Anniversari letterari: Émile Zola, uno scrittore tutto d’un pezzo

Anniversari letterari: Émile Zola, uno scrittore tutto d’un pezzo

Émile Zola fu un grande scrittore che impiegò il metodo scientifico nei suoi romanzi, per analizzare e mettere a nudo la società francese del suo tempo.

29 settembre 1902, muore Émile Édouard Charles Antoine Zola (Parigi, 2 aprile 1840 – Parigi, 29 settembre 1902); figura poliedrica fu: scrittore, giornalista, saggista, critico letterario, ma anche filosofo e fotografo.
È stato uno degli esponenti di maggior spicco del naturalismo. Le sue opere ebbero un enorme successo e sono state tradotte, pubblicate e commentate in tutto il mondo.
La sua attività di scrittore ha lasciato un segno profondo nel mondo letterario francese e molti sono gli studi storici fatti sui suoi romanzi e sulla sua vita.

Tra le sue opere più note citiamo un ciclo di venti romanzi, pubblicati tra il 1871 e il 1893, i “Rougon-Macquart”, dove è descritta la vita di una ricca famiglia, attraverso il suo albero genealogico, e al contempo, è mostrata la storia di un’epoca: dal colpo di Stato di Napoleone III, nel dicembre 1851, fino alla sconfitta di Sedan che condusse la Francia sull’orlo della rovina.

Zola fu un assiduo sostenitore della ricerca della verità che trasfuse nelle sue opere letterarie, applicando il metodo scientifico all’osservazione della realtà sociale. Diede vita a un mondo immaginario di grande potenza ed efficacia che suscitava domande angosciate sulla società. Annotava osservazioni e documentazioni su qualsiasi argomento; illustrò la società del Secondo Impero, mostrandone: la durezza (specie verso i lavoratori); le aberrazioni; i successi.

Lo scrittore non prese posizione solo attraverso i suoi romanzi, ma fece sentire la sua voce di fronte a delle ingiustizie, anche pubblicamente. Negli ultimi anni della sua vita, fu coinvolto nell’affare Dreyfus.
Nel gennaio del 1898, pubblicò sul quotidiano L’Aurore il famoso “J’Accuse… !”, una lettera, diretta al Presidente della Repubblica.

“L’affare Dreyfus” andò così: nel 1894, Alfred Dreyfus, ufficiale di artiglieria dell’esercito francese, fu accusato di essere una spia dei tedeschi e per questo, fu degradato e poi processato e condannato all’ergastolo.
Alcuni intellettuali fecero notare diverse anomalie riguardo alle accuse rivolte all’ufficiale ebreo, ma la voce che si fece sentire più forte di tutte, fu proprio quella di Zola. Nel suo “J’Accuse”, lo scrittore parlava di complotto, di documenti d’accusa falsificati e fece persino i nomi degli ufficiali dell’esercito che avevano architettato la congiura ai danni di Dreyfus. Una congiura che aveva tutto il sapore dell’antisemitismo, in un clima politico avvelenato dalla recente perdita, per opera dell’Impero tedesco di Bismarck, dell’Alsazia e di parte della Lorena.

Per le sue accuse, Zola fu multato e condannato a un anno di carcere, che evitò con l’esilio.
Le sue parole però, avevano scosso le coscienze. Oltre a svelare la verità, ebbero un effetto dirompente: l’edizione de L’Aurore che conteneva la sua lettera, vendette oltre 300.000 copie (di media ne vendeva 20.000 al giorno).
A furore di popolo si ottenne la revisione del processo, ma era ancora lunga la strada per il re-integro e la liberazione di Dreyfus.
Bisogna attendere il 12 luglio del 1906: dopo 11 anni dall’inizio del processo, finalmente, la Corte di Cassazione accolse la richiesta di revisione del processo a carico di Dreyfus. Era ormai chiaro che tutto “l’affaire” era stato un errore giudiziario, una terribile macchinazione messa in piedi solo per individuare un capro espiatorio.

Quando finalmente Dreyfus fu liberato, Zola era già morto, da ben quattro anni (29 settembre 1902).
La sua morte è rimasta un mistero e tuttora, ci si chiede se sia stato un incidente o un omicidio orchestrato dalla Destra reazionaria, proprio per la posizione da lui assunta nell’ “affare Dreyfus”.
Lo scrittore aveva un nutrito numero di nemici: durante la sua esistenza espresse sempre la sua opinione e non accettò compromessi.

La morte di Zola fu archiviata dagli investigatori come morte accidentale, da avvelenamento da monossido di carbonio, dovuta alle esalazioni di una stufa.
Nel 1953, Pierre Hacquin, un farmacista, disse al giornalista Jan Bedel che era stato il fumista, Henri Buronfosse – che lo aveva confessato ad Hacquin – a ostruire intenzionalmente il camino di casa dello scrittore.

Dopo tali rivelazioni, si profilò l’ipotesi di assassinio politico: il farmacista e il fumista facevano parte di un gruppo di nazionalisti antisemiti e reazionari. Buronfosse era però già morto, nel 1928, e non si trovarono sufficienti prove per riaprire il caso.

Zola aveva costruito tutta la sua vita e anche la sua arte sull’onestà intellettuale e non tacque mai di fronte a ciò che riteneva scorretto o ingiusto sia che si trattasse dell’ipocrisia e dell’immoralità della borghesia francese sia che riguardasse questioni artistiche. Si schierò, ad esempio, dalla parte degli Impressionisti e di Manet, mentre schernì i pittori dell’Accademia, con il loro dipinti ammantati di retorica e privi di qualsiasi attinenza con la realtà del tempo.

