Vincent van Gogh: l’artista post-impressionista che amava i girasoli

Vincent van Gogh artista post-impressionista che amava i girasoli

Van Gogh ha dipinto paesaggi, ritratti e nature morte, ma tra i soggetti più amati dall’artista olandese ricordiamo i suoi girasoli dei quali ci resta una nutrita serie.

Il 21 giugno 2022, cade il solstizio d’estate e pensando a questa stagione, mi viene in mente per celebrarla un fiore che da solo può rappresentare questo periodo particolare dell’anno: il girasole e al contempo, penso a un artista che amò moltissimo questi singolari fiori, Vincent van Gogh, tanto da produrre, tra il 1888 e il 1889, una serie di dipinti a olio dedicata proprio ai girasoli. Inoltre, tra le sue opere, questo soggetto è uno dei più conosciuti dal grande pubblico.
L’artista cominciò a dipingerli recisi già nel 1887, a Parigi, in effetti, però, la produzione di questo particolare soggetto, ha inizio ad Arles, nel 1888.
L’artista arrivò nella cittadina francese in febbraio; ispirato dal luogo del quale si innamorò subito, pensò di invitare il suo amico, Paul Gauguin (1848 – 1903), per proporgli di creare un gruppo di artisti che loro due avrebbero guidato.

Di questo periodo particolarmente felice della vita del pittore sono i “Girasoli in vaso”. Van Gogh li dipinse durante l’estate ed erano destinati a decorare la stanza del suo ospite.
In una lettera indirizzata al fratello, Theo, l’artista sembra essere nel pieno di una fase creativa: “Ci sto lavorando ogni mattina, dall’alba in avanti, in quanto i fiori si avvizziscono così rapidamente”.

Van Gogh progettava di realizzare dodici tele. I primi quattro dipinti si suppone siano stati: “il Vaso con dodici girasoli”; “il Vaso con quindici girasoli”; “il Vaso con cinque girasoli”; “il Vaso con tre girasoli”.
Il suo amico, Paul Gauguin, arrivò ad Arles, nel mese di ottobre, ma non condivise il suo entusiasmo per la cittadina.
Questo periodo, particolarmente prolifico per il pittore che realizzò molti dipinti, fu invece molto difficile a livello personale: i litigi con Gauguin erano all’ordine del giorno, così come gli atti violenti da parte di Van Gogh. Alla fine, i due si separano burrascosamente nel mese di dicembre; all’epoca, l’artista olandese era in preda a un esaurimento, mentre il suo amico era in procinto di partire per Tahiti.

A dicembre, Van Gogh sta ancora dipingendo tele con girasoli – ne è riprova il dipinto di Gauguin che lo ha raffigurato mentre era all’opera – ma ormai, considerata la stagione, non potava più osservare i fiori dal vero. Forse, in quei giorni, l’artista si avvaleva dei suoi stessi dipinti come modello e li ricopiava facendo poche variazioni.

Gli studiosi stanno ancora valutando il periodo in cui il pittore realizzò le varie repliche della serie di girasoli. Al periodo in cui l’artista soggiornò ad Arles, sono stati attribuiti un numero esagerato di opere, questo, però, è chiaramente in contrasto con il periodo particolarmente difficile che stava vivendo a livello personale.

Van Gogh aveva delle preferenze numeriche per quanto riguarda il soggetto dei girasoli. Per la maggior parte sono 14 o 15. Questi numeri avevano per lui un significato particolare, e lo veniamo a sapere grazie a una lettera indirizzata al fratello. Il 14 era la somma dei 12 apostoli più due figure significative nella vita del pittore e cioè, Theo, suo fratello, e Paul Gauguin; il 15, invece, oltre ai già menzionati, comprendeva l’artista stesso.

Attualmente, i dipinti che raffigurano i girasoli non sono più conservati insieme in uno stesso luogo, ma dispersi in tanti musei diversi o in mano a privati. Un vero peccato: l’effetto della serie al completo doveva essere davvero magnifica.

Nei suoi dipinti, Van Gogh raffigura i girasoli in tutte le fasi della loro esistenza: dal bocciolo all’appassimento.
Nelle lettere indirizzate a Theo, l’artista parla con grande gioia e ottimismo dei suoi girasoli.
Nei primi dipinti, utilizza uno sfondo tra il blu e il violetto, per aumentare il contrasto tra il giallo del soggetto e il fondo su cui esso deve stagliarsi, in ciò si rifaceva alle tendenze degli artisti trasgressivi parigini.
Successivamente, Van Gogh scelse di mettere i girasoli in un vaso giallo e per il fondo usò una tonalità dello stesso colore. Questa soluzione gli sembrò migliore, perché così il dipinto irradiava luce e allegria.

Per l’artista il colore dei soggetti non doveva rispondere alla realtà, ma era un mezzo per esprimere le emozioni.
Le pennellate di Van Gogh sono dense e ruvide; spesso i tratti di pennello si sovrappongono, il pittore tracciava i successivi passaggi quando ancora il colore non era ben asciutto. A volte, scalfiva addirittura con il manico del pennello la vernice fresca.
Il colore era modellato, quasi fosse una scultura e lo spessore garantiva effetti di ombra e luce, al posto di quelli che si sarebbero potuti ottenere modificando il tono del pigmento.
Per i girasoli, Van Gogh fece un uso notevole del giallo cadmio che lui amava particolarmente e che per l’epoca rappresentava una novità: era un pigmento inventato di recente.

Nella serie dei girasoli in vaso, Van Gogh ha dato vita anche a un forte contrasto: sfondo e vaso sono piatti, mentre i fiori paiono contorcersi in tutte le direzioni.
La sua firma compare quasi sempre sul vaso e seguendo l’usanza dei grandi artisti del passato usa solo il nome di battesimo.

In copertina: Paul Gauguin, particolare del dipinto “Van Gogh che dipinge i girasoli” (1888) – Van Gogh Museum

Mottetto di Dufay e cupola di Brunelleschi: due meraviglie a confronto #2

Mottetto di Dufay e cupola di Brunelleschi due meraviglie a confronto 2

La cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, opera di Filippo Brunelleschi, è ritenuta la più importante opera architettonica mai realizzata in Europa dall’epoca romana.

La cupola di Filippo Brunelleschi (Firenze, 1377 – Firenze, 15 aprile 1446) già nella epoca in cui fu edificata lasciò tutti senza parole. Si trattava di un’opera ingegneristica unica. Inoltre, è stata una pietra miliare sia per la moderna concezione del costruire sia per il successivo sviluppo dell’architettura. Senza dimenticare che, è di una bellezza spettacolare.

Leon Battista Alberti (1404-1472) nel suo “De pictura” la descrive così:
Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto?

C’è un motivo se fu così lodata: era ed è un unicum. Quando fu realizzata era la cupola più grande del mondo e attualmente, è la più grande cupola in muratura mai costruita. Il suo scopo era quello di fare da copertura alla crociera di Santa Maria del Fiore a Firenze.

Se guardiamo ai numeri ci rendiamo conto di quanto sia stato arduo il lavoro di Brunelleschi e a dir poco straordinario il suo risultato.
Il diametro massimo della cupola interna raggiunge i 45,5 metri, quella esterna è di 54,8. Uno degli ostacoli più difficili da superare per l’architetto fu la grandezza della struttura che richiedeva un metodo costruttivo nuovo, in quanto, le tradizionali centine (armature), in questo particolare caso, non erano utilizzabili.

Per questo e per altri motivi, la realizzazione della copertura del duomo fu un problema che rimase a lungo irrisolto. Chi doveva intraprendere la costruzione della cupola era consapevole che, utilizzando i sistemi di costruzione finora conosciuti, avrebbe dovuto ricorrere a enormi centine in legno per sostenere la cupola fino al suo compimento. Il primo timore era che, una struttura simile in legno non sarebbe stata in grado di sorreggere il peso della volta o che il tutto potesse precipitare su se stesso.

