Musica e Scrittura: analogie tra strutture poetiche e musicali #2

Libro con note musicali e lettere

Come le lettere dell’alfabeto sono le parti elementari e indivisibili della voce articolata, da cui sono composte le sillabe, le quali a loro volta compongono i verbi e i sostantivi con cui si forma il testo di un discorso compiuto, così le note sono gli elementi primi della voce cantata, dalla loro combinazione sorgono gli intervalli e dalla combinazione di questi i sistemi musicali (dal “Musica enchiriadis” [dal greco: Manuale di musica] di autore anonimo).

Nella trattatistica della seconda metà del IX secolo emergono già chiare analogie tra funzionamento del sistema linguistico e quello musicale.
Dalle lettere dell’alfabeto che non possono essere mescolate casualmente tra loro, si passa alle note che altrettanto devono essere scelte per produrre un effetto armonioso.

L’armonia, quindi, si genera attraverso elementi in accordo tra loro.

Componimenti poetici e composizioni musicali vengono costruiti utilizzando strutture regolari, tali strutture migrano dalle forme poetiche nella musica in maniera diretta: brani musicali così realizzati sono costituiti di sezioni omogenee per ampiezza e numero di elementi, seguendo le norme metriche della poesia.

Molti trattatisti teorizzano riguardo alle corrispondenze tra linguaggio e musica, un altro interessante parallelo è tra la struttura del discorso in retorica e quello in musica, quindi, anche le melodie finiscono per avere un principio uno svolgimento e una fine, proprio come un ben congegnato discorso fatto di parole.

Le analogie possono essere davvero tante.

le frasi musicali hanno un incipit, proprio come un qualsiasi testo letterario; possono contenere domande e risposte; si sviluppano in certi casi con un crescendo, come una conversazione che cerchi di essere convincente e piena di pathos; possono simulare il senso delle parole (come una scala ascendente che tratteggi la parola “salire” o una scala o un accordo discendente che simuli la parola “inferno”); addirittura possono riprodurre il canto degli uccelli, con dovizia di espedienti, o i rumori prodotti da una battaglia.

Il discorso delle analogie non finisce qui, ovviamente, questa è solo l’esile punta di un iceberg. Le possibilità di associare testi e musica sono davvero infiniti e presentano mille sfumature: dalla percezione in un testo letterario di ritmo e musicalità, al tono di conversazione o dialogo di un brano musicale.

Il mestiere della scrittura inizia da una “buona” lettura

Lettore LetturaUno scrittore, di cui non ricordo il nome, sosteneva che una volta che si inizia a scrivere per mestiere, il modo di leggere gli altri autori cambia profondamente. Secondo la sua tesi, uno scrittore non può limitarsi a leggere un libro solo e semplicemente godendosi la storia, ma la sua lettura sarà un’indagine vera e propria, uno studio approfondito del testo.

Aveva ragione.
Intrapreso il mestiere della scrittura, anche leggere non può essere più soltanto un piacere per chi scrive. Non ci si può limitare ad apprezzare in modo superficiale una storia, ma è necessario entrarci dentro, scomporre il testo, le frasi, passare al vaglio gli aggettivi, saggiare l’uso e l’efficacia della punteggiatura.

In una sorta di autopsia del contenuto si procede in certi casi come farebbe un patologo con un corpo sul tavolo dell’obitorio: si ricerca la causa della perfezione nascosta dietro una storia, dietro espressioni prive di sfilacciature, ci si sofferma su metafore e modi di dire.

Si tenta di comprendere come una serie di frasi concatenate possano creare quel senso di ansietà, quel brivido di accelerazione dato dall’azione che fa salire l’adrenalina e spinge a cercare la frase successiva, il nuovo paragrafo e la pagina ancora a seguire.
Oppure si indaga all’opposto su quel senso di quiete, di pausa a effetto che ci costringe a fermarci, a riflettere, magari a sognare a occhi aperti…

Leggere diventa studiare, con attenzione, con cura e poi, quanto appreso va rielaborato, spesso in modo inconscio, e ci si accorge che scrivendo una nuova storia c’è stata una maturazione, una crescita, uno sviluppo inatteso.
Nuove cose prendono forma: nuovi concetti, nuove parole, nuove strutture con cui fare nuove costruzioni, più complesse, più intense, spesso più vicine alla realtà.

Musica e Scrittura: le pause, elementi pieni di significato #1

musica notazione musicale

Oggi, mentre giravo le pagine di uno spartito musicale a un mio amico organista, mi sono ritrovata a riflettere sull’importanza delle pause.

