo insieme questa duplice condizione di ricerca della spiritualità e di scetticismo sulla questione della fede. Il risultato è un elevato messaggio espresso da una voce laica, perfettamente calata nel pensiero ottocentesco europeo, quella di un individuo che avverte la sua debolezza di fronte al mistero della morte. L’individuo che non ha le certezze della fede e neppure ancora il sostegno delle filosofie della vita e degli esistenzialismi.
Giuseppe Verdi con la sua Messa da Requiem afferma, tra i due estremi di coloro che credono e quelli che non credono o sono incerti e dubbiosi, la posizione dell’uomo lasciato a se stesso, privo della certezza della redenzione, solo di fronte al mondo vuoto della voce di Dio. La grandezza di questa composizione è nel fatto che il musicista è riuscito a esprimere la posizione dell’individuo che terrorizzato dal nulla, cerca disperatamente una voce divina che lo rassicuri. La Messa di Verdi rappresenta un interrogativo aperto sulle paure e sull’impossibilità di trovare un orientamento sicuro.
Verdi era un romantico e avvertiva sia il rischio della mancanza di fede sia il convenzionalismo cattolico. Il suo rifiuto della fede è l’atteggiamento di chi non accetta il formalismo del falso credente, il rispetto pedissequo delle regole comportamentali e delle pratiche devote al fine di ottenere la salvezza. Questo suo atteggiamento è un riflesso della decadenza morale, politica, strutturale che il musicista avvertiva attorno a sé.
Il desiderio di scrivere una Messa da Requiem in onore di Manzoni, nasceva in Verdi da una vicinanza verso lo scrittore milanese per il quale nutriva, sin dagli anni giovanili, una vera propria venerazione. Verdi incontrò Manzoni il 21 maggio 1867 e attraverso il resoconto fatto da Giuseppina Strepponi (1815 – 1897; soprano, seconda moglie di Giuseppe Verdi) in una lettera di indirizzata a Clara Maffei (1814 – 1886; patriota e mecenate italiana) si avverte l’ammirazione che il musicista aveva per l’autore de “I promessi sposi”: “se poi andrai a Milano, ti presenterai a Manzoni. Egli t’aspetta, […] Pouff! Qui la bomba fu così forte ed inaspettata, che non seppi più se dovevo aprir gli sportelli della carrozza per dargli aria, o se dovessi chiuderli, temendo che nel parossismo della sorpresa e della gioia non mi saltasse fuori! È venuto rosso, smorto, sudato; si cavò il cappello, lo stropicciò in modo che per poco non lo ridusse in focaccia. Più (e ciò resti fra noi) il severissimo e fierissimo orso di Busseto n’ebbe pieni gli occhi di lagrime, e tutti e due commossi, convulsi, siamo rimasti dieci minuti in completo silenzio”.
Passando all’analisi musicale della Messa da Requiem di Verdi possiamo osservare, come prima cosa, che si tratta in sintesi di una riflessione sull’anima dopo la morte. In tutta la composizione è tangibile il senso di umiltà dell’uomo che, angosciato dalla propria vita e dal dolore, si trova al cospetto di Dio. L’intero Requiem è costellato di elementi ricorrenti e in generale, si può cogliere l’ambiguo oscillare tra un sentimento collettivo apocalittico e un ripiegamento intimistico.
Il Kyrie inizia sottovoce, simulando delle anime imploranti davanti a un giudice. Il Dies irae è invece una sorta di esplosione musicale: l’orchestra esibisce un fortissimo, mentre il coro emette suoni strazianti e le grancasse sparano cannonate. Qui in particolare emergono il terribile giudizio e l’angoscia, e la potenza esibita da orchestra e coro, spinti al limite delle loro possibilità tecniche, servono a Verdi per illustrare musicalmente degli scenari apocalittici.
A queste sezioni si contrappone il lirismo del Recordare, un duetto tra soprano e mezzosoprano, una sorta di inno d’amore verso Gesù, e il Lux Aeterna, dove la luce emanata da Dio è espressa dal tremolo dei violini iniziale e dal canto del mezzosoprano, mentre basso, timpani e ottoni evocano l’idea che la punizione divina arriva per tutti.