Arnolfo di Cambio (1245 ca. – tra il 1302 e il 1310 ca.), primo architetto di Santa Maria del Fiore, probabilmente, aveva pensato di realizzare una copertura a cupola del presbiterio.
Da un affresco di Andrea Bonaiuti (1319-1377), nella basilica di Santa Maria Novella, si evince che nel Trecento si valutava ancora l’idea di una cupola di dimensioni inferiori a quella poi realizzata da Brunelleschi.

Nel 1418, l’Opera del Duomo promosse un concorso pubblico per la copertura della cattedrale di Santa Maria del Fiore. Non ci furono vincitori, ma Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti (1378-1455) furono designati come capomastri.
I lavori per l’edificazione della cupola iniziarono il 7 agosto 1420 e terminarono il 1° agosto 1436.

Brunelleschi, in vista della realizzazione dell’opera, aveva predisposto un programma di lavoro in dodici punti. Nel documento erano esposti:

  • il modo in cui sarebbe stato chiuso il tamburo
  • le principali indicazioni su come sarebbe stata eseguita la costruzione (forma, struttura e dimensioni della cupola)
  • i cambiamenti
  • gli imprevisti
  • le aggiunte necessarie

Nel 1423, Ghiberti fu escluso dai lavori e Brunelleschi portò avanti il cantiere da solo, fino alla realizzazione completa della cupola nel 1436. Il 25 di marzo dello stesso anno fu celebrata in grande pompa la cerimonia di consacrazione della cattedrale di Firenze, durante la quale fu eseguito un mottetto di Guillaume Dufay: “Nuper rosarum flores”.

Per comprendere le capacità di Brunelleschi e le eccezionalità che racchiude la cupola da lui progettata, bisogna osservarla più da vicino.
Innanzitutto, l’architetto la concepì nel rispetto delle proporzioni auree, una consuetudine per quell’epoca, che consentiva di realizzare opere dove equilibrio e armonia fossero chiaramente visibili.
La struttura, una volta terminata, si innalzava da un tamburo ottagonale in otto spicchi (vele) predisposti su due calotte, separate fra loro da uno spazio vuoto, in questo spazio era compresa la gradinata che conduceva alla lanterna.

Una catena lignea composta da 24 travi, unite tra loro da staffe e perni di ferro, circondava tutta la costruzione; questa specie di anello aveva la funzione di opporsi alle forze che spingevano verso l’esterno.
In effetti, tutte le singole parti di questa formidabile costruzione avevano la funzione di contrastare e rendere stabile l’insieme, grazie a uno studiato contrapporsi di forze e pesi, quelli dei costoloni, della lanterna e persino della palla di bronzo, realizzata dal Verrocchio (1435-1488) nel 1472 e posta sulla cima, che serviva a stabilizzare l’anello di congiunzione della cupola.

Per quanto riguarda la costruzione di questa ingegnosa struttura architettonica, il punto di partenza di Brunelleschi è stato il tamburo che misurava 45 metri di larghezza massima, era posto a 54 metri di altezza e aveva forma ottagonale imperfetta. Su tale base doveva svilupparsi la cupola che, a fine lavori, considerando anche la palla dorata e la croce, si ergeva per ben 116 metri.

Le notevoli dimensioni di partenza non erano previste nel progetto iniziale della costruzione di Santa Maria del Fiore, ma si resero necessarie, al fine di rinforzare il tamburo della cupola che era stato rialzato rispetto al modello originario, con un piano sul quale erano stati ricavati otto grandi occhi che garantivano l’illuminazione di una parte della chiesa. L’innalzamento del piano d’imposta della cupola comportò che la costruzione finale si trovasse più in alto di qualsiasi altra volta fino a quel momento realizzata.

Per quanto riguarda gli ostacoli che Brunelleschi dovette affrontare, per realizzare la cupola del duomo di Firenze, il più ostico fu la forma ottagonale del tamburo. Infatti, una normale cupola emisferica (o parabolica o elissoidale) è sempre possibile da costruire, in quanto essa è composta da infiniti archi, ognuno dei quali, una volta terminato, si autososterrà. La costruzione di questo tipo di cupola definita di rotazione inizia dai bordi, con piccoli archi che saranno seguiti da archi sempre più grandi, uno addossato all’altro e in grado di reggersi da soli.

Questo tipo di cupola non era realizzabile nel caso di Santa Maria del Fiore, perché appunto la partenza della struttura da edificare era di forma ottagonale, a facce piane.
In pratica, Brunelleschi ha dato vita a una volta ottagonale che, diversamente da una cupola ottenuta da rotazione, non era autoportante.
Per poter dare una copertura al duomo fu subito chiaro che era necessario usare delle impalcature di legno, che avrebbero dovuto sostenere le murature fino a che le malte non avessero fatto presa. In Italia, però non c’era disponibilità di travi gigantesche, come invece accadeva nel nord Europa e oltretutto, anche travi enormi non sarebbero state sufficienti a sostenere le volte che si dovevano realizzare per la cupola del duomo di Firenze.

Attualmente, nonostante numerosi studi abbiano affrontato l’argomento, non si è giunti a un’unica conclusione: esistono ancora varie ipotesi su come la cupola ideata da Brunelleschi abbia potuto autosostenersi durante la costruzione. Quello che sappiamo per certo è che il geniale architetto studiò con grande attenzione le cupole romane, la geometria e che dedicò alla struttura una progettazione minuziosa che lo impegnò per anni.

Altro tema ancora in discussione: individuare le fonti di ispirazione di Brunelleschi per la realizzazione di questa incredibile opera architettonica. Sul piatto sono state collocate molte “pietanze”: dai precedenti fiorentini alle strutture voltate di epoca romana sino alla pratica costruttiva dei persiani.
In realtà, Brunelleschi non aveva alcun riferimento tecnologico cui appoggiarsi per la realizzazione di una cupola a spicchi, perché tutti gli esempi esistenti o erano cupole di rotazione oppure erano armabili.

Terminati i lavori della copertura di Santa Maria del Fiore, fu indetto un altro concorso pubblico, stavolta per la lanterna e fu vinto da Brunelleschi.
Trascorsi pochi mesi dall’inizio dei lavori, nel 1446, il geniale architetto morì e il cantiere proseguì con la direzione di Michelozzo di Bartolomeo (1396-1472), amico e seguace di Brunelleschi, successivamente, con quella di Antonio Manetti (1423-1497) che condusse a termine i lavori, il 23 aprile 1461.

Le invenzioni di Brunelleschi non furono accantonate neppure dopo la sua morte: i suoi successori utilizzarono, per completare la costruzione della lanterna, le macchine che il talentuoso architetto aveva ideato per la realizzazione della cupola, in particolare, quelle impiegate per sollevare i materiali. Queste ingegnose macchine, che sembra fossero un’applicazione delle tecniche studiate da Brunelleschi per i suoi celebri orologi, rappresentavano esse stesse un progresso non indifferente nella scienza delle costruzioni.

Pur non conoscendo nulla di tecniche ingegneristiche, ignorando l’immane peso della cupola, che si aggira intorno alle 25.000 tonnellate, e persino eludendo fastidiosi pensieri su attriti, resistenza dei materiali e forze e controforze che si misurano fra loro, un casuale visitatore di Firenze, che si trovi davanti alla cupola di Brunelleschi, non può che restare a faccia in su, ad ammirare questa autentica meraviglia che riempie gli occhi con la sua bellezza, al di là di tutta la fatica e il mirabile ingegno che ne hanno permesso la creazione.

Mottetto di Dufay e cupola di Brunelleschi: due meraviglie a confronto #1

Mottetto di Dufay e cupola di Brunelleschi due meraviglie a confronto #1

“Nuper rosarum flores” è un brano musicale composto da Guillaume Dufay in occasione di una celebrazione fiorentina: la consacrazione della chiesa di Santa Maria del Fiore.

Chi non conosce la cupola di Brunelleschi, ma quanti sanno che un mottetto fu scritto appositamente da un musicista franco-fiammingo, Guillaume Dufay, per essere cantato durante la cerimonia della consacrazione della celebre cattedrale di Firenze?

