Con l’evoluzione dell’editoria manoscritta si assiste nello stesso periodo a un evolversi della materia prima della scrittura: i caratteri.
Dai precedenti caratteri utilizzati, di tipologia carolina, i copisti passano alla scrittura gotica di origine tedesca. Questo passaggio di consegne è dovuto sia a motivazioni culturali sia a esigenze pratiche: i caratteri gotici erano più stretti di quelli finora impiegati e consentivano un notevole risparmio di spazio.
Per scrivere i caratteri gotici i copisti dovettero attrezzarsi. In concreto, fu necessario modificare gli strumenti di lavoro. Le penne subirono qualche sostanziale cambiamento, furono tagliate obliquamente e i copisti furono costretti a modificare anche il modo tradizionale con cui impugnavano i loro strumenti: non più di piatto, bensì di lato.
La scrittura gotica, ovviamente, ha risentito dei cambiamenti culturali e artistici, in pratica, la sua nascita non è dovuta a un fenomeno isolato, ma è l’espressione di un’epoca che ha influenzato non solo la forma dei caratteri ma anche l’arte e l’architettura.
Gli archi a ogiva, le volte a crociera che si possono ammirare nelle chiese gotiche non sono altro che rappresentazioni in grande scala dei caratteri gotici usati nella scrittura. Essi, infatti, ripropongono, a modo loro, le stesse forme appuntite e spezzate con un’altrettanto forte componente di spinta verso l’alto.
Intorno al XIV e XV secolo, mentre il Rinascimento è alle porte, in Italia si profila un ulteriore cambiamento di “carattere”. Dalle forme gotiche “appuntite” e strette si passa a forme più rotonde, così ha inizio la scrittura denominata “umanistica”.
Questo nuovo tipo di scrittura prende campo velocemente e prolifera dovunque, proprio mentre accade un evento epocale: l’invenzione della tipografia che per la stampa si avvale di caratteri mobili.
Gli scrivani non erano dei semplici esecutori senza fantasia, tutt’altro. Il loro mestiere richiedeva una notevole creatività sia quando si trattava di copiare un testo sia quando si dovevano emendare gli errori.
Gli scrivani dovevano avere un’abilità camaleontica in fatto di scrittura. Essere in grado di destreggiarsi da uno stile a un altro, mantenendo una bella grafia a qualsiasi testo stessero lavorando.
Nonostante possedessero notevoli capacità, gli scrivani, anche i più dotati, potevano incorrere in errori. Per questo, le botteghe si premunivano, rivolgendosi a correttori che individuavano gli errori, li segnavano a margine e li corredavano delle correzioni necessarie.
Gli scrivani emendavano gli errori a seconda della gravità:
un errore semplice poteva essere risolto con una semplice grattatura della pergamena e poi con una riscrittura sopra la parte cancellata;
una parola mancante era inclusa a margine e un dito, opportunamente disegnato, indicava il punto del testo in cui andava posizionata;
righe intere o paragrafi mancanti richiedevano una certa malizia per essere integrati. Il testo omesso poteva essere collocato in fondo alla pagina e poi ci si affidava all’illustratore che poteva ad esempio, inserire un personaggio che simulava di risalire fino al punto richiesto.
Con il passare del tempo la formazione degli scrivani era sempre più minuziosa e rigida; alcuni di loro, grazie alla grande maestria che possedevano, riuscivano a produrre dei veri e propri capolavori.
Purtroppo, artigiani e artisti – e ahimè, ben poco è cambiato ai nostri tempi – non erano tenuti in alcuna considerazione sociale e guadagnavano così poco che quelli più abili si affidavano alla Chiesa: una volta entrati nel clero, potevano dedicarsi alla loro arte, liberi da qualsiasi preoccupazione materiale.
Liste, elenchi, cataloghi possono essere espedienti mnemonici della quotidianità o assurgere ad alte vette letterarie e musicali. Un esempio famoso: l’aria del catalogo di Mozart.
Se pensiamo alla parola “lista”, è facile associarla a quel prezioso foglietto che ci fa da bussola tra gli scaffali del supermercato. Ma le liste possono essere ben altro, specie se contenute in opere letterarie, come ad esempio in un libro di Sciascia che usa una lista piuttosto farcita, per descrivere l’arredamento di una casa e darci al contempo l’idea di un affastellamento di cose.
