L’Amore va in scena: tra luci e ombre, e tra parole e suoni

L’amore è un sentimento complicato, fatto di luci e ombre, come ci hanno fatto comprendere chiaramente Cecilia Cozzi e Martina Giordani con le loro interpretazioni differenti, ma entrambe illuminanti.

Sono arrivata con un discreto anticipo all’appuntamento con Sapere d’estate: “Amore: una sinfonia di luci (e ombre)” che si è svolto ieri, 11 agosto, in piazza del Municipio a Falconara.
Ho potuto così assistere agli ultimi ritocchi prima di “andare in scena”, mentre una leggera brezza rendeva ancora più piacevole l’attesa.

Le due mattatrici dello spettacolo sono state: Cecilia Cozzi, in veste di relatrice e Martina Giordani, nel ruolo di pianista.
Entrambe sono riuscite nell’intento di incantare e intrattenere il pubblico attento e partecipe.
Piacevoli, interessanti e gestite con grande maestria le parole; superbe ed ispirate le esecuzioni di brani piuttosto impegnativi di Schubert, Liszt, Chopin, Rossini e Grieg.

L’amore è stato l’argomento principe della serata, come appunto, già annunciava il titolo dell’evento.
Amore che è stato analizzato in tutte le sue declinazioni, passando dagli aspetti più luminosi di questo universale sentimento a quelli più “ombrosi”.

L’analisi si è compiuta attraverso un originale excursus tra i testi degli antichi Greci.
Cecilia Cozzi ha letto e commentato versi, aggiungendo al già felice mix una buona dose di argute osservazioni che hanno evidenziato come gli atteggiamenti nei confronti dell’amore, dall’antichità fino a oggi, non abbiano subito sostanziali cambiamenti.
Nei versi dei poeti dell’antichità, anche se le espressioni e le parole sono spesso diverse dalle nostre, si è denotato lo stesso ventaglio di emozioni che anche noi oggi sperimentiamo quotidianamente: delusione e rabbia per un amore non corrisposto; gelosia; gioco e leggerezza; tenerezza, ecc.

Anche la musica ha dato la sua personale visione dell’amore, attraverso il percorso sonoro affrontato al pianoforte da Martina Giordani che ci ha consentito di esplorare altre recondite sfumature di questo meraviglio e complicato sentimento.

Le spiegazioni fornite per ogni brano, nonché la notevole bravura esecutiva e interpretativa della pianista sono state il completamento perfetto di una serata magnifica, certamente da ripetere.

Noir: un genere letterario sospeso tra crudeltà e mistero #2

Noir genere letterario sospeso tra crudeltà e mistero #2

Il noir si distingue come genere letterario per vari aspetti, come: la figura del protagonista, le ambientazioni e le finalità delle vicende narrate.

Nel XX secolo, il termine “noir” subì una svolta: storici e critici letterari francesi ripresero il termine per identificare un importante genere narrativo: l’hard boiled, nato negli Stati Uniti, nei primi anni ’20 e che vede negli autori, Dashiell Hammett, John Carroll, John Daly, Raymond Chandler, Mickey Spillane, James Hadley Chase e gli scrittori della rivista “Black Mask” i principali esponenti del genere.

Questa sovrapposizione del termine, però, resta una convinzione tutta francese: negli Stati Uniti, il noir era ritenuto, e tuttora è così, un sottogenere narrativo distinto dall’hard boiled.

In America il termine noir è stato usato ufficialmente dal 1968, parlando però di opere cinematografiche, e solo dal 1984 si fa riferimento anche a opere narrative di autori, come: David Goodis; Jim Thompson; Cornell Woolrich.

Il genere hard boiled e quello noir presentano notevoli differenze che li distinguono nettamente l’uno dall’altro. Ad esempio, nel genere hard boiled, le storie per la maggior parte sono scritte in prima persona e la figura del detective è preponderante: protagonista della storia, conduce la linea narrativa principale, svolge le indagini e tenta di risolvere il caso.
Nel noir classico invece non si svolgono attività investigative di rilievo. La narrazione si sviluppa e gira intorno ai fatti criminosi compiuti dal personaggio o dai personaggi principali e raramente si assiste a un lieto fine.

Inoltre, nel noir il protagonista non è un investigatore, bensì una vittima oppure un sospettato o ancora, un esecutore. In ogni caso, si tratta di un soggetto auto-distruttivo che si trova ad affrontare sia un persecutore sia il sistema legale e politico, solitamente corrotti, oppure deve perseguitare altri soggetti; in ogni caso, per lui non ci sarà alcuna possibilità di vittoria.

Spesso poi, il protagonista di un noir è un individuo comune che in apparenza vive una vita ordinaria e che a un certo punto della sua vita si trova a dover commettere un crimine. In altri casi, il personaggio principale è un criminale. È comunque sempre un antieroe, un soggetto che agisce tra ambiguità morale, avidità, cinismo e alienazione.

La storia di un noir si snoda intorno a uno o più crimini che avvengono in ambienti diversi, a volte anche familiari o malavitosi. L’atmosfera è cupa, densa di intrighi, violenza, rapine, tradimenti, corruzione, omicidi e ricatti.