Il mio ultimo soggiorno a Firenze risale a poco prima che esplodesse l’epidemia di covid. Ci sono un’infinità di luoghi interessanti e meravigliosi da visitare a Firenze, ma una delle cose più preziose da ammirare in città è la cupola di Santa Maria del Fiore. Impossibile non restare affascinati da una struttura così straordinaria.

Ai tempi della mia tesi di laurea, ho scoperto la relazione esistente tra questa grandiosa opera architettonica e una composizione musicale altrettanto pregevole. Si tratta di “Nuper rosarum flores” (Ecco fiori di rosa) di Guillaume Dufay (1397 ca. – 1474; compositore e teorico musicale franco-fiammingo, figura di rilievo della scuola di Borgogna e tra i più noti compositori europei della metà del Quattrocento. La sua opera ha dato inizio al periodo rinascimentale in musica), un mottetto isoritmico (isoritmia: ripetizione di una figura ritmica – successione di valori di durata delle note – nelle diverse frasi di una composizione musicale) composto nel 1436, che fa riferimento al nome e allo stemma di Firenze, e alla dedica della basilica a Santa Maria del Fiore.

“Nuper rosarum flores” fu scritto da Dufay in occasione della cerimonia per la consacrazione della cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, quando finalmente, la cupola edificata dall’architetto e scultore Filippo Brunelleschi (1377-1446) fu portata a compimento. Per rendere l’idea del fasto e della solennità della cerimonia basterà dire che il rito della dedicazione fu officiato da Papa Eugenio IV in persona, il 25 marzo del 1436.

I mottetti celebrativi come quello di Dufay erano una consuetudine per quell’epoca, si trattava di brani destinati a dare veste sonora a importanti eventi della vita pubblica. Inoltre, il musicista franco-fiammingo è riuscito in questa composizione a coniugare l’antico stile isoritmico con il nuovo stile contrappuntistico che fu sviluppato nel decennio successivo da lui stesso e dai suoi successori.

Possiamo solo immaginare l’effetto che produsse il prodigioso brano musicale in coloro che furono presenti, possiamo però farcene un’idea, leggendo le testimonianze scritte che sono rimaste di quei memorabili festeggiamenti.
In particolare, è interessante la descrizione fornita da Giannozzo Manetti (1396-1459; scrittore, filologo e umanista italiano, importante esponente del primissimo Rinascimento letterario), uno dei pochi testi umanistici che descrivono, anche se in modo generico, una esecuzione di musica polifonica.

Si udirono cantare voci così numerose e così varie, e tali sinfonie s’elevarono verso il cielo, che si sarebbe creduto di sentire un concerto d’angeli […] Quando il canto cessava […] si sentivano suonare gli strumenti in maniera […] allegra e soave […] Al momento dell’elevazione la basilica tutta intera risuonò di sinfonie così armoniose, accompagnate dal suono di diversi strumenti, che si sarebbe detto che il suono e il canto del paradiso fossero scesi dal cielo sulla terra” (Giannozzo Manetti, “Oratio de secularibus et pontificalibus pompis in consecratione basilicae florentinae”, 1436).

Nuper rosarum flores è una composizione simbolica, essa rappresenta, più di qualunque altro esempio del genere, la tendenza quattrocentesca, ereditata dal Medioevo, di strutturare una composizione musicale sulla base di rapporti di grandezza stabiliti matematicamente.

La singolarità del brano di Dufay, però, si spinge oltre le semplici cifre matematiche.
Il musicologo Charles Warren, in un suo articolo del 1973, sostenne che le strutture proporzionali del mottetto fossero collegate alle proporzioni della cupola di Brunelleschi. In realtà, questa tesi si rivelò errata: Craig Wright dimostrò, successivamente, che le proporzioni impiegate dal musicista, probabilmente, derivavano dalle indicazioni bibliche relative alle misure del tempio di Salomone. Le indagini in questo senso non si arrestarono: la possibilità di un rapporto diretto tra le proporzioni del mottetto e quelle della costruzione di Brunelleschi si ripresentarono e furono ampliate, includendo persino la simbologia legata all’Apocalisse.

Nuper rosarum flores è un mottetto a quattro voci: due tenores, motetus e triplum.
La struttura del brano poggia su un cantus firmus (canto fermo, melodia eseguita da una voce – tenor – nell’arco della composizione; base su cui si sviluppava il gioco contrappuntistico delle altre voci) la cui melodia era tratta dal repertorio liturgico, nel caso specifico era l’incipit dell’introito dalla messa per la dedicazione di una chiesa: “Terribilis est locus iste” (Questo luogo incute rispetto).
Tenor I e II (strumentali) eseguono la melodia con note lunghe e ritmicamente sfalsata, a distanza di una quinta l’uno dall’altro.

Il mottetto è diviso in quattro parti; in ognuna compare il cantus firmus che però è variato ritmicamente nelle sue quattro riproposizioni da parte dei due tenores.
Le altre due voci: triplum e motetus intonano una lirica latina, iniziano ciascuna sezione da soli e tali restano per 28 brevi (breve: valore musicale di durata doppia dell’intero; è raffigurata come una testa rettangolare vuota o, più recentemente, come una testa ovale vuota tra due barre laterali), poi alle loro voci si uniscono i due tenores, per la durata di altre 28 brevi.
Ogni sezione è formata da due segmenti (28+28 brevi), il primo è eseguito a due voci, il secondo a quattro.

Osservando esclusivamente la notazione del mottetto di Dufay si rilevano dimensioni identiche (56 brevi), ma il metro nella composizione è variato, per cui la durata autentica di note e pause non è la stessa. Considerando il numero di tactus (unità di misura del tempo e relativa figura di nota; nella musica rinascimentale, di solito, corrispondeva al battito medio del polso umano che era il punto di riferimento per stabilire il valore assoluto di durata di tutte le figure musicali della notazione) si ricavano quattro numeri dalle corrispondenti sezioni: 168, 112, 56, 84. Riducendo a i minimi termini questi numeri e affiancando a essi altre cifre – ricavate dai loro prodotti e dai divisori usati per semplificare i quattro numeri delle sezioni – si ottengono altre serie, tra cui compare il numero 7 che emerge anche dal testo (quello in latino cantato da motetus e triplum è composto da 4 strofe di 7 versi e ogni strofa possiede versi di 7 sillabe).

I numeri ottenuti rientrano nel panorama della metafisica medievale e umanistica che riteneva che la struttura del cosmo e dell’uomo fossero regolati da rapporti matematici.
Il mottetto di Dufay non fa difetto a tale regola: l’esistenza di rapporti proporzionali tra le dimensioni delle sezioni e la presenza frequente di certi valori numerici nella struttura interna di Nuper rosarum flores rientrava nella consuetudine di ricreare l’ordine cosmico, anche all’interno di creazioni musicali, come in qualsiasi altra realizzazione umana.
Inoltre, in Nuper rosarum flores sono presenti numeri con un significato simbolico, oltre ai riferimenti biblici al tempio di Salomone (le cifre 6, 4, 2 e 3 rimandano alle proporzioni secondo cui, stando all’antico testamento, era stato edificato il tempio) c’è anche un richiamo esplicito alla Vergine, attraverso il numero 7 che nel simbolismo medievale era a lei tradizionalmente collegato (sette dolori di Maria, sette gioie, sette opere di misericordia, sette anni di esilio trascorsi in Egitto, ecc.)

Se il mottetto Nuper rosarum flores di Dufay è un capolavoro sonoro che ha travalicato i secoli, la cupola di Brunelleschi non è certo da meno: è una realizzazione architettonica grandiosa che tuttora suscita ammirazione e stupore (ne parleremo in un prossimo post).

Testo e traduzione del mottetto

Nuper rosarum flores
Ex dono pontificis
Hieme licet horrida
Tibi, virgo coelica,
Pie et sancte deditum
Grandis templum machinae
Condecorarunt perpetim.

Hodie vicarius
Jesu Christi et Petri
Successor Eugenius
Hoc idem amplissimum
Sacris templum manibus
Sanctisque liquoribus
Consecrare dignatus est.

