Lezioni di creatività #3 Nutrire il giardino creativo

serra

E no, non tutto il concime puzza.

Il vostro giardino della creatività ha bisogno di buoni semi, un buon terreno e un altrettanto buon concime, perciò attenti a quello che leggete, guardate, ascoltate. Film, fumetti e libri di buon livello sono frutto di altrettanto buon materiale consumato, ed è molto più facile scendere che salire.

Quindi, se dovete sognare, sognate in grande:

imbevetevi di storie enormi, anche se all’apparenza possono sembrare piccole, perché magari imperniate sulla quotidianità e il mondo interiore di ognuno. Se avete la sensazione di venire trasportati lontano, bene.

È un ottimo punto di partenza, perché in quel particolare stato di suggestione il vostro cervello registrerà a livello profondo emozioni e immagini (letterarie o meno) che le hanno generate: ve le ritroverete in punta di penna, o sulla tastiera, ancora prima di aver realizzato di possederle.

Cercate di dirigere la vostra voglia di narrare verso quelle stesse cose che vi piace leggere o vedere, perché ci sarà da fare un sacco di fatica per dare forma a tutto quanto e avrete bisogno di tutto l’entusiasmo del mondo. Non ci sono propellenti adeguati quando cerchiamo di far correre il nostro motore delle storie sul circuito di che-noia-sta-roba…

Siate curiosi, imparate ad ascoltare prima di porre domande.

Chi ha troppa fretta spesso è innamorato solo della propria voce. S. King dice che le storie sono come lo scheletro di un dinosauro, e che l’archeologo potrà scoprire di che specie si tratta solo dopo averlo fatto affiorare dal terreno. Io non ne sono mai stata capace, perché ho bisogno di un impianto narrativo già delineato quando parto a scrivere una storia, ma mi sono accorta che ascoltando sul serio qualche piccolo dinosauro sono riuscita a intravederlo anch’io. Le persone non parlano solo con la voce, ma anche con l’atteggiamento del corpo, con quello che indossano e i luoghi che frequentano.

Non sottovalutate i manuali tecnici:

con questo non voglio dire che dovete essere esperti di tutto, ma che tutto può rivelarsi straordinariamente utile. Ricordo che non molto tempo fa ho dovuto trascorrere un paio d’ore in un simil-sgabuzzino, spacciato per sala d’attesa, all’interno di un’officina che installa impianti a gas e, poiché non ero parte in causa ma solo un’accompagnatrice, dopo pochi minuti mi sono resa conto che non avevo nulla da leggere. Mi ha salvata un polveroso manuale gettato in un angolo: risaliva agli anni ottanta e spiegava tutto, ma proprio tutto, sugli apparecchi utilizzati dai radioamatori, i cosiddetti baracchini.

In condizioni normali non avrei mai letto una cosa del genere (e non conosco molte altre persone che l’avrebbero fatto) eppure mi ha messo in moto qualcosa, un germe d’idea tra la fantascienza steam-punk e il post-apocalittico…

Parliamo di plagio? Parliamone.

Il plagio è quello sgradevole inconveniente in cui si cade quando si copia. Allora, anche se ormai è un dato di fatto che le botte di originalità siano sempre più rare, copiare non paga. Ispirarsi sì. Rubare un’atmosfera che ci ha affascinato è più che legittimo, specie se siamo così fighi da ammettere che volevamo proprio ottenere quell’effetto. In realtà, tutti copiano, perché tutte le situazioni, escamotage, prologhi ed epiloghi sono già stati utilizzati. Chiaro, se fate scrittura sperimentale destrutturata questo ragionamento non vale, ma qui perlopiù stiamo parlando di narrativa di genere. Quello che importa è che le soluzioni (quindi gli sviluppi) della storia siano cercati onestamente, rifiutando l’abusato o l’inganno verso il lettore. Ma di questo parleremo più avanti.