Una pausa consente di prendere un respiro sia che si parli di note sia di parole. E questo fatto non è per niente trascurabile.

Una pausa, inoltre, consente all’ascoltatore di riflettere, di ripensare a quanto ha udito e poi di proseguire.
Le pause musicali sono piuttosto semplici: sono contraddistinte da segni ben precisi che le indicano con chiarezza e ne stabiliscono la durata.
Una pausa può essere più o meno lunga e, a volte, la durata è a discrezione del musicista.

In alcuni casi, ho osservato che una pausa è seguita da una ripresa di un tema che diventa più significativo dopo quell’interruzione ad hoc; è come se il tema che ritorna, che spesso è introdotto in una tonalità diversa, apparisse indossando un abito con lo stesso taglio di prima, ma con un colore differente. In pratica, il tema riemerge rinnovato, rinfrancato e inquadrato sotto una luce diversa.

Quando poi, dopo molte vicissitudini e magari dopo un’opportuna pausa, il tema torna, riproposto nella stesse veste dell’originale, l’orecchio non lo percepirà più, comunque, uguale al primo ascolto.
L’ascoltatore sarà felice di risentirlo, come se rivedesse un vecchio amico venirgli incontro dopo tanti anni di assenza, e le note pur essendo le stesse (o quasi del tutto) saranno diverse, come se nel frattempo, nel trascorrere dello spartito, fossero maturate, cresciute, avessero un’esperienza alle spalle che le rende più attraenti, più appetibili all’orecchio e di solito, a questo punto, il brano si chiude, un po’ come il vecchio e trito, ma pur sempre efficace “E vissero felici e contenti”…

Come produrre nella scrittura simili opportunità?

Ci sto riflettendo, indagheremo insieme nei prossimi post…

L’influenza di Martin Lutero nell’evoluzione della lingua tedesca

Lutherbibel Bibbia tradotta da Lutero

In occasione dell’anniversario dell’affissione delle 95 tesi alle porte della chiesa di Wittenberg, che hanno dato inizio alla Riforma protestante, è importante sottolineare il ruolo avuto dal monaco Martin Lutero (1483 – 1546) nell’evoluzione della lingua tedesca.

Di fatto, Lutero ha cambiato per sempre l’approccio alle traduzioni da altre lingue, cogliendone l’aspetto fondamentale che non sono pure e semplici trasposizioni, ma opere complesse che hanno come obiettivo primario il destinatario del testo nella lingua di arrivo.
Lutero attuò la sua “riforma linguistica” mettendo mano alla traduzione della Bibbia. Fu l’unico a utilizzare, oltre al testo latino, anche quelli originali ebraici e greci, per pervenire, poi, a “una lingua sintatticamente semplice, foneticamente chiara e semanticamente trasparente, quella utilizzata dalla cancelleria della Sassonia, badando però anche al tedesco comunemente parlato dalla gente al lavoro“.

Il suo obiettivo era offrire una lettura quotidiana e personale al popolo e, per far questo, c’era la necessità di conoscerse la “sua” lingua.
Il suo lavoro non si limitò a rendere comprensibile a tutti un testo sacro, ma tenendo in considerazione i lettori più che la sacralità del testo e privilegiando il senso rispetto alle parole, consentì al popolo di comprendere con più chiarezza ciò che leggeva, tanto che la sua opera di traduzione offrì a molti di imparare a leggere e a scrivere e ad assimilare indirettamente un nuovo modo di parlare, con espressioni e termini nuovi.

L’enorme influenza che la traduzione della Bibbia da parte di Lutero ha avuto sulla lingua tedesca è l’eredità più importante che ha lasciato ai posteri.
Nella lingua contemporanea, parole e locuzioni coniate da Lutero sono ancora perfettamente comprensibili e di uso corrente, anche se la maggior parte delle persone non ne conosce la provenienza.

Il Latinista: una nuova indagine per il commissario Lambert

Cover Il Latinista

Il commissario Lambert è alle prese con una nuova complicata indagine.

Parigi. In una ex casa di cura abbandonata viene ritrovato il corpo di uno sconosciuto ucciso a pugnalate.
Una scritta in latino campeggia su una parete della scena del crimine: è un motto, usato da Cesare Borgia e da molti altri prima di lui.
L’assassino non ha lasciato altre tracce dietro di sé, neppure l’arma del delitto, e la frase misteriosa sarà il punto di partenza e il filo conduttore di uno strano gioco di rimandi con cui il commissario Lambert e i suoi collaboratori dovranno fare i conti.
Mentre il Latinista, questo il nome che si è guadagnato l’assassino, continua a uccidere, il commissario e i suoi consulenti vedranno spiazzate le loro supposizioni e per risolvere il caso dovranno seguire l’istinto più che le prove…

Sullo sfondo di una Parigi accennata, eppure presente, A.J. Evans, al suo quinto appuntamento con il giallo, ci conduce attraverso inquietanti scene del crimine all’inseguimento di un spietato assassino.
Supposizioni, dubbi, una scritta misteriosa e tracce di un passato che sembra esigere vendetta, mettono  a dura prova la perspicacia e l’intuizione del commissario Lambert e dei suoi capaci collaboratori che faranno di tutto per assicurare il colpevole alla giustizia.

Personaggi in cerca di autore o Autore in cerca di personaggi?

Principe ranocchioPersonaggi e autore hanno un rapporto complicato che non si limita alla penna e al foglio di carta. I personaggi di un libro sono per il suo autore degli amici, dei compagni di viaggio e spesso i rapporti con loro non sono semplici.

In realtà, lo scrittore intraprende con i suoi personaggi delle vere relazioni, a volte di amicizia, a volte di amore e odio.

Quando alcuni autori sostenevano di litigare a volte con i loro personaggi o di essere costretti a determinate scelte per “soddisfarli”, non volevo crederci.
Continuando a scrivere, devo riconoscere che ho dovuto ricredermi, e non poco…

Negli ultimi racconti “gialli” scritti, ho affrontato situazioni simili: un personaggio a cui pensavo di assegnare un ruolo secondario, per fare risaltare un altro del quale credevo di avere in testa una perfetta caratterizzazione, sorprendentemente si è preso a forza una quantità di spazio che io non avevo immaginato in alcun modo di dargli.
Con rassegnazione, ho dovuto lasciarlo fare.

Il suo carattere si è definito a mano a mano che procedevo con la scrittura e, di storia in storia, la sua particolare personalità ha finito per lasciare in ombra il personaggio a cui avevo destinato un ruolo di primo piano.

La conferma di questa inversione di piani e parti rispetto a quanto avevo preventivato mi è giunta dalla recensione di un lettore che nell’occasione aveva trovato il personaggio che doveva essere, nei miei intenti, “secondario”: “più riuscito e interessante”.

Nell’ultimo racconto che sto ultimando, devo contrastare la veemenza di un altro similare personaggio che, nonostante i miei tentativi di soffocarne le ambizioni, di fatto mantiene in una certa subalternità tutti gli altri. Osservo con una certa preoccupazione che sono sempre più numerosi i personaggi che riescono ad imporsi, presentandosi con arroganza sulla scena, e mi impongono una revisione nella pianificazione degli eventi e intrecci, tanto da cambiare la storia che avevo in testa.

Perciò, mi sono chiesta se in effetti non siano i personaggi a cercarci, mettendo a disposizione le loro vite, piuttosto che noi scrittori a crearli, illudendoci di aver inventato un personaggio e la sua storia.
Non mi stupirei, a questo punto, che un ranocchio diventasse un principe o viceversa…

Riflessioni sulla solitudine: una condizione con cui convivere

altalena vuota

Si rese conto che tutti gli uomini erano così: che ciascuno, ai propri occhi, era perduto e solo. Un’unità che insieme ad altre unità formava una città, ma che pur sempre rimaneva singola e spaurita. Come loro, sul bordo del crepaccio. Se Tom avesse urlato, se avesse chiamato aiuto, a pieni polmoni, sarebbe servito a qualcosa?
Le tenebre potevano inghiottirlo con grande rapidità: un’ondata nera e tutto sarebbe finito. Molto prima dell’alba […]
La constatazione fisica che la vita è solitudine schiacciò il suo corpo, che cominciava a tremare. Anche la mamma era sola, e in quel momento non poteva fare affidamento né sul sacramento del matrimonio né sulla protezione della famiglia, o sulla Costituzione degli Stati Uniti e la polizia della città; non poteva fare affidamento su nient’altro che il suo animo, e là non c’erano che invincibile ripugnanza e il desiderio di abbandonarsi alla paura. In momenti simili il problema è sempre individuale, ed esige soluzioni individuali. Tom doveva accettare di essere solo e procedere da quel punto (“L’estate incantata” di Ray Bradbury).

Oggi pensavo alla solitudine e nella memoria ho recuperato il ricordo di questo passo del libro di Bradbury.
L’autore riesce a farci provare un senso di inquietudine e ci avvolge in una spirale di disperazione di fronte all’ineluttabilità della morte e della solitudine, uniche certezze nella vita di ogni persona.
Anche se siamo circondati da amici, parenti e conoscenti, se ci fermiamo un istante a pensare, ci renderemo conto che siamo soli, che ognuno di noi può ridere, scherzare, prendere parte a conversazioni, ma né cene in compagnia né feste per quanto allegre e divertenti ci potranno allontanare da questa realtà.

Il fatto stesso di esistere, pur in mezzo agli altri, ma di essere un’entità a sé; gli stessi atti di nascere e morire sono compiuti da soli: un sasso lanciato in uno stagno buio, una corsa verso l’ignoto.

Spesso questo senso di solitudine ci schiaccia, ci coglie di sorpresa, alle spalle, come un subdolo assalitore. Ci tormenta e ci avvolge nelle sue spire, senza lasciarci scampo.
Ogni nostro atto vitale è in fondo, la ricerca di riempire questo vuoto, di sentirci meno soli dentro la nostra pelle.

Amare, provare passione per le cose che facciamo sono i nostri amuleti, la nostra redenzione da questo fardello, da questi lacci che a volte, tentiamo, invano, di allentare.

Lo scrittore: un lanciatore solitario. “Per gli scrittori non ci sono panchine”

palla da baseball

Mi sono immersa nella lettura de “Il mestiere dello scrittore” con la stessa fiducia e curiosità con cui avevo affrontato “On Writing” di Stephen King.
Leggere i consigli degli scrittori sulla scrittura è un’esperienza interessante da cui si riemerge più consapevoli e muniti di qualche strumento in più per destreggiarsi nel difficile mestiere di scrivere.

Ingenuità, semplificazione e spontaneità sono, secondo Murakami, essenziali per chi decide di affrontare lo scoglio della scrittura, per chi ha deciso di iniziare a comunicare, scrivendo.

Ho trovato interessante l’osservazione disincantata di Haruki Murakami della sua stessa scrittura e della sua evoluzione nel tempo.
Il suo primo romanzo è stato partorito con assoluta ingenuità (nei confronti del panorama letterario del momento, di cui non sapeva nulla e nella totale ignoranza delle regole da seguire per scrivere un romanzo) ed estrema semplificazione (parole semplici ottenute con un lavoro di sottrazione).

Scrivere il suo primo romanzo per Murakami è stato come, metaforicamente parlando, costruire uno scheletro che nel tempo si è dotato di una muscolatura.
In pratica, per lui, l’esercizio di scrivere è stato un vero e proprio processo di stratificazione e ispessimento; i suoi lavori successivi si sono irrobustiti e sono diventati più complessi, seguendo una sorta di evoluzione fisiologica.

La scrittura, secondo l’autore, nasce da pochi elementi, parole semplici e discorsi semplificati, dove la sottrazione è un’operazione fondamentale.
In seguito, questa struttura andrà ispessita e acquisterà forza ed energia, in modo naturale e, crescendo, con costanza e determinazione, acquisterà concretezza e un certo livello di maturità.

Tutto però deve partire da un impulso puramente interiore.
La gioia spontanea e il senso di libertà che ne consegue, insiti nel gesto di scrivere, devono permeare il lavoro dello scrittore.
Murakami, parlando di questo impulso, fa un esempio che mi ha ricordato due parabole evangeliche: quella del seminatore (Matteo 13,1-23, Marco 4,1-20 e Luca 8,4-15) e quella della casa costruita sulla roccia e la casa costruita sulla sabbia (Matteo 7,21-29), quando dice che chi scrive senza avere dentro di sé questo impulso non combinerà granché, come le piante che non hanno radici saldamente affondate nella terra.

Lo scrittore è un accumulatore di informazioni.
Leggere, senza dubbio, è il primo dovere di un buon scrittore.
La lettura continua e infaticabile è un compito imprescindibile del processo di scrivere.
Inoltre, un esercizio molto importante, per Murakami e non solo per lui, è osservare con attenzione: cose, eventi, persone e riflettere su quanto si è osservato, senza, però, formulare giudizi.

