Social, Acquisti online, e-mail e… quant’altro

social acquisti online emai quantaltroSarà capitato anche a voi…

Canta Mina nella famosa Zum, zum, zum, parlando di un’ossessione musicale che le è spuntata in testa.

A me invece capita di essere sempre più spesso ossessionata dalla rete.

Per motivi di lavoro, di studio, di ricerca e di diletto, mi ritrovo a fare i conti con mareggiate di e-mail, carrelli virtuali, post, commenti, “mi piace” più o meno consapevoli, tweet, miriadi di video sempre più fantasiosi e sciami di  emoticon che tentano con ogni mezzo di esprimere le mie emozioni più profonde con sempre nuove faccette.

Sprofondata a inseguire link e rimandi su un topic, inciampo su query e tento vanamente di formulare nel frattempo pensieri legati alla scrittura, mentre le informazioni si gonfiano, si moltiplicano a dismisura e io finisco per avvertire una gran confusione in testa e mi ritrovo con poche, ossute e spigolose parole da mettere in fila per costruire un personaggio, una trama o un umile canovaccio.

Flussi di dati e onde di pensiero… un intreccio, quasi una musica che quando smetterà di suonare, mi auguro di riuscire a tirare i remi in barca e, rigorosamente offline, di iniziare a riflettere e programmare il mio prossimo libro, sperando di riuscire a tradurre, senza fare e farvi confusione, quanto accumulato in questo tempo sospeso, in cui vivo da un po’, con il mio Zum, zum, zum quotidiano e tanti “quant’altro” da mettere in ordine.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #8 Scritture indiane

Scrittura indianaLe scritture indiane hanno probabilmente la stessa origine del nostro alfabeto.

Nel III secolo a. C., nella penisola indiana si usavano due scritture principali: il kharosti e il braminico, oltre a numerose variazioni sorte per trascrivere la moltitudine di lingue parlate nel Paese.

Totalmente alfabetica, la scrittura braminica è all’origine del devanagari, con cui si trascrive la lingua sacra di gran parte dell’India, il sanscrito, lingua indoeuropea, e anche una delle lingue più diffuse: l’hindi.

Gli storici ritengono che queste lingue siano nate altrove, dalla trasformazione dell’alfabeto fenicio.

L’india, infatti, era luogo di passaggio e commercio tra i popoli del Mediterraneo orientale e gli abitanti della penisola e si verificavano costanti contatti anche con la penisola arabica, le coste fenicie e la Grecia.

Panini, un indiano di Salatura, è considerato il primo grammatico linguista e intorno al IV secolo descrisse il funzionamento delle consonanti e delle vocali del sanscrito.

Le principali lingue dell’India si leggono da destra a sinistra e si basano su una vocale principale, la A. Le lettere sono legate tra loro, al di sopra di una linea immaginaria, da una barra orizzontale. Questo particolare andamento dà a tale scrittura una bellezza plastica.

Sul modello delle scritture indiane si sono successivamente sviluppate le scritture usate tuttora in Tibet e in molti Paesi del sud-est asiatico: Laos, Thailandia, Cambogia e Birmania.

Il Bullismo e il Brutto Anatroccolo

bullismoCosa associa la fiaba di Hans Christian Andersen “Il brutto anatroccolo” e un comportamento sociale basato su violenze fisiche e psicologiche?

Quando ho iniziato a scrivere “Sei come ti voglio” ho ricordato come ero stata vessata e derisa per il fatto che portavo gli occhiali: “quattrocchi” “sgorbio” e altri epiteti erano all’ordine del giorno, quando frequentavo le elementari e le medie.

Lasciata ai margini dei gruppi che “contavano”, composti da figli di papà che non mancavano mai di ricordare agli altri il loro retaggio, facevo gruppo con altri “sfigati” come eravamo chiamati da chi pensava di appartenere a una élite di privilegiati, il mio non uniformarmi era visto come una diversità.

Ma il tempo può cambiare tante cose…

Alle superiori, quando ho visto il bullismo che anche io avevo subìto riversarsi sui miei nuovi compagni di classe, non sono riuscita a non farmi coinvolgere e ho difeso chi ne era vittima.

Forte della mia esperienza di bambina derisa e perse le piume da brutto anatroccolo, avevo ora un atteggiamento diverso rispetto a certi comportamenti: ero combattiva contro chi sfotteva il prossimo solo perché era più debole e indifeso e avevo iniziato la mia personale crociata contro chi offendeva gli altri solo per riempire la sua misera giornata.