Non ebbe molti amici, non solo perché non accettava compromessi, ma anche per il suo carattere aspro. Nonostante ciò, alcuni grandi lo apprezzarono e gli furono vicini per tutta la vita: Anatole France (1844-1924), ad esempio, che al suo funerale fece un’orazione commovente ed Édouard Manet (1832-1883), altro amico fedele, che riuscì, in un dipinto, a ritrarre con grande accuratezza il temperamento ombroso di Zola.

P.S. “L’affaire Dreyfus” e il J’Accuse di Zola determinarono la nascita dell’impegno intellettuale.
L’editoriale di Zola fece della parola intellettuale un simbolo dell’impegno civile, un titolo di gloria. Prima dell’affare Dreyfus, invece, “intellettuale” aveva una connotazione negativa: si parlava di “giudizio intellettuale”, come di qualcosa di trascurabile o incomprensibile.

In copertina: particolare del Ritratto di Émile Zola di Édouard Manet (1868)

Italo Calvino, la leggerezza e il mito di Perseo e Medusa

Italo Calvino la leggerezza e il mito di Perseo e Medusa

Oggi 19 settembre cade l’anniversario della morte di Italo Calvino (Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 – Siena, 19 settembre 1985).

Per me questo grande scrittore è indissolubilmente legato a un ricordo e a un libro magnifico: “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”.
Calvino scrisse queste lezioni in occasione dei sei discorsi da tenere all’Università di Harvard, per l’anno accademico 1985-1986, nell’ambito delle prestigiose “Charles Eliot Norton Poetry Lectures”.

Purtroppo, non riuscì a partecipare: morì improvvisamente, il 19 settembre, a seguito di un ictus, ma le sue lezioni erano a buon punto, mancava solo l’ultima, la sesta.
Il libro fu pubblicato postumo, nel 1988 e il titolo dell’edizione italiana fu scelto dalla moglie, Esther Judith Singer.

L’argomento di ogni lezione trae ispirazione da un valore della letteratura che Calvino riteneva fondamentale e che per lui, era alla base della letteratura per il millennio che si stava affacciando.
Calvino aveva scelto l’ordine delle lezioni e delle parole a esse associate in base alla loro importanza. Si parte con quella che riteneva fondamentale e si prosegue con quelle meno essenziali: Leggerezza; Rapidità; Esattezza; Visibilità; Molteplicità; Coerenza (solo progettata).

Della prima lezione, quella appunto dedicata alla leggerezza, ho un ricordo preciso e su questo intendo soffermarmi: attraverso la vicenda di Medusa e Perseo, scelta tra gli altri esempi che illustrano in modo magistrale questa particolare qualità.

Intanto, andiamo a conoscere meglio i due protagonisti della storia.
Medusa (“protettrice”, “guardiana”) è una figura della mitologia greca; è una Gorgone (mostro della mitologia greca).
In tutto le Gorgoni sono tre: Medusa, appunto, Steno ed Euriale. Tutte figlie di Forco e Ceto, divinità marine.

Queste creature mitologiche avevano un incredibile potere: erano in grado di pietrificare chiunque incrociasse il loro sguardo, ed erano immortali, a parte Medusa.
L’aspetto delle Gorgoni cambia con il passare del tempo: anticamente, erano rappresentate come donne orrende, munite di ali d’oro e mani di bronzo; avevano un viso rotondo e al posto dei capelli, una massa di serpenti. Erano dotate di una grande bocca con zanne suine.
In versioni cronologicamente più avanzate, il loro aspettò mutò decisamente in meglio: avevano sembianze di bellissime ragazze, ma per chioma avevano sempre dei serpenti.
Anche il luogo in cui vivevano muta con il passare degli anni e degli autori da cui sono nominate, prima pare fossero rintracciabili nell’Oceano Occidentale, poi in Libia.

Come Medusa, anche Perseo appartiene al mondo della mitologia greca, è un eroe, figlio di Zeus e di Danae, nipote del re di Argo, Acrisio, ed è ricordato soprattutto per le sue imprese eroiche: l’uccisione di Medusa e il salvataggio di Andromeda (diventata poi sua moglie) da un mostro marino.
Dalla moglie Andromeda ebbe diversi figli, tra cui spiccano: Elettrione (nonno di Eracle) e Gorgofone (madre di Icario e nonna di Penelope, sposa di Odisseo).

Presentati i due protagonisti, possiamo procedere con il racconto mitologico che li riguarda: la morte di Medusa.
Fu Polidette, re di Serifo, a inviare Perseo a uccidere la Gorgone, con la speranza di sbarazzarsi di lui, per poter sposare sua madre, Danae.
Prima di affrontare Medusa, Perseo deve rintracciare le ninfe dello Stige, invisibili e introvabili, per questo si trova a dover convincere le Graie (o Forcidi, custodivano l’accesso al luogo in cui vivevano le Gorgoni e simboleggiavano i vari momenti della vecchiaia; non erano mai state giovani e possedevano un solo occhio e un solo dente, in comune) a rivelargli la dimora delle ninfe dello Stige, per poter ottenere gli oggetti che gli erano indispensabili per condurre a termine la sua impresa.