Un massiccio tavolo di rovere e quattro credenze, dello stesso legno, con dentro piatti, zuppiere, bicchieri e cuccume; ma anche vecchi giocattoli, carte, biancheria. […] Mozziconi di sigarette erano nei portacenere, e fondi di vino nei bicchieri, cinque, che erano stati portati in cucina certo con l’intenzione di sciacquarli. […] focolari a legna, forno, mattonelle valenziane murate intorno; pentole di rame e tegami appesi alle pareti (Leonardo Sciascia, “Una storia semplice”, Piccola biblioteca Adelphi).
Le liste possono anche fornirci un valido aiuto, specie quando si tratta di mostrare carrellate di elementi, inoltre, certi esempi artistici contengono una buona dose di ironia e sono creati per divertire, con la loro tendenza all’esagerazione, all’eccesso e alla dismisura.
Tra le liste assurte a stereotipo, specie nell’ambito musicale, troviamo l’aria del catalogo: uno degli ingredienti più antichi dell’opera buffa, di cui abbiamo molti assaggi nella commedia dell’arte e più tardi nelle opere liriche. Una famosa aria del catalogo è quella per basso: Madamina, il catalogo è questo di Wolfgang Amadeus Mozart, su libretto di Lorenzo Da Ponte, tratta dall’opera buffa Don Giovanni.
Mentre il cantante, Leporello – servo di Don Giovanni – esegue l’aria, mostra anche fisicamente il catalogo a Donna Elvira – una delle tante donne sedotte e abbandonate dal suo padrone – sotto forma di libro o di lungo papiro. Il mezzo fisico era indispensabile, almeno per gli attori della commedia dell’arte che ne facevano largo uso, per aiutare la memoria.
Carlo Goldoni ha utilizzato in molte sue commedie l’espediente istrionico delle liste: L’Arcadia in Brenta (1749); l’aria-catalogo nel Viaggiatore ridicolo (1761), qui lo stereotipo delle elencazione diventa un efficace veicolo di comicità.
L’aria del Catalogo mozartiana consiste nell’elencazione e descrizione di tutte le conquiste di Don Giovanni, snocciolate da Leporello a una sconvolta Donna Elvira ed è collocata nel primo atto dell’opera, (scena V). Dopo una breve presentazione del “Catalogo”, Leporello si lancia in una serie sfrenata di liste:
In Italia seicentoquaranta; In Alemagna duecento e trentuna; Cento in Francia, in Turchia novantuna; Ma in Ispagna son già mille e tre.
Dal conteggio, associato ai luoghi delle conquiste, il servo di Don Giovanni si sposta all’estrazione sociale delle vittime:
V’han fra queste contadine, Cameriere, cittadine, V’han contesse, baronesse, Marchesane, principesse. E v’han donne d’ogni grado, D’ogni forma, d’ogni età.
Poi, Leporello si sofferma sulle caratteristiche fisiche e caratteriali delle donne del suo padrone, senza mai abbandonare l’espediente della lista:
Nella bionda egli ha l’usanza Di lodar la gentilezza, Nella bruna la costanza, Nella bianca la dolcezza.
Vuol d’inverno la grassotta, Vuol d’estate la magrotta; È la grande maestosa, La piccina è ognor vezzosa.
La scena del catalogo mozartiano non è una novità: era già presente in diverse versioni della storia dell’impenitente seduttore, come ad esempio: Il convitato di pietra di Andrea Cicognini; Don Giovanni, o sia Il convitato di pietra, di Giuseppe Gazzaniga (libretto di Giovanni Bertati).
Esistono molti altri esempi letterari/musicali di liste ben riuscite: Il campanello di Gaetano Donizetti; l’aria delle medaglie (Viaggio a Reims), di Gioachino Rossini (libretto di Luigi Balocchi); Udite, udite, o rustici dell’elisir d’amore (L’elisir d’amore) di Donizetti (libretto di Felice Romani).
Gli elementi delle liste differiscono, ma lo scopo è lo stesso: l’elenco deve stupire e divertire, anche se nel caso del Don Giovanni, la povera Donna Elvira ha ben poco di cui gioire, dopo aver ascoltato le frizzanti rime di Leporello.