Igitur, alma parens
Nati tui et filia
Virgo decus virginum,
Tuus te Florentiae
Devotus orat populus,
Ut qui mente et corpore
Mundo quicquam exorarit

Oratione tua
Cruciatus et meritis
Tui secundum carnem
Nati Domini sui
Grata beneficia
Veniamque reatum
Accipere mereatur.
Amen

Recentemente fiori di rose,
come dono del pontefice, – nonostante il terribile inverno –
hanno ornato questo tempio
di eccezionale costruzione
dedicato devotamente e solennemente
a te, vergine del cielo.

Oggi il vicario di Gesù Cristo
e il successore di Pietro, Eugenio,
si è degnato di consacrare
questo grandissimo tempio
con le sue sante mani
e con i sacri oli.

Ora, benevola madre
e figlia di tuo figlio,
vergine e decoro di tutte le vergini,
il tuo devoto popolo di Firenze
prega che chiunque abbia richiesto
qualcosa con una mente e un corpo sani

sia degno di ottenere
con la tua preghiera
e per i meriti di tuo figlio
nella sua sofferenza carnale
i graditi doni del Signore
e il perdono dei peccati.
Amen

In copertina: Guillaume Dufay e Gilles Binchois (a destra). Miniatura tratta da Martin Le Franc, “Champion des dames” (Arras 1451), collezione BnF, ms. en 12476, foglio 98.

“La Primavera”: un dipinto che riunisce bellezza, armonia e mistero

La Primavera un dipinto che riunisce bellezza armonia e mistero

Botticelli è riuscito con il suo dipinto “La Primavera” a mostrare tutta la bellezza che ogni anno rifiorisce nella stagione della rinascita.

Come tutti gli anni, la primavera climatologica inizia il 1° marzo, mentre quella astronomica è il 20 marzo, cioè il giorno in cui cade l’equinozio di primavera.
L’arrivo della stagione della rinascita si coglie già: dai primi rami fioriti lungo le strade; dalle gemme in attesa del benefico calore del sole; dal cielo azzurro pieno di promesse.

La primavera si avverte anche nell’aria: nel canto degli uccelli, nel ronzio festante delle api. Ma qualcuno diversi secoli fa, ha immaginato alla perfezione questa stagione e le ha fornito le sembianze di una donna con indosso uno splendido abito fiorito che sparge fiori a terra, cogliendoli dal suo grembo.
Stiamo parlando de “La Primavera” di Sandro Botticelli (1445 – 1510) che il pittore realizzò intorno al 1478. Dopo tanti secoli, questo dipinto continua a stupirci e a riempirci di meraviglia, non solo per la sua bellezza, ma anche per la grazia insita nelle pose e nelle figure racchiuse in un boschetto ombroso, e per l’aura di mistero che avvolge il dipinto, il cui significato più profondo è ancora in gran parte da svelare.

Il dipinto è una tempera grassa su tavola. Botticelli la realizzò per la villa medicea di Castello; attualmente, il quadro si trova nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
La Primavera è considerato il capolavoro di Botticelli ed è al contempo una delle opere più celebri del Rinascimento italiano.
Il titolo fa riferimento a una nota del Vasari: “Venere che le Grazie fioriscono, dinotando Primavera”, dalla quale si è partiti per dipanare la complessa trama allegorica del quadro.

Botticelli realizzò questo dipinto per Lorenzo di Piefrancesco de’ Medici (1463-1503), cugino di secondo grado di Lorenzo il Magnifico.
In origine, “La Primavera” si trovava nel Palazzo di via Larga, poi fu trasferita nella Villa di Castello, dove Giorgio Vasari (1511 – 1574) la vide, nel 1550, accanto alla “Nascita di Venere”.
Nel 1815, l’opera era collocata nel Guardaroba mediceo; nel 1853 passa alla Galleria dell’Accademia e infine, nel 1919, approda agli Uffizi.

Guardando il dipinto ci ritroviamo immersi in un bosco. Le fronde degli alberi si flettono a formare una sorta di semi cupola da cui spuntano arance e fiori che trapuntano il verde come fosse un tessuto prezioso. Sullo sfondo si individua un cielo di un lieve azzurro. I personaggi sono nove e campeggiano in questo spazio in perfetta armonia, circondando il fulcro del quadro: la donna che sfoggia sopra l’abito chiaro, un drappo rosso e verde.

Il prato verde su cui i personaggi si muovono mostra una profusione di specie vegetali e sono visibili moltissimi fiori perfettamente riconoscibili: nontiscordardimé, viole, iris, ranuncoli, papaveri, fiordalisi, margherite, gelsomini, e altri ancora. Botticelli sfoggia le sue conoscenze botaniche, probabilmente coadiuvate da un’attenta osservazione di piante e fiori dal vivo e al contempo di numerosi erbari medievali. Nel dipinto sono state individuate ben centotrentotto specie di piante diverse.

Per quanto della scena generale non sia ancora del tutto chiaro il significato, i personaggi e l’iconografia del dipinto sono stati invece identificati, seguendo in particolare i suggerimenti del Vasari.
Ci troviamo in un boschetto di aranci che altro non è che il giardino delle Esperidi.
Il dipinto si legge da destra verso sinistra, per cui abbiamo: Zefiro, il vento di nord ovest e di primavera, che attrae con il suo soffio e rapisce la ninfa Clori; la mette incinta e lei rinasce trasformata in Flora, la personificazione della primavera che qui appare come una donna con un magnifico abito fiorito, che dissemina fiori, trattenuti in una piega del suo vestito.
Al centro della composizione c’è Venere che è l’emblema dell’amore più elevato. Sopra di lei c’è suo figlio, Cupido; alla sua sinistra sono ritratte le Grazie che si muovono leggiadre a passo di danza. Nell’estremità sinistra del quadro c’è Mercurio che armato di caduceo allontana le nubi.

Il quadro nasconde un complesso intreccio di significati. Non si tratta di una novità, bensì della logica tipica delle opere di questo periodo.
La lettura de “La Primavera” può essere operata in base a vari punti di vista: mitologico, riferito ai personaggi presenti nel quadro; filosofico, la filosofia dell’accademia neoplatonica e altre dottrine; storico-dinastico che si allaccia ad eventi contemporanei al dipinto e mira a onorare il committente e la sua famiglia.

Come si è già accennato, i misteri de “La Primavera” non sono ancora stati svelati del tutto e ci si muove per ipotesi, più o meno probabili.
Sembra che il dipinto sia l’allegoria del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici e Semiramide Appiani; Botticelli realizzò il dipinto in due fasi, perché il dipinto all’inizio era destinato a un altro committente, Giuliano de’ Medici, e l’occasione non era una cerimonia nuziale, bensì la nascita di un figlio.

I personaggi, tenendo fede alle due committenze, raffigurerebbero:

  • Venere, Fioretta Gorini (nella prima versione), poi l’Amore Universale
  • Mercurio, Lorenzo di Pierfrancesco
  • Le tre Grazie, l’Amore humanus (la Grazia al centro aveva le sembianze di Semiramide Appiani), cioè spirituale e puro
  • Zefiro-Cloris-Flora, l’Amore Ferinus, cioè l’amore carnale
    I fiori, invece, sottintendono significati matrimoniali: margherite, fiordalisi e nontiscordardimé fanno riferimento alla donna amata; i fiori d’arancio e la borrana sono simbolo di felicità matrimoniale.

In base alla lettura storica, “La Primavera” è un’allegoria dell’età medicea, interpretata come età dell’oro sotto la guida di Lorenzo di Pierfrancesco, da cui consegue che: Flora è Florentia; le tre Grazie sono Pisa, Napoli e Genova; Mercurio è Milano; Venere è Venezia; Cupido è Roma; Borea è Bolzano.

Se leggiamo il dipinto dal punto di vista filosofico è l’amore il protagonista della scena, l’amore nei suoi diversi gradi, che spinge l’uomo a distaccarsi dal mondo terreno per rivolgersi a quello spirituale.
Questa lettura è confortata dalla centralità della figura di Venere che in questo caso rappresenta l’amore spirituale.