Le ninfe dello Stige consegnano all’eroe alcuni gadget davvero straordinari: sandali alati e l’elmo dell’invisibilità di Ade. Inoltre, da Ermes, Perseo riceve un falcetto adamantino.
Così attrezzato, giunge al cospetto delle Gorgoni e le trova addormentate.
Atena guida l’eroe e sorregge lo scudo, dal cui riflesso Perseo osserva l’immagine di Medusa per colpirla, senza rischiare di restare pietrificato.
L’eroe taglia la testa della Gorgone e dalla ferita mortale escono: Pegaso, il mitico cavallo alato, e il gigante Crisaore, i figli che Medusa ha concepito con Poseidone.

Le sorelle della Gorgone si destano e cercano di inseguire Perseo, ma l’elmo l’ha reso invisibile e l’eroe fugge in groppa a Pegaso, portando con sé la testa di Medusa rinchiusa in un sacco.
Secondo altre versioni del mito, dal sangue di Medusa si originò l’anfesibena (mitico serpente con due teste, dotato di occhi che rilucono come lampade) e alcune alghe pietrificate, al contatto con la sua testa, si trasformarono in corallo (o “gorgonia”).

Il mito di Perseo e la morte di Medusa sono ripresi da Calvino per simboleggiare la leggerezza: Perseo indossa sandali alati e decapita Medusa sostenendosi a ciò che vi è di più leggero, venti e nuvole; inoltre, l’eroe evita la visione diretta della Gorgone: osserva la sua immagine riflessa nel suo scudo.
Le immagini di leggerezza non finiscono qui. Dal sangue di Medusa nasce Pegaso: dalla pesantezza della pietra si manifesta l’opposto, la leggerezza di un cavallo alato.

Calvino recupera il mito di Medusa e Perseo e nel complesso rapporto che li lega individua diversi richiami alla leggerezza, come la delicatezza con cui l’eroe si prende cura della testa della Gorgone che è uno strumento così potente tanto che Perseo la usa con grande efficacia contro i suoi nemici, ma al contempo è molto fragile e l’eroe la posa con gentilezza quando deve abbandonarla temporaneamente per svolgere delle faccende.

Ma il vero miracolo della leggerezza si manifesta nella mutazione provocata dalla testa di Medusa, posata su ramoscelli marini che vengono trasformati in coralli, così le ninfe, per potersi adornare di coralli, si avvicinano all’orribile testa del mostro e aggiungono alghe e ramoscelli.

In copertina: Pegaso e Crisaore nascono dal corpo di Medusa in un’illustrazione di Edward Burne-Jones

Galleria Vittorio Emanuele II: breve storia del cuore pulsante di Milano

Galleria Vittorio Emanuele II: breve storia del cuore pulsante di Milano

La prima volta che ho visto la Galleria sono rimasta folgorata dalla sua bellezza.
Ci sono tornata più volte e l’incanto non è passato.
L’ho fotografata da molte angolazioni, cercando di strapparle quell’alone di fascino che emana; l’ho immortalata con ogni tempo atmosferico, azzerando le presenze al suo interno o cercando dei soggetti singolari di passaggio: coppiette, agenti in divisa.
Qualche settimana fa mi sono chiesta quale fosse la sua storia e ho fatto alcune interessanti scoperte…

La Galleria Vittorio Emanuele II, a Milano, è una galleria commerciale che unisce piazza Duomo a piazza della Scala.
Al suo interno ospita eleganti negozi e locali; sin dalla sua nascita costituì un ritrovo per la borghesia milanese e per questo fu soprannominata il “salotto di Milano”.
Lo stile della Galleria è neorinascimentale; è tra i più noti esempi di architettura del ferro europea; è il modello della galleria commerciale dell’Ottocento, un luogo all’avanguardia: uno dei primi esempi di centro commerciale ante litteram al mondo.

Nella città di Milano, i passaggi coperti con funzione di portici risalgono all’epoca medievale.
Nel Duecento, Bonvesin de la Riva (1250 ca. – 1313/1315, autore di origine lombarda, probabilmente milanese; ritenuto il padre della lingua lombarda) nel suo trattato “De magnalibus urbis Mediolani” (Meraviglie di Milano, del 1288; scritto in latino e concepito come una cronaca) registrava la presenza di circa sessanta porticati a Milano.
Il destino dei porticati subì una svolta con l’ascesa degli Sforza e successivamente, con la dominazione spagnola: furono progressivamente demoliti, ne sopravvissero pochi.

All’unità d’Italia, Milano giunse priva di quella tradizione di passaggi e porticati che ritroviamo in città come Torino e Bologna; all’epoca, la città poteva vantare solo la galleria De Cristoforis, un passage che rispondeva alle tendenze delle principali capitali europee, dotate di passaggi con copertura in ferro e vetro a scopo commerciale (galerie Vivienne, Parigi; Burlington Arcade, Londra).

Nel 1839, Carlo Cattaneo (1801-1869; patriota, filosofo, politico, politologo, linguista e scrittore italiano) fu uno degli animatori del dibattito che riguardava il rifacimento della zona prospiciente al Duomo. Maturò l’idea di una via che congiungesse la piazza del Duomo con quella della Scala.
All’epoca la piazza davanti al Duomo era piccola e irregolare, e ritenuta indegna della cattedrale della città. Inoltre, c’erano anche problemi di viabilità: il traffico cittadino, in netto aumento, non era più sostenibile, perlomeno mantenendo le strette strade di origine medievale.

Si decise di dedicare la via al re Vittorio Emanuele II per due motivi: l’entusiasmo per l’indipendenza dall’Austria; la speranza di ottenere più facilmente i permessi (si ottenevano con decreto reale) per le espropriazioni necessarie per realizzare l’opera.
La dedica al re è stata collocata sul frontone dell’arco d’ingresso e recita: “A Vittorio Emanuele II. I milanesi”.