Con il passare del tempo, rincontrando alcuni “sfigati” ho scoperto che alcuni di loro avevano posti di prestigio, avevano fatto carriere soddisfacenti nel mondo del lavoro e avevano anche stupende famiglie, proprio come era successo a me.

Ho incontrato anche qualcuno di quei bulli, purtroppo per loro, il passare degli anni era servito solo a far maturare il nulla che erano e dai loro racconti scoprii che le vite che conducevano erano spezzate o nei migliori dei casi, vuote.

Vorrei che il mio libro veicolasse questo messaggio di speranza e fosse un’esortazione a reagire, a scoprire la bellezza che c’è in ognuno di noi, al di là dell’aspetto fisico.

Mi auguro che le mie parole possano aiutare le vittime del bullismo a prendere coscienza che chi offende e umilia gli altri è solo una persona debole che si sente forte solo se può opprimere qualcun altro; questo perché di solito il bullo si rende conto di essere in qualche modo inferiore alla sua vittima ed è così, già solo per il fatto che chi non commette atti di bullismo è di sicuro una persona migliore.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #7 Il “mistero etrusco”

etruschiAlfabeto simile a quello greco, L’alfabeto etrusco si componeva inizialmente di 26 lettere, ridotte poi a 21-20 lettere.

La scrittura etrusca ha di regola un andamento da destra a sinistra ed è documentata sin dal VII secolo d.C., grazie a brevi iscrizioni sepolcrali e ad alcuni testi più lunghi, come quelli scritti sulla benda che avvolge una mummia del museo di Zagabria, sulla cosiddetta “tegola di Capua”, sulle lamine d’oro rinvenute nel 1964 a Pyrgi.

Il liber linteus di Zagabria, come viene chiamato perché era in origine un libro scritto su tessuto di lino che si leggeva srotolando, fu tagliato in bende e posto a copertura di una mummia egiziana. Portato a Zagabria, dove è tuttora conservato il testo, è stato ricostruito accostando le bende. In sostanza, questo documento è un calendario che indica in quali giorni compiere le offerte religiose per onorare le divinità.

La tegola di Capua risale al V o IV secolo a.C. ed è un testo di carattere religioso, una specie di formulario per i riti funebri.

Le lamine di Pyrgi sono tre documenti incisi su lamine d’oro, rinvenute a Pyrgi (oggi Santa Severa, in provincia di Roma), sono di notevole interesse storico-linguistico per l’archeologia etrusca e sono conservate a Roma, presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

I tentativi d’interpretazione della scrittura etrusca si sono basati su vari metodi.
La grande maggioranza dei testi epigrafici è traducibile, si conoscono vocaboli riferiti alle divinità e al culto: ais (dio); thaur(a) (tomba), phersu (maschera); tin (giorno); zichuch (scrivere), ma il lessico che ne deriva è ridotto a pochi elementi grammaticali sicuri, quindi, i testi più lunghi restano per buona parte oscuri.

Gli Etruschi non usarono un sistema di scrittura uniforme in tutto il territorio da loro occupato: esistono piccole differenze a seconda dell’area geografica.
In origine le frasi venivano scritte senza soluzione di continuità: le parole erano poste una dopo l’altra, senza spazi a separarle, e le lettere erano di forma spigolosa e irregolare.

Dopo il VI secolo a.C., la scrittura si stabilizzò: i tratti erano più regolari, lettere arrotondate e, infine, comparvero dei punti o più raramente dei trattini per separare le parole. Questa sorta di punteggiatura rendeva il testo più semplice da leggere.

La civiltà etrusca ha visto nascere al suo fianco la città di Roma, e i romani hanno imparato molto dai loro vicini, ma dopo un periodo di convivenza pacifica, gli etruschi hanno dovuto arrendersi alla loro avanzata e a quella di altri popoli del nord e del sud Italia, che, gradualmente, li inglobarono sotto il loro dominio.

Tuttavia l’influenza della civiltà etrusca si fece sentire anche dopo la perdita dell’autonomia politica. La cultura, l’amore per il lusso e per le cose belle, i gusti raffinati e alcune pratiche religiose furono trasmesse ai romani, contribuendo al loro sviluppo. La lingua etrusca continuò a essere parlata fino al I secolo d.C. e il suo sistema di scrittura si diffuse in larga parte d’Italia, dando origine a vari alfabeti italici.