Rileggere a distanza di tempo poesie studiate a scuola è un’esperienza che invito tutti a fare. Anche scoprire poesie non ancora lette di un poeta, sul quale l’insegnante di italiano insisteva, anni fa, a fare domande durante le interrogazioni – e noi a chiederci perché – può riservare gradite sorprese.
Il famoso senno del poi nella letteratura ha un senso concreto. Le esperienze che abbiamo vissuto, i libri che abbiamo letto negli anni, i viaggi che abbiamo intrapreso hanno cambiato i nostri punti di vista, irrimediabilmente – e per fortuna – siamo persone diverse da quelle che hanno letto Pascoli, Leopardi, Dante, Foscolo, ecc. sui banchi di scuola.
Io ho fatto un tuffo nel passato proprio in questi giorni, grazie a un post da scrivere, e sono riemersa diversa. La poesia che ha suscitato il mio interesse e ha fatto scaturire queste riflessioni è una poesia di Giovanni Pascoli, dalla raccolta Myricae che – udite, udite – non avevo letto a scuola e chissà quante altre ce ne sono in attesa di una mia lettura, che possono suscitare emozioni analoghe.
La poesia è Il lampo e credo che, in assenza di un titolo, si sarebbe capito ugualmente di che cosa stesse parlando il poeta.
E cielo e terra si mostrò qual era: la terra ansante, livida, in sussulto; il cielo ingombro, tragico, disfatto: bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d’un tratto; come un occhio, che, largo, esterrefatto, s’aprì si chiuse, nella notte nera.
Leggendo questi pochi versi si può vedere in azione un lampo, il suo effetto sulle cose e lo sgomento improvviso che crea in chi assiste al suo repentino arrivo. Non serve concentrarsi troppo per sentire anche il tuono. E quell’occhio esterrefatto che si apre e si chiude in un baleno è l’incarnazione stessa dell’attimo in cui la luce del lampo rivela, come la luce di un enorme flash, il mondo e poi lo getta in un istante, di nuovo, nell’oscurità totale.
Durante una delle mie passeggiate, ho osservato sul ciglio della strada una lumaca che procedeva pervicacemente nella sua direzione e mentre la guardavo muoversi alla sua caratteristica comoda andatura, ho pensato al tempo, alla velocità e a quanto siano relativi questi concetti.
La lumaca da sempre incarna la lentezza, ma questa considerazione si basa sul nostro modo di vedere il mondo. Noi esseri umani, più passano gli anni, più aumentiamo la velocità delle nostre azioni e da questo nostro rapido punto di vista giudichiamo quello che ci circonda.
Partendo da questo presupposto, possiamo dedurre che, in realtà, la lumaca non è lenta, ma semplicemente mantiene la sua andatura, quella che la natura le ha conferito e che lei rispetta nei suoi gesti quotidiani, conducendo la sua vita alla stessa meditata e moderata velocità.
Solo noi umani viviamo spesso al di fuori di un ritmo naturale: affastelliamo mille cose nelle nostre giornate; impiliamo impegni su impegni in precario equilibrio; vogliamo arrivare dappertutto e nel minor tempo possibile.
Per cui, quando mangiamo ci ingozziamo e non assaporiamo più il cibo, respiriamo in modo affannoso, corriamo con l’auto per spostarci senza fare sforzi e il più rapidamente possibile, non riusciamo a vedere neppure le cose macroscopiche che ci circondano, non siamo capaci di goderci un istante di tranquillità.
Abbiamo perso completamente l’idea stessa di un ritmo naturale nel quale avvolgere la nostra vita.
Io credo che se riuscissimo almeno in parte a recuperare questo diverso senso del tempo e lo adattassimo al nostro carattere, alla nostra personalità, la nostra salute ci guadagnerebbe.
E non sempre la risposta che non possiamo perché dobbiamo fare tante cose in poco tempo è la risposta giusta…
A volte frenare ci fa acquistare tempo, ci consente di fare le cose molto meglio, e potremmo anche accorgerci che è possibile rallentare, che spesso siamo proprio noi che ci imponiamo questi ritmi infernali e insostenibili, e finiamo per ammalarci, perdendoci al contempo tante cose meravigliose che ci circondano.
In certe occasioni, concediamoci questo lusso: imitiamo la saggia lumaca… rallentiamo.
Sono rimasta colpita da un’affermazione sulle parole: “Da un punto di vista espressivo non esistono sinonimi in una lingua, ossia, non esistono due parole che si possono considerare identiche o equivalenti“.