L’ambientazione del noir è fondamentale per la nascita e l’evoluzione della storia. La città e la metropoli in queste storie non costituiscono un semplice sfondo, ma sono delle protagoniste a loro volta, tanto quanto la violenza, la criminalità, il degrado morale e ambientale.
L’ambientazione nelle metropoli consente anche un certo grado di azione: inseguimenti, scontri fisici e sparatorie.

Nei romanzi noir la risoluzione del crimine non rappresenta l’obiettivo della storia, bensì narrare gli aspetti cupi e violenti della società, trasferendo al lettore l’immagine di una realtà negativa e drammatica.

È presente anche il sesso, privo solitamente dell’aspetto sentimentale. I personaggi femminili delle storie rispondono allo stereotipo della “femme fatale”, donna seducente e manipolatrice, spesso avida e interessata soltanto al denaro.

Il linguaggio del noir, soprattutto i dialoghi tra i personaggi, è crudo, realistico ed essenziale, e fa largo impiego del gergo metropolitano.

I più noti scrittori di noir metropolitano sono: Ed McBain (per New York), James Ellroy (per Los Angeles), Jean-Claude Izzo (per Marsiglia), Lawrence Block, Jim Thompson, Shane Stevens, James Mallahan Cain, David Goodis, Henry Kane, Jean Patrick Manchette, Giorgio Scerbanenco, Ruth Rendell, Derek Raymond, Horace McCoy, William Riley Burnett.

Valentina Ciardelli e il contrabbasso, questo sconosciuto

Valentina Ciardelli e il contrabbasso, questo sconosciuto

Nella magnifica cornice della terrazza del museo archeologico di Ancona, ieri sera, 26 luglio, un pubblico attento e nutrito ha assistito a un bellissimo concerto per contrabbasso solo.

Volevo ascoltare questo concerto non appena ho visto la locandina che lo pubblicizzava.
Già l’immagine scelta per promuoverlo mi aveva colpito e al contempo, ero estremamente curiosa di assistere a un’esecuzione che abbinava uno strumento come il contrabbasso (che io ho trovato sempre intrigante) e un’esecutrice femminile.

Ero anche incuriosita dall’idea di ascoltare un concerto dall’inizio alla fine eseguito su uno strumento così particolare che, solitamente, non occupa un posto di primo piano, nonostante io abbia sempre ritenuto il contrabbasso uno strumento estremamente affascinante, sia nella musica classica sia nel jazz.

A volte, un po’ relegato in ruoli di secondo piano, immeritatamente, perché, la “voce” del contrabbasso è così particolare, e la sua stessa presenza fisica, a parer mio, ne fanno un personaggio di primo piano, un protagonista.

Per quanto riguarda la solista che si è esibita ieri sera ad Ancona, non sono di certo rimasta delusa. Valentina Ciardelli ha conquistato tutti con la sua bravura e la sua simpatia.
Certamente, decidere di affrontare un pubblico da sola con uno strumento come il contrabbasso è un atto coraggioso, perché non siamo abituati a isolare la sonorità di questo strumento da quella degli altri elementi di un’orchestra o magari di un gruppo jazz, tranne che per brevi momenti di assolo, inclusi però in una composizione più ampia, dove il contrabbasso è solo uno dei tanti personaggi di un brano musicale.

Coraggioso e anche difficile il ruolo che si è ritagliata Valentina Ciardelli che ha fatto centro anche sulla scelta dei brani: un percorso variegato, dove ha brillato non solo la sua capacità interpretativa, ma anche la sua abilità di trascrittrice.

Espressiva in ogni passaggio, non solo musicalmente: le espressioni del suo volto e i gesti mostravano un grande coinvolgimento che è arrivato dritto anche al pubblico presente.

Personalmente, ho apprezzato moltissimo il brano di Emil Tabakov “Motivy”, ma anche il resto del programma non era da meno.

Sono perfettamente d’accordo poi, con le parole della Ciardelli che ad apertura concerto ha affermato che la cultura va preservata, perché è una parte importante della nostra vita, un segno distintivo dell’essere umano e per questo, deve essere coltivata e ancor più divulgata senza sosta, se non vogliamo perdere una parte fondamentale della nostra umanità.

Noir: un genere letterario sospeso tra crudeltà e mistero #1

Noir genere letterario sospeso tra crudeltà e mistero #1

Noir, cioè nero, rimanda al concetto di cupo, malinconico e marcatamente pessimista, caratteristiche fondamentali delle storie noir, dove un protagonista, antieroe per eccellenza, si muove in metropoli violente tra intrighi, omicidi e corruzione.

In questi giorni di caldo intenso, leggere, sotto l’ombra provvidenziale di un ombrellone, sdraiati su un comodo lettino, può essere uno svago piacevole.
In genere, durante le vacanze, specie quelle estive, i lettori apprezzano tuffarsi tra le pagine di un giallo, di un thriller o comunque, di un buon poliziesco o magari di un noir.
Tutte queste definizioni non sono altro che delle sotto tracce di un genere molto amato, e chi gradisce questo tipo di letture ha davvero solo l’imbarazzo della scelta tra tante sfumature narrative, tutte ugualmente coinvolgenti.