Continua…

Proust e il sapore del ricordo

madeleine biscotti

Sono due i motivi che mi hanno fatto pensare a Proust: i fatti recenti di Parigi e l’anniversario della sua morte che ricorre proprio oggi (18 novembre 1922).

Al di sopra delle polemiche, dei pugni alzati, delle voci indignate e di quelle pacificatrici, io voglio solo porgere un omaggio a un grande autore francese, parigino di nascita, e attraverso lui, alla letteratura francese e alla Francia, luogo in cui è nato lo scrittore e in cui si è sviluppato il suo talento.

In particolare, la mia attenzione si appunta su una singolare e minuta descrizione di “quei dolci corti e paffuti, chiamati Petites Madeleines, che sembrano modellati nella valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo“.
Il testo in questione è tratto dal primo volume della Recherche, “Dalla parte di Swann”.

Appena il palato di Proust assapora la madeleine ammorbidita nel tè, prova un delizioso piacere la cui natura gli è oscura.

Come può un semplice dolcetto rendere “indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale“.

Proust descrive l’esperienza del ricordo evocato da uno dei sensi: il gusto.

Spesso è un profumo o una serie di suoni a richiamare alla memoria un momento passato della nostra vita, con una forza incredibile, e quando riusciamo a ricordare, ci troviamo a rivivere l’istante passato con la stessa intensità originaria, recuperando il luogo e il tempo insieme alle emozioni che lo hanno caratterizzato.

È proprio quello che succede a Proust che all’inizio non riesce a focalizzare il motivo della gioia inaspettata che sta provando; beve un secondo sorso di tè, per sollecitare attraverso il gusto la sensazione e ripercorrere a ritroso il tempo e lo spazio, fino a recuperare la causa della forte emozione che ha provato.

Si concentra, si affatica, si estrania dall’ambiente in cui si trova e tenta di pensare ad altro, sempre all’inseguimento del ricordo sfuggente.
E ad un tratto il ricordo m’è apparso“.

Quel sapore era lo stesso del pezzetto di madeleine che, la domenica mattina, a Combray […], quando andavo a darle il buongiorno nella sua camera, la zia Léonie mi offriva, dopo averlo immerso nel suo infuso di tè o di tiglio“.

Il ricordo riaffiora in tutta la sua potenza vivificatrice, affacciandosi a fatica dal buio del passato, riemerge dalle onde del tempo, evocato da un sapore, e Proust conclude con una frase magnifica su come il ricordo, fragile all’apparenza, continui a vivere anche là, dove ogni cosa è scomparsa o distrutta.

Ma, quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo“.

Ognuno di noi ha un ricordo felice nel suo bagaglio di vita, auguro, perciò, a tutti, di riuscire a recuperare quel particolare ricordo, coinvolgendo tutti i sensi; vi auguro di farlo rivivere intenso e magnifico nel presente, e spero che la luce di quell’istante di gioia resti a lungo a scaldare il vostro cuore.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #3 La scrittura cinese: un esempio di coerenza

lanterne cinesi

Mentre ci si avvia al II millennio avanti Cristo, la scrittura cuneiforme ha quasi raggiunto il suo assetto definitivo; in Egitto gli scritti geroglifici si moltiplicano; a Creta e nella Grecia continentale si sviluppano scritture che sono dei veri rompicapo per gli studiosi.

In Cina, in questo stesso lasso di tempo, nasce la scrittura cinese, codificata e strutturata tra il 200 a.C. e il 200 d.C., ed è la stessa che i cinesi leggono e scrivono ancora oggi.

Ovviamente, agli albori, i caratteri cinesi venivano tracciati con pennello e inchiostro; oggi i caratteri stampati hanno perso la finezza e la precisione di quelli originari, ma la scrittura è rimasta fedele a se stessa, pur semplificandosi col tempo.

Se per gli egizi la scrittura era un dono degli dei, per i cinesi la sua nascita è leggendaria.

