Sabato 25 novembre 2023 a San Lorenzo in Campo (PU) si è tenuta la XXX edizione del Premio lirico internazionale Mario Tiberini.
Quest’anno al tradizionale prestigio dell’evento si è aggiunta una singolare novità, che ha reso irripetibile l’appuntamento musicale. Si tratta dell’esecuzione e relativa registrazione in prima mondiale assoluta delle musiche ritrovate da Giosetta Guerra, biografa del tenore Tiberini, composte dal tenore stesso, da suo figlio e da musicisti dell’epoca che le hanno dedicate al tenore.
Nell’accogliente cornice del Teatro Tiberini, in un clima familiare, abbiamo assistito all’esecuzione di 19 brani. Queste eccezionali chicche sonore sono il risultato del lavoro certosino fatto da Giosetta Guerra, che, grazie a una laboriosa attività di ricerca, è riuscita a raccogliere queste musiche inedite per proporle nell’edizione di quest’anno del premio a un folto e interessato pubblico.
Chi, come me, ha assistito allo spettacolo ha potuto appurare che Mario Tiberini (San Lorenzo in Campo 8 settembre 1826 – Reggio Emilia 16 ottobre 1880), non è da celebrare solo per la sua carriera di talentuoso tenore, conteso da tutti i più importanti teatri, ma anche per la sua valenza compositiva. I brani sono inni, marce militari, stornelli patriottici, ma anche arie da camera di stampo sentimentale. In pratica, in queste composizioni emerge con chiarezza l’impegno politico di Tiberini, che aveva particolarmente a cuore la causa italiana, infatti la sua vita artistica si è saldamente intrecciata alla storia del Risorgimento italiano.
Il nutrito e piacevole programma è stato il seguente:
Speranza Polka (musica di Mario Tiberini padre) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
Stornelli patriottici (musica di Mario Tiberini padre) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
Inno ginnastico (musica di Mario Tiberini padre) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini insieme al coro Jubilate
Improvvisata (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
Il mio bambino lontano (musica di Luigi Luzzi) cantato dal soprano Francesca Carli
La fata (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
Beatrice polka (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
Ai fiori (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
Di notte – marcia (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
Brano per banda “Alla regina Margherita” (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito dal gruppo musicale Tiberini, diretto dal Maestro Daniele Bianchi
Dammi un bacio (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
Povero amore (musica di Luigi Luzzi) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
Desiderium (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
Stornello d’amore (musica di Domenico Lucilla, primo maestro di canto di Tiberini) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
Mio povero amor (musica di Bonamici) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
Serenata d’un angelo (musica di Luigi Mancinelli) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
Elegia (musica di Bernardi) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
Amore (musica di Gaetano Palloni) duetto eseguito dal tenore Enrico Giovagnoli e dal soprano Francesca Carli
Wedding flowers (musica di Mario Tiberini padre) eseguito da Giovanni Scaramuzzino alla chitarra e da Francesco Scaramuzzino al mandolino
Gli interpreti della serata hanno messo in mostra tutte le loro qualità espressive e le loro capacità tecniche. I brani eseguiti rientravano appieno nel repertorio del belcanto ottocentesco e, pur essendo composizioni di autori non particolarmente noti al grande pubblico, non erano scevri di eleganza e bellezza. Inoltre, a un ascolto attento, si poteva rilevare che dietro le venature romantiche erano celate notevoli insidie per gli esecutori che hanno superato brillantemente ogni scoglio, lasciandosi trasportare dal pathos dei versi, mettendone in luce le singolarità e cogliendo puntualmente con l’espressione vocale via via i momenti drammatici, quelli gioiosi o giocosi. In vari brani è emerso anche lo spirito risorgimentale, così come non sono mancati momenti più spensierati o appassionati afflati amorosi.
Il maestro Bavaj si è brillantemente espresso nei brani solistici e come accompagnatore dei cantanti. I brani solo strumentali sono stati eseguiti in modo impeccabile, lasciando trapelare ogni intento dei vari compositori, mentre i brani di sostegno alle esibizioni vocali hanno visto un accompagnamento puntuale in cui voci e strumento si fondevano o si scambiavano i ruoli in una perfetta e armonica simbiosi.
Piacevole l’esecuzione della banda e del duo Scaramuzzino, padre e figlio (proprio come i Tiberini) che hanno chiuso il gradevolissimo spettacolo musicale.
Alla fine del concerto è stato consegnato il Tiberini d’oro al tenore Enrico Giovagnoli, “per rievocare di Tiberini vocalità e sembianze e per applicare arte scenica e canora all’opera lirica e ad altri generi musicali”.
Per concludere, aggiungo che la serata è stata impreziosita tra un brano e l’altro dagli interventi di Giosetta Guerra che ha raccontato in modo coinvolgente interessanti notizie sulla vita di Tiberini e sulla sua attività. Da rilevare anche le “intrusioni” in veste di narratore/presentatore di Marcello Moscoloni, che ha introdotto i brani e anticipato i testi, successivamente cantati dai solisti.