Proust e Bergotte alla “Recherche” di un’ala di muro giallo

Proust e Bergotte alla "Recherche" di un’ala di muro giallo

La pandemia e il conseguente lockdown mi hanno lasciato una piacevole abitudine, seguire dei corsi online.
Qualche mese fa, ho visto delle mini conferenze su “Feltrinelli Education”, la piattaforma digitale di servizi formativi.

Tra le tante esperienze e possibilità offerte, ho scelto di esplorare il “Breve corso sulla letteratura del ‘900” con Paolo Di Paolo, dedicato nello specifico a “Il grande romanzo del ‘900: Proust, Joyce, Woolf”.
È stato un viaggio interessante ed emozionante al tempo stesso.

Sono rimasta particolarmente colpita dalla lezione dedicata a Proust e non poche riflessioni ho tratto dalla parte in cui si parla di un personaggio creato da Marcel Proust: Bergotte.

Bergotte è uno scrittore e appartiene alla schiera dei personaggi minori descritti e fatti agire da Proust nella sua À la recherche du temps perdu (“Alla ricerca del tempo perduto”).
Nel V volume, intitolato “La prigioniera”, veniamo a sapere che Bergotte sta per morire, ma che non vuole andarsene da questo mondo senza aver rivisto, almeno per una volta, un quadro di Jan Vermeer (1632-1675; pittore olandese), la Veduta di Delft.

È davvero singolare questo desiderio del personaggio proustiano e ci spinge a chiederci: che cosa può contenere di così affascinante questo dipinto, tale da scatenare un desiderio così intenso? E al contempo, che cosa porteremmo via con noi, come ultima cosa da questo mondo, se fossimo al suo posto?

Bergotte ha fatto la sua scelta: porterà con sé un assaggio di bellezza, quell’assaggio è contenuto nel quadro di Vermeer. Non lo interessa l’intero dipinto, bensì un piccolo dettaglio che lo spinge a indugiare, ancora una volta, davanti alla Veduta di Delft.

Proust ci dice che Bergotte muore a causa di una crisi di uremia (stadio terminale dell’insufficienza renale), abbastanza leggera, ma lo scrittore aveva trascurato le prescrizioni del medico che gli aveva consigliato di riposare. Ma Bergotte non può riposare, perché ha letto una recensione di un critico sul quadro di Vermeer, che lui amava particolarmente, ed era convinto di conoscerlo a fondo.

Nella recensione c’è segnalato che “una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa”.

Così, Bergotte, mangia un po’ di patate, esce di casa e si dirige dritto filato alla mostra, dove è esposto il Vermeer. Già nel fare questi primi passi, si sente mancare. Entrato nelle sale della mostra, scorre rapidamente davanti agli altri dipinti, ricavandone un’impressione di inutilità e aridità; finché non giunge davanti al dipinto che è venuto a rivedere.

Ora, seguendo le indicazioni del critico, Bergotte nota altri particolari, nella Veduta di Delft, cui non aveva prestato attenzione in precedenza, e infine, si sofferma sulla “preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo”.
Nonostante i suoi disturbi aumentino in modo preoccupante, lo scrittore è troppo preso dalla meravigliosa vista e insiste a fissare quel piccolo dettaglio, quel minuscolo barlume di giallo, come volesse afferrarlo e portarlo via con sé.

Quella minuta meraviglia dipinta, lo costringe anche a un parallelo con la sua scrittura e gli fa pronunciare: “È così che avrei dovuto scrivere […]. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo”.

Siamo alle ultime battute, Bergotte si rende conto, dall’aumentare dei suoi capogiri, che sta per morire e pensa che “in una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ala di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda”.

Pochi istanti dopo questi pensieri, Bergotte precipita su un divano e da qui finisce a terra. Morto.
Lo seppellirono, ma tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate e sembravano per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione”.

Con queste parole, Proust mette un suggello: è l’arte a renderci immortali. Per cui, Bergotte è morto, ma è più vivo che mai, almeno finché ci saranno lettori che continueranno a stupirsi, leggendo di lui e del suo speciale legame con il dipinto di Vermeer.

Le citazioni sono tratte da Marcel Proust, La prigioniera, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, edizione integrale a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso, condotta sul testo critico stabilito da Jean-Yves Tadié, Newton Compton editori, Roma 2010

In copertina: Veduta di Delft di Jan Vermeer

Hieronymus Bosch e il suo visionario “Giardino delle delizie”

Hieronymus Bosch fu un artista immaginifico. Le sue visioni dipinte lasciano tuttora stupefatti gli spettatori. “Il Giardino delle delizie”, il suo capolavoro, è ancora un mistero a livello interpretativo, e forse anche questo contribuisce al singolare fascino che lo contraddistingue.

“… vi sono dei pannelli sui quali sono stati dipinti oggetti stravaganti. Rappresentano mari, cieli, foreste, prati, e molte altre cose, come individui che strisciano fuori da una conchiglia, altri che producono uccelli, uomini e donne, bianchi e neri mentre fanno ogni sorta di differente attività e gesto” (“Diario di viaggio” di Antonio de Beatis – descrizione del dipinto di Bosch).

Hieronymus Bosch, pseudonimo di Jeroen Anthoniszoon van Aken (‘s-Hertogenbosch, 2 ottobre 1453 – ‘s-Hertogenbosch, 9 agosto 1516), è stato un pittore olandese.
Le sue opere sono il prodotto di una mente contraddistinta da una fervida creatività e hanno l’aspetto di visioni, al punto da richiamare la psicoanalisi, per poterne dare un’interpretazione.

Bosch, come avviene per tutti gli artisti, era un prodotto del suo tempo e del suo ambiente, e le sue opere furono realizzate seguendo le dottrine religiose e intellettuali dell’Europa centro-settentrionale, dottrine che negavano la supremazia dell’intelletto e sostenevano, invece, la trascendenza e l’irrazionalità.

Le opere di questo straordinario artista contengono un’infinità di particolari e situazioni, sono una sorta di teatro, popolato da una miriade di attori, immersi in un’esplosione di colori e concepiti seguendo simbolismi, ancora non del tutto decifrati.

Lungo il percorso artistico di Bosch, sono molti i dipinti che attirano l’attenzione, ma il capolavoro, e al tempo stesso l’opera più ambiziosa di questo geniale pittore, è considerato “Il Giardino delle delizie”, un trittico a olio su tavola, conservato al Museo del Prado (Madrid), datato, anche se con qualche incertezza, nel periodo che intercorre tra il 1480 il 1490 ca.
Questo lavoro di Bosch, più di altri, è di grande complessità sia per i simboli presenti nell’opera sia per la creatività che qui, l’artista ha espresso all’ennesima potenza.

Analizzando la struttura del trittico, vediamo che è composto da un pannello centrale, cui sono affiancate due ali rettangolari, richiudibili su di esso. Completamente chiusa, l’opera mostra la raffigurazione della Terra durante la Creazione.
Il pannello aperto, invece, mostra: nella parte a sinistra, Dio, fulcro dell’incontro tra Adamo ed Eva; nel pannello centrale, una veduta di fantasia con figure nude, animali veri e immaginari, frutti di tutte le dimensioni, strane costruzioni, alberi, laghi e corsi d’acqua, e uno sfumato profilo di montagne sul fondo; pannello di destra, una visione dell’Inferno e i tormenti inflitti ai dannati.

Questo capolavoro di Bosch ha avuto molte interpretazioni: c’è chi ha visto in queste tre scene un avvertimento indirizzato agli uomini, sui pericoli delle tentazioni della vita terrena; altri, al contrario, ritengono contenga un insegnamento morale e soprattutto, il pannello centrale è stato considerato come una rappresentazione del paradiso perduto.

La prima fonte storica che nomina questo trittico è del 1517: il canonico Antonio de Beatis (segretario del cardinale Luigi d’Aragona) ce ne fornisce una descrizione; all’epoca, l’opera era parte della decorazione del palazzo dei conti della Casa di Nassau (Bruxelles).