Espressioni “intraducibili” della lingua tedesca: l’importanza della parola che identifica una cultura

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Nelle lingue esistono delle espressioni che sono intraducibili o difficilmente traducibili. Tradurre significa “trasporre” o “trasferire” in un’altra lingua, diversa da quella originale, un testo scritto o orale, una parte di esso ma anche una singola parola.

È proprio la traduzione di singole parole o espressioni che spesso risulta difficile se non impossibile. Perché?

Nella lingua tedesca esistono molte parole composte che, per via della loro composizione, sono dense di significato e per questo sono in grado di esprimere un concetto complesso e consentono di entrare in contatto con la ricchezza del vocabolario tedesco. Non si possono tradurre in italiano utilizzando un’espressione ma soltanto con una frase o una parafrasi che tenta di spiegare il concetto alla base della parola o espressione nella lingua di origine.

Di seguito proviamo ad analizzare alcune di queste parole:

Weltschmerz”: letteralmente significa dolore del mondo da “Welt” (mondo) e “Schmerz” (dolore). È stata coniata da un autore tedesco, Richter, per riferirsi al dolore cosmico che provano tutti quegli individui che si rendono conto dell’impossibilità della realtà di soddisfare i bisogni della mente umana. È un sentimento comune e condiviso da molti poeti e autori tra cui Leopardi, Lord Byron e Heinrich Heine.

Torschlußpanik”: è formata dalle parole “Panik” (panico) e “Torschluß” (chiusura del portone) questa parola ha un’origine antica. Infatti nel Medioevo indicava la paura che si provava quando il ponte levatoio veniva sollevato perché si stavano avvicinando i nemici. Ora si utilizza per raccontare quella sensazione che si ha quando ci si rende conto che si sta perdendo l’occasione di realizzare i nostri sogni.

Fernweh”: è formata dalle parole “Fern” (lontano) e “Weh” (qualcosa che provoca dolore, doloroso). Questa espressione nella sua complessità si potrebbe tradurre come una “malinconia” o “nostalgia” per qualcosa di lontano, che si trova in un altro luogo. È un sentimento che provano tutti coloro che desiderano viaggiare, conoscere il mondo nella sua totalità.

Un’altra espressione con un significato simile ma che non esprime nostalgia, bensì un desiderio instancabile di scoprire è “Wanderlust” composta da “wandern” (errare) e “Lust” (voglia) e racconta la voglia di scoprire luoghi lontani, paradisi incontaminati ove fuggire. È talmente significativa che viene utilizzata senza essere tradotta, spesso si dice che qualcuno è affetto dalla sindrome da Wanderlust!

Ed eccoci arrivati a una delle espressioni probabilmente più famose della lingua tedesca, che appartiene al mondo della filosofia. Stiamo parlando della “Weltanschauung”: nella sua composizione apparentemente semplice ovvero “Welt” (mondo) e “Anschauung” (concezione, visione) esprime però un concetto complesso che non è possibile tradurre in italiano o in altre lingue. Questo termine è stato utilizzato per la prima volta dal filosofo Kant ed è stato poi ripreso da altri filosofi e pensatori tra cui Hegel. Esprime una visione, concezione del mondo e può riguardare una persona singola, un gruppo umano o un popolo nel suo insieme. Altri ambiti di studio tra cui la geografia e l’antropologia hanno iniziato ad utilizzare questa espressione nello studio delle società, delle etnie e dei popoli.

È molto interessante cercare di comprendere queste espressioni nella loro complessità.

A volte le abbiamo incontrate ma non ci siamo mai chiesti quale fosse l’origine del loro significato o il loro vero utilizzo.

Naturalmente, come detto, non esiste un traducente non soltanto nella lingua italiana ma in tutte le altre lingue perché questi termini sono peculiari di una lingua e si definiscono “culture-bound” per utilizzare una definizione inglese ovvero strettamente legati alla cultura che permea una lingua e allo stesso tempo a una lingua che permea una cultura.

Vorfreude: la gioia dell’attesa

attesa

Leggendo “Piccolo viaggio nell’anima tedesca” di Vanna Vannuccini e Francesca Predazzi, mi sono imbattuta nella parola: Vorfreude, l’attesa che precede la gioia.
Le autrici sostengono che tale parola per i tedeschi “è quasi una profilassi contro le possibili amarezze della vita. La premonizione che la delusione verrà e che il momento della gioia non sarà quello che ci siamo immaginati. In fondo, perciò, è quasi meglio non provarlo mai“.

Vorfreude ist die schönste Freude, l’attesa della gioia è la gioia più grande, dice il proverbio.