Lo spettacolo si è concluso con il saluto di tutti gli artisti e gli organizzatori comprese le autorità sotto una pioggia di fiori e cuori.
L’Otello di Verdi rientra appieno nella definizione di opera al nero. Inoltre, il dramma, sotteso alla musica, tratta un tema molto discusso attualmente: il femminicidio. Infatti, la vittima, Desdemona, moglie del protagonista, muore soffocata dal marito accecato dalla gelosia.
Otello, penultima opera di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901), fu musicata su libretto di Arrigo Boito (1842 – 1918; letterato, librettista e compositore) e fu eseguita per la prima volta a Milano, il 5 febbraio 1887, durante la stagione di Carnevale e Quaresima del Teatro alla Scala. La storia è tratta dall’omonima tragedia di William Shakespeare (1564 – 1616).
A livello di ambientazione, Verdi e Boito hanno strutturato l’Otello in modo da creare una sorta di crescente effetto claustrofobico. Lo spazio si restringe inesorabile: passiamo dalla prima scena, quella della tempesta, ad ambiti sempre più ristretti fino ad approdare nel quarto atto alla stanza di Desedmona, dove si consuma il dramma.
La prima scena del libretto di Boito vede il popolo raccolto sul piazzale esterno al castello del governatore dell’isola di Cipro. Si attende l’arrivo della nave di Otello,che al momento sta affrontando il mare in tempesta. La gente prega perché il generale possa scendere a terra sano e salvo (“Dio, fulgor della bufera”). La preghiera ha buon esito: Otello, compare sugli spalti del castello e proclama la sua vittoria contro i musulmani, cantando il famoso “Esultate!”
Il condottiero è accolto dalla folla festante (“Fuoco di gioia”). Gli unici a non festeggiare il vincitore sono Roderigo, innamorato di Desdemona, e l’alfiere Jago, che odia Otello, e sta già tramando contro di lui e contro il suo favorito, Cassio. La prima mossa di Jago è far ubriacare Cassio (“Innaffia l’ugola”). Il giovane, perduto il senno a causa dell’alcol, ferisce in duello Montano. Jago intanto scatena una rissa che sarà placata dall’intervento di Otello che degraderà Cassio e poi si allontanerà con la sua sposa, intrecciando un duetto amoroso (“Già nella notte densa”).
Nell’atto secondo, Jago passa alla fase successiva del suo piano malvagio. L’alfiere sollecita Cassio a rivolgersi a Desdemona per poter tornare nelle grazie di Otello. Poi, in un monologo (“Credo in un Dio crudel”) feroce riflette sul suo destino. Successivamente, l’alfiere incontra Otello e inizia a instillare in lui il dubbio che la sua consorte non gli sia fedele, ma che abbia una relazione con Cassio, proprio mentre i due sono a colloquio, in un angolo del giardino, così, quando la donna intercede a favore del capitano da poco degradato, l’ira del Moro si acutizza. Desdemona è sconvolta dalla reazione di Otello e lascia cadere un fazzoletto, non un fazzoletto qualunque, bensì il primo pegno d’amore donatole dal marito; Jago lo afferra dalle mani di sua moglie, Emilia, dama di compagnia di Desdemona, e progetta di usarlo per i suoi fini diabolici. La sua intenzione è quella di nasconderlo nella dimora di Cassio.
Desdemona chiede perdono ad Otello (“Dammi la dolce e lieta / parola del perdono”), mentre in lui si va consolidando l’idea che tutte le certezze in cui finora confidava si stanno sgretolando, travolte dal dubbio lacerante (“Ora è per sempre addio, sante memorie”). Jago intanto gli promette una prova inconfutabile del tradimento: il fazzoletto che lui ha donato a sua moglie in mano a Cassio. Inoltre, lo inganna ulteriormente, raccontandogli di aver udito il rivale che in sogno pronunciava frasi d’amore rivolte a Desdemona (“Era la notte, Cassio dormiva”); Otello risponde, giurando vendetta (“Sì pel ciel marmoreo giuro”).
Nell’atto terzo, che si svolge nel salone d’onore del castello, giunge un araldo che annuncia l’arrivo degli ambasciatori veneziani. Nel frattempo, Jago dice a Otello che presto porterà Cassio al suo cospetto. Arriva Desdemona che perora di nuovo la causa del giovane capitano (“Dio ti giocondi, o sposo dell’alma mia sovran”). In risposta, Otello le chiede di mostrare il fazzoletto che lui le ha regalato, al diniego della donna reagisce con furia e Desdemona si allontana disperata e sconvolta. Otello si sente ferito e sfoga in un monologo la sua amarezza (“Dio, mi potevi scagliare”), poi Jago lo fa nascondere per ascoltare, non veduto, il dialogo tra lui e Cassio. Il giovane ex capitano mostrerà, istigato dal malvagio alfiere, il fazzoletto che ha trovato in casa sua e che lui ritiene l’omaggio di una corteggiatrice anonima (“Questa è una ragna”). Otello è ormai convinto dell’infedeltà della moglie, in quel momento, di sentono degli squilli di tromba, che annunciano l’arrivo delle navi veneziane; Cassio si allontana e il Moro confida a Jago la sua decisione: ucciderà i colpevoli.