Capite che questa affermazione – espressa da Giuseppe Pontiggia nel suo “Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere” – scatena in uno scrittore molti pensieri e fa riflettere sulle responsabilità che investono chiunque abbia fatto della scrittura un mestiere.
La mia formazione musicale, inoltre, mi impone di scegliere le parole anche in base alla loro capacità di generare una sensazione di piacevolezza all’orecchio, ma ovviamente, mi pongo anche il problema del loro significato.
Quanto conosciamo davvero il senso di un termine? Alcune parole sembrano significare la medesima cosa, ma in realtà ci sono mille sfumature o addirittura un oceano a distanziarle.
Alcuni termini hanno assunto con il tempo delle connotazioni particolari, negative o positive, in base all’uso che ne è stato fatto negli anni, e non solo: ci sono parole che hanno una sottile caratterizzazione e solo chi ha di una data lingua una conoscenza davvero approfondita può conoscerla e apprezzarla.
Io, ad esempio, ho notato che studiando altre lingue si finisce per conoscere meglio la propria; si notano delle singolarità cui non si era prestata attenzione fino a quel momento.
Le parole sono per me fonte di stupore continuo, alcune, se si sonda la loro etimologia, danno vita a scoperte sorprendenti. Sono convinta, fin qui, che non deluda mai comprendere le parole sempre meglio e usarle in modo sempre più corretto e appropriato.
Questo atteggiamento non solo aiuta a ottenere una scrittura più coinvolgente e adeguata, ma ci consente soprattutto di comunicare in modo più efficace e di farci capire dagli altri: essere accurati con le parole ci rende, sicuramente, delle persone migliori.
Lo sdoganamento della produzione dei libri dall’ambito ecclesiastico e le nuove tendenze dettate dai committenti borghesi portano a un boom di richieste e a un proliferare di nuovi argomenti per i libri.
Le botteghe degli scrivani che avevano iniziato a organizzarsi dalla fine del XII secolo, si trovano ad affrontare un numero di richieste sempre maggiore e la scelta degli argomenti si apre a molte new entry.
Trattati di: educazione, medicina, cucina e astronomia sono solo alcune delle commissioni cui gli scrivani devono far fronte. Inoltre, iniziano a comparire i romanzi e molto gettonati sono i racconti d’amor cortese. Per capirci, un best seller dell’epoca è La chanson de Roland.
I clienti potevano girare tra le tante botteghe e scegliere tra varie vesti grafiche e diversi stili di illustrazioni, per vedere realizzato il libro che desideravano.
I fruitori dei libri tra il XII e il XIII secolo subiscono un ulteriore ampliamento: si affiancano ai mercanti anche gli studenti. Ovviamente, solo gli universitari più abbienti possono permettersi il lavoro di un professionista, tutti gli altri devono affittare i testi dove studiare. In ogni caso, questa apertura a nuovi committenti, dovuta alla nascita di università laiche, è un’altra valida possibilità per i copisti di guadagnarsi la giornata.
La mole di lavoro sensibilmente aumentata comporta notevoli modifiche anche nell’organizzazione del lavoro stesso: gli artigiani si specializzano ulteriormente e si riuniscono in confraternite che conservano gelosamente i propri segreti e si battono per vedere tutelati i propri diritti.
Anche la formazione è rigorosa, proprio come avveniva in ambito religioso, gli apprendisti erano controllati e all’inizio, erano impiegati in mansioni semplici.
Per un addestramento completo occorrevano almeno sette anni e per ottenere la qualifica di scrivano bisognava produrre nell’ultimo anno di apprendistato un “capolavoro” che doveva essere valutato dal maestro artigiano e dai colleghi di lavoro.
Una volta diventati scrivani si poteva lavorare in modo indipendente, ma era necessario allontanarsi dalla bottega del maestro: niente concorrenza sleale.
Nel codice deontologico degli aspiranti scrivani c’erano anche alcuni eccessi da fuggire: il troppo vino e il troppo cibo, assidui rapporti con le donne e lavori pesanti. Queste accortezze avrebbero aiutato i copisti a mantenere una mano sicura.
In copertina: Le otto fasi de La chanson de Roland in un unico quadro, illustrate da Simon Marmion
“La chiave magica entra, tutti i bicchieri cadono di colpo e la porta si spalanca”.