I decreti regi per i permessi furono firmati tra il 1859 e il 1860: uno per l’esproprio dei palazzi da demolire; l’altro per la demolizione del coperto dei Figini e del Rebecchino, entrambi occupavano l’attuale piazza Duomo; l’ultimo servì ad autorizzare una lotteria, finalizzata a ottenere i fondi per la costruzione della via.

Il 3 aprile 1860, il Comune di Milano bandì il concorso per edificare la nuova via.
Il progetto iniziale prevedeva una semplice strada porticata e fu istituita una speciale commissione per vagliare i progetti.
Giunsero innumerevoli proposte, tra le quali ne furono scelte 176, esposte successivamente alla Pinacoteca di Brera.
In questa prima occasione, non fu nominato alcun vincitore, ma vennero fornite indicazioni più precise riguardo al progetto e stavolta, prese campo l’idea del passaggio coperto.

Fu indetto un secondo concorso, nel febbraio del 1861; furono valutati 18 progetti, ma anche stavolta, non fu eletto un vincitore.
Tra i progetti, quattro furono ritenuti più meritevoli quelli di: Davide Pirovano, il cui progetto era ispirato all’architettura palladiana; Paolo Urbani, per la scelta di un’architettura eterogenea che combinava forme lombarde e venete; Gaetano Martignoni, per unire le due piazze, aveva proposto una galleria a croce greca; Giuseppe Mengoni, le sue scelte architettoniche si ispiravano ai palazzi comunali del Trecento.

Non avendo ancora trovato il progetto idoneo, fu bandito un terzo concorso, nel 1863.
Stavolta furono considerati solo otto progetti: tre richiesti dalla stessa commissione; cinque presentati spontaneamente. Il vincitore fu Giuseppe Mengoni, al quale furono richieste delle modifiche ad alcune parti del suo progetto.
Mengoni aveva proposto una galleria unica, mentre il progetto finale sarà quello di una galleria a croce, con l’aggiunta di alcuni dettagli stilistici.

Il 7 marzo 1865, il re Vittorio Emanuele II posò la prima pietra della Galleria. La costruzione fu affidata alla società inglese City of Milan Improvements Company Limited.
I lavori, a parte la realizzazione dell’arco trionfale d’ingresso, furono ultimati in meno di tre anni.
Ci furono alcuni problemi, a causa del fallimento della società appaltatrice. Questo fatto allungò i tempi di completamento dei lavori che terminarono nel 1878, quando anche l’arco d’ingresso e i portici settentrionali di piazza Duomo furono terminati.
Mengoni non riuscì a vedere finita la grandiosa opera: morì cadendo da un’impalcatura durante un’ispezione.

Poco tempo dopo l’inaugurazione, la Galleria divenne il luogo di ritrovo preferito dalla borghesia che frequentava i nuovi negozi, i ristoranti e i caffè. Alcuni di questi esercizi commerciali hanno resistito al passare degli anni e sono tuttora in attività.
Sin dalla sua apertura, la Galleria fu dotata di tutte le ultime trovate tecnologiche, come l’illuminazione a gas.
Le lampade sull’ottagono erano accese da un congegno automatico chiamato “rattin” (“topolino” in milanese), una piccola locomotiva che accendeva progressivamente i lumi.

La Galleria non fu solo punto di ritrovo per la borghesia, ma anche centro vitale della politica milanese.
Gli avvenimenti politici di maggior rilievo che la videro protagonista furono: gli scontri tra operai e polizia il 1° maggio del 1890; i conflitti dei moti di Milano che videro il loro culmine con il cannoneggiamento sulla folla ordinato da Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924, generale italiano), nel 1898.

A causa della loro vicinanza, la Galleria e il teatro alla Scala furono da subito legati sia perché quest’ultima costituiva il punto di transito per recarsi a teatro sia perché qui si radunavano cantanti e musicisti che desideravano essere scritturati nei teatri della Lombardia.

A inizi Novecento, la Galleria si impose ulteriormente, diventando un luogo cruciale per la vita mondana e per la scena musicale milanese. Inoltre, fu al centro di tutti gli avvenimenti più importanti della città: eventi culturali, come gli incontri dei futuristi; scontri tra interventisti e neutralisti allo scoppio della I Guerra mondiale; manifestazioni dopo la guerra.
Durante la II Guerra mondiale, la Galleria subì i bombardamenti degli alleati, come il resto della città, e riportò diversi danni: fu distrutta la copertura di vetro, parte della copertura metallica e le decorazioni interne.

La Galleria fu oggetto di diversi restauri nel corso degli anni, gli ultimi, furono piuttosto approfonditi e risalgono al periodo tra marzo 2014 e aprile 2015. In vista dell’Expo, si attuarono tutti i lavori che erano stati trascurati in precedenza e tra i vari interventi c’è quello che ha riportato gli intonaci ai colori originari.

La Galleria ha incontrato il favore di artisti e intellettuali, ispirando rappresentazioni pittoriche e citazioni di vario genere da parte di letterati e scrittori.
Luigi Capuana ne “La Galleria Vittorio Emanuele” dice che “è il cuore della città. La gente vi s’affolla da tutte le parti, continuamente, secondo le circostanze e le ore della giornata, e si riversa dai suoi quattro sbocchi […] Tutte le pulsazioni della vita cittadina si ripercuotono qui”.