Successivamente, sulla scena compaiono: Lodovico, Montano, Desdemona e i dignitari. Mentre legge il messaggio del Doge che lo vuole a Venezia, Otello perde la ragione e insulta la moglie. Desdemona piange e viene consolata dai presenti (“A terra, … sì … nel livido / Fango … percossa … io giaccio”). Jago intanto suggerisce le prossime mosse a Otello e a Roderigo. Il Moro, sconvolto e distrutto, sviene. Tutti si allontanano terribilmente scossi per la scena cui hanno assistito, Jago, invece, contempla il suo trionfo, mentre da fuori risuonano inni in onore di Otello.
Nell’atto quarto siamo trasportati nella camera di Desdemona. La donna è triste quando congeda Emilia e dopo aver pregato (“Ave Maria”), si prepara per la notte, in attesa dell’arrivo di suo marito. Otello entra nella stanza e senza troppi indugi la soffoca, nonostante la donna protesti disperata la sua innocenza. Emilia dà l’allarme, ma troppo tardi; arriva Cassio, che ha appena ucciso Roderigo che gli aveva teso un agguato, seguito da Lodovico, Montano e Jago che fugge, appena si rende conto che le sue malefatte sono state svelate. A questo punto, Otello, dopo aver dato l’addio alla vita (“Niun mi tema”), estrae un pugnale e si trafigge. Mentre sta morendo intona: “Pria d’ucciderti … sposa … ti baciai“, poi appoggia le labbra su quelle della moglie e muore.
Giuseppe Verdi musicò l’Otello dopo una lunga assenza dalle scene, dopo l’Aida che era stata rappresentata nel 1871. In questa nuova opera si rilevano diversi elementi innovativi. Innanzitutto, Verdi si affrancò ancora di più dalle forme chiuse che nell’Otello sono sempre meno individuabili, alla ricerca di un flusso musicale continuo che alcuni accostano all’esperienza wagneriana. In effetti, però, questa particolare tendenza era già evidente in altri operisti italiani di quel periodo.
Per quanto riguarda i pezzi chiusi o i rimandi alla tradizione, Verdi non li disdegna del tutto, ma il loro svolgimento diventa imprevedibile. Tra i pezzi chiusi più significativi ci sono: il dialogo in forma di recitativo tra Jago e Roderigo; la cabaletta “Sì pel ciel marmoreo giuro” che conclude il secondo atto; il grande concertato del finale del terzo atto. E non sono gli unici.
Quello che risulta innovativo in Otello, rispetto alle opere precedenti, è il modo adottato dal musicista per collegare i singoli episodi. In pratica, il passaggio dall’uno all’altro non è determinato da interruzioni nette: il tessuto musicale è in continua evoluzione, grazie soprattutto all’uso sapiente dell’orchestra, che ha il ruolo di sfondo unificante.
Nella transizione tra le varie scene, poi, Verdi riprende i materiali tematici appena ascoltati, in questo modo crea delle transizioni perfette, come ad esempio, quella che conduce dalla scena del duello tra Cassio e Montano al duetto d’amore che conclude il primo atto. Verdi trasforma anche dei brani che all’apparenza sembrano in forma chiusa in passaggi dialogici (il “Credo” di Jago; il monologo di Otello “Dio, mi potevi scagliar”).
Verdi mostra nell’Otello tutta la sua incredibile abilità a giocare a rimpiattino con le convenzioni: prima le evoca e poi le stravolge. Un esempio illuminante è il brano con cui il protagonista irrompe in scena, poco dopo l’inizio dell’opera: il famoso “Esultate!” che è gestito come una specie di minuscola cavatina, solo dodici battute.
Per il teatro verdiano, Otello rappresenta il punto di arrivo di un percorso personale che dallo sfoggio di idealismi risorgimentali e dalla rappresentazione di eroi romantici giunge a sondare, sempre più a fondo, gli abissi dell’animo umano, rivelandone anche gli aspetti più nascosti. Otello è quindi un dramma psicologico inquietante, dove il motore dell’azione sono le passioni assolute e devastanti, che condurranno alla rovina dei personaggi. Per poter tratteggiare i protagonisti della sua opera e per mostrarne i più intimi moti dell’animo, il compositore dovette creare uno stile vocale nuovo e adeguato alle sue esigenze, uno stile che oscilla senza posa tra recitativo, arioso e aperture cantabili di una certa ampiezza.
Otello sta a una notevole distanza dalle opere che avevano garantito a Verdi una grande notorietà. Questa nuova opera è lontana dalle forme tradizionali del melodramma italiano e per questo da alcuni fu criticata: chi tacciò il compositore di aver smorzato la sua vena melodica; chi gli imputò un eccessivo intervento dell’orchestra. Per fortuna, sia la critica sia la parte colta del pubblico riconobbe l’eccezionalità di Otello e valutò che il suo distacco dallo stile corrente nell’opera italiana dell’epoca avesse condotto Verdi a nuovi esiti artistici.