In alcune sezioni, come il Kyrie eleison, il Recordare, l’Ingemisco e in alcuni versi del Lux Aeterna e del Libera me, Verdi dà voce al sentimento individuale, manifestato nella maniera più calorosa e di chiara derivazione operistica.
In altre parti della composizione, il musicista tiene vivo il sentimento musicale, lasciando però emergere una religiosità di sapore arcaico, prossima ai modelli della ritualità popolare, che si allontana temporaneamente sia dallo spirito prettamente operistico sia dalla rigida polifonia. Alcuni esempi sono: il canto salmodiato (canto su una sola nota) del coro che apre l’introito; l’invocazione drammatica (libera me) del soprano; il canto monodico e austero dell’Agnus dei.
Nel Lacrimosa, invece, Verdi mette in risalto la disperazione, suggerita, sin dall’inizio, dagli archi che sembrano prodursi in un lamento.
L’unità costruita da Verdi nella Messa da Requiem è un sottile gioco di richiami delle medesime pulsioni. Nell’arco dell’intera composizione si è sospinti e abbrancati dal primordiale; si oscilla tra il terrore del Dies Irae e il grido di fede del Libera me che fanno irruzione a più riprese nel tessuto musicale con una forza che resta invariata.
In copertina: particolare del ritratto di Alessandro Manzoni (lo scrittore al quale Verdi dedicò il Requiem) di Francesco Hayez (1841), Pinacoteca di Brera
La vicenda di Romeo e Giulietta è stata origine di un proliferare di opere. Dalla letteratura alle scene, dalla pagina scritta alla pagina musicale, gli sfortunati amanti sono diventati una tra le coppie più famose e celebrate. Vincenzo Bellini, compositore catanese, come molti altri, non ha resistito al fascino di questa famosissima e tragica storia d’amore.
Anche il travagliato amore tra Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti si presta alla definizione di opera al nero: anche qui l’atmosfera da tragedia non disattende le attese.
I due infelici innamorati sono stati celebrati in ogni salsa. Dalla letteratura al teatro, la loro storia è rimbalzata fino al mondo del balletto (“Romeo e Giulietta”, Op. 64 di Sergej Sergeevič Prokof’ev,1891 – 1953) e, ovviamente, è transitata anche per l’opera.
In effetti, è impossibile che una vicenda che tratti di un amore epocale, condito da un retroscena (neanche troppo) sanguinoso, potesse sfuggire al mondo della lirica che ha sempre cercato trame in grado di destare i sentimenti e far lievitare le emozioni sino al loro massimo livello. Inoltre, nella storia di Romeo e Giulietta non mancano neppure inganni e sotterfugi, fughe e cripte sotterranee, veleni e colpi di spada che sono ugualmente benedette da impresari, librettisti e musicisti.
Diversi autori hanno pensato bene di rivestire di musica questa tragedia, ricordiamo il famoso dramma “Giulietta e Romeo” del compositore Nicola Antonio Zingarelli (1752 -1837; compositore italiano, esponente della Scuola musicale napoletana) su libretto di Giuseppe Maria Foppa (1760 – 1845; librettista italiano, autore di oltre 80 libretti realizzati tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento), tratto non dalla tragedia shakespeariana, bensì dalla novella cinquecentesca con il medesimo titolo scritta da Luigi da Porto (1485 – 1529; scrittore e storiografo italiano). L’opera, ritenuta il capolavoro di Zingarelli, fu composta in pochissimo tempo e fu eseguita per la prima volta durante la stagione di Carnevale del Teatro alla Scala di Milano, il 30 gennaio 1796.