Questa operazione di raccolta del materiale deve essere seguita da un’efficace organizzazione di quanto si è accumulato.
La memoria ovviamente non riesce a ricordare ogni cosa al millesimo, quindi, bisogna operare una selezione, centellinare quanto si è raccolto dal mondo circostante, isolare e poi, conservare dettagli concreti e peculiari, quelli cioè che hanno maggiormente attirato la nostra attenzione, “tanto meglio se inspiegabili, è ovvio. Poco ragionevoli, privi di filo logico, poco convincenti o misteriosi“.
Murakami sostiene che “gettando dentro la mente le cose alla rinfusa, quello che deve sparire sparisce, quello che deve restare resta. A me piace questa selezione naturale della memoria“.
Rimanendo in argomento, Burrhus F. Skinner (psicologo statunitense) definisce cultura “ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto“, quindi, bisogna fidarsi del potere selettivo della nostra mente di conservare solo ciò che è davvero importante, quello che è indispensabile o utile e magari, abbandonare il fedele taccuino su cui normalmente si annota ogni cosa, per lasciare sedimentare i ricordi e filtrare solo ciò resta.

Dal ripostiglio dove sono rinchiusi alla rinfusa i materiali più disparati, bisogna trarre gli elementi che opportunamente composti diano vita a una sorta di magia
.
Murakami sostiene di scrivere come se stesse componendo musica, la magia, che dà senso a una storia e la rende meritevole di essere letta, secondo lui, si crea tenendo conto di alcuni preziosi alleati: il ritmo, elemento fondamentale per costruire e tenere in piedi una storia, un ritmo saldo dall’inizio alla fine; l’armonia creata da una serie di accordi molto diversi fra loro; l’improvvisazione, quella dei musicisti jazz che attraverso la libera espressione mettono in gioco tutte le loro capacità tecniche e il gusto musicale.
Secondo Murakami se ritmo e armonia sono ben gestiti si può improvvisare in maniera spontanea. Improvvisare per creare liberamente il proprio suono.

Secondo Murakami si scrive perché si ha il desiderio di farlo, mossi da un interesse genuino, da una forza che permette di superare ogni difficoltà.
In ogni caso, quando l’autore inizia a scrivere un romanzo, è solo. Nessuno lo può aiutare a organizzare il materiale nella sua testa o a trovare le parole giuste per esprimere quello che intende dire. Quello che si è iniziato da soli, si deve portare avanti e completare da soli.
Non si può fare come i giocatori di baseball, che di questi tempi, dopo aver lanciato sette volte, lasciano il posto a un altro e vanno ad asciugarsi il sudore in panchina. Per gli scrittori non ci sono panchine. Una volta iniziata la lunga sfida, devono continuare a lanciare la palla, forse anche quindici, diciotto volte, fino al termine della partita“.

Scrivere storie semplici: un interessante progetto in lingua tedesca

scrivere storie semplici

Da un po’ di tempo scorro con interesse gli articoli sulla Deutsche Welle e traduco dal tedesco per fare esercizio.

Leggere e tradurre è molto utile per chi, come me, sta imparando una nuova lingua ed io cerco di leggere in tedesco il più possibile, per accelerare l’apprendimento di questa lingua che mi affascina moltissimo.

Il desiderio di studiarla a fondo è nato ai tempi dell’università, allora, ammiravo alcuni dei miei insegnanti che conoscevano piuttosto bene il tedesco (nello studio della musicologia, conoscere il tedesco è importante, considerato il numero elevato di compositori di lingua tedesca, così come per gli stranieri è utile conoscere l’italiano, specie per gli amanti e gli studiosi dell’opera lirica), quindi, ho inseguito questo sogno, lasciandolo lì, ad aspettare tempi migliori che, finalmente, sono arrivati.

Tra gli articoli che ho letto, ne ho trovato uno che riguarda un progetto molto interessante realizzato dalla Literaturhaus Frankfurt (Istituto culturale di Francoforte) che ha proposto a 6 scrittori una sfida: scrivere dei testi semplici e comprensibili, per favorire la lettura a chi ha difficoltà di comprensione della lingua tedesca, pare, infatti, che in Germania siano davvero in tanti ad avere problemi sia di lettura che di scrittura.

I 6 autori che hanno aderito al progetto si sono dati 11 regole da seguire per la stesura dei testi: dovranno fare riferimento a eventi, luoghi, persone o oggetti della storia di Francoforte; possono anche essere inventati; letti ad alta voce non devono durare più di 20 minuti; parole e frasi usate devono essere semplici; se si usano figure retoriche, queste dovranno essere spiegate; i salti temporali vanno evitati; il racconto avverrà da un unico punto di vista; la struttura del testo sarà suddivisa in modo chiaro; si dovranno usare pochi sostantivi e molti verbi.