Una di queste varianti di successo è appunto il noir o “romanzo nero”, che deriva dal sottogenere hard boiled nato alla fine degli anni venti del Novecento, negli Stati Uniti.
L’aggettivo “nero” fa riferimento alle caratteristiche fondamentali di questo genere, cioè storie contraddistinte da tematiche e atmosfere cupe, tetre, malinconiche e pessimiste.

Il termine noir proviene dal mondo anglosassone e fu un genere particolarmente sfruttato in Francia, sulla traccia delle novelle tragiche (“Les Histoires tragiques de nostre temps”) di François de Rosset (1571-1619; traduttore e scrittore francese di successo) e le storie cupe e violente, ispirate alla tradizione dei racconti orrorifici, di Jean-Pierre Camus (1584 – 1652; scrittore e prelato francese).

Nel Settecento, gli stessi argomenti prendono una piega lacrimosa-sentimentale, in particolare in certe parti dei “Mémoires du comte de Comminges” (1735) di M.me de Tencin (1682 – 1749; baronessa de Saint-Martin-de-Ré, scrittrice francese, madre di D’Alembert), nei romanzi dell’abate Antoine-François Prévost (1697 – 1763; scrittore francese) e in alcune opere di Denis Diderot (1713 – 1784; filosofo, enciclopedista, scrittore e critico d’arte francese).

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dopo Horace Walpole (1717 – 1797; quarto Conte di Orford, scrittore inglese, autore de “Il castello di Otranto”, primo romanzo gotico propriamente detto) e Clara Reeve (1729 – 1807; scrittrice inglese, autrice del romanzo gotico “Il vecchio barone inglese”) il romanzo gotico fu denominato “romanzo nero” (romain noir) o del terrore.

Con Ann Ward (nota come Ann Radcliff, 1764 – 1823; popolare scrittrice inglese, pioniera della letteratura dell’orrore e in particolare del romanzo gotico) poi, il genere del romanzo nero subisce un’evoluzione narrativa.
La nuova tipologia contrappone tematiche all’estremo (innocenza virtuosa-crudeltà fisica e morale, religione-satanismo), come in “Han d’Islande” di Victor Hugo (1802 – 1885; scrittore, poeta, drammaturgo e politico francese, considerato il padre del Romanticismo in Francia) e ne “La morte amoureuse” di Pierre Jules Théophile Gautier (1811 – 1872; scrittore, poeta, giornalista e critico letterario francese), fino a giungere ai testi eccessivi di Pierre Mac Orlan (pseudonimo di Pierre Dumarchais, 1882 – 1970; artista e scrittore francese) e a quelli de “Les Mystères de la Morgue ou les Fiancés du IV arrondissement. Roman gai” (1918) di Francis Carco (pseudonimo di François Carcopino-Tusoli, 1886 – 1958; scrittore francese, ambientò le sue opere tra i bassifondi parigini e la vita bohèmienne di inizio Novecento).

Successivamente il filone noir fu assimilato al romanzo giallo, guadagnando un notevole successo, in particolare con Leo Malet (1909 – 1996; scrittore francese che con Georges Simenon e André Héléna è stato uno dei maggiori rappresentanti del romanzo poliziesco in lingua francese), Pierre Siniac (1928 – 2002), Tito Topin (1932) e A.D.G. (pseudonimo di Alain Fournier, detto Camille, 1947 – 2004; giornalista e scrittore francese).

Nel XX secolo, il termine noir subì una svolta… (prosegue nel prossimo post)

La cornice narrativa: un conveniente artificio letterario

La cornice narrativa un conveniente artificio letterario

La cornice narrativa è un espediente letterario di grande utilità; è una sorta di collante, un’efficiente intelaiatura impiegata principalmente nelle raccolte di novelle.

La cornice in letteratura è una tecnica molto utile per dare unitarietà a un’opera narrativa e per consentire una narrazione a più livelli. È una specie di guscio che contiene altre storie e l’autore la utilizza per costruire un racconto nel racconto, una storia dentro un’altra storia.

La cornice serve a manipolare l’intreccio e rappresenta un’alternativa alla fabula.
Essa fornisce unitarietà alla varietà di voci narranti e all’impiego di diversi livelli di narrazione. Rappresenta un’efficace intelaiatura, studiata in particolare per dare compattezza e unità alla forma letteraria della novella.
Grazie a tale sistema, le novelle possono essere raccontate da narratori diversi, descritti nella cornice, e saranno comunque legate da un contesto comune.

Il primo esempio di cornice narrativa compare nella letteratura indiana, nella raccolta “Pañcatantra”, scritta in sanscrito. Altri esempi successivi, sempre nella letteratura indiana sono la raccolta “Kathasaritsagara” del secolo XI.

Tra gli esempi più noti di questo artificio letterario, ricordiamo “Le mille e una notte”, dove a fare da cornice è la vicenda della saggia Sharāzād che, per salvarsi la vita, intrattiene il sultano, raccontando novelle incatenate fra loro.