Non so voi, ma io mi trovo d’accordo con la conclusione di Mark Twain che nel suo diario di viaggio, “Vagabondo in Italia”, affermò: “Mi piacerebbe viverci per sempre”.

“I Buddenbrook” di Thomas Mann: una complessa partitura fatta di parole

“I Buddenbrook” è il primo romanzo di Thomas Mann, dove l’autore segue le vicende di una famiglia per ben quattro generazioni.
L’opera è una sorta di complessa partitura musicale, dove i personaggi sono gli strumenti. Nella parte finale, lo scrittore, attraverso l’improvvisazione al pianoforte di Hanno, ci fa assaporare in modo concreto la sua grande musica fatta di parole.

Paul Thomas Mann, più conosciuto come Thomas Mann (Lubecca, 6 giugno 1875 – Zurigo, 12 agosto 1955), è stato uno scrittore e saggista tedesco.
All’inizio, la sua vita professionale sembra essere orientata verso il settore commerciale, ma la scrittura è una forte tentazione, tanto che ben presto finirà per dedicarsi solo alla letteratura.
La sua affermazione come scrittore avviene nel primo dopoguerra e, passando di successo in successo, Mann finirà per diventare il massimo rappresentante della letteratura tedesca e nel 1929, vincerà persino il Premio Nobel.

Una delle opere più famose di Thomas Mann è il romanzo, “I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia”, pubblicato nel 1901, è il primo romanzo dello scrittore tedesco.
Nel libro è narrata la progressiva rovina di una famiglia benestante della borghesia mercantile di Lubecca. E la vicenda che si svolge tra il 1835 e il 1877, abbraccia ben quattro generazioni.

Per costruire il complesso intreccio de “I Buddenbrook”, Mann si ispirò alla sua storia familiare e, al contempo, si profuse in letture e studi di opere simili alla sua, che trattavano saghe familiari, ad esempio, Il ciclo de “I Rougon-Macquart” di Émile Zola; le opere di Jonas Lie e Alexander Kielland, che trattavano vicende di famiglie di estrazione borghese. Inoltre, furono di ispirazione anche i libri dei fratelli Jules e Edmond de Goncourt e quelli di Paul Bourget.

Mann consegnò il manoscritto de “I Buddenbrook” il 15 agosto 1900 all’editore Fischer, che lo considerò di lunghezza eccessiva. La prima edizione del romanzo, uscì nell’agosto del 1901.
Il successo dell’opera arrivò più tardi, con la stampa di un’edizione economica che a Lubecca letteralmente spopolò: c’era una forte curiosità, per il fatto che il figlio di un senatore aveva messo in piazza la vita della sua famiglia.

Le novità che Mann introduce con questo romanzo sono: la scrupolosa ricostruzione sociale e il minuzioso approfondimento delle componenti psicologiche dei personaggi.
La storia si dipana in un lungo arco di tempo e, ovviamente, non c’è un solo protagonista. Lo scrittore si sofferma sui vari componenti della famiglia, spostandosi di generazione in generazione, prestando particolare attenzione ad alcuni più che ad altri.

La parte finale de “I Buddenbrook” è ad esempio dedicata quasi completamente ad Hanno, l’ultimo erede maschio della famiglia.
Hanno ha un carattere sensibile, è timido e fragile, tutto l’opposto dell’erede che avrebbe voluto avere suo padre, Thomas Buddenbrook, che considera la spiccata sensibilità dell’animo di suo figlio, una debolezza che si aggiunge a quella fisica.

Uno dei pochi svaghi che Hanno si concede è la musica, suonando il pianoforte di casa.
La musica consente al ragazzo di essere se stesso, di esprimere i più profondi moti del suo animo, soprattutto, quando si concede delle improvvisazioni alla tastiera.

Se il padre cerca inutilmente di instradarlo verso il mondo degli affari, senza riuscirvi, questo tentativo, destinato all’insuccesso, non rappresenta nell’economia del romanzo una sconfitta, bensì una vittoria: perché Hanno segue la sua passione artistica e non si sacrifica alla volontà della famiglia. Questo personaggio è riuscito a raggiungere, a differenza degli altri, una dimensione più alta della vita.

Anche per Thomas Mann la musica aveva una notevole importanza e lo si percepisce dalla cura con cui descrive il monologo sonoro improvvisato da Hanno al pianoforte.
Il ragazzo rimasto solo nel salone dà liberamente sfogo alla sua interiorità e lo scrittore delinea con grande precisione ogni passaggio, dal comparire di una melodia, un tema di breve respiro che si evolve in variazioni sempre nuove, mentre il ritmo incalza.
Seguendo le parole dello scrittore, possiamo quasi udire la musica prendere vita, dipanarsi dalle mani di Hanno.

Se nei primi due terzi del romanzo la musica ha un ruolo secondario, nell’ultimo terzo de “I Buddenbrook”, il soggetto musicale diventa centrale e addirittura fondamentale per gli sviluppi e per la conclusione della storia.

La Notte stellata: Van Gogh, dalla realtà ai paesaggi dell’anima

Notte stellata Van Gogh dalla realtà ai paesaggi dell’anima

Quando dipinse “Notte stellata” Vincent van Gogh non pensava al dieci di agosto, la notte di San Lorenzo, ma il suo quadro a me fa pensare proprio a questa particolare notte, la notte dei desideri e delle stelle cadenti che rivedo nei vortici di luce che riempiono il cielo del suo dipinto.