Altro compositore che si cimentò sulla vicenda degli sfortunati amanti è Nicola Vaccaj (1790 – 1848; compositore e insegnante italiano). Il libretto in questo caso è di Felice Romani (1788 – 1865; librettista, poeta e critico musicale, fra i più celebri e prolifici del suo tempo: scrisse circa un centinaio di libretti, per i massimi operisti italiani della prima metà dell’Ottocento). Per la stesura, l’autore si basò su una tragedia di Luigi Scevola (1770 – 1818; drammaturgo italiano), tratta dall’omonimo lavoro di Shakespeare, e soprattutto, su un’ampia tradizione letteraria italiana, tra cui la “Novella IX” (La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti che l’un di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti), contenuta nel novelliere di Matteo Bandello (1485 – 1561; vescovo cattolico e scrittore italiano del Cinquecento), nonché su un balletto ispirato ai due amanti veronesi, “Le tombe di Verona”, messo in scena a Milano nel 1820. Il testo così concepito è piuttosto lontano dalla tragedia di Shakespeare. Il melodramma di Vaccaj andò in scena, per la prima volta, il 31 ottobre del 1825, al Teatro alla Canobbiana di Milano.
In ordine cronologico, altra opera che riprende la tragedia amorosa è “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini (Catania, 3 novembre 1801 – Puteaux, 23 settembre 1835). Il libretto su cui lavorò il compositore era un adattamento di quello di Romani, già utilizzato da Nicola Vaccaj.
Per la sua “Roméo et Juliette”, Charles Gounod (1818 – 1893), dopo un tentativo fallito sul libretto di Felice Romani, nel 1841, utilizzò il libretto in francese di Jules Barbier (1825 – 1901; poeta, scrittore e librettista francese) e Michel Carré (1821 – 1872; librettista francese), tratto da “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare (1564 – 1616). La sua opera vide la luce nel 1865, dopo solo pochi mesi di lavoro, ma per vederla allestita al Théâtre Lyrique Impérial du Châtelet di Parigi, dove ottenne un successo immediato e duraturo, il musicista dovette attendere fino al 27 aprile 1867.
Tornando a Bellini, la sua opera, divisa in due atti, apparve in prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo 1830 e fu un successo. Il libretto era di Felice Romani. Il musicista compose “I Capuleti e i Montecchi” a tempo di record. Impiegò poco più di un mese, dalla fine di gennaio ai primi di marzo. Per accelerare i tempi, trasse molta della musica per il nuovo melodramma da un’opera da lui musicata l’anno precedente, che era stata un irrimediabile insuccesso: la “Zaira”. Inoltre, recuperò una romanza anche dalla sua opera d’esordio “Adelson e Salvini”.
Il materiale musicale “riciclato” fu comunque sottoposto da Bellini a un lavoro molto accurato di rielaborazione, affinché fosse adeguato ai personaggi mutati, così come ai versi e agli interpreti. Anche in quest’opera, il compositore affidò le parti della coppia di protagonisti a due voci femminili. Quindi, non stupitevi se andando a vedere quest’opera troverete un Romeo mezzosoprano “en travesti” (o “travesti”, personaggio che in un’opera teatrale o lirica è interpretato da un attore o cantante di sesso opposto). Questo tipo di soluzione era appropriata per la rappresentazione di un amore fra adolescenti.
Con “I Capuleti e i Montecchi” Bellini getta le basi da cui si evolverà la ricerca formale delle sue opere successive. Questo melodramma è andato spesso in scena, soprattutto perché la scrittura vocale non è particolarmente difficile e la drammaturgia è semplice, espressiva e fondata su una trama di sicuro interesse. Per la notorietà, però, ci fu un prezzo da pagare. Per tutto il corso dell’Ottocento, l’opera subì ogni tipo di stravolgimento, a cominciare dalla “variazione” introdotta da Maria Malibran (1808 – 1836) che sostituì, in modo arbitrale, il duetto finale, che non consentiva una consona esibizione vocale, con il convenzionale finale dell’opera di Vaccaj. Non mancarono stravolgimenti anche nel Novecento, in particolare con la scelta di affidare la parte di Romeo alla voce di un tenore.