Altri testi che utilizzano la cornice narrativa sono:

  • il “Libro de’ sette savi”, una raccolta medievale di novelle di origine orientale
  • Il “Decameron” di Giovanni Boccaccio, una raccolta di cento novelle
  • “Il Pecorone” di Giovanni Fiorentino (XIV secolo), raccolta di cinquanta novelle
  • Il “Novelliere” di Giovanni Sercambi (XIV secolo), raccolta di centocinquanta novelle
  • “L’Avventuroso Ciciliano”, sorta di romanzo trecentesco di Busone da Gubbio
  • “Le piacevoli notti”, settantacinque novelle di Giovanni Francesco Straparola (XV – XVI secolo)
  • “I racconti di Canterbury” (The Canterbury Tales), raccolta di 24 racconti scritti in medio inglese (Middle English, nome dato alla fase storica seguente all’inglese antico, parlato nel periodo tra l’invasione normanna e il tardo Rinascimento inglese) di Geoffrey Chaucer
  • gli “Ecatommiti”, raccolta di cento novelle (113 con le 10 dell’esordio e 3 incidentali) di Giambattista Giraldi Cinzio (XVI secolo)
  • “Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille”, raccolta di 50 fiabe in lingua napoletana scritte da Giambattista Basile, pseudonimo anagrammatico di Gian Alesio Abbattutis, edite fra il 1634 e il 1636 a Napoli. L’opera è nota anche con il titolo di “Pentamerone” (cinque giornate)
  • “Le città invisibili”, romanzo pubblicato nel 1972 di Italo Calvino
  • “Il bar sotto il mare”, raccolta di racconti pubblicata da Stefano Benni nel 1987
  • “Pastorale americana”, romanzo scritto nel 1997 da Philip Roth
  • “Raccontami una storia speciale”, romanzo di Chitra Banerjee Divakaruni (2011)

L’espediente della cornice non rappresenta un elemento fittizio aggiunto dall’esterno a scopo decorativo. Ha invece un grande valore strutturale e compositivo e svolge varie funzioni.
A livello stilistico, giustifica e compensa la difformità del linguaggio e la diversità degli argomenti e dei registri stilistici. A livello artistico, consente allo scrittore di prendere le distanze dal testo. A livello morale, permette all’autore di discostarsi da eventuali temi scabrosi. A livello letterario, permette di legare la struttura narrativa dell’opera alla tradizione.

“Orfeo ed Euridice”: Gluck riforma l’opera seria

Orfeo ed Euridice Gluck riforma l’opera seria

2 luglio 1714 nasce Christoph Willibald Gluck, considerato una delle figure chiave della riforma dell’opera seria.
Le sue opere, in particolare l’ “Orfeo ed Euridice”, rappresentano una svolta radicale per questo genere musicale molto fortunato.

Christoph Willibald Gluck (Erasbach, 2 luglio 1714 – Vienna, 15 novembre 1787) era un compositore tedesco. Nella seconda metà del Settecento, fu uno dei principali iniziatori del Classicismo.
Quando il compositore mise in atto i suoi cambiamenti i tempi erano maturi per una sostanziale riforma dell’opera seria che era da tempo in declino. Già si avvertivano sentori di novità. C’era anche una certa stanchezza per delle consuetudini consolidate che riguardavano sia coloro che stavano sul palcoscenico sia gli spettatori che assistevano agli spettacoli.

Il modo di recitare e di rapportarsi con il pubblico degli attori mentre erano sulla scena, la struttura generale dell’opera, i testi e i brani musicali associati, la progettazione delle scenografie, l’inserimento dei balletti e l’uso del coro, in vario modo stavano già prendendo strade nuove, a seguito di un desiderio generale di rinnovamento.

Gluck si trovò a essere l’uomo giusto nel momento giusto. La sua idea di riforma condusse innanzitutto, a una semplificazione della trama delle opere e alla creazione di un equilibrio tra musica e canto. La riforma gluckiana ebbe successo e influì non poco sul lavoro di numerosi compositori, come: Sacchini, Salieri, Cherubini, Spontini, Berlioz e molti altri.

L’opera lirica di Gluck che ha sancito la sua riforma è sicuramente l’ “Orfeo ed Euridice”.
Come si evince già dal titolo, la storia ruota attorno al mito di Orfeo. Il libretto fu scritto da Ranieri Simone Francesco Maria de’ Calzabigi (1714-1795; poeta e librettista italiano).
Essendo un’opera concepita su un soggetto mitologico è inclusa nel genere dell’azione teatrale e per questo prevedeva l’inserimento di cori e danze.

La prima rappresentazione dell’opera fu a Vienna il 5 ottobre 1762.
L’Orfeo ed Euridice aprì la stagione della riforma di Gluck che proseguì con “Alceste” e “Paride ed Elena”.
Questo complesso di opere riformiste, nell’ottica del compositore, come del librettista e del direttore dei teatri, il conte Giacomo Durazzo (1717-1794; diplomatico al servizio della Repubblica di Genova e uomo di teatro italiano), dovevano: semplificare il più possibile l’azione drammatica; andare oltre le trame contorte e complicate dell’opera seria italiana; evitare gli eccessi vocali; ristabilire un rapporto più bilanciato tra parola e musica.
Anche Gasparo Angiolini (1731-1803; coreografo, ballerino e compositore italiano), che gestì le danze incluse nelle nuove opere riformiste, riteneva che il vento di rinnovamento dovesse investire anche il balletto che proprio in quel periodo vedeva la nascita del “ballet d’action”, una nuova forma coreutica.