Ho subito pensato a Leopardi.
Vorfreude potrebbe essere il correlativo del Sabato:

Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
(Sabato del villaggio)

È il sabato il giorno più gradito della settimana, perché la felicità può risiedere solamente nell’attesa.

Questa Weltanschauung (concezione del mondo e della vita) condivisa da due nazioni diverse, mi fa ben sperare.
In un’Europa che si è unita sulla carta, ma che ha ancora molta strada da fare per diventare un organismo effettivamente unitario, esistono comunque affinità di “poetica” in cui la Freude diviene il vero momento di gioia e di condivisione, che, per una volta, non è solo… nell’attesa.

Coreografia come scrittura dell’anima

coreografia danza

Le due opposte fazioni si sfidarono con lo sguardo e con la postura, in un silenzio teso, quasi magico. Poi Lisa si mosse, agitò le braccia in gesti ampi e frenetici […].
A turno partirono anche le altre ragazze, con lo stesso movimento […] aggiungendosi una alla volta, finché non furono tutte insieme […].
I ragazzi erano immobili e le osservavano in silenzio.
Le ragazze continuarono a sfidare i ragazzi con movimenti sinuosi delle braccia che si intrecciavano e si scioglievano, creando un complesso tessuto visivo, mentre postura e sguardi comunicavano una forte carica emotiva.
I ragazzi rispondevano, proponendo la loro serie di movimenti molto più audaci […]
Guardandoli si aveva l’impressione di uno strano contrappunto visivo […].
Gli unici suoni erano i passi strisciati sul palcoscenico, i colpi dei piedi che toccavano le tavole di legno del pavimento, quando i ragazzi atterravano dai salti e i suoni secchi prodotti dalle ragazze che scandivano il tempo con colpi ritmici di tacco all’unisono.
La scena in sé aveva qualcosa di affascinante e minaccioso al tempo stesso” (da Segui il cuore di Jillian Moore).

Quando ho scritto questa scena di danza conoscevo già Pina Bausch, avendo fatto danza per diversi anni, ma è solo dopo aver visto un documentario dedicato a questa donna straordinaria che sono rimasta folgorata.

Mi ha colpito in particolare la sua interpretazione coreografica de “La sagra della primavera“, anche se tutti i suoi lavori sono di un’intensità tale da lasciare senza parole l’osservatore.

Nelle sue coreografie i ballerini prima di tutto esprimono se stessi, la loro individualità. I movimenti hanno una forza di penetrazione incredibile sia i gesti singoli portati all’estremo sia i movimenti corali dove gruppi di persone esprimono con gesti identici uno stato d’animo condiviso.

Nei suoi lavori trapelano emozioni molto intense, espresse in gesti a volte esasperati che tendono il corpo dei ballerini fino al limite. Spesso le sue coreografie contemplano movimenti ripetuti all’infinito, in un ciclo disperato e metodico.

Ritmi infernali della musica vengono rappresentati con virtuosismi ritmici, cesure di attesa, dove campeggia un’immobilità o una lentezza esasperata dei movimenti. A volte i ballerini si muovono senza alcun legame l’uno con l’altro, pur essendo compresenti sulla scena. In altri casi il confronto tra soggetti è estraniato e si assiste a una parodia dei classici passi a due, dove il collegamento della coppia si esprime in gesti folli o pieni di frenesia.

L’isterismo di alcune coreografie, il senso di solitudine e incomunicabilità che si percepisce dalle dinamiche dei danzatori in molti lavori della Bausch colpiscono per la loro intensità e per il parallelo che di essi si può fare con le nostre attuali realtà sociali che ci vedono allontanarci sempre di più l’uno dall’altro, mentre i rapporti umani diventano ogni giorno più complessi e difficili da gestire.

Nel documentario c’erano anche spezzoni di interviste e alcune parti in cui Pina Bausch spiegava ai danzatori alcuni movimenti della coreografia. Ascoltando le impressioni dei ballerini e osservando gli insegnamenti della Bausch, ho concluso che lei lavorava con i danzatori per spingerli a far emergere la loro personalità, esortandoli a usare il corpo in modo totale per rivelare i moti dell’anima. Per questo nelle sue coreografie non è più il virtuosismo tecnico a rivelarsi, ma l’espressione portata a livelli altissimi.

Ritratto d’autore

ritratto d'autore

Dal 7 ottobre 2015 fino al 10 gennaio 2016 si è svolta a Londra alla National Gallery la Mostra dedicata ai ritratti di Goya.