Per quanto mi riguarda, nulla so con certezza. Ma la vista delle stelle mi fa sognare” (Vincent Van Gogh)

Vincent van Gogh (1853-1890) dipinse la “Notte stellata” (De sterrennacht) nel 1889. Questo famoso dipinto rappresenta un paesaggio notturno di Saint-Rémy-de-Provence e fa parte delle opere che il pittore realizzò durante il suo anno di degenza in una clinica per alienati mentali.
In questo periodo, van Gogh ebbe una intensa fase creativa, dipinse molte opere e al contempo, si affrancò dalla visione impressionista: nei suoi quadri la realtà era rielaborata attraverso l’immaginazione.

La data esatta della realizzazione della Notte stellata non è precisamente definita, si propende per il 19 giugno del 1889, perché l’artista nomina il quadro “un paesaggio con gli ulivi e anche uno studio di un cielo stellato”, in una lettera al fratello Theodorus (1857-1891, antiquario olandese, fratello minore di Vincent). Ma ci sono altre lettere che indicano una data antecedente, come quella che descrive il presunto paesaggio ritratto nel quadro: “Questa mattina dalla mia finestra ho guardato a lungo la campagna prima del sorgere del Sole, e non c’era che la stella del mattino, che sembrava molto grande” (Lettera n. 593 a Theo, 2 giugno 1889).
Facendo tutte le debite osservazioni di natura astronomica e aggiungendo ad esse le deduzioni derivanti dalla corrispondenza del pittore, le date più probabili sono due: il 19 giugno o il 23 maggio.

All’inizio Vincent van Gogh tenne con sé la Notte stellata, poi la inviò al fratello insieme con altri quadri.
L’anno successivo, l’artista si uccise, in un campo di grano maturo. Theo morirà nel 1891 e il dipinto passerà nelle mani della sua vedova, Johanna Gezina van Gogh-Bonger (1862-1925, pittrice olandese), per finire, successivamente, nelle collezioni del poeta Julien Leclercq. Poi il dipinto passò per varie altre mani, fino a giungere al suo ultimo e definitivo approdo: nel 1941, la Notte stellata fu acquistata dal Museum of Modern Art di New York.

Nella Notte stellata, van Gogh dipinse ciò che vedeva dalla stanza del manicomio di Saint-Remy, ma noi, guardandolo, non vedremo un paesaggio reale, bensì, un’interiorizzazione della realtà: l’espressione pittorica del mondo intimo dell’artista, vibrante delle sue emozioni e delle sue paure.

Nel 1888, prima di scegliere l’internamento volontario a Saint-Rémy, Vincent scrisse:
Con un quadro vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica. Vorrei dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui un tempo era simbolo l’aureola, e che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori […]. Ah il ritratto, il ritratto che mostri i pensieri, l’anima del modello: ecco cosa credo debba vedersi” (Vincent van Gogh, Arles, 3 settembre 1888).

In copertina: particolare della “Notte stellata” (De sterrennacht) di Vincent van Gogh, conservato presso il Museum of Modern Art di New York

Se un giorno d’estate una viaggiatrice…

Se un giorno d'estate una viaggiatrice

Mentre si viaggia i pensieri corrono. Non è facile registrare lo stormo di idee che si muovono nella testa, mentre un treno sferraglia. La mente si riempie di sensazioni, di ricordi, di emozioni e, invariabilmente, di considerazioni, quasi filosofiche, che sembrano trovare terreno fertile nel viaggio, nello scorrere rapido dei paesaggi che altro ancora richiamano e altre idee e altre parole creano…

Sono di nuovo sul treno per Milano e la vita mi sembra correre come questo vagone tra l’azzurro del mare e i tetti delle case.

Tutto sembra sfuggire, come i particolari che non riesco a decifrare al di là del finestrino.
Perdiamo sempre qualcosa: i personaggi dei libri che muoiono – sì, muoiono anche loro -; certe abitudini che abbiamo ormai rinserrato nelle nostre giornate, nei mesi trascorsi, negli anni passati.

Bisogna cedere all’evidenza del cambiamento, della mutazione per la mutazione; del moltiplicarsi dei segni nuovi; dell’affacciarsi di cose nuove dentro cose vecchie, come albe e tramonti che ci danno l’illusione che tutto resti uguale, mentre niente è lo stesso, perché se il mondo e le cose che abbiamo attorno non cambiassero, siamo noi, inevitabilmente, a cambiare.

I giapponesi che, sicuramente, sui cambiamenti hanno riflettuto più di noi, hanno addirittura un termine ad hoc, per un specifico tipo di cambiamento: Kaizen (composto da KAI: cambiamento, miglioramento e ZEN: buono, migliore) che significa cambiare in meglio, miglioramento continuo.
Questa parola è stata coniata, nel 1986, da Masaaki Imai (Tokyo, 31 agosto 1930, economista giapponese, consulente sulla gestione della qualità), per illustrare la filosofia di business che sosteneva i successi dell’industria nipponica negli anni Ottanta.

Storia della scrittura #18: tipografi e tipografia rinascimentale

Storia della scrittura: la tipografia rinascimentale

Nel Rinascimento, alcune famiglie di tipografi hanno reso grande quest’arte, lasciando ai posteri un vero tesoro.

In Francia, durante il regno di Francesco I (1494-1547), re amante delle lettere, nasce una dinastia di creatori di caratteri: gli Estienne, una famiglia di tipografi, librai eruditi che hanno svolto la loro attività per ben 160 anni. Furono attivi a Parigi e a Ginevra e divennero famosi, soprattutto per delle edizioni di classici greci e latini di elevata qualità e per i loro lessici monumentali.