In copertina: l’artista William Mulready ritrae l’attore americano Ira Aldridge nel ruolo di Otello – Walters Art Museum (particolare del dipinto)
La vicenda di Romeo e Giulietta è stata origine di un proliferare di opere. Dalla letteratura alle scene, dalla pagina scritta alla pagina musicale, gli sfortunati amanti sono diventati una tra le coppie più famose e celebrate. Vincenzo Bellini, compositore catanese, come molti altri, non ha resistito al fascino di questa famosissima e tragica storia d’amore.
Anche il travagliato amore tra Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti si presta alla definizione di opera al nero: anche qui l’atmosfera da tragedia non disattende le attese.
I due infelici innamorati sono stati celebrati in ogni salsa. Dalla letteratura al teatro, la loro storia è rimbalzata fino al mondo del balletto (“Romeo e Giulietta”, Op. 64 di Sergej Sergeevič Prokof’ev,1891 – 1953) e, ovviamente, è transitata anche per l’opera.
In effetti, è impossibile che una vicenda che tratti di un amore epocale, condito da un retroscena (neanche troppo) sanguinoso, potesse sfuggire al mondo della lirica che ha sempre cercato trame in grado di destare i sentimenti e far lievitare le emozioni sino al loro massimo livello. Inoltre, nella storia di Romeo e Giulietta non mancano neppure inganni e sotterfugi, fughe e cripte sotterranee, veleni e colpi di spada che sono ugualmente benedette da impresari, librettisti e musicisti.
Diversi autori hanno pensato bene di rivestire di musica questa tragedia, ricordiamo il famoso dramma “Giulietta e Romeo” del compositore Nicola Antonio Zingarelli (1752 -1837; compositore italiano, esponente della Scuola musicale napoletana) su libretto di Giuseppe Maria Foppa (1760 – 1845; librettista italiano, autore di oltre 80 libretti realizzati tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento), tratto non dalla tragedia shakespeariana, bensì dalla novella cinquecentesca con il medesimo titolo scritta da Luigi da Porto (1485 – 1529; scrittore e storiografo italiano). L’opera, ritenuta il capolavoro di Zingarelli, fu composta in pochissimo tempo e fu eseguita per la prima volta durante la stagione di Carnevale del Teatro alla Scala di Milano, il 30 gennaio 1796.
Altro compositore che si cimentò sulla vicenda degli sfortunati amanti è Nicola Vaccaj (1790 – 1848; compositore e insegnante italiano). Il libretto in questo caso è di Felice Romani (1788 – 1865; librettista, poeta e critico musicale, fra i più celebri e prolifici del suo tempo: scrisse circa un centinaio di libretti, per i massimi operisti italiani della prima metà dell’Ottocento). Per la stesura, l’autore si basò su una tragedia di Luigi Scevola (1770 – 1818; drammaturgo italiano), tratta dall’omonimo lavoro di Shakespeare, e soprattutto, su un’ampia tradizione letteraria italiana, tra cui la “Novella IX” (La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti che l’un di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti), contenuta nel novelliere di Matteo Bandello (1485 – 1561; vescovo cattolico e scrittore italiano del Cinquecento), nonché su un balletto ispirato ai due amanti veronesi, “Le tombe di Verona”, messo in scena a Milano nel 1820. Il testo così concepito è piuttosto lontano dalla tragedia di Shakespeare. Il melodramma di Vaccaj andò in scena, per la prima volta, il 31 ottobre del 1825, al Teatro alla Canobbiana di Milano.
In ordine cronologico, altra opera che riprende la tragedia amorosa è “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini (Catania, 3 novembre 1801 – Puteaux, 23 settembre 1835). Il libretto su cui lavorò il compositore era un adattamento di quello di Romani, già utilizzato da Nicola Vaccaj.
Per la sua “Roméo et Juliette”, Charles Gounod (1818 – 1893), dopo un tentativo fallito sul libretto di Felice Romani, nel 1841, utilizzò il libretto in francese di Jules Barbier (1825 – 1901; poeta, scrittore e librettista francese) e Michel Carré (1821 – 1872; librettista francese), tratto da “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare (1564 – 1616). La sua opera vide la luce nel 1865, dopo solo pochi mesi di lavoro, ma per vederla allestita al Théâtre Lyrique Impérial du Châtelet di Parigi, dove ottenne un successo immediato e duraturo, il musicista dovette attendere fino al 27 aprile 1867.
Tornando a Bellini, la sua opera, divisa in due atti, apparve in prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo 1830 e fu un successo. Il libretto era di Felice Romani. Il musicista compose “I Capuleti e i Montecchi” a tempo di record. Impiegò poco più di un mese, dalla fine di gennaio ai primi di marzo. Per accelerare i tempi, trasse molta della musica per il nuovo melodramma da un’opera da lui musicata l’anno precedente, che era stata un irrimediabile insuccesso: la “Zaira”. Inoltre, recuperò una romanza anche dalla sua opera d’esordio “Adelson e Salvini”.