Per quanto riguarda la genesi di quest’opera, dobbiamo tornare al 1829. Bellini era a Venezia e stava seguendo alla Fenice la messa in scena del “Pirata”. Il teatro veneziano aveva in programma come terza opera della stagione un nuovo lavoro di Giovanni Pacini (1796 – 1867) che, sovraccarico di lavoro, alzò bandiera bianca, così il teatro si rivolse a Vincenzo, perché facesse le sue veci. Il musicista accettò anche se era piuttosto dubbioso, a causa del poco tempo concesso per portare a termine il lavoro. Per accelerare il procedimento decise di usare lo stesso libretto di Romani, già impiegato da Vaccaj, ma operando qualche rimaneggiamento.
Fortunatamente, il libretto era perfetto per la compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione. Tra i cantanti ingaggiati spiccava il mezzosoprano Giuditta Grisi (1805 – 1840) alla quale il compositore diede la parte di Romeo. Affidare il ruolo del giovane innamorato a una donna, in abiti maschili, era una consuetudine di lunga data e all’epoca di Bellini non costituiva una stranezza. Romeo, affidato alla Grisi, faceva coppia con il soprano Rosalbina Carradori Allan (1800 – 1865) nei panni di Giulietta. Il tenore Lorenzo Bonfigli era Tebaldo, mentre il basso, Gaetano Antoldi, Capellio. L’opera mandò in visibilio il pubblico veneziano. Il 26 dicembre dello stesso anno (1830) fu allestita al Teatro alla Scala di Milano con notevoli rimaneggiamenti, soprattutto per la nuova interprete nel ruolo di Giulietta, Amalia Schütz Oldosi (1803 – 1852), che era un mezzosoprano.
Diamo uno sguardo alla trama. L’atto primo ci catapulta nella Verona del Duecento. La città è lacerata dalla faida tra la famiglia dei Capuleti, guelfi, e quella dei Montecchi, ghibellini. Il principale rappresentante dei Capuleti, Capellio (basso), padre di Giulietta, riunisce i suoi e li sprona a combattere gli avversari. Inoltre, comunica loro che i Montecchi, sostenuti da Ezzelino (Ezzelino III da Romano, 1194 – 1259, signore di Vicenza, Verona e Padova; ghibellino, sostenne l’imperatore Federico II), sono capitanati da Romeo, l’assassino di suo figlio, che vuole inviare un ambasciatore per proporre la pace. Lorenzo (basso), medico e familiare dei Capuleti, osteggiato dagli altri, suggerisce di ascoltare le parole del messaggero.
A capo della fazione guelfa c’è Tebaldo (tenore) che giura di uccidere Romeo, per vendicare la morte del figlio di Capellio che in cambio gli offre sua figlia in sposa. Le nozze saranno celebrate la sera stessa. Lorenzo, però, sa che Giulietta è segretamente legata a Romeo e cerca di evitare il matrimonio, sostenendo che Giulietta è malata. Tebald, dal canto suo, non vuole far soffrire la promessa sposa. Si dice pronto a rinunciare alle nozze, ma il padre di Giulietta sostiene che la giovane sarà grata a chi vendicherà la morte del fratello.
Nel frattempo, sopraggiunge l’ambasciatore dei Montecchi a proporre la pace. Si tratta di Romeo che è tornato a Verona sotto mentite spoglie. Per ricomporre la faida tra le due famiglie, il giovane suggerisce di celebrare un matrimonio: tra Romeo e Giulietta. Capellio rifiuta, mentre Giulietta è disperata nella sua stanza per la sua sorte. Lorenzo le svela che Romeo è di nuovo in città, in incognito, e riesce a far incontrare i due giovani innamorati. Romeo esorta l’amata a fuggire con lui. All’inizio Giulietta rifiuta la proposta, poi si convince e si allontana con lui.