Nel, 1774, L’Orfeo ed Euridice sbarcò a Parigi, come Orphée et Euridice. Gluck rielaborò notevolmente l’opera per adattarla agli usi musicali francesi. Innanzitutto, il libretto fu tradotto in francese e fu anche arricchito da Pierre Louis Moline (1740 ca. – 1820; prolifico drammaturgo, poeta e librettista), mentre Gluck rinnovò l’orchestrazione adeguandola ai più ampi organici dell’Opéra, aggiungendo molta musica nuova, mutuando brani da opere precedenti e soprattutto, garantendo un ampio respiro alle danze.

L’Orfeo ed Euridice di Gluck è considerata la più nota tra le opere musicate dal compositore tedesco. Proposta in una delle diverse edizioni o addirittura presentata in versioni nuove anche piuttosto rivisitate, è stata una delle poche opere del Settecento a essere presente, fino a oggi, nei cartelloni delle stagioni dei più importanti teatri lirici del mondo.

Il fattore chiave della riforma attuata con l’Orfeo ed Euridice, anche secondo lo stesso Gluck, che lo confessò in una lettera al Mercure de France del 1775, è da ascriversi soprattutto al testo e al lavoro di Calzabigi. In effetti, l’ostacolo maggiore da superare, per dare continuità e maggior realismo all’azione drammatica, era l’antiquata forma del libretto metastasiano. La riforma dell’opera seria, cioè, doveva necessariamente passare attraverso una nuova forma di scrittura del testo.

Nell’Orfeo ed Euridice questa mutazione chiaramente investe la struttura dei brani musicali: le arie virtuosistiche con il da capo (ABA’) – concepite come pezzi chiusi e autonomi destinati a esprimere sentimenti e momenti specifici – e i recitativi secchi – deputati a portare avanti l’azione drammatica – sono sostituiti da brani di minor durata, legati fra loro a comporre strutture musicali più ampie. Inoltre, i recitativi da secchi mutano in accompagnati e sfociano naturalmente nelle arie. Inoltre, Calzabigi, per le arie utilizza sia la forma strofica sia quella del rondò.

La riforma nell’insieme, superando e infrangendo le convenzioni dell’opera seria italiana, mirava a dare slancio drammatico all’azione. Con la stessa logica, si semplifica la trama, eliminando i personaggi minori e i relativi intrecci secondari.
L’Orfeo ed Euridice includeva anche molti numeri di danze espressive e faceva un largo uso del coro, entrambe consuetudini della tragédie lyrique francese e in particolare, delle opere di Jean-Philippe Rameau (1683-1764; compositore, clavicembalista, organista e teorico della musica).

L’Orfeo ed Euridice di Gluck ha lasciato un profondo segno nella storia dell’opera: da Mozart a Wagner, passando per Weber tutti le sono, chi più chi meno, debitori.

In copertina: particolare del ritratto di Christoph Willibald Gluck, olio su tela di Joseph Duplessis (1775)

Frida Kahlo: una singolare artista dalla vita travagliata

Frida Kahlo una singolare artista dalla vita travagliata

Oggi 21 giugno, ricorre l’anniversario di un importante riconoscimento a una famosa artista, Frida Kahlo, prima donna latinoamericana raffigurata su un francobollo degli Stati Uniti.

Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio 1907 – Coyoacán, 13 luglio 1954), più nota come Frida Kahlo, è stata una pittrice messicana. Nacque a Coyoacán, un villaggio oltre la periferia di Città del Messico.

Suo padre, Guillermo Kahlo Kaufmann (1871 – 1941), era un fotografo tedesco; sua madre una benestante messicana, Matilde Calderón y González (1876 – 1932).
Frida ebbe una vita particolarmente tormentata e difficile, ma lei sin da adolescente mostrò una personalità forte e indipendente, e probabilmente fu proprio grazie a queste doti che riuscì ad affrontare le gravi vicissitudini della sua vita. Sicuramente, il suo talento artistico la aiutò a sopportare e metabolizzare sia il dolore fisico sia le sofferenze sentimentali.

L’evento che cambiò radicalmente la sua vita si verificò il 17 settembre del 1925. All’età di diciotto anni, Frida ebbe un terribile incidente: si trovava su un autobus che si scontrò con un tram; l’autobus fu schiacciato contro un muro; Frida Kahlo riportò ferite gravissime e subì ben trentadue operazioni chirurgiche. Quando uscì dall’ospedale, dovette restare a letto, col busto ingessato, per molto tempo.

Il riposo forzato fece da leva alla sua vena artistica; le sue prime produzioni furono degli autoritratti che riuscì a dipingere grazie ai suoi genitori che le regalarono dei colori e soprattutto, un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto. Finito il periodo di convalescenza Frida Kahlo riprese a camminare, sopportando forti dolori che purtroppo, restarono in qualità di sgraditi compagni per tutta la sua vita.

Intanto, con il passare del tempo, la sua arte metteva radici. La pittrice decise di mostrare le sue opere all’illustre artista Diego Rivera (1886 – 1957) per avere una sua opinione. Il pittore apprezzò lo stile moderno di Frida e da quel momento fu il suo mentore, introducendola nella scena culturale e politica messicana.