Si ritiene che il committente del Giardino fosse Enrico III di Nassau-Breda (1483-1538), Statolder (carica esistente tra la metà del XV secolo fino al 1795, nella regione dei Paesi Bassi; designava il luogotenente civile del sovrano) d’Olanda e Zelanda, dal 1515 al 1521, Barone di Breda e Conte della Casa Nassau.
Enrico aveva raccolto nei suoi possedimenti una vasta collezione di opere d’arte e curiosità esotiche. Questa sua passione irriducibile per l’arte era condivisa con Filippo il Bello (Filippo IV di Francia, 1268-1314, re di Francia dal 1285 fino alla morte) suo amico e forse, anche avversario: nella corsa a conquistare le opere di Bosch che entrambi ammiravano.

La notorietà del Giardino delle delizie fu davvero grande e si può toccare con mano: fu oggetto di un elevato numero di copie.
Morto Enrico III, il trittico passò al nipote Guglielmo I d’Orange (1533-1584, capo degli olandesi durante la Guerra degli ottant’anni); nel 1568, fu confiscato dal Duca d’Alba (1507-1582, generale spagnolo, governatore del Ducato di Milano; viceré del Regno di Napoli e governatore dei Paesi Bassi spagnoli) che lo portò in Spagna, qui passò nelle mani di Don Fernando di Toledo, figlio naturale del Duca.
Nel 1591, fu acquistato da Filippo II di Spagna (1527-1598, re di Spagna, dal 1556 fino alla morte) che nel 1593 lo trasferì all’Escorial. L’ultima tappa del Giardino di Bosch fu il Museo del Prado, dove giunse nel 1939, qui sono custoditi diversi altri lavori dell’artista fiammingo.

Il Giardino delle delizie fu realizzato in un periodo vivacizzato da molte scoperte e avventure, quando i ritrovamenti del Nuovo Mondo affascinarono tutti: poeti, scrittori e, ovviamente, anche i pittori. Ma non basta questo a spiegare la presenza nel trittico di Bosch di creature fantastiche e singolari, l’opera fa riferimento anche ad altre iconografie.
I viaggi esotici e le relative scoperte a essi associati hanno però sicuramente influenzato il pannello di sinistra, dove troviamo animali come giraffe e leoni.

Nel pannello centrale, nell’ampio giardino rappresentato, sono raffigurate un’infinità di figure maschili e femminili nude, circondate da tanti animali (asini, cervi, leopardi, pantere, leoni, liocorni, orsi, grifoni, pavoni, corvi, unicorni, cammelli, ecc., tratti dal repertorio dei bestiari medievali), fiori, frutti e piante di ogni tipo.
Proprio questa particolare porzione del dipinto, posta al centro del pannello, rappresenta il grande Giardino “delle delizie” da cui il trittico prende il nome.
Bosch, qui, ha mescolato creature d’invenzione con elementi reali e raffigurato frutti dalle dimensioni esagerate. Le figure umane si intrattengono in liberi scambi amorosi e in molte altre attività, svolte a coppie o in gruppo. Tutto in questa parte del dipinto sembra immerso in un’atmosfera giocosa, pervasa da una sorta di innocenza primordiale.

Nella parte in primo piano, con il fiume al centro, le figure nude sono divise in gruppi e sono attorniate da strani vegetali, conchiglie e oggetti curiosi.
A volte, i personaggi sono colti mentre mangiano frutti o in qualche modo occupati con volatili di varie specie raffigurati con dimensioni esagerate, specie sul lato sinistro del pannello.
Le dimensioni e la prospettiva non sono rispettate in modo rigido: ci sono figure minuscole appoggiate ad anatre di dimensioni enormi o ad altri volatili ugualmente giganteschi.
Altrettanto sovradimensionati sono i frutti e i fiori. Ci sono anche pesci che si muovono sul terreno; personaggi intrappolati in strane bolle o dentro fragole e lamponi.

Lo stile generale del dipinto è di carattere concitato; le figure sono ritratte in pose dinamiche; inoltre, la grande luminosità e i contrasti di colore, insieme alla grande varietà di soggetti ritratti, rimandano allo spettatore una scena vivace e animata, dove è possibile scoprire qualcosa di nuovo a ogni occhiata, ma bisogna avere pazienza e un occhio allenato ai dettagli.

L’interpretazione del Giardino di Bosch è una sfida che tuttora impegna gli studiosi. I singoli temi possono essere in qualche modo spiegati, ma le relazioni che legano i vari elementi tra loro sono ancora indefinite e le interpretazioni risultano contraddittorie. Per le analisi, non si è lasciato nulla di intentato: si è fatto ricorso al folklore, all’astrologia e persino all’alchimia, ma il mistero è ancora fitto.

Bosch ha lasciato un’eredità in alcuni artisti, anche se, considerata l’unicità delle sue opere, la sua influenza è stata di minor impatto rispetto ad altre figure artistiche. Ritroviamo, però, citazioni al suo Giardino in autori quali, Pieter Bruegel il Vecchio (1525/1530 ca. – 1569), Giuseppe Arcimboldo (1527-1593) e David Teniers il Giovane (1610-1690).

Nel XX secolo, l’opera di Bosch ha investito le fantasie dei primi surrealisti: Joan Miró (1893-1983) e Salvador Dalí (1904-1989), ma è stata anche fonte di ispirazione per altri artisti, come René Magritte (1898-1967) e Max Ernst (1891-1976).

In copertina: particolare dal pannello centrale del trittico “Giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch

Galleria Vittorio Emanuele II: breve storia del cuore pulsante di Milano

Galleria Vittorio Emanuele II: breve storia del cuore pulsante di Milano

La prima volta che ho visto la Galleria sono rimasta folgorata dalla sua bellezza.
Ci sono tornata più volte e l’incanto non è passato.
L’ho fotografata da molte angolazioni, cercando di strapparle quell’alone di fascino che emana; l’ho immortalata con ogni tempo atmosferico, azzerando le presenze al suo interno o cercando dei soggetti singolari di passaggio: coppiette, agenti in divisa.
Qualche settimana fa mi sono chiesta quale fosse la sua storia e ho fatto alcune interessanti scoperte…

La Galleria Vittorio Emanuele II, a Milano, è una galleria commerciale che unisce piazza Duomo a piazza della Scala.
Al suo interno ospita eleganti negozi e locali; sin dalla sua nascita costituì un ritrovo per la borghesia milanese e per questo fu soprannominata il “salotto di Milano”.
Lo stile della Galleria è neorinascimentale; è tra i più noti esempi di architettura del ferro europea; è il modello della galleria commerciale dell’Ottocento, un luogo all’avanguardia: uno dei primi esempi di centro commerciale ante litteram al mondo.

Nella città di Milano, i passaggi coperti con funzione di portici risalgono all’epoca medievale.
Nel Duecento, Bonvesin de la Riva (1250 ca. – 1313/1315, autore di origine lombarda, probabilmente milanese; ritenuto il padre della lingua lombarda) nel suo trattato “De magnalibus urbis Mediolani” (Meraviglie di Milano, del 1288; scritto in latino e concepito come una cronaca) registrava la presenza di circa sessanta porticati a Milano.
Il destino dei porticati subì una svolta con l’ascesa degli Sforza e successivamente, con la dominazione spagnola: furono progressivamente demoliti, ne sopravvissero pochi.

All’unità d’Italia, Milano giunse priva di quella tradizione di passaggi e porticati che ritroviamo in città come Torino e Bologna; all’epoca, la città poteva vantare solo la galleria De Cristoforis, un passage che rispondeva alle tendenze delle principali capitali europee, dotate di passaggi con copertura in ferro e vetro a scopo commerciale (galerie Vivienne, Parigi; Burlington Arcade, Londra).