Il materiale musicale “riciclato” fu comunque sottoposto da Bellini a un lavoro molto accurato di rielaborazione, affinché fosse adeguato ai personaggi mutati, così come ai versi e agli interpreti. Anche in quest’opera, il compositore affidò le parti della coppia di protagonisti a due voci femminili. Quindi, non stupitevi se andando a vedere quest’opera troverete un Romeo mezzosoprano “en travesti” (o “travesti”, personaggio che in un’opera teatrale o lirica è interpretato da un attore o cantante di sesso opposto). Questo tipo di soluzione era appropriata per la rappresentazione di un amore fra adolescenti.
Con “I Capuleti e i Montecchi” Bellini getta le basi da cui si evolverà la ricerca formale delle sue opere successive. Questo melodramma è andato spesso in scena, soprattutto perché la scrittura vocale non è particolarmente difficile e la drammaturgia è semplice, espressiva e fondata su una trama di sicuro interesse. Per la notorietà, però, ci fu un prezzo da pagare. Per tutto il corso dell’Ottocento, l’opera subì ogni tipo di stravolgimento, a cominciare dalla “variazione” introdotta da Maria Malibran (1808 – 1836) che sostituì, in modo arbitrale, il duetto finale, che non consentiva una consona esibizione vocale, con il convenzionale finale dell’opera di Vaccaj. Non mancarono stravolgimenti anche nel Novecento, in particolare con la scelta di affidare la parte di Romeo alla voce di un tenore.
Per quanto riguarda la genesi di quest’opera, dobbiamo tornare al 1829. Bellini era a Venezia e stava seguendo alla Fenice la messa in scena del “Pirata”. Il teatro veneziano aveva in programma come terza opera della stagione un nuovo lavoro di Giovanni Pacini (1796 – 1867) che, sovraccarico di lavoro, alzò bandiera bianca, così il teatro si rivolse a Vincenzo, perché facesse le sue veci. Il musicista accettò anche se era piuttosto dubbioso, a causa del poco tempo concesso per portare a termine il lavoro. Per accelerare il procedimento decise di usare lo stesso libretto di Romani, già impiegato da Vaccaj, ma operando qualche rimaneggiamento.
Fortunatamente, il libretto era perfetto per la compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione. Tra i cantanti ingaggiati spiccava il mezzosoprano Giuditta Grisi (1805 – 1840) alla quale il compositore diede la parte di Romeo. Affidare il ruolo del giovane innamorato a una donna, in abiti maschili, era una consuetudine di lunga data e all’epoca di Bellini non costituiva una stranezza. Romeo, affidato alla Grisi, faceva coppia con il soprano Rosalbina Carradori Allan (1800 – 1865) nei panni di Giulietta. Il tenore Lorenzo Bonfigli era Tebaldo, mentre il basso, Gaetano Antoldi, Capellio. L’opera mandò in visibilio il pubblico veneziano. Il 26 dicembre dello stesso anno (1830) fu allestita al Teatro alla Scala di Milano con notevoli rimaneggiamenti, soprattutto per la nuova interprete nel ruolo di Giulietta, Amalia Schütz Oldosi (1803 – 1852), che era un mezzosoprano.
Diamo uno sguardo alla trama. L’atto primo ci catapulta nella Verona del Duecento. La città è lacerata dalla faida tra la famiglia dei Capuleti, guelfi, e quella dei Montecchi, ghibellini. Il principale rappresentante dei Capuleti, Capellio (basso), padre di Giulietta, riunisce i suoi e li sprona a combattere gli avversari. Inoltre, comunica loro che i Montecchi, sostenuti da Ezzelino (Ezzelino III da Romano, 1194 – 1259, signore di Vicenza, Verona e Padova; ghibellino, sostenne l’imperatore Federico II), sono capitanati da Romeo, l’assassino di suo figlio, che vuole inviare un ambasciatore per proporre la pace. Lorenzo (basso), medico e familiare dei Capuleti, osteggiato dagli altri, suggerisce di ascoltare le parole del messaggero.
A capo della fazione guelfa c’è Tebaldo (tenore) che giura di uccidere Romeo, per vendicare la morte del figlio di Capellio che in cambio gli offre sua figlia in sposa. Le nozze saranno celebrate la sera stessa. Lorenzo, però, sa che Giulietta è segretamente legata a Romeo e cerca di evitare il matrimonio, sostenendo che Giulietta è malata. Tebald, dal canto suo, non vuole far soffrire la promessa sposa. Si dice pronto a rinunciare alle nozze, ma il padre di Giulietta sostiene che la giovane sarà grata a chi vendicherà la morte del fratello.
