Descrivere un ambiente è un’operazione delicata, necessaria, ma pericolosa, pericolosa perché si rischia di diventare noiosi, fermando l’azione per collocare i personaggi o per definire una scena.
Sciascia è abilissimo: mantiene l’attenzione inalterata in chi legge grazie a uno stratagemma ritmico.
Le sue descrizioni lasciano senza fiato e non si può che seguirlo fino alla fine.
L’azione non viene interrotta, ma costituisce un unico corpo con la descrizione stessa: siamo nella casa e giriamo nelle stanze insieme al narratore e come lui vediamo tutti gli oggetti elencati.
Siamo lì, presenti, nel luogo dove si svolge la storia e non possiamo mica andarcene così su due piedi…
“La casa era più vasta di quanto, guardandola da fuori, si poteva credere. C’era una grande sala da pranzo con un massiccio tavolo di rovere e quattro credenze, dello stesso legno, con dentro piatti, zuppiere, bicchieri e cuccume; ma anche vecchi giocattoli, carte, biancheria. Camere da letto, due con materassi e cuscini ammonticchiati sulle reti, una con un letto che pareva qualcuno ci avesse dormito la notte prima, ce n’erano tre; e forse altre dietro le porte che il brigadiere non aprì. La casa era stata abbandonata e anche dispogliata di arredi, libri, quadri e porcellane (si scorgeva qualche segno delle cose involate), ma non dava il senso di essere disabitata. Mozziconi di sigarette erano nei portacenere, e fondi di vino nei bicchieri, cinque, che erano stati portati in cucina certo con l’intenzione di sciacquarli. La cucina era spaziosa, con focolari a legna, forno, mattonelle valenziane murate intorno; pentole di rame e tegami appesi alle pareti: davano un certo splendore, nella poca luce, anche se verdicavano di solfato ormai. Dalla cucina, una porticina si apriva su una scala che saliva stretta e buia, e non si vedeva dove finiva“. (Una storia semplice, Leonardo Sciascia)
Per descrivere le stanze e gli arredi, Sciascia declama, come fosse una filastrocca, una lista di oggetti. Il ritmo dell’elenco è serrato e potrebbe essere indifferentemente scandito dai battiti di un metronomo o recitato da voci cantilenanti di bambini.
Gli ambienti sono ridotti a una carrellata che sopraffà la vista, ma è gradevole all’orecchio.
Una musicalità che incanta e avvolge il lettore, una sorta di formula magica che costringe a proseguire senza sosta.
Il ritmo fornisce alla storia vitalità espressa anche nei battibecchi tra la polizia e i carabinieri.
“Poco meno di due ore dopo, arrivarono tutti quelli che dovevano arrivare: questore, procuratore della Repubblica, medico, fotografo, un giornalista prediletto dal questore e un nugolo di agenti tra i quali per sussiego spiccavano quelli della scientifica. Sei o sette automobili che anche dopo che erano arrivate continuarono a rombare, stridere e urlare, così come dal centro della città erano partite suscitando la curiosità dei cittadini e anche quella […] dei carabinieri: per cui il colonnello dei carabinieri, cupo in volto, arrabbiatissimo, pronto a litigare, col dovuto rispetto, col questore, arrivò una mezz’ora dopo, le porte tutte già aperte con quelle chiavi che stavano sulla scrivania, il rilevamento delle impronte già un po’ a casaccio cominciato, il morto fotografato da ogni parte“.
L’atmosfera da filastrocca prosegue con l’elenco di tutti i partecipanti al “gioco” e poi l’autore infila tre verbi “rombare, stridere e urlare” uno dietro l’altro riferiti alle automobili che introducono nell’atmosfera concitata presente sulla scena del delitto.
Nelle descrizioni frenetiche, quasi l’assolo di uno strumento impazzito, non mancano i numeri, come in qualsiasi filastrocca che si rispetti: