Sono quasi certa che molti bambini siano andati a dormire, almeno una volta, accompagnati dalle parole: “C’era una volta”. Ma forse non tutti sanno che, molte delle fiabe che seguivano queste parole le dobbiamo a due fratelli tedeschi: Jacob e Wilhelm Grimm.
Le fiabe dei fratelli Grimm, note in tutto il mondo, non sono nate allo scopo di dilettare grandi e piccini, ma fanno parte di un’attenta e oculata operazione di recupero di una tradizione, quella tedesca.
L’idea della raccolta fu di Jacob (Hanau, 4 gennaio 1785 – Berlino, 20 settembre 1863) – filologo, linguista e scrittore, nonché professore di lettere e bibliotecario – fratello maggiore di Wilhelm (Hanau, 24 febbraio 1786 – Berlino, 16 dicembre 1859) e richiese ben tre anni di lavoro: dal 1812 al 1815. In questa prima fase del progetto, i due Grimm furono supportati da alcuni amici scrittori: Clemens Brentano (1778 – 1842) e Achim von Arnim (1781 – 1831).
Nella prima edizione, “Kinder und Hausmärchen” (Fiabe per bambini e famiglie), i Grimm pubblicarono anche fiabe francesi, successivamente, le eliminarono, mettendo al loro posto altre di origine germanica. Prima di questa operazione di recupero e trascrizione dei due fratelli tedeschi, le fiabe erano tramandate oralmente, per cui era difficile fornire loro un’attribuzione precisa e anche una datazione corretta.
I due fratelli dedicarono molto tempo ed energie a trascrivere miti e leggende dell’area germanica e questo intenso lavorio li spinse a interessarsi anche al ricco patrimonio favolistico del loro Paese. Le fiabe sono profondamente legate all’oralità, erano tramandate di generazione in generazione attraverso la memoria, ma con l’avvento della carta stampata, questa tradizione rischiava di perdersi. I Grimm sapevano che questo tesoro da preservare era conservato, ormai, esclusivamente nelle campagne, dove le persone anziane erano ancora analfabete e qui, iniziarono il loro lavoro di recupero.
I due fratelli seguirono il loro progetto con animi diversi: Jacob aveva un atteggiamento più scientifico, mentre Wilhelm aveva un approccio più poetico e fantastico. Quasi certamente fu il modo differente di porsi di fronte al progetto che condusse Jacob ad abbandonare l’impresa, subito dopo il deludente esito della prima edizione delle fiabe (1812-1815), invece, il fratello minore, Wilhelm continuò nell’opera, fino a pochi anni prima della morte: l’ultima edizione risale al 1857.
La prima edizione delle fiabe non era adatta ai bambini: le storie contenevano dettagli cruenti e particolarmente realistici. Con il tempo, però, le storie subirono un pesante processo di edulcorazione e depurazione dai particolari truculenti, ciò avvenne, in particolare, con la settima edizione (1857), quando furono tradotte in lingua inglese.
Le ambientazioni delle storie dei fratelli Grimm sono tenebrose e oscure. Si svolgono per la maggior parte in fitte foreste, popolate da creature orribili, come streghe, troll e goblin e, ovviamente, considerata l’atmosfera e i personaggi coinvolti, gli eventi di queste storie hanno come oggetto terribili fatti di sangue. Del resto, tutto questo rispondeva pienamente alla tradizione popolare tedesca.
I Grimm sono ricordati come gli “iniziatori” della germanistica e furono, prima di tutto, due linguisti e filologi. Fuori della Germania sono famosi appunto per la raccolta e la rielaborazione delle fiabe, tra le quali ricordiamo: Cenerentola, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, Hänsel e Gretel, per citare solo le più famose.
La decisione dei Grimm di dedicarsi alla trascrizione delle fiabe tedesche era legata al desiderio di far nascere una identità germanica: all’epoca, la Germania era suddivisa in tanti principati e piccole nazioni che avevano quale unico elemento unificatore la lingua.
Contemporaneamente alla raccolta delle fiabe, i due fratelli tedeschi lavorarono alla redazione di un dizionario, il “Deutsches Wörterbuch”. Composto da 33 volumi ha rappresentato un passo fondamentale per creare la lingua che oggi è il tedesco e tuttora, è ritenuto una delle fonti preminenti per l’etimologia dei vocaboli di questa lingua.
In Italia, le fiabe dei fratelli Grimm uscirono in prima edizione, nel 1897, con il titolo: “Cinquanta novelle”. La casa editrice era la Hoepli. Il libro ebbe un grande successo e fu ristampato diverse volte negli anni successivi: nel 1940, era giunto già alla decima edizione.
In copertina: Cappuccetto Rosso e il lupo in un dipinto di Carl Larsson (1881).
I progressi tecnologici consentono il più delle volte di migliorare le cose e spesso rendono accessibili a un pubblico più vasto beni, in precedenza, destinati solo ai privilegiati. Anche la storia della scrittura vede cambiare il suo corso grazie a una serie di invenzioni.
Da Gutenberg fino al 1783, per stampare i libri si utilizzava il torchio a mano che consentiva una tiratura al massimo di trecento fogli al giorno. Ma proprio nel 1783, Didot aggiunge alla sua macchina da stampa un bancone in ferro e una piastra di rame, ciò gli consentirà di stampare grandi formati; inoltre, nello stesso periodo si appronta la realizzazione di carta in bobine.
Nel 1812, al torchio sono apportati dei miglioramenti: se prima si imprimeva piatto contro piatto, ora al piatto si contrappone un cilindro. Questo nuovo tipo di macchina a stampa è realizzata in Inghilterra da Friedrich Gottlob Koenig (17 aprile 1774 – 17 gennaio 1833), un inventore tedesco. La sua macchina da stampa andava a vapore e lavorava ad alta velocità; il suo rivoluzionario sistema fu realizzato in collaborazione con l’orologiaio Andreas Friedrich Bauer (18 agosto 1783 – 27 Dicembre 1860). Questo nuovo tipo di macchina da stampa poteva produrre fino a 1.100 fogli all’ora ed era in grado di stampare su ambo i lati della carta allo stesso tempo.
Nel 1819, si fa un ulteriore passo in avanti: l’inchiostratura dei rulli diventa automatica. Siamo ormai sulla strada della più grande conquista tipografica dell’Ottocento: la rotativa, un sistema di stampa che prevede l’uso di due elementi cilindrici. Però, bisogna attendere fino al 1846, per vedere realizzata la prima macchina tipografica moderna che fu realizzata a Filadelfia. I suoi numeri sono davvero impressionanti: 95.000 copie l’ora, eppure è trascorso meno di un secolo dalle trecento copie tirate a mano…
Stille Nacht o Silent Night o Astro del Ciel è considerata la canzone simbolo del Natale. Originaria dell’Austria è arrivata in tutto il mondo e quando le sue note risuonano nell’aria, cantate da un solista o da un coro, si sente nell’aria la festa. Si sente che è arrivato Natale.
Stille Nacht, heilige Nacht è uno fra i più famosi canti di Natale al mondo: conta traduzioni in più di 300 lingue e dialetti. Per conoscere la sua storia bisogna risalire al 1816, quando Joseph Mohr (1792-1848), prete salisburghese, all’epoca assistente parrocchiale nella chiesa di Mariapfarr (Lungau, regione di Salisburgo), mise per iscritto le parole di questa commovente canzone, in attesa di trovare chi fosse in grado di musicarle.
Devono trascorrere due anni prima che si verifichi il felice incontro tra testo e musica. Il compositore che rivestì di note il testo di Mohr fu Franz Xaver Gruber (1787-1863), maestro elementare ad Arnsdorf e organista a Oberndorf, il quale compose di getto la musica per questa canzone.
Nel 1816, ancora priva di musica, Stille Nacht fu semplicemente recitata. Mohr aveva scritto quelle parole ispirate per dare conforto e un barlume di speranza alla popolazione, provata dalle recenti guerre napoleoniche e dalla miseria che ne era derivata. Finalmente, nel 1818, il giorno della vigilia di Natale, i versi di Stille Nacht furono anche cantati.
Fu lo stesso Mohr a chiedere a Gruber di mettere in musica le sue parole, per due voci soliste, coro e chitarra. Ciò avvenne il 24 dicembre del 1818, la partitura fu stesa rapidamente e il paroliere la approvò immediatamente. Sembra che la richiesta di questa composizione fosse avanzata al musicista in quanto l’organo della chiesa di San Nicola era guasto e impossibile da sistemare in breve tempo, questo fatto giustificava anche la scelta della chitarra come accompagnamento.
Quindi, la prima esecuzione pubblica in assoluto di Stille Nacht ebbe luogo la notte del 24 dicembre 1818, durante la Messa di Natale, nella chiesa di San Nicola a Oberndorf, presso Salisburgo. La canzone natalizia fu suonata e cantata dai due autori: Mohr cantò la parte del tenore, mentre suonava la chitarra; Gruber eseguì la parte del basso.
Musica e testo furono raccolti da un fabbricante di organi della Zillertal (la maggiore tra le valli laterali della Inntal, nel Tirolo austriaco), Karl Mauracher (1789-1844), che li portò con sé in Tirolo, dove si diffusero rapidamente. Tutti gli anni, dalla regione dello Zillertal, molte persone si spostavano per vendere nei paesi vicini i prodotti dell’artigianato locale e da quel momento, fecero viaggiare anche la musica e le parole di Stille Nacht. In particolare, due famiglie, Strasser e Rainer, diffusero la melodia di Gruber in tutta Europa e poi, nel mondo.
Attualmente, è una delle più celebri canzoni natalizie: più di due miliardi persone la conoscono. Nel 2018, anno cui ricorreva il bicentenario della nascita di Stille Nacht, in Austria sono stati programmati una serie di eventi: una mostra regionale che coinvolgeva 13 località (collegate ai luoghi dove presero vita i versi e dove fu scritta la musica, ma anche dove insegnò Gruber, dove morì e fu sepolto); l’inaugurazione di alcuni musei dedicati al canto; un musical, in lingua inglese composto da John Cardon Debney (1956; compositore e direttore d’orchestra statunitense).
La versione italiana di Stille Nacht è Astro del ciel, pur in una veste diversa, questa emozionante canzone non manca mai di risuonare durante le feste natalizie e di commuovere il pubblico, dovunque sia eseguita, nei luoghi di culto ma anche nelle sale concerto durante il periodo natalizio. Il testo italiano non è una traduzione di quello tedesco, ma è originale, scritto dal prete bergamasco, Angelo Meli (1901-1970).
Testo originale in tedesco
Stille Nacht! Heilige Nacht! Alles schläft; einsam wacht Nur das traute hochheilige Paar. Holder Knab´ im lockigen Haar, Schlafe in himmlischer Ruh! Schlafe in himmlischer Ruh!
Stille Nacht! Heilige Nacht! Gottes Sohn! O wie lacht Lieb´ aus deinem göttlichen Mund, Da uns schlägt die rettende Stund´, Jesus in deiner Geburt! Jesus in deiner Geburt!
Stille Nacht! Heilige Nacht! Die der Welt Heil gebracht, Aus des Himmels goldenen Höhn Uns der Gnaden Fülle läßt seh´n Jesum in Menschengestalt, Jesum in Menschengestalt
Stille Nacht! Heilige Nacht! Wo sich heut’ alle Macht Väterlicher Liebe ergoss Und als Bruder huldvoll umschloss Jesus die Völker der Welt, Jesus die Völker der Welt. Stille Nacht! Heilige Nacht! Lange schon uns bedacht, Als der Herr vom Grimme befreit, In der Väter urgrauer Zeit Aller Welt Schonung verhieß, Aller Welt Schonung verhieß.
Stille Nacht! Heilige Nacht! Hirten erst kundgemacht Durch der Engel Alleluja. Tönt es laut bei Ferne und Nah: Jesus, der Retter ist da! Jesus, der Retter ist da!
Auguri a tutti voi di cuore, che il Natale vi porti gioia e tanta serenità. Buon ascolto!
Quale migliore augurio di Natale per chi ama la letteratura di un cammeo tratto da un’opera di Leonardo Sciascia?
Natale è ormai alle porte, per celebrare questa festa ho scelto un brano tratto da “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia (1921-1989), autore di cui quest’anno si è celebrato il centenario della nascita. Nel testo, alcuni bambini raccontano come hanno trascorso le feste natalizie.
“Le parrocchie di Regalpetra” fu pubblicato nel 1956. Il punto di partenza di quest’opera letteraria è stato un capitolo: “Cronache scolastiche”, uscito autonomamente nel 1955, sul numero 12 della rivista “Nuovi Argomenti” e successivamente incluso nel testo stampato l’anno successivo. Il libro di Sciascia nel suo complesso narra la vita di un paese qualunque della Sicilia e, in particolare, parla della scuola; è suddiviso in parti che si differenziano per l’argomento trattato.