Oltre al rapporto professionale, Frida Kahlo e Diego Rivera ebbero anche una travagliata relazione sentimentale: nel 1929, si sposarono, nonostante Frida fosse consapevole che avrebbe dovuto convivere con i numerosi tradimenti del marito; nel 1939, divorziarono, a causa del tradimento di Rivera con Cristina Kahlo, la sorella di Frida; nel 1940 si sposarono di nuovo.

Durante questo tira e molla coniugale, anche Frida ebbe le sue avventure extraconiugali e alcuni suoi amanti, erano figure piuttosto note all’epoca, come: il rivoluzionario russo Lev Trockij (1879 – 1940) e il poeta André Breton.
Ma il più grande dispiacere di Frida, nell’arco della sua movimentata storia d’amore, fu quello di non avere avuto figli: a causa dei danni subiti dal suo fisico dopo l’incidente del 1925 e perché Rivera non voleva averne.

A livello artistico, Frida assorbì dal marito il suo stile naïf che la spinse a realizzare piccoli autoritratti ispirati all’arte popolare e alle tradizioni precolombiane. L’artista desiderava affermare la propria identità messicana utilizzando soggetti ripresi dalle civiltà native.

Nell’agosto del 1953, Frida Kahlo subì un’amputazione alla gamba destra a causa di una cancrena. Morì l’anno successivo a 47 anni, di embolia polmonare; le sue ceneri ora riposano nella sua Casa Azul, attuale sede del Museo Frida Kahlo.
Le ultime parole della famosa artista nel suo diario furono: “Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai più”.

Gli esordi artistici di Frida sono rappresentati dalla serie di autoritratti, realizzati durante il lungo periodo che la costrinse a letto. La pittrice nelle sue opere rappresentò spesso gli aspetti drammatici della sua vita, in particolare l’incidente del 1925.

Figura inoltre, anche il rapporto ossessivo che l’artista aveva con il suo corpo martoriato, tanto da diventare una caratteristica fondamentale della sua stessa arte. Inoltre, Frida era interessata anche a difendere il suo popolo, per questo un altro elemento presente nei suoi dipinti è il folclore messicano.

Altra peculiarità dei suoi quadri è l’uso di elementi fantastici, corredati da uno humor sfumato e affiancati a oggetti in apparenza contradditori. Ad esempio, quando ritrae se stessa con una colonna romana fratturata che intende richiamare la sua colonna vertebrale danneggiata.

L’attività artistica di Frida Kahlo aumenta sensibilmente dal 1938 in poi e nelle sue opere non si riscontrano più soltanto le esperienze biografiche traumatiche, ma iniziano a comparire accenni al suo stato interiore e al suo modo di sentire il pianeta. Inoltre, in gran parte dei suoi dipinti, tra i soggetti è rappresentato un bambino che è la sua personificazione.

La pittrice fu accolta in seno al surrealismo, dallo stesso poeta e teorico del movimento, André Breton (1896 – 1966) che la definì “una surrealista creatasi con le proprie mani”.
Frida Kahlo sfruttò l’opportunità che le offriva questa inclusione: di farsi conoscere e di essere apprezzata dai critici.
Ma in realtà, la visione della pittrice era lontana da quella surrealista: l’immaginazione per Frida era il prodotto della sua vita che lei tentava di rendere afferrabile mediante un simbolismo, mentre per i surrealisti, l’immaginazione serviva a uscire dalla logica e a entrare nel subconscio.

A distanza di molti anni dalla sua morte, Frida Kahlo è stata premiata con un importante riconoscimento: è stata la prima donna latinoamericana a essere raffigurata su un francobollo degli Stati Uniti, emesso il 21 giugno 2001. L’immagine utilizzata è un autoritratto dell’artista, realizzato nel 1933.

In copertina: particolare della foto di Frida Kahlo nel 1932 (Guillermo Kahlo – Sotheby’s)

Storia della scrittura #24: si ritorna alla penna, ma d’acciaio!

Storia della scrittura 24 si ritorna alla penna ma d’acciaio

Mentre la stampa continua a crescere ed evolversi, la scrittura a mano ha ancora delle zone franche che le appartengono, dove si avverte l’esigenza di innovazioni: ben presto si passerà dalla penna d’oca a quella in acciaio.

Abbiamo visto che, con l’avvento della stampa litografica, avvenuta grazie alla scoperta di Aloys Senefelder (1771 – 1834) delle particolari proprietà delle pietre calcaree di Solenhofen, si avrà sin da subito un’influenza diretta sulla stampa dei libri e dei giornali, ma nonostante ciò, sopravvivono ancora ambiti della scrittura che restano esclusivi della penna.

Tra queste “zone d’ombra” ci sono gli atti notarili e giuridici che necessitavano della scrittura manuale, per una questione di autenticazione, grazie alla firma apposta, ad esempio: nei testamenti, nei contratti oppure negli atti di vendita.

In questa sorta di territorio esclusivo operano gli scrivani pubblici. In questa fase, però, si verifica una sorta di rovesciamento riguardo al prestigio di questo antico mestiere. Se un tempo, la professione dello scrivano era stimata e considerata ammirevole, ora subisce un degrado costante, perché coloro che redigono a mano dei documenti sono considerati alla stregua dei loro datori di lavoro: gli usurai.