Nel frattempo, sopraggiunge l’ambasciatore dei Montecchi a proporre la pace. Si tratta di Romeo che è tornato a Verona sotto mentite spoglie. Per ricomporre la faida tra le due famiglie, il giovane suggerisce di celebrare un matrimonio: tra Romeo e Giulietta. Capellio rifiuta, mentre Giulietta è disperata nella sua stanza per la sua sorte. Lorenzo le svela che Romeo è di nuovo in città, in incognito, e riesce a far incontrare i due giovani innamorati. Romeo esorta l’amata a fuggire con lui. All’inizio Giulietta rifiuta la proposta, poi si convince e si allontana con lui.
Nel frattempo, nel palazzo di Capellio si stanno preparando i festeggiamenti per le nozze tra Giulietta e Tebaldo. Romeo si confonde tra gli invitati e avvisa Lorenzo che mille ghibellini armati sono giunti in città per sorprendere gli avversari. Lorenzo lo esorta a lasciare Verona e a rinunciare ai suoi piani. Intanto, si sente un tumulto: i Montecchi hanno attaccato alcuni Capuleti. I convitati scappano, Romeo si unisce ai suoi. Mentre il frastuono scema, giunge Giulietta vestita da sposa, in ansia per il combattimento. Romeo tenta ancora di farsi seguire da lei. Intanto, arrivano Tebaldo e Capellio, seguiti dai guelfi armati che scoprono Romeo, il quale riesce a fuggire grazie all’intervento dei suoi.
Nell’atto secondo, troviamo Giulietta da sola nella sua stanza. La battaglia prosegue, la ragazza è in ansia, poi scopre che Romeo è salvo. Purtroppo, però, il giorno successivo lei sarà condotta al castello di Tebaldo per convolare con lui a nozze. Lorenzo le suggerisce uno stratagemma: ingerire un filtro che la farà sembrare morta; la ragazza beve, dopo alcuni istanti di esitazione. Subito dopo, giunge Capellio che obbliga la figlia a ritirarsi e a predisporsi all’imminente matrimonio. Successivamente, chiede a Tebaldo di sorvegliare Lorenzo, del quale non si fida più.
Romeo, ancora a Verona, sta cercando Lorenzo per avere notizie di Giulietta. Nel mentre, incontra Tebaldo che lo sfida a duello. I due sfidanti sono sul punto di battersi, quando giunge ai loro orecchi una musica funebre: è il corteo che conduce Giulietta alla tomba. I due rivali sono presi da grande sconforto. Romeo si reca con i suoi nel luogo ove è sepolta Giulietta. Fa aprire la tomba e si rivolge all’amata. Fa allontanare i suoi e, invocando il nome di Giulietta, si avvelena. La giovane si risveglia e vede Romeo ai piedi del sepolcro, pensa l’abbia raggiunta, avvisato da Lorenzo della sua morte simulata. I due sfortunati amanti hanno appena il tempo di abbracciarsi un’ultima volta. Romeo muore e Giulietta cade sopra di lui. Intanto, sopraggiungono i seguaci di Romeo, inseguiti dai Capuleti. Tutti si trovano davanti al sepolcro dove i due innamorati si sono tolti la vita. Di fronte a questa scena tragica, Capellio si sente responsabile per l’odio che ha diviso le due famiglie e che ha condotto alla morte dei due giovani.
In quest’opera Bellini fa ritorno al lirismo canoro, alle melodie morbide, romantiche e suadenti che si accordano alla perfezione con la storia messa in musica. Ne “I Capuleti e i Montecchi” confluiscono espressività del canto, particolare cura per l’intonazione del testo poetico, equilibrio della strumentazione.
Degno di nota è il finale, in stile declamato, dove si assiste a un’alternanza tra recitativo accompagnato e arioso. Qui il compositore ha concentrato la sua attenzione, in particolare sui trapassi psicologici dei personaggi in scena, giungendo a esiti struggenti. L’opera di Bellini fu accolta in modo controverso, in particolare, il finale rappresentava una novità per l’epoca e disorientò buona parte del pubblico. Inoltre, esso non rispondeva alle esigenze esibizionistiche di una prima donna. Infatti, già dalla rappresentazione di Firenze nel 1831, fu sostituito con quello più convenzionale di Vaccaj.
I Capuleti e i Montecchi fu una tra le opere più rappresentate durante l’Ottocento, nei teatri italiani ed europei. A quest’opera di Bellini sono legati i nomi di alcuni dei più famosi cantanti dell’epoca: Maria Malibran, Giuditta Pasta, Fanny Tacchinardi Persiani, Giovanni Battista Rubini, Domenico Donzelli. Nel Novecento, l’opera fu rappresentata dapprima a Catania (1935), per il centenario della morte di Bellini, poi in altri teatri a iniziare dagli anni Cinquanta. Attualmente, essa occupa un posto fisso nel repertorio dei teatri lirici.
In copertina: particolare del dipinto “Romeo e Giulietta” di Frank Bernard Dicksee (1884)
Il trovatore di Verdi è un’opera dalle tinte fosche in cui sono disseminati eventi cruenti. Per questo fu criticata, ma a conti fatti, già alla prima assoluta a Roma, ottenne un grande successo.