Dalla fine del XVI secolo, gli Estienne fanno di Ginevra una capitale dell’editoria europea. Questa famiglia portò avanti una professione che era in grado di superare le divisioni tra: traduzione di opere antiche, erudizione, creazione di caratteri e composizione di nuove opere.

In Olanda invece, Christophe Plantin (1520–1589) che fu nominato “arcitipografo” dal re di Spagna, Filippo II, era un tipografo fiammingo, di origine francese, il quale fece buon uso, nella sua bottega, delle sedici macchine tipografiche che aveva a disposizione e produsse in trentaquattro anni più di millecinquecento opere.

A Leida, ci sono gli Elzévir, un’altra famiglia di editori che operarono nei Paesi Bassi, dal 1580 al 1712.
La loro fortunata attività editoriale era fondata soprattutto sulle edizioni dei classici.
Le edizioni degli Elzévir erano stampate in caratteri stretti su una carta di Angoulême (comune francese, capoluogo del dipartimento della Charente, situato nella regione Nuova Aquitania) molto fine.

Questi sono gli ultimi grandi stampatori del Rinascimento, coloro che hanno preceduto la stampa industriale.

Storia della scrittura #17: spuntano nuovi caratteri tipografici

Storia della scrittura spuntano nuovi caratteri tipografici

La stampa consentì una vera proliferazione di libri in tutto il mondo e contribuì ad allargare l’uso e la conoscenza delle lingue scritte. Novità e tradizione andavano a braccetto: gli stampatori crearono nuovi caratteri, ma imitando le scritture a mano.

Il primo libro stampato con caratteri mobili metallici vide la luce in Cina nel 1390. Da qui, la prodigiosa invenzione della macchina a stampa passò in Europa, dove dal 1462, conobbe una rapida diffusione: da Lione a Norimberga, da Venezia ad Anversa, da Parigi a Praga.

Nel Cinquecento, iniziano a formarsi dinastie di stampatori; nel termine “stampatore” erano racchiuse diverse professionalità: fonditore, incisore e tipografo.

I caratteri ispirati alla scrittura a mano, iniziano a comparire in Italia durante il Rinascimento.
A Venezia, Aldo Manuzio (tra 1449 e 1452 – 1515, editore, grammatico e umanista) inventa la “lettera antiqua” nel tentativo di riprodurre in versione tipografica un’elegante calligrafia; questi caratteri saranno imitati da molti altri stampatori.
Per riprodurre la scrittura a mano, invece, Manuzio assunse come modello la calligrafia di Petrarca e ideò il suo “italico” – un corsivo inclinato.

Un altro interessante studio dei caratteri, costruiti seguendo delle regole precise, lo dobbiamo a Luca Pacioli (1445 ca. – 1517, religioso, matematico ed economista) che incise il “De divina proportione”, un manuale contenente le lettere dell’alfabeto, regolate sulle proporzioni del corpo umano e collocate all’interno di una cornice geometrica.

Intanto, in Francia, si affermano esperienze analoghe: Geoffroy Tory (1480 ca. – 1533, editore-libraio, calligrafo e disegnatore, “imprimeur du Roi” dal 1530) crea lo stile “champfleury” e diventa il decoratore di Simone de Colines (1480 – 1546, uno dei primi stampatori del Rinascimento; attivo a Parigi tra il 1520 ed il 1546) che per comporre utilizza un carattere derivato dalla “lettera antiqua” e successivamente, disegnerà e poi inciderà un carattere greco.

Nel 1540-41, i lavori di De Colines serviranno alla realizzazione del “greco del re”, che Claude Garamond (1480 – 1561, tipografo francese) inciderà, seguendo i modelli del calligrafo cretese Angelo Vergezio. I punzoni per la stampa furono commissionati da Francesco I di Francia (1494 – 1547, figlio di Carlo di Valois-Angoulême e di Luisa di Savoia, fu re di Francia dal 1515 fino alla morte).
Nel 1946, i punzoni insieme alle relative matrici furono classificati come monumenti storici e, attualmente, sono conservati presso l’Imprimerie Nationale (stamperia nazionale; stabilimento tipografico della Repubblica francese, con sede a Parigi).

Garamond realizzò anche dei caratteri romani, ispirati a quelli di Geoffroy Tory che sono considerati, secondo la formula del “champfleury” (trattato di estetica del 1529, importante per la storia della lingua francese e della riforma scrittoria rinascimentale di Geoffroy Tory), un alfabeto che possiede: “l’arte e la scienza della giusta e vera proporzione delle lettere”.

In copertina: Ritratto di Luca Pacioli (1495), attribuito a Jacopo de’ Barbari, museo nazionale di Capodimonte

La bellezza ci salverà solo se sapremo darle il giusto valore

La bellezza ci salverà solo se sapremo darle il giusto valore

In questo periodo, in cui i musei sono chiusi e non è possibile spostarsi per ammirare le meraviglie che ci circondano, credo sia d’obbligo una rapida riflessione sulla bellezza, concetto su cui si discute spesso, ma che ancora è ampiamente sottovalutato o peggio ignorato, nonostante tutte le chiacchiere e le frasi fatte.

In Italia, abbiamo infiniti esempi di bellezza, naturale e paesaggistica, ma anche architettonica. Inoltre, custodiamo, nella miriade di contenitori privilegiati, quali sono i musei delle nostre città, un’incredibile serie di meravigliosi capolavori, tutti da scoprire.

Se non possiamo visitare i musei di persona, possiamo però sostenerli e godere, comunque, delle meraviglie in essi contenute, approfittando delle numerose iniziative a disposizione su internet.