All’origine della scrittura vi sarebbero tre imperatori, uno di essi, Huang Che, pare abbia tratto i caratteri dallo studio dei corpi celesti e dalle impronte degli uccelli e degli animali.

La scrittura veniva usata anche a scopi divinatori: i sacerdoti scrivevano domande su un lato delle scaglie di tartaruga, poi avvicinavano il rovescio a un fuoco acceso a est e traevano le risposte dalle fenditure causate dal calore.

Gli inizi della scrittura sono simili per molte civiltà: i primi tentativi sono stati ovunque, disegni, pittogrammi o combinazioni di pittogrammi.

Esempi di queste prime fasi hanno somiglianze notevoli tra loro, pur essendo state prodotte da civiltà molto diverse.

I pittogrammi poi, evolvendosi, hanno acquisito una sempre maggiore stilizzazione, ma i caratteri cinesi consentono tuttora, di ravvisare le sembianze degli antichi pittogrammi da cui si sono originati, fornendo a questa scrittura una dimensione poetica.

La lingua e la scrittura cinese hanno una particolarità importante: a seconda della grafia, uno stesso suono può significare più cose.

In Cina, la scrittura è un elemento di unità linguistica perché la lingua parlata è totalmente differente dal nord al sud.

Se pensavate fossero complicati i geroglifici, ora sarete sopraffatti.

Ogni carattere si deve inscrivere in un quadrato perfetto. In generale, è composto da: una chiave che fornisce il senso e una parte, fonetica, che dà indicazioni sulla pronuncia. Inoltre, bisogna seguire un ordine preciso per tracciare i tratti che compongono i caratteri stessi.

Il cinese quotidiano si legge da sinistra a destra, ma quello colto e la poesia dall’alto in basso e da destra a sinistra.

Tenete pronta un’aspirina perché…

la storia continua…

Chi ha paura della pagina bianca?

typewriter macchina da scrivere

Leggendo un post su Van Gogh e il suo rapporto con la tela bianca ho ripensato a Mallarmé e alla sua pagina vuota.

Alla paura che si scatena quando ci si trova di fronte a un compito creativo e si teme di fallire, di non produrre niente di buono o di non riuscire proprio a produrre nulla.

Van Gogh scrive a suo fratello Theo in proposito.

Tu non sai quanto sia paralizzante fissare una tela vuota che dice al pittore: tu non puoi fare nulla.

Quindi, il pittore esorta a non avere paura di fare cose sbagliate, se si vuole essere attivi.

Mallarmé in modo non dissimile, lotta contro l’angoscia della pagina bianca: il foglio di carta che resta vuoto, difeso dal suo stesso candore.

O notti! Né il chiarore deserto del mio lume
Sulla pagina vuota che il candore difende
 (Stéphane Mallarmé).

Blocco dello scrittore, paura del foglio bianco: definizioni diverse per un unico dilemma.

Non ci sono ricette infallibili o formule magiche per superare l’impasse e uscirne vittoriosi, solo un costante lavoro ci consente di portare a termine con successo il compito che ci siamo prefissi.

Bisogna prepararsi bene.
Nel caso di chi scrive, leggere molto (un mantra che vi sarete stancati di sentire, ma che è sempre bene ripetere); scrivere con costanza quotidiana; riflettere; fare schemi, se necessario; lavorare sui personaggi, studiandoli fin nei minimi dettagli (immaginare con chiarezza come sono vestiti, quali sono le loro caratteristiche, i tic, la loro storia, osservarli muoversi); documentarsi a lungo per le ambientazioni, se non sono luoghi che si conoscono.

Questo lavoro faticoso dà sempre buoni risultati, inoltre, la mente, se stimolata nel modo corretto, continuerà a elaborare idee, tracce, soluzioni, anche quando saremo occupati a fare ben altro che scrivere: stirare, pulire, camminare, persino dormire.

E in un momento di relax, o durante il sonno arriveranno le idee migliori.

Nel mio caso si tratta di immagini, scene di partenza da cui di solito inizio a tessere una trama che si dipana sempre più chiara, a mano a mano che fisso su carta le idee.

Il lavoro dello scrittore non è semplice, a volte bisogna ragionare a lungo sui personaggi, spesso si resta impantanati in una situazione che sembra non avere una soluzione, ma ho riscontrato che la prima immagine che abbiamo di una trama è per lo più corretta e va difesa da successivi cambiamenti legati alle vicissitudini della storia.

È la scintilla che dà fuoco alle polveri e ci consente di vincere la resistenza della pagina bianca e di proseguire.

Un faro nel buio di una storia appena nata che ci guida a destinazione, tra mille peripezie, ma non bisogna avere paura di sbagliare, perché spesso i percorsi meno battuti sono i migliori o comunque ci aiutano a trovare quello giusto.

In molti casi, è necessario tornare indietro per riprendere il filo, cancellare, rivedere, affilare i nostri strumenti e ripartire con coraggio.

Scrivere è una sfida continua e non ci si può arrestare, perché, citando il titolo di un film di Totò e Peppino, chi si ferma è perduto.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #2 Egizi. La scrittura è un dono degli dei

geroglifici egizi

Verso il 2000 a.C., gli accadi (antenati semiti degli arabi e degli ebrei) dominano l’intera Mesopotamia.
La scrittura cuneiforme è una scrittura vera e propria, consente di lasciare traccia della lingua parlata ed è un altro modo di comunicare ed esprimersi e in questo periodo viene utilizzata per mettere “nero su bianco” le più svariate cose: dalla corrispondenza fino agli inni religiosi.

La scrittura moltiplica i suoi usi, ma resta un’arte di pochi: i maestri di scrittura costituiscono una casta aristocratica molto potente.

I segni cuneiformi non sono però gli unici sulla piazza: nel vicino Egitto e nella lontana Cina nascono altri sistemi di scrittura.

La scrittura geroglifica, rispetto a quella cuneiforme, è poetica e viva, composta com’è da disegni stilizzati in modo splendido.
Le prime iscrizioni geroglifiche risalgono al III millennio a.C., anche se pare che tale scrittura fosse già in uso nei secoli precedenti.

Gli Egizi hanno elaborato un sistema grafico che può esprimere ogni cosa e sono in grado di riprodurre quasi completamente la lingua parlata.

L’originalità di questa scrittura risiede nel fatto che è composta da tre tipi di segni:

  • pittogrammi, disegni stilizzati che rappresentano oggetti o esseri animati, con delle combinazioni di segni che esprimono le idee;
  • fonogrammi, gli stessi disegni o altri che rappresentano dei suoni.
  • determinativi, segni che permettono di sapere di quale categoria di oggetti o di esseri animati si tratta in quel contesto.

In gran parte dei casi, i geroglifici si leggono da destra a sinistra, seguendo l’orientamento delle teste di uomini o uccelli.

A volte, però, le cose non sono così semplici: un’iscrizione posta in prossimità di una statua di un dio importante o di un faraone, costringerà i profili delle iscrizioni a girarsi verso di essa, comportando una mutazione nella direzione della lettura, e questo complica non poco l’interpretazione.

Il problema del verso di lettura non è una questione trascurabile: i geroglifici possono andare dal basso in alto o alternativamente, una riga da sinistra a destra e la successiva al contrario. Questo tipo di scrittura viene definito bustrofedico (ricorda il movimento del bue che procede avanti e indietro sui solchi del campo).

C’è di che farsi venire il mal di testa!

In ogni caso questi segni possiedono una bellezza che va al di là del loro significato: uno spettacolo per gli occhi anche oggi, a distanza di tanti secoli.

Dai primi esempi di utilizzo quotidiano, gli Egizi passano a usare la scrittura per raccontarci la loro storia: gli avvenimenti importanti, le battaglie, i matrimoni.

La loro letteratura è molto ricca: massime morali, romanzi d’avventura, poesie, fiabe, trattati di arte, magia, medicina, cucina.