Nel 1839, Carlo Cattaneo (1801-1869; patriota, filosofo, politico, politologo, linguista e scrittore italiano) fu uno degli animatori del dibattito che riguardava il rifacimento della zona prospiciente al Duomo. Maturò l’idea di una via che congiungesse la piazza del Duomo con quella della Scala.
All’epoca la piazza davanti al Duomo era piccola e irregolare, e ritenuta indegna della cattedrale della città. Inoltre, c’erano anche problemi di viabilità: il traffico cittadino, in netto aumento, non era più sostenibile, perlomeno mantenendo le strette strade di origine medievale.

Si decise di dedicare la via al re Vittorio Emanuele II per due motivi: l’entusiasmo per l’indipendenza dall’Austria; la speranza di ottenere più facilmente i permessi (si ottenevano con decreto reale) per le espropriazioni necessarie per realizzare l’opera.
La dedica al re è stata collocata sul frontone dell’arco d’ingresso e recita: “A Vittorio Emanuele II. I milanesi”.

I decreti regi per i permessi furono firmati tra il 1859 e il 1860: uno per l’esproprio dei palazzi da demolire; l’altro per la demolizione del coperto dei Figini e del Rebecchino, entrambi occupavano l’attuale piazza Duomo; l’ultimo servì ad autorizzare una lotteria, finalizzata a ottenere i fondi per la costruzione della via.

Il 3 aprile 1860, il Comune di Milano bandì il concorso per edificare la nuova via.
Il progetto iniziale prevedeva una semplice strada porticata e fu istituita una speciale commissione per vagliare i progetti.
Giunsero innumerevoli proposte, tra le quali ne furono scelte 176, esposte successivamente alla Pinacoteca di Brera.
In questa prima occasione, non fu nominato alcun vincitore, ma vennero fornite indicazioni più precise riguardo al progetto e stavolta, prese campo l’idea del passaggio coperto.

Fu indetto un secondo concorso, nel febbraio del 1861; furono valutati 18 progetti, ma anche stavolta, non fu eletto un vincitore.
Tra i progetti, quattro furono ritenuti più meritevoli quelli di: Davide Pirovano, il cui progetto era ispirato all’architettura palladiana; Paolo Urbani, per la scelta di un’architettura eterogenea che combinava forme lombarde e venete; Gaetano Martignoni, per unire le due piazze, aveva proposto una galleria a croce greca; Giuseppe Mengoni, le sue scelte architettoniche si ispiravano ai palazzi comunali del Trecento.

Non avendo ancora trovato il progetto idoneo, fu bandito un terzo concorso, nel 1863.
Stavolta furono considerati solo otto progetti: tre richiesti dalla stessa commissione; cinque presentati spontaneamente. Il vincitore fu Giuseppe Mengoni, al quale furono richieste delle modifiche ad alcune parti del suo progetto.
Mengoni aveva proposto una galleria unica, mentre il progetto finale sarà quello di una galleria a croce, con l’aggiunta di alcuni dettagli stilistici.

Il 7 marzo 1865, il re Vittorio Emanuele II posò la prima pietra della Galleria. La costruzione fu affidata alla società inglese City of Milan Improvements Company Limited.
I lavori, a parte la realizzazione dell’arco trionfale d’ingresso, furono ultimati in meno di tre anni.
Ci furono alcuni problemi, a causa del fallimento della società appaltatrice. Questo fatto allungò i tempi di completamento dei lavori che terminarono nel 1878, quando anche l’arco d’ingresso e i portici settentrionali di piazza Duomo furono terminati.
Mengoni non riuscì a vedere finita la grandiosa opera: morì cadendo da un’impalcatura durante un’ispezione.

Poco tempo dopo l’inaugurazione, la Galleria divenne il luogo di ritrovo preferito dalla borghesia che frequentava i nuovi negozi, i ristoranti e i caffè. Alcuni di questi esercizi commerciali hanno resistito al passare degli anni e sono tuttora in attività.
Sin dalla sua apertura, la Galleria fu dotata di tutte le ultime trovate tecnologiche, come l’illuminazione a gas.
Le lampade sull’ottagono erano accese da un congegno automatico chiamato “rattin” (“topolino” in milanese), una piccola locomotiva che accendeva progressivamente i lumi.

La Galleria non fu solo punto di ritrovo per la borghesia, ma anche centro vitale della politica milanese.
Gli avvenimenti politici di maggior rilievo che la videro protagonista furono: gli scontri tra operai e polizia il 1° maggio del 1890; i conflitti dei moti di Milano che videro il loro culmine con il cannoneggiamento sulla folla ordinato da Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924, generale italiano), nel 1898.

A causa della loro vicinanza, la Galleria e il teatro alla Scala furono da subito legati sia perché quest’ultima costituiva il punto di transito per recarsi a teatro sia perché qui si radunavano cantanti e musicisti che desideravano essere scritturati nei teatri della Lombardia.

A inizi Novecento, la Galleria si impose ulteriormente, diventando un luogo cruciale per la vita mondana e per la scena musicale milanese. Inoltre, fu al centro di tutti gli avvenimenti più importanti della città: eventi culturali, come gli incontri dei futuristi; scontri tra interventisti e neutralisti allo scoppio della I Guerra mondiale; manifestazioni dopo la guerra.
Durante la II Guerra mondiale, la Galleria subì i bombardamenti degli alleati, come il resto della città, e riportò diversi danni: fu distrutta la copertura di vetro, parte della copertura metallica e le decorazioni interne.

La Galleria fu oggetto di diversi restauri nel corso degli anni, gli ultimi, furono piuttosto approfonditi e risalgono al periodo tra marzo 2014 e aprile 2015. In vista dell’Expo, si attuarono tutti i lavori che erano stati trascurati in precedenza e tra i vari interventi c’è quello che ha riportato gli intonaci ai colori originari.

La Galleria ha incontrato il favore di artisti e intellettuali, ispirando rappresentazioni pittoriche e citazioni di vario genere da parte di letterati e scrittori.
Luigi Capuana ne “La Galleria Vittorio Emanuele” dice che “è il cuore della città. La gente vi s’affolla da tutte le parti, continuamente, secondo le circostanze e le ore della giornata, e si riversa dai suoi quattro sbocchi […] Tutte le pulsazioni della vita cittadina si ripercuotono qui”.

Non so voi, ma io mi trovo d’accordo con la conclusione di Mark Twain che nel suo diario di viaggio, “Vagabondo in Italia”, affermò: “Mi piacerebbe viverci per sempre”.

La Notte stellata: Van Gogh, dalla realtà ai paesaggi dell’anima

Notte stellata Van Gogh dalla realtà ai paesaggi dell’anima

Quando dipinse “Notte stellata” Vincent van Gogh non pensava al dieci di agosto, la notte di San Lorenzo, ma il suo quadro a me fa pensare proprio a questa particolare notte, la notte dei desideri e delle stelle cadenti che rivedo nei vortici di luce che riempiono il cielo del suo dipinto.

Per quanto mi riguarda, nulla so con certezza. Ma la vista delle stelle mi fa sognare” (Vincent Van Gogh)

Vincent van Gogh (1853-1890) dipinse la “Notte stellata” (De sterrennacht) nel 1889. Questo famoso dipinto rappresenta un paesaggio notturno di Saint-Rémy-de-Provence e fa parte delle opere che il pittore realizzò durante il suo anno di degenza in una clinica per alienati mentali.
In questo periodo, van Gogh ebbe una intensa fase creativa, dipinse molte opere e al contempo, si affrancò dalla visione impressionista: nei suoi quadri la realtà era rielaborata attraverso l’immaginazione.

La data esatta della realizzazione della Notte stellata non è precisamente definita, si propende per il 19 giugno del 1889, perché l’artista nomina il quadro “un paesaggio con gli ulivi e anche uno studio di un cielo stellato”, in una lettera al fratello Theodorus (1857-1891, antiquario olandese, fratello minore di Vincent). Ma ci sono altre lettere che indicano una data antecedente, come quella che descrive il presunto paesaggio ritratto nel quadro: “Questa mattina dalla mia finestra ho guardato a lungo la campagna prima del sorgere del Sole, e non c’era che la stella del mattino, che sembrava molto grande” (Lettera n. 593 a Theo, 2 giugno 1889).
Facendo tutte le debite osservazioni di natura astronomica e aggiungendo ad esse le deduzioni derivanti dalla corrispondenza del pittore, le date più probabili sono due: il 19 giugno o il 23 maggio.