La stampa aveva conosciuto notevoli progressi, perché c’era necessità di distribuire libri e giornali a più persone e anche di abbassare i costi, ovviamente, se c’è chi scrive ancora con la penna, sono indispensabili anche in questo ambito dei miglioramenti e delle innovazioni, per facilitare il lavoro e aumentare l’accessibilità anche a tali servizi.

Nel 1750, infatti, si ha notizia dell’invenzione di una penna di metallo, della quale sono in diversi a contendersi la paternità: un magistrato di Aix-la-Chapelle, Johann Jantssen; un “onorevole cittadino”, Peregrine Williamson, secondo il “Boston Mechanic”; un inventore dell’Hexagone (locuzione che designa la parte continentale della Francia metropolitana, ricordando che la sua forma geografica è un esagono quasi regolare: tre lati di terra e tre di mare), secondo un opuscolo francese del 1750; un maestro di scuola di Koenisberg (nome storico della città prussiana che attualmente corrisponde a Kaliningrad, in Russia), secondo una pubblicazione tedesca del 1808.

È molto probabile che tale invenzione fosse creazione contemporanea di inventori diversi in luoghi differenti, in quanto se ne avvertiva la necessità un po’ ovunque.
La questione da risolvere, al di là dell’invenzione di uno strumento più efficiente, era riuscire a riprodurre le caratteristiche della penna d’oca. Agli inizi, l’oro sembrava essere l’unica soluzione possibile per ottenere la stessa flessibilità.

Le penne d’acciaio realizzate a mano erano dure e laceravano la carta, in soccorso arrivarono specifici procedimenti meccanici che consentirono la produzione a livello industriale di penne di qualità.
I prezzi scesero rapidamente e la penna d’acciaio diventò l’antesignana dei prodotti “usa e getta” della civiltà moderna.

Vincent van Gogh: l’artista post-impressionista che amava i girasoli

Vincent van Gogh artista post-impressionista che amava i girasoli

Van Gogh ha dipinto paesaggi, ritratti e nature morte, ma tra i soggetti più amati dall’artista olandese ricordiamo i suoi girasoli dei quali ci resta una nutrita serie.

Il 21 giugno 2022, cade il solstizio d’estate e pensando a questa stagione, mi viene in mente per celebrarla un fiore che da solo può rappresentare questo periodo particolare dell’anno: il girasole e al contempo, penso a un artista che amò moltissimo questi singolari fiori, Vincent van Gogh, tanto da produrre, tra il 1888 e il 1889, una serie di dipinti a olio dedicata proprio ai girasoli. Inoltre, tra le sue opere, questo soggetto è uno dei più conosciuti dal grande pubblico.
L’artista cominciò a dipingerli recisi già nel 1887, a Parigi, in effetti, però, la produzione di questo particolare soggetto, ha inizio ad Arles, nel 1888.
L’artista arrivò nella cittadina francese in febbraio; ispirato dal luogo del quale si innamorò subito, pensò di invitare il suo amico, Paul Gauguin (1848 – 1903), per proporgli di creare un gruppo di artisti che loro due avrebbero guidato.

Di questo periodo particolarmente felice della vita del pittore sono i “Girasoli in vaso”. Van Gogh li dipinse durante l’estate ed erano destinati a decorare la stanza del suo ospite.
In una lettera indirizzata al fratello, Theo, l’artista sembra essere nel pieno di una fase creativa: “Ci sto lavorando ogni mattina, dall’alba in avanti, in quanto i fiori si avvizziscono così rapidamente”.

Van Gogh progettava di realizzare dodici tele. I primi quattro dipinti si suppone siano stati: “il Vaso con dodici girasoli”; “il Vaso con quindici girasoli”; “il Vaso con cinque girasoli”; “il Vaso con tre girasoli”.
Il suo amico, Paul Gauguin, arrivò ad Arles, nel mese di ottobre, ma non condivise il suo entusiasmo per la cittadina.
Questo periodo, particolarmente prolifico per il pittore che realizzò molti dipinti, fu invece molto difficile a livello personale: i litigi con Gauguin erano all’ordine del giorno, così come gli atti violenti da parte di Van Gogh. Alla fine, i due si separano burrascosamente nel mese di dicembre; all’epoca, l’artista olandese era in preda a un esaurimento, mentre il suo amico era in procinto di partire per Tahiti.

A dicembre, Van Gogh sta ancora dipingendo tele con girasoli – ne è riprova il dipinto di Gauguin che lo ha raffigurato mentre era all’opera – ma ormai, considerata la stagione, non potava più osservare i fiori dal vero. Forse, in quei giorni, l’artista si avvaleva dei suoi stessi dipinti come modello e li ricopiava facendo poche variazioni.

Gli studiosi stanno ancora valutando il periodo in cui il pittore realizzò le varie repliche della serie di girasoli. Al periodo in cui l’artista soggiornò ad Arles, sono stati attribuiti un numero esagerato di opere, questo, però, è chiaramente in contrasto con il periodo particolarmente difficile che stava vivendo a livello personale.

Van Gogh aveva delle preferenze numeriche per quanto riguarda il soggetto dei girasoli. Per la maggior parte sono 14 o 15. Questi numeri avevano per lui un significato particolare, e lo veniamo a sapere grazie a una lettera indirizzata al fratello. Il 14 era la somma dei 12 apostoli più due figure significative nella vita del pittore e cioè, Theo, suo fratello, e Paul Gauguin; il 15, invece, oltre ai già menzionati, comprendeva l’artista stesso.