Vi consiglio di non leggere i testi nella stesura originale e soprattutto, di non provare qualche loro ricetta di cucina, senza prima aver almeno consultato la stele di Rosetta o un esperto di geroglifici.

la storia continua…

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #1 Sumeri e scrittura cuneiforme

geroglifici ed emoticon

Diciassettemila anni prima della nostra era, a Lascaux, alcuni uomini tracciano i loro primi disegni. Passano altri undici millenni e inizia, solo allora, una delle storie più straordinarie dell’umanità: la scrittura” (da “La scrittura memoria degli uomini” di Georges Jean).

Da lungo tempo, segni, immagini e disegni sono utilizzati per trasmettere messaggi.

La scrittura vera e propria, però, nasce quando un insieme di segni o simboli ha consentito di concretizzare sentimenti, emozioni e pensieri con chiarezza.

In Mesopotamia, fra il Tigri e l’Eufrate inizia la storia della scrittura, una storia lunga e complessa.

La regione del Medio Oriente che era compresa tra il Golfo Persico e Baghdad, tra il VI e il I millennio a.C. era divisa: a sud, il paese dei Sumeri; a nord, quello degli Accadi.

I primi segni scritti sono dei conti agricoli (“tavolette di Uruk”).

Attraverso i reperti trovati si può tracciare l’evoluzione della scrittura dei Sumeri: la scrittura cuneiforme che attraversa diverse fasi.
I primi esempi sono dei disegni semplificati, dei pittogrammi che rinviano a oggetti o a esseri viventi.

Combinando vari pittogrammi si poteva esprimere un’idea.

Verso il 2900 a.C. i pittogrammi primitivi spariscono per motivi pratici. I materiali utilizzati per scrivere: tavolette di argilla impiegate come supporto e canne tagliate obliquamente usate come penne, finiscono per imporre uno stile particolare ai segni.

Incidere l’argilla con una punta provocava slabbramenti e il distacco di frammenti che andavano costantemente ripuliti e rimossi, per ovviare al problema si passò a segni rettilinei più semplici da incidere con uno stilo. I segni semplificati assomigliavano a dei chiodi o cunei, da qui il termine “cuneiforme” (in latino cuneus: chiodo).

Questi segni subirono molte modificazioni nel tempo e ben presto non ebbero più nulla di realistico, ma non erano segni liberi.

Esistevano dei “repertori”, elenchi compilati dagli scribi e ogni segno poteva rinviare a più significati, a seconda del contesto.

Nel momento in cui iniziano a rappresentare solo se stessi, i segni diminuiscono, ma la vera rivoluzione si ha quando essi vengono collegati al suono delle parole della lingua parlata.

la storia continua…

 

Lezioni di creatività #2 L’importanza di tenersi strette le idee

tavolo scrittore

Accettate questa suggestione letteraria (le vostre saranno anche meglio, ma per il momento il ballo lo conduco io ): un gruppo di cavalieri in arme corre attraverso la vallata. Sono fantasmi.

Mentre si forma questa immagine, potreste già vedere armature lucenti e teschi ghignanti sotto gli elmi piumati e la figura di un antico sacerdote che crea un cerchio protettivo attorno uno sparuto gruppo di superstiti…

Va benissimo, sia chiaro, ma quella che dovete mantenere per fissarla nel vostro taccuino personale è l’idea iniziale, perché è lei ad avere forza. Il contorno cambierà mille volte prima di adattarsi del tutto alla vostra storia e se partite subito mettendo sulla carta duemila particolari rischiate di coprire la fonte della storia stessa.

Arriverà il momento in cui le storie sembrano formarsi già per esteso, ma voi sarete in grado d’isolare il nocciolo creativo, perché non è affatto detto che una stesura completa sia una buona stesura.

Meglio che le idee decantino, dopo essere state fissate con forza nella nostra mente; tanto, una parte del nostro cervello tenderà a lavorare autonomamente sugli imput offerti, se gli facciamo arrivare l’equivalente di un messaggio sottolineato.