Regalpetra non esiste: è un paese di fantasia. È nato dalla fusione tra il nome Racalmuto (borgo nativo dello scrittore) e il libro di Nino Savarese, “Fatti di Petra”. Sciascia in questo libro racconta le condizioni delle classi povere e descrive le difficoltà che ogni giorno devono affrontare. Nel brano che segue ci troviamo sui banchi di scuola, le feste natalizie sono terminate e un maestro legge i diari che gli allievi hanno scritto come compito a casa.
– Il vento porta via le orecchie – dice il bidello. Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa. I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni. L’aula ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo. Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale: tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette e mezzo e ti-vitti (ti ho visto :un gioco che non consente la minima distrazione); sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo. Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente. In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca: “La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù”. Alcuni hanno scritto, senza consapevole amarezza, amarissime cose: “Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa”. Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre pagandogli il biglietto del cinema… Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato. “La mattina del Santo Natale – scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto”. La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre “per fare la spesa”. Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone. “E così ho passato il Santo Natale”. (tratto da “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia)
Nell’anniversario della morte di Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) voglio dedicare al famoso drammaturgo, scrittore e poeta italiano, scomparso, un breve ricordo, legato a una delle sue novelle: “Il treno ha fischiato”.
Pirandello è stato uno dei più grandi scrittori di novelle. I personaggi delle sue storie hanno sempre a che fare con il male di vivere, con il caso e con la morte. Si tratta di gente comune, il classico vicino della porta accanto, come: sarte, professori, piccoli proprietari di negozi, semplici impiegati che vivono piccole tragedie quotidiane, sconvolti dalla sorte e da drammi familiari.
Negli anni è rimasto sempre vivo in me, il ricordo di un personaggio, di uno di questi poveri cristi che popolano le sue pagine, Belluca, il “computista”, cioè il ragioniere, protagonista della novella: “Il treno ha fischiato”.
Pirandello ci immette subito nel vivo della scena: il viavai di gente che va a visitare il malato e c’è un passaggio di notizie: le diagnosi spicciole sulla salute del poveretto, tra quelli che ritornano dall’ospedale e quelli che stanno andando a saggiare la follia del collega di lavoro. I resoconti sono unanimi: Il povero Belluca è impazzito, dice frasi senza senso; vittima di una sorta di insanabile frenesia, parla di un treno che ha fischiato. Per di più, si è ribellato, lui che era sempre sottomesso, quasi spento; una bestia da soma che si caricava di ogni insulto, di ogni crudele angheria e sopruso, di ogni rimprovero – quasi sempre ingiusto – senza fiatare, senza reagire, come fosse privo di volontà, avvezzo a sopportare tutto, come colui che evangelicamente porge sempre l’altra guancia.
Solo un suo vicino di casa, che è anche il narratore della novella, comprende che in questa singolare rivolta, in questo fraseggiare inconsulto deve esserci un’orditura di fondo, un motivo preciso, una scintilla che deve aver fatto avvampare questa presunta e improvvisa follia. E lo dice in maniera illuminante, con una ineguagliabile metafora: “Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro. ‘Una coda naturalissima’ ” (Luigi. Pirandello, “Tutte le novelle”, RLI CLASSICI).
La spiegazione è semplice: il treno di cui farnetica Belluca che, improvvisamente, nella notte profonda, lui ha sentito fischiare, gli ha aperto gli occhi e le orecchie; quel fischio non è altro che il richiamo della vita, il richiamo del mondo, mondo che ha continuato a esistere al di fuori della menagrama vita condotta dal povero “computista”.
Oggi, 30 novembre, è l’anniversario della nascita di Mark Twain che molti di noi ricordano per le storie del suo scapestrato personaggio, Tom Sawyer. Voglio onorare questo grande scrittore, parlando un po’ di lui, di un suo libro e in particolare, di una scena, tratta da un suo romanzo, che ho letto anni fa ma che ancora mi fa sorridere.
Mark Twain era lo pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens (Florida, 30 novembre 1835 – Redding, 21 aprile 1910), scrittore, umorista, aforista e docente, nonché autore di diversi capolavori della letteratura statunitense del XIX secolo.
Iniziò come giornalista, successivamente, passò a scrivere racconti umoristici. Con il passare degli anni e, dopo aver subito una serie di tragici lutti, diventò un cronista severo, estremamente critico nei confronti delle religioni e sospinto da un pessimismo venato di ironia.
Nella sua attività letteraria, Samuel Langhorne Clemens utilizzò diversi pseudonimi, il più noto è “Mark Twain” che ha un’origine curiosa; deriva da un grido: “by the mark, twain” (dal segno è due tese, cioè, l’acqua è profonda 12 piedi, quindi, era sicuro passare) che, nello slang della marineria fluviale degli Stati Uniti d’America, serviva a indicare la profondità delle acque. La scelta di tale pseudonimo fu una sorta di omaggio, al lungo periodo trascorso dallo scrittore a pilotare battelli a vapore sul Mississippi.
Inoltre, il termine “Mark” è ambivalente perché è anche un nome proprio; “Twain”, invece, è la forma arcaica di “Two” (due). Prima di usare definitivamente questo pseudonimo, lo scrittore ne adoperò altri: fino al 1863, firmò i suoi abbozzi umoristici e fantastici con il nome, “Josh”; utilizzò anche “Thomas Jefferson Snodgrass” e “Sieur Louis de Conte”, quest’ultimo solo per firmare la biografia di Giovanna d’Arco.
Uno dei maggiori meriti di Mark Twain come scrittore fu quello di aver dato vita a una letteratura specificatamente americana: nelle tematiche e nei linguaggi espressivi. Hemingway disse di lui: “tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain, Huckleberry Finn […] Tutti gli scritti Americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza”. Uno dei maggiori talenti che gli è riconosciuto è la sua capacità di tradurre in parole scritte la conversazione colloquiale.
Twain fu autore di molte opere conosciute, come: “Il principe e il povero; “Un americano alla corte di re Artù”; “Vita sul Mississippi”, ma, indubbiamente, i suoi due romanzi più noti, di genere picaresco (da pícaro: briccone, furfante; narrazione in apparenza autobiografica, dove il personaggio principale racconta le proprie avventure dalla nascita alla maturità) sono: “Le avventure di Tom Sawyer” e “Le avventure di Huckleberry Finn”.
Il primo romanzo della serie, “The Adventures of Tom Sawyer”, fu pubblicato nel 1876; è il primo di una serie di libri collegati tra loro: “Le avventure di Huckleberry Finn” (1884); “Tom Sawyer Abroad” (1894); il racconto, “Tom Sawyer Detective” (1896). In tutti e quattro sono narrate le avventure di un ragazzino, Tom Sawyer, per l’appunto, che vive nel sud degli Stati Uniti, negli anni immediatamente antecedenti la guerra di secessione.
Le storie sono ambientate nella cittadina di St. Petersburg – non la cercate: non esiste – in Missouri, sulle rive del grande fiume Mississippi. I personaggi sono ispirati alla vita dello scrittore, ai suoi amici e familiari, come veniamo a sapere da Twain stesso: “la gran parte delle avventure riportate in questo libro sono accadute realmente. Un paio sono esperienze personali, le altre di quei ragazzi che erano a scuola con me. Huck Finn è preso dal vero, e così Tom Sawyer. Tom, però, non nasce da una persona sola: per lui ho messo insieme il carattere di tre ragazzi che conoscevo, il risultato è quindi un’architettura d’ordine composito” (Mark Twain, prefazione dell’autore a “Le avventure di Tom Sayer”, 1876).
Ho letto il romanzo, “Le avventure di Tom Sawyer”, parecchi anni fa e ora, mi resta un vago e diluito ricordo della trama: un ragazzo vivace, a volte un po’ attaccabrighe che passa le giornate a combinare guai, ma dotato di una grande simpatia, di un grande senso dell’avventura e di un’arguzia, davvero senza confini. I ricordi dei dettagli del libro sono annebbiati dal tempo, ma una scena del libro è rimasta – come dice ne “Il mestiere dello scrittore”, Haruki Murakami, “gettando dentro la mente le cose alla rinfusa, quello che deve sparire sparisce, quello che deve restare resta” – impigliata nei miei ricordi: l’imbroglio ben congegnato della staccionata.
Padrone assoluto della scena è Tom, che una ne pensa e dieci ne fa. In questo particolare frangente, il nostro “eroe” è costretto dalla zia Polly a ridipingere una staccionata: una punizione esemplare, per l’ennesimo guaio che ha combinato. La sottile ironia di Mark Twain sembra esplodere nell’incipit, quando descrive l’inizio della giornata – piena di promesse, specie per un ragazzo che vive di avventure – in cui Tom deve subire la punizione e quindi, non potrà godere delle eccellenti condizioni atmosferiche che si preannunciano già dal mattino: “La mattina di sabato era spuntata e l’intero mondo estivo splendeva luminoso e traboccante di vita. Ogni cuore conteneva una canzone e, se il cuore era giovane, la musica scaturiva dalle labbra. Tutti i volti esprimevano allegria, tutti i passi avevano un che di elastico. I carrubi erano in fiore e la fragranza della fioritura colmava l’aria. Verdeggiante vegetazione rivestiva Colle Cardiff, che dominava il villaggio e ne distava abbastanza per sembrare una Terra Promessa, sognante, riposante e invitante”.