Nel frattempo, nel palazzo di Capellio si stanno preparando i festeggiamenti per le nozze tra Giulietta e Tebaldo. Romeo si confonde tra gli invitati e avvisa Lorenzo che mille ghibellini armati sono giunti in città per sorprendere gli avversari. Lorenzo lo esorta a lasciare Verona e a rinunciare ai suoi piani. Intanto, si sente un tumulto: i Montecchi hanno attaccato alcuni Capuleti. I convitati scappano, Romeo si unisce ai suoi. Mentre il frastuono scema, giunge Giulietta vestita da sposa, in ansia per il combattimento. Romeo tenta ancora di farsi seguire da lei. Intanto, arrivano Tebaldo e Capellio, seguiti dai guelfi armati che scoprono Romeo, il quale riesce a fuggire grazie all’intervento dei suoi.
Nell’atto secondo, troviamo Giulietta da sola nella sua stanza. La battaglia prosegue, la ragazza è in ansia, poi scopre che Romeo è salvo. Purtroppo, però, il giorno successivo lei sarà condotta al castello di Tebaldo per convolare con lui a nozze. Lorenzo le suggerisce uno stratagemma: ingerire un filtro che la farà sembrare morta; la ragazza beve, dopo alcuni istanti di esitazione. Subito dopo, giunge Capellio che obbliga la figlia a ritirarsi e a predisporsi all’imminente matrimonio. Successivamente, chiede a Tebaldo di sorvegliare Lorenzo, del quale non si fida più.
Romeo, ancora a Verona, sta cercando Lorenzo per avere notizie di Giulietta. Nel mentre, incontra Tebaldo che lo sfida a duello. I due sfidanti sono sul punto di battersi, quando giunge ai loro orecchi una musica funebre: è il corteo che conduce Giulietta alla tomba. I due rivali sono presi da grande sconforto. Romeo si reca con i suoi nel luogo ove è sepolta Giulietta. Fa aprire la tomba e si rivolge all’amata. Fa allontanare i suoi e, invocando il nome di Giulietta, si avvelena. La giovane si risveglia e vede Romeo ai piedi del sepolcro, pensa l’abbia raggiunta, avvisato da Lorenzo della sua morte simulata. I due sfortunati amanti hanno appena il tempo di abbracciarsi un’ultima volta. Romeo muore e Giulietta cade sopra di lui. Intanto, sopraggiungono i seguaci di Romeo, inseguiti dai Capuleti. Tutti si trovano davanti al sepolcro dove i due innamorati si sono tolti la vita. Di fronte a questa scena tragica, Capellio si sente responsabile per l’odio che ha diviso le due famiglie e che ha condotto alla morte dei due giovani.
In quest’opera Bellini fa ritorno al lirismo canoro, alle melodie morbide, romantiche e suadenti che si accordano alla perfezione con la storia messa in musica. Ne “I Capuleti e i Montecchi” confluiscono espressività del canto, particolare cura per l’intonazione del testo poetico, equilibrio della strumentazione.
Degno di nota è il finale, in stile declamato, dove si assiste a un’alternanza tra recitativo accompagnato e arioso. Qui il compositore ha concentrato la sua attenzione, in particolare sui trapassi psicologici dei personaggi in scena, giungendo a esiti struggenti. L’opera di Bellini fu accolta in modo controverso, in particolare, il finale rappresentava una novità per l’epoca e disorientò buona parte del pubblico. Inoltre, esso non rispondeva alle esigenze esibizionistiche di una prima donna. Infatti, già dalla rappresentazione di Firenze nel 1831, fu sostituito con quello più convenzionale di Vaccaj.
I Capuleti e i Montecchi fu una tra le opere più rappresentate durante l’Ottocento, nei teatri italiani ed europei. A quest’opera di Bellini sono legati i nomi di alcuni dei più famosi cantanti dell’epoca: Maria Malibran, Giuditta Pasta, Fanny Tacchinardi Persiani, Giovanni Battista Rubini, Domenico Donzelli. Nel Novecento, l’opera fu rappresentata dapprima a Catania (1935), per il centenario della morte di Bellini, poi in altri teatri a iniziare dagli anni Cinquanta. Attualmente, essa occupa un posto fisso nel repertorio dei teatri lirici.
In copertina: particolare del dipinto “Romeo e Giulietta” di Frank Bernard Dicksee (1884)
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