Il problema dei giorni che viviamo (uno dei tanti e non certo il più grave, ma non siamo qui per salvare il mondo… Al massimo, per inventarne dei nuovi) è proprio questo, poiché veniamo bombardati continuamente da stimoli visivi e sonori che tendono a diventare sempre più forti: la nostra mente è diventata pigra, mostrando deficit di attenzione in termine di quantità e qualità, e se vogliamo recuperare la necessaria concentrazione abbiamo bisogno di qualche trucco.

Io uso il bloc-notes del cellulare, visto che ha una memoria enorme e si presenta come la pagina di un vecchio quadernetto, ma non esito a portarmi sempre dietro anche una moleskina…

È importante che gli appunti, anche se finite per scriverli su fogli volanti, vengano trasferiti (ed eventualmente integrati o ampliati) tutti nello stesso taccuino, elettronico o meno. Tocco un tasto dolente: se si tratta di supporto cartaceo, ogni tanto fotocopiate tutto. Se invece utilizzate un palmare o un cell. fate un back-up, per favore. Parlo per esperienza personale, perché tenevo nello zaino che uso come borsa quotidiana un piccolo quadernino pieno zeppo di tracce e anche di storie intere. Al buio del cinema ho estratto qualcosa e, presa com’ero dal film, non mi sono accorta che il quaderno in questione era caduto sul pavimento.

Morale della favola, ho faticato a trattenermi dal picchiare la testa al muro: sono passati cinque anni ma penso ancora a quante di quelle idee perdute avrei potuto utilizzare.

Continua…

Personaggi “molesti”

ragazza che scrive

Non puoi evitare di scrivere: ti perseguiterò fino a che non racconterai la mia storia”.

L’ultimo dei miei personaggi mi ronza in testa con questo tono minaccioso e pressante, anche se la sua invadenza è simile a tutte quelle degli altri protagonisti che lo hanno preceduto.
Inizia così il cammino di una narrazione, almeno per me: i personaggi bussano alla mia testa e pretendono attenzione, tempo, dedizione e assoluta precedenza su ogni cosa.

Che bello sei una scrittrice! Io avrei tante idee in testa, ma non so come metterle nero su bianco” mi sono sentita dire molto spesso, oppure: “Ma come fai a trovare sempre protagonisti così interessanti e nuove trame?”.

Sono loro, i miei personaggi, che se non prendo appunti appena entrano a far parte della mia giornata o nottata, minacciano di farmi meditare per ore, davanti al famigerato foglio bianco, la disperazione di qualsiasi autore.

Per ora, ho avuto, molto spesso, il problema inverso: dare la precedenza al personaggio più interessante, quello che ha qualcosa di importante da raccontare, ad esempio, difficoltà da superare nella vita.

Cerco sempre di dare un’impronta positiva alle mie storie, per infondere speranza, anche quando la vita dei personaggi dei miei romanzi non è generosa, come spesso accade anche nella realtà.

Tornando ai miei personaggi, loro sono esigenti, sgomitano e si sentono così importanti da non lasciarmi mai in pace, a volte penso che debba dare loro la possibilità di prendere un numero come al banco gastronomico, tanto per non fare ingiustizie e andare in ordire di apparizione, alcuni di loro hanno una personalità così marcata, una storia forte e una voce così limpida che è difficile non consentire loro di arrivare subito ai lettori per parlare di loro stessi.

Molte volte chi ha letto le mie storie ha parlato delle mie protagoniste che vanno controtendenza.

Infatti, negli ultimi tempi, nei racconti e nei romanzi di successo, si assiste a un proliferare di donne sottomesse a uomini ricchi e potenti che ottengono da loro qualsiasi cosa, in nome dell’amore; spesso sono addirittura degli stalker, gelosi, arroganti e pericolosi con la convinzione di essere superiori alle donne di cui sono compagni o fidanzati.