Avete mai notato che numerosi libretti d’opera potrebbero far impallidire uno scrittore di noir? Sono davvero molte le opere liriche, dove dietro i gorgheggi dei cantanti si nascondono azioni efferate, violenze di vario genere, omicidi, suicidi, rapimenti, duelli mortali, femminicidi, tentati stupri, ricatti, esecuzioni capitali, raptus di gelosia e morte. Note in stile di cronaca nera non mancano di certo nelle storie più gettonate del teatro musicale. Basti pensare alla trama di alcune delle più famose, come: Capuleti e Montecchi, Rigoletto, Turandot, Madama Butterfly, Cavalleria rusticana, Pagliacci, Tosca, Carmen, e così via. Tra i così via, rientra anche “Il trovatore”, opera musicata da Giuseppe Verdi (1813 – 1901; compositore e senatore italiano, considerato uno dei più grandi operisti di tutti i tempi), che fu criticata per la prevalente atmosfera cupa e per il numero dei morti, ma il compositore, in una lettera indirizzata a Clarina Maffei (Elena Chiara Maria Antonia Carrara Spinelli, 1814 – 1886; patriota e mecenate italiana), a sua discolpa osservò: “infine nella vita non è tutto morte?”
Verdi si getta nell’impresa di questa nuova opera con grande entusiasmo, reduce dal successo strabiliante ottenuto da “Rigoletto”. Ed è proprio lui a proporre, in una lettera del 18 marzo 1851, indirizzata all’impresario di Bologna, Alessandro Lanari (1787 – 1852; fu uno dei più influenti impresari italiani dagli anni ’30 ai primi anni ’50 dell’Ottocento), la stesura di una nuova opera. Il libretto, secondo i desideri del compositore, dovrà ispirarsi a “El Trovador” di Antonio García Gutiérrez (1813 – 1884), drammaturgo romantico spagnolo che seguiva le orme di Victor Hugo (1802 – 1885; scrittore, poeta, drammaturgo e politico, ritenuto il padre del Romanticismo in Francia).
L’opera di Gutiérrez non è di certo un capolavoro drammaturgico, piuttosto un melodramma tronfio e squinternato, dove si susseguono singolari incidenti e le unità aristoteliche sono spesso bellamente accantonate.
La vicenda spazia tra amore e vendetta e l’accento principale è posto sui due personaggi femminili: Leonora, gentildonna profondamente religiosa e con rigidi ideali, che per amore sprofonderà in un abisso morale e infine si suiciderà, e Azucena, una vecchia zingara, desiderosa di vendicare sua madre, che finirà per distruggere l’unico essere al mondo che ama.
Del dramma di Gutiérrez non è stata rinvenuta alcuna traduzione in italiano e ancora ci si chiede come abbia fatto Giuseppe Verdi a venirne a conoscenza. In effetti, cantanti o compositori amici del musicista spesso gli inviavano nuovi drammi e probabilmente, anche questo testo potrebbe essere arrivato fra le sue mani in questo modo. A tradurlo, comunque, sembra abbia provveduto Giuseppina Strepponi (1815 – 1897; soprano italiano, seconda moglie di Giuseppe Verdi).
Il libretto dell’opera fu affidato a Salvadore Cammarano (1801 – 1852; librettista e drammaturgo per musica) che Verdi, attratto singolarmente dal valore della “parola scenica”, apprezzava molto, perché non temeva gli argomenti inconsueti ed era in grado di descrivere l’atmosfera di una scena mediante un nucleo verbale attentamente studiato.
Il testo che Verdi si apprestò a rivestire di musica fu strutturato in quattro parti e otto quadri. Quando il libretto era pressoché completo, Verdi intravide delle modifiche da apportare in alcune parti del testo, ma Cammarano morì improvvisamente. Il musicista venne a sapere della sua morte da un giornale teatrale. Addolorato per la perdita e al contempo preoccupato per le sorti della sua opera, si rivolse al suo amico Cesare De Sanctis (1824 – 1916; compositore, direttore d’orchestra e trattatista italiano) che gli suggerì quale sostituto di Cammarano, il poeta Leone Emanuele Bardare (1820 – dopo il 1874) che fu davvero onorato di poter lavorare con il grande compositore.
Finalmente, nel 1853, il 19 gennaio, Il trovatore, giunto a compimento, fu rappresentato in prima assoluta, al Teatro Apollo di Roma. Fu un grande successo: dal teatro romano, l’opera iniziò una vera marcia trionfale. Con Il trovatore, Verdi riuscì a toccare il cuore del suo pubblico e all’epoca, fu tra le sue opere quella sicuramente più amata.
Addentrandoci nelle pagine del libretto, scopriamo che la storia de Il trovatore assomiglia alla trama di una telenovela dalle tinte fosche. L’intreccio è complesso e dai risvolti cruenti. La vicenda ruota attorno a Leonora, dama di compagnia della principessa d’Aragona, al conflitto tra i suoi due pretendenti (Manrico, il trovatore e il conte di Luna) e a una vendetta che affonda le sue radici nel passato.