Affascinato dal progetto ha aderito anche lo scrittore tedesco-islandese, Kristof Magnusson che è stato intervistato e ha spiegato alcune delle sue personali scelte riguardo al suo breve racconto: “Die billige Wohnung” (L’appartamento a buon mercato).

Kristof ha scelto come argomento un fatto di cronaca: l’omicidio di una prostituta di Francoforte, Rosemarie Nitribitt, avvenuto nel 1957.
La particolare scelta è dovuta al fatto che la storia era nota a tutti; inoltre, tematiche come sesso e violenza sono facilmente comprensibili per chiunque.

Magnusson ha fatto una scelta anche riguardo alle parole straniere: farne un uso ridotto e dove sono proprio necessarie far sì che vengano chiarite dallo stesso io-narrante, evitando spiegazioni didascaliche.
La storia è narrata in prima persona da una giovane donna che si esprime con frasi semplici, per la maggior parte costituite da un’unica affermazione.

Nel complesso trovo il progetto molto interessante e sarei curiosa di vederlo attuato anche in Italia.
Sarebbe molto utile, considerata la presenza massiccia di stranieri nel nostro paese e l’alfabetizzazione in preoccupante diminuzione.
Potrebbe essere una valida iniziativa per aiutare chi vuole leggere e incontra difficoltà di comprensione, magari, potrebbe anche invogliare chi, invece, semplicemente, legge poco.

L’interpretazione tra una lingua e un’altra: un esercizio mentale a 360 gradi

welcome lingueQuando mi trovo a lavorare come interprete tra il pubblico c’è sempre qualcuno che mi chiede, stupito: ma come fai a tradurre simultaneamente in un’altra lingua la persona che sta parlando?

Non che io sia un genio, è una domanda che viene posta sia a me che ai miei colleghi 🙂

In effetti spesso me lo chiedo anche io e chissà, forse tutto è iniziato quando grazie alla mia grande curiosità e voglia di esprimermi in altre lingue, ho scoperto che tradurre in simultanea, o meglio interpretare le parole di un’altra persona è qualcosa di davvero unico.

Interpretare è semplicemente ciò che dobbiamo fare quando vogliamo parlare in un’altra lingua: come diceva il mio professore all’università “KISS” ovvero “Keep It Short and Simple” – una grande e semplice raccomandazione che non bisogna mai dimenticare. Se quando traduciamo, interpretiamo e semplifichiamo le frasi, saremo in grado di esprimere il concetto nel modo più chiaro possibile. Interpretare significa entrare nel pensiero dell’oratore che dobbiamo tradurre, comprendere a fondo tutto il contesto che circonda la tematica di cui si sta parlando ma anche il suo background.

Una parte fondamentale dell’interpretazione è legata alla lingua di partenza e a quella di arrivo: ogni lingua infatti ha le sue caratteristiche che si riflettono nell’oratore. Quando dobbiamo interpretare, la nostra mente è come estraniata da ciò che ci circonda e deve svolgere tre funzioni fondamentali: comprendere il senso di quanto l’oratore sta affermando, rielaborare il concetto nella lingua di arrivo e riproporre il tutto con la massima coerenza e chiarezza. Ciò che conta non è tradurre meccanicamente ogni frase detta ma appunto interpretarla per far sì che chi ci sta ascoltando sia perfettamente a suo agio e partecipe.

Per interpretare, conoscere perfettamente la lingua di arrivo e di partenza (lingua madre o lingua straniera) non è sufficiente: non essendo un mero esercizio di traduzione meccanica l’interprete deve mantenere sempre la calma e dominare le paura di sbagliare che come essere umano ha.

Un esempio molto chiaro è quello del tedesco: se dobbiamo interpretare un oratore che sta parlando in tedesco non possiamo parlare “inseguendolo” nel suo ragionamento visto che fino alla fine della frase spesso non conosciamo il verbo che nella maggior parte dei casi è l’ultima parola che ascoltiamo. Inoltre il tedesco è ricco di parole composte e per interpretarne il significato dobbiamo fare un vero e proprio esercizio di comprensione legata al contesto e riformulazione: il nostro atteggiamento deve essere distaccato dalla singola parola ma allo stesso tempo partecipe perché dobbiamo entrare nel concetto che viene espresso.

In conclusione, se vi capita di ascoltare un interprete sappiate che quella persona sta facendo un grandissimo sforzo per trasmettervi il concetto che l’oratore vuole esprimere, creando una connessione tra mondi, storie e background spesso opposti.