Sono davvero tanti gli eventi a cui partecipare virtualmente, assaporando la bellezza di molte opere d’arte e reperti di ogni genere e in più, apprendendo nozioni utili, a volte curiose, sicuramente importanti, che oltretutto servono anche a farci trascorrere piacevolmente il tempo che siamo costretti a passare in casa.

Il 23 marzo ho assistito online a una spiegazione del quadro “La Primavera” di Botticelli (1444 o 1445-1510).
Ho trovato la lezione a distanza davvero coinvolgente, inoltre, ho avuto un’ulteriore occasione di ammirare da vicino la bellezza straordinaria di questo dipinto, scoprendo al contempo una complessa rete di riferimenti storici e letterari relativi alla genesi di questo capolavoro.

Il video mi ha anche rinfrescato una recente memoria: una visita che ho fatto agli Uffizi nel 2018.
Era da tempo che volevo recarmi in questo museo e tuttora, mi trovo a ripercorrere nel ricordo le magnifiche ore passate in quell’oasi di bellezza.
Due dipinti mi sono rimasti nel cuore: l’Annunciazione di Leonardo e la Primavera di Botticelli.

Gli Uffizi sono assolutamente da visitare anche solo per la struttura che ospita il museo e poi per “perdersi” nelle tantissime sale, dove cose meravigliose sono solo in attesa di stupire l’osservatore.

Tornando alla Primavera di Botticelli, posso dire che sono rimasta impressionata dalla sua bellezza che nessuna riproduzione può eguagliare; inoltre, dal vero, ho potuto cogliere sfumature che neppure le più elaborate macchine fotografiche sono in grado di riprodurre, così come non è possibile provare le stesse emozioni, se non si ha il dipinto di fronte agli occhi.

Sono stata profondamente colpita dal contrasto cromatico tra la parte antistante della rappresentazione, dove sono posti i personaggi e il boschetto che fa loro da sfondo.
L’incredibile uso del colore di Botticelli fornisce alla sua Primavera un singolare senso prospettico e una profondità nella quale sembra di perdersi.

Concludo, ringraziando tutti coloro che lavorano nei musei, per il loro impegno quotidiano a mantenere vivi i luoghi della conoscenza, nonostante le obbligatorie chiusure, e anche per la gioia che ci regalano, con le loro pillole di cultura che ci aiutano ad accrescere e coltivare il senso della bellezza.

Non so se la bellezza ci salverà ma di sicuro ci aiuterà ad affrontare con un certo grado di positività i terribili tempi dettati da questa pandemia.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #16 nasce la tipografia

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon 16 nasce la tipografia

La scrittura finora è stata legata alle capacità di abili artigiani che per svolgere il loro difficile compito impiegavano anni, chini sulla carta a tracciare segni.
Ora, con la rivoluzionaria invenzione della stampa, le cose cambiano profondamente.

Inizialmente, la stampa non fu percepita come un cambiamento determinante, come invece sarà chiaro in tempi successivi, anche perché si cercò di mantenere una continuità con le opere manoscritte: le prime opere a stampa cercavano di emulare il lavoro degli scrivani.

Le pagine stampate prevedevano degli spazi vuoti che sarebbero stati riempiti da un miniatore e la parola d’ordine era: proseguire con la tradizione.
A questo scopo, si studiavano delle lettere maiuscole molto elaborate; si usavano gruppi di caratteri legati fra loro per simulare le legature tipiche della scrittura a mano.
La Bibbia latina stampata da Gutenberg nel 1450 è molto vicina agli esempi manoscritti del suo tempo.

In ogni caso, la stampa non fu una conquista semplice e immediata, bensì fu il risultato di molte invenzioni tecniche.
I cinesi conoscevano i caratteri mobili già dall’XI secolo; era già noto anche il torchio a vite che era usato ancor prima di Gutenberg, per stampare sui tessuti e lisciare e lucidare la carta.

Nel XV secolo si imprimevano lettere e immagini in precedenza incise sul legno; la stampa si otteneva sfregando il verso di un foglio sistemato su legno. La novità introdotta da Gutenberg, rispetto a tale procedimento, fu quella di meccanizzare il processo di stampa.

Il tipografo tedesco, Peter Schöffer o Petrus Schoeffer, (1425 ca.-1503) amico e collaboratore di Gutenberg, trovò il sistema per fondere i caratteri con l’aiuto di una lega di antimonio e piombo.
Gutenberg, invece, intuì le possibilità di un materiale già utilizzato in Cina: la carta.

I cinesi impiegarono diversi materiali prima di pervenire a quello più idoneo per produrre la carta, cioè la fibra di lino che diede i risultati più soddisfacenti.
Il procedimento prevedeva la decomposizione della fibra vegetale mediante macerazione, poi seguivano il lavaggio e la pressatura. La fibra forniva una polpa a cui si aggiungevano acqua e amido e si otteneva così la pasta della carta.

I cinesi non rivelarono il processo usato per ottenere la carta, almeno fino all’VIII secolo, quando lo comunicarono ai vincitori mongoli; da loro poi, passò ai persiani di Samarcanda, successivamente, ne furono informati i commercianti arabi che introdussero la carta in Sicilia e in Spagna.

Nel Duecento, in Europa esistevano già diverse fabbriche di carta che avevano migliorato il procedimento cinese, ma in sostanza, il processo restava quello da loro ideato.
A questo punto, la storia della scrittura si intreccia a doppio nodo con quella della tipografia.