Non ho potuto ammirare i quadri dal vero, ma ho assistito a un documentario dedicato alla mostra.
Tra le interessanti osservazioni fatte dagli studiosi del pittore, mi ha colpito in particolare una: il rapporto intimo tra artista e soggetto.

Tra Goya e i suoi modelli o modelle c’era un’intimità tangibile, tuttora evidente e riconoscibile negli sguardi che i soggetti rivolgono a chi li osserva.

Quegli sguardi a volte sono carichi di passione o di forza, in altri casi da essi trapela ambizione o orgoglio per la propria posizione sociale.
Su ognuno di quei volti, però, si può leggere la personalità del soggetto, perché Goya non si limitava a riprodurre le fattezze dei suoi soggetti, ma si spingeva oltre, misurava il loro carattere, catturava i moti della loro anima.

Perciò, ogni ritratto conserva, imprigionato dai colori e dai tratti decisi del pennello, l’essenza vitale dei soggetti, che miracolosamente si rigenera, ogni volta che lo spettatore si pone davanti a essi per ammirarli.

Quando ti salta la mosca al naso

 pesca a mosca

Il più delle volte inizio a scrivere partendo da un’immagine sorta in modo spontaneo nella mia mente.

Nel giallo “La firma dell’assassino” ho visualizzato questa scena:

“Lasciati guardare… Sfumature morbide, ali nell’esatta angolazione… perfetta. Ora, possiamo andare a pesca”.
L’uomo posò con delicatezza il piccolo ‘insetto’, un capolavoro di fili e piume, sul tavolo insieme agli attrezzi e poi, fissò la parete tappezzata di ritagli di giornale, alcuni più vecchi, altri più recenti: un muro d’odio allestito con cura e caparbietà.
Ogni tassello era al suo posto, non restava che uccidere.

Mi sono quindi documentata sulla pesca a mosca e soprattutto sulle “mosche”, argomento affascinante e coinvolgente.
Ho passato diverse serate a leggere riviste del settore corredate di immagini molto belle e ho intuito la passione che c’è dietro questo “sport” singolare.

La sfida che pescatore e pesce mettono in atto è davvero intrigante.

Il pescatore a mosca deve usare tutta la sua abilità per convincere il pesce ad abboccare e le mosche artificiali sono solo uno dei tanti stratagemmi che impiega per raggiungere il suo scopo.

Pazienza, passione e una buona dose di astuzia sono alcuni degli elementi che possono condurre a buon fine una giornata passata lungo il fiume.

Dalle mie letture ho concluso che i pesci sono come le persone: ognuno ha il suo carattere e le sue esperienze.
Sono certa che alcuni sono più furbi di altri, più difficili da ingannare e quindi, da catturare. Del resto, la cattura, per i “veri” pescatori a mosca, dura solo pochi istanti: il tempo di una fotografia, da mostrare poi con orgoglio agli amici del circolo.

Ho voluto trasferire alcune di queste qualità nel mio personaggio che ha deciso di uccidere invece che limitarsi a pescare.

Se volete scoprire perché e come finisce questa avventura in giallo, non vi resta che leggere tutta la storia, altrimenti, godetevi questo piccolo cammeo dedicato alla pesca a mosca.

 

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #6 Alfabeto greco: arrivano le vocali

Vaso greco

Tutte le scritture derivate dal fenicio fanno uso di sole consonanti.
In Grecia però, si parla una lingua diversa che non può essere trascritta con gli alfabeti allora esistenti.

Così i Greci prendono a prestito dall’aramaico molti segni (consonanti ignote al greco) per trascrivere le vocali.

Verso il V secolo a.C. esiste già l’alfabeto greco che comprende 24 lettere: 17 consonanti e 7 vocali. Inoltre, questo alfabeto prevede l’uso di maiuscole e minuscole, le prime venivano utilizzate per incisioni su pietra, le seconde per scrivere sui papiri o sulle tavolette di cera.

Dal V-VI secolo a.C., con la scrittura greca compare una letteratura molto ricca e noi siamo gli eredi di quella letteratura e della scrittura che ha consentito di diffonderla.

Il greco ha dato origine a molte scritture, come l’armeno, il copto e il georgiano, ma ha condotto anche alla nascita dell’alfabeto latino, la storia di questo passaggio è complessa e ancora non del tutto chiara, ma è probabile che i Greci, grandi navigatori, possano aver trasmesso la loro scrittura agli Etruschi che vivevano nell’odierna Toscana.

la storia continua…