All’inizio Vincent van Gogh tenne con sé la Notte stellata, poi la inviò al fratello insieme con altri quadri.
L’anno successivo, l’artista si uccise, in un campo di grano maturo. Theo morirà nel 1891 e il dipinto passerà nelle mani della sua vedova, Johanna Gezina van Gogh-Bonger (1862-1925, pittrice olandese), per finire, successivamente, nelle collezioni del poeta Julien Leclercq. Poi il dipinto passò per varie altre mani, fino a giungere al suo ultimo e definitivo approdo: nel 1941, la Notte stellata fu acquistata dal Museum of Modern Art di New York.

Nella Notte stellata, van Gogh dipinse ciò che vedeva dalla stanza del manicomio di Saint-Remy, ma noi, guardandolo, non vedremo un paesaggio reale, bensì, un’interiorizzazione della realtà: l’espressione pittorica del mondo intimo dell’artista, vibrante delle sue emozioni e delle sue paure.

Nel 1888, prima di scegliere l’internamento volontario a Saint-Rémy, Vincent scrisse:
Con un quadro vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica. Vorrei dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui un tempo era simbolo l’aureola, e che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori […]. Ah il ritratto, il ritratto che mostri i pensieri, l’anima del modello: ecco cosa credo debba vedersi” (Vincent van Gogh, Arles, 3 settembre 1888).

In copertina: particolare della “Notte stellata” (De sterrennacht) di Vincent van Gogh, conservato presso il Museum of Modern Art di New York

La bellezza ci salverà solo se sapremo darle il giusto valore

La bellezza ci salverà solo se sapremo darle il giusto valore

In questo periodo, in cui i musei sono chiusi e non è possibile spostarsi per ammirare le meraviglie che ci circondano, credo sia d’obbligo una rapida riflessione sulla bellezza, concetto su cui si discute spesso, ma che ancora è ampiamente sottovalutato o peggio ignorato, nonostante tutte le chiacchiere e le frasi fatte.

In Italia, abbiamo infiniti esempi di bellezza, naturale e paesaggistica, ma anche architettonica. Inoltre, custodiamo, nella miriade di contenitori privilegiati, quali sono i musei delle nostre città, un’incredibile serie di meravigliosi capolavori, tutti da scoprire.

Se non possiamo visitare i musei di persona, possiamo però sostenerli e godere, comunque, delle meraviglie in essi contenute, approfittando delle numerose iniziative a disposizione su internet.

Sono davvero tanti gli eventi a cui partecipare virtualmente, assaporando la bellezza di molte opere d’arte e reperti di ogni genere e in più, apprendendo nozioni utili, a volte curiose, sicuramente importanti, che oltretutto servono anche a farci trascorrere piacevolmente il tempo che siamo costretti a passare in casa.

Il 23 marzo ho assistito online a una spiegazione del quadro “La Primavera” di Botticelli (1444 o 1445-1510).
Ho trovato la lezione a distanza davvero coinvolgente, inoltre, ho avuto un’ulteriore occasione di ammirare da vicino la bellezza straordinaria di questo dipinto, scoprendo al contempo una complessa rete di riferimenti storici e letterari relativi alla genesi di questo capolavoro.

Il video mi ha anche rinfrescato una recente memoria: una visita che ho fatto agli Uffizi nel 2018.
Era da tempo che volevo recarmi in questo museo e tuttora, mi trovo a ripercorrere nel ricordo le magnifiche ore passate in quell’oasi di bellezza.
Due dipinti mi sono rimasti nel cuore: l’Annunciazione di Leonardo e la Primavera di Botticelli.

Gli Uffizi sono assolutamente da visitare anche solo per la struttura che ospita il museo e poi per “perdersi” nelle tantissime sale, dove cose meravigliose sono solo in attesa di stupire l’osservatore.

Tornando alla Primavera di Botticelli, posso dire che sono rimasta impressionata dalla sua bellezza che nessuna riproduzione può eguagliare; inoltre, dal vero, ho potuto cogliere sfumature che neppure le più elaborate macchine fotografiche sono in grado di riprodurre, così come non è possibile provare le stesse emozioni, se non si ha il dipinto di fronte agli occhi.

Sono stata profondamente colpita dal contrasto cromatico tra la parte antistante della rappresentazione, dove sono posti i personaggi e il boschetto che fa loro da sfondo.
L’incredibile uso del colore di Botticelli fornisce alla sua Primavera un singolare senso prospettico e una profondità nella quale sembra di perdersi.

Concludo, ringraziando tutti coloro che lavorano nei musei, per il loro impegno quotidiano a mantenere vivi i luoghi della conoscenza, nonostante le obbligatorie chiusure, e anche per la gioia che ci regalano, con le loro pillole di cultura che ci aiutano ad accrescere e coltivare il senso della bellezza.

Non so se la bellezza ci salverà ma di sicuro ci aiuterà ad affrontare con un certo grado di positività i terribili tempi dettati da questa pandemia.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #11 Copisti e Scriptorium

Storia della scrittura dai geroglifici agli emoticon 11 Copisti e Scriptorium

Dal IX-X secolo, l’arte della scrittura ha un luogo dove esprimersi: lo scriptorium.

In gran parte, questo sancta sanctorum dei copisti, era collocato, nei monasteri e nelle abbazie, vicino alla biblioteca.
In questo luogo, i manoscritti si copiavano, si decoravano e si rilegavano.

Lo scriptorium poteva essere una sala speciale (l’unica a essere riscaldata) o una serie di celle individuali.
Solitamente, i copisti avevano a disposizione un sedile con braccioli e spalliera molto alta e un leggio con un doppio piano inclinato.

Per scrivere utilizzavano una penna d’oca, tagliata a seconda delle esigenze della grafia.
In media, un copista realizzava quattro fogli di pergamena di 35-50 cm di altezza e 25-30 cm di larghezza al giorno.

I copisti lavoravano sotto dettatura e spesso, su un identico manoscritto operavano più persone, a conferma di ciò, le grafie diverse rilevate nei documenti ritrovati.
Al lavoro di copiatura partecipavano a volte anche le monache: nel Medioevo erano aumentate le comunità miste.
Fare il copista era piuttosto faticoso: il lavoro era interrotto solo dalle preghiere quotidiane.

Il lavoro di copiatura prevedeva una suddivisione dei compiti che consentiva di rendere più scorrevole e funzionale il lavoro e che permetteva, al contempo, ai principianti di imparare il mestiere. Ad esempio, tracciare le righe sulle quali i copisti avrebbero poi scritto, era compito dei novizi che iniziavano così il loro apprendistato.
Nelle fasi successive, i principianti si dedicavano ai lavori comuni, più spediti e più semplici da eseguire. Questo tipo di testi era molto richiesto e costituiva la maggiore fonte di guadagno per le comunità monastiche.

I lavori più complessi e di maggior rilievo erano rimessi nelle mani dei copisti migliori. Queste speciali commesse venivano da dignitari della nobiltà o del clero.

Le decorazioni erano eseguite da miniaturisti e alluminatori. Questi artisti realizzavano capilettera in lamine d’oro e si sbizzarrivano, per i libri più preziosi, anche con disegni floreali, personaggi e paesaggi pieni di colori brillanti.

Il lavoro seguiva una prassi consolidata:

  • il motivo era schizzato con un punteruolo
  • i dettagli si ripassavano con la penna d’oca e l’inchiostro
  • i contorni colorati si realizzavano a penna
  • il disegno era completato con un pennello molto sottile

I monasteri che non disponevano di artisti sufficientemente abili a eseguire un dato lavoro, si rivolgevano a laici noti per le loro capacità; altrettanto facevano in caso servissero rilegatori che dovevano realizzare la copertina di cuoio e il fermaglio, spesso molto elaborati.

in copertina: Ritratto di Jean Miélot, segretario, copista e traduttore del duca Filippo III di Borgogna