La storia è ambientata in Biscaglia (provincia della comunità autonoma dei Paesi Baschi, nella Spagna settentrionale) e in Aragona (comunità autonoma e nazione storica del nord-est della Spagna), all’inizio del Quattrocento.
Nella parte prima, veniamo catapultati nel castello dell’Aljafería di Saragozza e veniamo a sapere che il conte di Luna è innamorato di Leonora che però, non lo ricambia. Mentre lui soffre per amore, Ferrando, il capitano delle sue guardie, racconta la tragica storia del fratello minore del conte. Ancora in fasce, fu rapito da una zingara che voleva vendicare sua madre, giustiziata dal precedente conte, perché si riteneva fosse una strega. La donna aveva gettato il bambino nello stesso rogo in cui era morta sua madre.
Intanto, Leonora confida alla sua ancella il suo amore per un misterioso trovatore di cui non conosce il nome, ma che ogni notte canta per lei una serenata col suo liuto. La giovane lo ha conosciuto a un torneo. Il conte di Luna ha ascoltato di nascosto le parole di Leonora e poi sente il suo avversario cantare per la sua amata. La giovane esce e nell’oscurità confonde il conte di Luna con l’uomo che ama. Il trovatore, sopraggiunto, li coglie abbracciati e si sente tradito, ma Leonora gli giura il suo amore, scatenando l’ira del conte che sfida a duello il suo avversario, costringendolo a rivelare la sua identità. Il nome del trovatore è Manrico, seguace del ribelle conte di Urgel, nemico del conte di Luna. Mentre i due uomini si allontanano per sfidarsi a duello, Leonora sviene.
Nella parte seconda, siamo ai piedi di un monte, in un accampamento di zingari che cantano e ballano. Azucena, madre di Manrico, si risveglia dal suo consueto incubo e racconta di quando vide morire sua madre sul rogo. La donna la implorava di vendicarla, così Azucena aveva rapito il figlio del conte e lo aveva gettato nel fuoco, ma sgomenta e confusa, di fronte alla orribile morte della madre, aveva per errore ucciso suo figlio invece che quello del conte.
In seguito a tale racconto, Manrico nutre dubbi sulla sua vera identità, ma Azucena lo rassicura e gli ricorda che lei lo ha sempre protetto e curato, anche quando il giovane è tornato all’accampamento ferito, in seguito al duello con il conte. A questo proposito, Manrico racconta alla madre che avrebbe potuto uccidere il conte, ma una voce dal cielo gli ha fermato la mano. La zingara lo spinge a portare a compimento la vendetta, uccidendo il suo rivale. Intanto, il conte ha diffuso la voce che Manrico è morto, certo di conquistare Leonora, ma la giovane invece, decide di prendere i voti. Il conte contrariato irrompe alla cerimonia di ordinazione e tenta di rapire Leonora, a quel punto, però, giunge Manrico che porta in salvo la sua amata.
Parte terza, il castello è in mano agli uomini di Urgel, i soldati del conte di Luna sono nei paraggi, in attesa di riconquistare il castello. Ferrando cattura una zingara e dopo averla condotta davanti al conte di Luna, la riconosce; la donna confessa di essere colei che ha rapito e ucciso il fratello del conte, e afferma di essere la madre di Manrico. Il conte gioisce, finalmente avrà una doppia vendetta: per il fratello e anche su Manrico che gli ha sottratto Leonora. Nel frattempo, nel castello, Manrico e Leonora stanno per sposarsi in segreto, ma la cerimonia è interrotta dall’annuncio che Azucena è stata catturata e a breve sarà bruciata viva. Manrico molla tutto e parte in soccorso della madre.
Nella quarta e ultima parte, il trovatore è imprigionato nel castello dell’Aljafería. Lui e sua madre saranno giustiziati all’alba. Leonora va alla torre dove i due sono prigionieri e supplica il conte di lasciare libero Manrico, in cambio lei lo sposerà. In realtà, la giovane non intende mantenere fede alla sua promessa: medita invece di avvelenarsi prima di concedersi. Il conte accetta la proposta e Leonora chiede di poter dare all’amato la notizia della sua liberazione, ma prima di entrare nella torre, beve il veleno. Intanto, Manrico cerca di confortare sua madre che alla fine, stremata si addormenta. Giunge Leonora che dice al trovatore di mettersi in salvo, ma quando il giovane capisce che lei non andrà con lui, decide di non fuggire. L’uomo crede che per concedere a lui la libertà la ragazza l’abbia tradito, ma Leonora, prima di morire, gli confessa di essersi avvelenata, proprio per non farlo.
Il conte assiste di nascosto alla confessione di Leonora e, furioso per ciò che ha scoperto, ordina di giustiziare il trovatore. Quando la zingara si risveglia, il conte gli indica suo figlio morente. La donna disperata gli rivela che Manrico era in realtà suo fratello; il conte è sconvolto, a quel punto, Azucena si pugnala a morte e grida: “Sei vendicata, o madre!”
In copertina: manifesto “Il trovatore”, incisione a colori
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