Non è l’inizio di una favola per bambini e neppure l’ultimo fantasy di grido, bensì una frase di John Gardner da “Il mestiere dello scrittore“, e la frase serve a spiegare il magico processo – e lo è davvero – che avviene quando si cade in quella sorta di trance, quando la musa – in questo caso della scrittura (ma ci sono anche le altre) – ci afferra saldamente.
Le dita battono sui tasti come fossero guidate da una misteriosa entità, sanno quello che devono fare e non c’è bisogno di un intervento razionale, anzi, un tale intervento potrebbe arrestare, irreparabilmente, il viaggio che le parole fanno dal nostro inconscio al foglio bianco.
In questi momenti perfetti, tutto sembra diventare fluido e semplice, le parole sgorgano come acqua da una sorgente, e bisogna essere rapidi (oserei dire fulminei) per non perdersi soggetti, verbi, aggettivi che si incastrano perfettamente a grande velocità.
E quando esausti e felici ci si ferma, ci si accorge, rileggendo, che tutto funziona alla perfezione, a parte qualche refuso da imputare alla velocità della “trascrizione”.
Chi ha sperimentato questa magia, sa bene di cosa parlo.
In un prossimo post scopriremo come in realtà questa ispirazione non abbia nulla di soprannaturale…
In epoca carolingia, cambiano i caratteri usati dai copisti; la chiesa non detiene più lo scettro dell’insegnamento; si allargano il pubblico dei committenti e quello dei lettori.
Nei primi tempi, i monaci copisti usavano per i loro lavori di copiatura gli usuali caratteri normalmente impiegati sin dall’epoca dei romani: l’onciale (corsivo maiuscolo); il semionciale; la capitale (maiuscole quadrate); il rustico (maiuscolo più semplice). L’onciale resisterà con le sue lettere tondeggianti nella scrittura a penna, questo finché non si passerà alla stampa.
Nel 768, in epoca carolingia, appare la carolina, simile alla minuscola romana, definita anche scrittura di cancelleria. Essa sostituì il particolarismo grafico tipico dei secoli VII e VIII e rappresenta una delle formalizzazioni delle scritture semicorsive.
La scrittura carolina è chiara e ben proporzionata, possiede una notevole bellezza formale e avrà larga e lunga diffusione nell’Europa occidentale del Medioevo.
Durante il regno di Carlo Magno si eseguirà anche un grande lavoro di emendamento dei testi. I testi originali, in seguito ai vari passaggi di copia in copia, avevano subito sostanziali modifiche, alterazioni tali, nel corso del tempo, da modificare il senso stesso degli scritti.
Carlo Magno pensò di risolvere questo problema imponendo la creazione di nuove copie emendate dagli errori, in quanto realizzate con grande osservanza e scrupolo e soprattutto, basate su fonti più prossime possibile all’originale. I manoscritti carolingi si fregiano della dicitura “ex authentico libro” che fungeva da garanzia di una copiatura perfetta.
Al termine del XII secolo, il dominio incontrastato della chiesa sull’insegnamento viene meno; gli scrivani laici iniziano a riunirsi in botteghe e corporazioni. I loro principali lavori sono per la nuova borghesia mercantile per cui eseguono documenti, ma si occupano anche di comporre libri.
In questo periodo non cambiano solo gli esecutori dei manoscritti, ma anche i destinatari di queste magnifiche opere. Fino a questo momento, i committenti erano i nobili e gli ecclesiastici; le opere realizzate erano manufatti di lusso – per i signori – o manuali di teologia e messali per il clero.
Ora il mercato si estende: trattati di filosofia, di matematica, di logica e di astronomia fioriscono, ampliando i consueti settori dell’editoria.
In parallelo alla nascita di testi per un pubblico più ampio, gli autori, come Dante, iniziano a scrivere in volgare, ciò consente di avvicinare alla lettura molte più persone che sono istruite ma non conoscono il latino.
Queste due rivoluzioni in parallelo comportano un allargamento della cultura: finalmente, la borghesia si accosta ai libri e alla letteratura.
In copertina: a sinistra, ritratto immaginario di Carlo Magno, di Albrecht Dürer; a destra, pagina in minuscola carolina (escluse le prime tre righe, in onciale)
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