Le “mie ragazze” invece, hanno carattere, sono forti, mai sottomesse, con un’intelligenza spiccata e con tanta voglia di emergere, anche contro tante difficoltà.

Cerco sempre di dare alle mie figure femminili un’impronta di forza e di carattere, le invito nelle mie storie a essere protagoniste della loro vita, a non attendere a oltranza un principe azzurro che non esiste e che non arriverà sul suo cavallo bianco a cambiare le loro vite grigie e infelici.

Per ottenere qualcosa nella vita, le mie protagoniste sanno che non possono attendere un intervento esterno, se vogliono attenzione devono darsi da fare, devono credere nelle cose e lottare per esse.

Devo comunque ringraziare i miei personaggi, tutti quanti , perché è grazie a loro che faccio uno dei mestieri, per me tra più belli e creativi al mondo: la scrittrice.

Ora devo lasciarvi, ho un nuovo personaggio che mi sta infastidendo per avere tutta la mia attenzione.
Se ne avrete voglia, potrete leggere di lui, nelle mie prossime storie.

Linguaggio, evoluzione del cervello e comportamento sociale

Mente e linguaggio

Sto leggendo un libro di Annamaria Testa, “La trama lucente” e ho trovato un’interessante notizia sull’evoluzione della specie umana, riguardo al linguaggio e allo sviluppo del nostro cervello.

Il miglioramento delle nostre facoltà e della capacità creativa umana ha diverse cause.

La prima causa è dovuta alla discesa della laringe.

In alcuni individui appartenenti al genere Homo, in seguito a modificazioni anatomiche intercorse da una generazione all’altra, l’organo della fonazione viene a trovarsi in una posizione più in basso rispetto a quella originaria. Questo cambiamento consente a tali individui di produrre una gran varietà di suoni distinti e consente alla lingua una più ampia gamma di movimenti.
Ora che l’apparato vocale ha acquisito la capacità di parlare è il cervello che deve fare la sua parte.

La seconda causa è il fatto che i nostri antenati iniziano a parlare.

Forse, passano da passatempi per bambini a mimare melodie musicali fino a costruire un linguaggio, definendo dapprima oggetti, poi indicando azioni e infine, collegamenti tra oggetti e azioni.

La terza causa è la crescita del cervello.

Lo sviluppo del linguaggio implica lo sviluppo cerebrale e viceversa.

In ogni caso, lo sviluppo del linguaggio è stato fondamentale per la mente umana: linguaggio articolato e processi cognitivi complessi hanno influenzato anche il comportamento sociale.

Quindi, comunicare non ci aiuta solo ad avere migliori rapporti umani, ma aiuta anche il nostro cervello a evolversi, a crescere, a creare nuove strutture cognitive e adattive che ci consentono di vivere meglio o, perlomeno, di capire meglio quello che ci circonda e le persone con cui entriamo in contatto.

Meditate gente meditate….

Very short tips: Climax e suspense

arco e e scala

Con il naso immerso nei libri (gialli e thriller soprattutto), trascinata lungo le pagine da un’avventura pericolosa all’altra, mi sono ricordata di una interessante lezione a cui avevo partecipato, durante un corso pseudo-teatrale che frequentai qualche anno fa.

Tra le altre cose, un insegnante ci parlò di storie, di narrazione e di come costruire un racconto avvincente.

Disse che una buona storia deve essere come un arco: inizia da un punto e con un adeguato crescendo raggiunge il climax per poi ridiscendere e giungere al finale con il suo ovvio scioglimento di ostacoli e intrighi vari.

Ora, immersa in storie da brivido e paura, piene di efficaci suspense, deduco che una storia complessa e coinvolgente deve avere diversi di questi “archi” narrativi.

Una serie di climax che si avvicendano, magari si rincorrono, meglio ancora si intrecciano l’un l’altro.

In questo modo il lettore sarà trattenuto il più possibile dentro la storia, restando incollato alle pagine che gli proponiamo scrivendo.