Attualmente, i dipinti che raffigurano i girasoli non sono più conservati insieme in uno stesso luogo, ma dispersi in tanti musei diversi o in mano a privati. Un vero peccato: l’effetto della serie al completo doveva essere davvero magnifica.

Nei suoi dipinti, Van Gogh raffigura i girasoli in tutte le fasi della loro esistenza: dal bocciolo all’appassimento.
Nelle lettere indirizzate a Theo, l’artista parla con grande gioia e ottimismo dei suoi girasoli.
Nei primi dipinti, utilizza uno sfondo tra il blu e il violetto, per aumentare il contrasto tra il giallo del soggetto e il fondo su cui esso deve stagliarsi, in ciò si rifaceva alle tendenze degli artisti trasgressivi parigini.
Successivamente, Van Gogh scelse di mettere i girasoli in un vaso giallo e per il fondo usò una tonalità dello stesso colore. Questa soluzione gli sembrò migliore, perché così il dipinto irradiava luce e allegria.

Per l’artista il colore dei soggetti non doveva rispondere alla realtà, ma era un mezzo per esprimere le emozioni.
Le pennellate di Van Gogh sono dense e ruvide; spesso i tratti di pennello si sovrappongono, il pittore tracciava i successivi passaggi quando ancora il colore non era ben asciutto. A volte, scalfiva addirittura con il manico del pennello la vernice fresca.
Il colore era modellato, quasi fosse una scultura e lo spessore garantiva effetti di ombra e luce, al posto di quelli che si sarebbero potuti ottenere modificando il tono del pigmento.
Per i girasoli, Van Gogh fece un uso notevole del giallo cadmio che lui amava particolarmente e che per l’epoca rappresentava una novità: era un pigmento inventato di recente.

Nella serie dei girasoli in vaso, Van Gogh ha dato vita anche a un forte contrasto: sfondo e vaso sono piatti, mentre i fiori paiono contorcersi in tutte le direzioni.
La sua firma compare quasi sempre sul vaso e seguendo l’usanza dei grandi artisti del passato usa solo il nome di battesimo.

In copertina: Paul Gauguin, particolare del dipinto “Van Gogh che dipinge i girasoli” (1888) – Van Gogh Museum

Storia della scrittura #23: progressi della stampa e proliferazione di giornali

Storia della scrittura 23 progressi della stampa e proliferazione di giornali

La stampa continua la sua corsa verso il progresso. La scoperta e lo sviluppo di nuove tecniche tipografiche consente una maggiore diffusione, in particolare dei periodici che iniziano a essere concepiti come delle vere strutture, dove testo e illustrazioni si combinano in armonia, per coinvolgere sempre di più i lettori.

Nel Settecento, i costanti progressi della stampa conducono a una considerevole produzione di giornali.
In Germania e nei Paesi Bassi, già agli inizi del Seicento, erano spuntati i primi periodici.
In Francia, il 30 maggio del 1631, compare il primo giornale, “la Gazette”, che nel 1762 diventerà la “Gazette de France. Ma sarà la Rivoluzione francese a sdoganare in modo ufficiale la libertà di stampa. Nell’articolo 11 della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 26 agosto 1789, leggiamo: “La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge”.

Nel 1790, già si contano più di trecento giornali e tutti volgono lo sguardo a un quotidiano in particolare: “The Times”, considerato un modello di notevole levatura. Il giornale britannico fu fondato nel 1785 da John Walter (1738 – 1812; imprenditore britannico, istruito alla Merchant Taylors’ School) e fu l’antesignano dei grandi giornali d’opinione contemporanei. Il suo “nome di battaglia” era “Thunderer” (tuono), tale definizione era dovuta al lavoro dei suoi editorialisti che non avevano alcun timore di esprimere le proprie opinioni.

Nonostante la grande fioritura, la stampa dei periodici ha un problema: deve trovare un modo per stampare, utilizzando un solo passaggio e sulla stessa carta, includendo testo e illustrazioni.
A risolvere la spinosa questione sarà un tedesco, Aloys Johann Nepomuk Franz Senefelder (più noto come Johann Alois Senefelder, 1771 – 1834), un inventore e commediografo austriaco che nel 1796, inventò la tecnica di stampa della litografia.

Senefelder rilevò la particolare proprietà delle pietre calcaree di Solenhofen (vicino Monaco di Baviera), cioè la loro capacità di respingere l’inchiostro grasso, quando erano umide.
Grazie alla scoperta della stampa litografica si avranno effetti immediati sulla stampa dei libri e dei giornali e in particolare, questa nuova tecnica consentì anche una notevole diffusione dei manifesti.

Comunque, agli inizi non ci furono sostanziali variazioni per quanto riguardava la concezione e l’uso dei procedimenti tipografici, solo in seguito si iniziò a studiare con cura, dove fosse più acconcio posizionare le illustrazioni, in relazione al testo e alla pagina. Da quel momento in poi, ogni pagina di giornale divenne un’architettura mobile, creata per stimolare e dialogare con i lettori, come tuttora avviene anche nell’editoria moderna.