Tom entra in questa scena idilliaca, comparendo da un vialetto con un secchio e un pennello. Il ragazzo osserva la staccionata: nove metri di lunghezza per due e settanta di altezza, e la tristezza già gli invade l’animo, soprattutto perché ha saggiato le condizioni della giornata che sarebbe degna di ben altri programmi. Svogliato ma rassegnato inizia a tinteggiare le assi, ma la sua mente già si arrovella per uscire da quell’incubo. Con l’approssimarsi di uno dei suoi amici, il ragazzo intravede già una soluzione al suo problema. Ben arriva saltellando su un piede; ha il cuore leggero e colmo di piacevoli aspettative, e mentre procede, addenta una mela e lancia, a intervalli, un “lungo e melodioso grido di gioia, seguito da un ‘ding dong dong, ding dong dong’ in tono profondo”: sta fingendo di essere un battello a vapore. Dopo uno scambio vivace di battute con Ben Rogers, “proprio il ragazzo, tra tutti quelli del villaggio, le cui prese in giro [Tom] temeva di più” – ci informa Twain – il gioco è fatto.
Tom è un abilissimo manipolatore e ha una mente brillante, specie quando si tratta di evitare un impegno gravoso e magari, di guadagnarci pure qualcosa. Fatto sta che, il nostro novello tinteggiatore di staccionate, riesce a convincere il suo amico, Ben – che, fra parentesi, si sta avviando felicemente a fare una nuotata – a prendere il suo posto e a sgobbare con calce e pennello, per sbrigare il faticoso lavoro in sua vece.
Vale la pena studiare l’astuta strategia messa in atto da Tom per ottenere il suo scopo e, in particolare, l’abilità di Mark Twain nel rappresentare con le parole, il modo sottile con cui il raggiro è messo in pratica. “Tom contemplò per un momento il ragazzo e disse: «Cos’è che chiami lavoro?» «Perché, non è un lavoro, questo?» Tom ricominciò a pitturare, e rispose, con noncuranza: «Be’, forse lo è e forse no. Io so soltanto che si addice a Tom Sawyer.» «Oh, andiamo, non vorrai farmi credere che ti piace?» Il pennello continuò a muoversi. «Se mi piace? Be’, non vedo perché non dovrebbe piacermi. Capita forse ogni giorno, a noi ragazzi, la possibilità di imbiancare a calce una recinzione?» Queste parole fecero apparire la cosa sotto una nuova luce. Ben smise di mordicchiare la mela. Tom passò il pennello, delicatamente, avanti e indietro… indietreggiò di un passo per ammirare l’effetto… aggiunse un tocco qua e uno là… poi tornò a esaminare l’effetto con aria critica, mentre Ben seguiva ogni sua mossa e diventava sempre e sempre più interessato, sempre e sempre più affascinato. Infine disse: «Ehi, Tom, lasciami imbiancare un po’.» Tom rifletteva. Parve sul punto di acconsentire, ma poi cambiò idea: «No, no; credo proprio che non sia possibile, Ben. Vedi, zia Polly ci tiene enormemente a questa recinzione… dà proprio sulla strada, capisci… se si trattasse della recinzione dietro casa non m’importerebbe, e non importerebbe nemmeno a lei. Sì, è tremendamente pignola per quanto concerne questa recinzione; il lavoro deve essere fatto con somma cura; non c’è un ragazzo su mille, forse su duemila, scommetto, che possa pitturarla come deve essere pitturata. «Ah no… eh? Oh, andiamo, lasciami soltanto provare, soltanto per un po’. Se fossi al posto tuo io te lo consentirei, Tom.» «Ben, vorrei lasciarti provare, te lo giuro, ma zia Polly… vedi, Jim voleva pitturarla lui la recinzione, e zia Polly non glielo ha consentito. Voleva pitturarla anche Sid, e lei non ha consentito nemmeno a Sid. Andiamo, non lo capisci in che situazione mi trovo? Se tu dovessi pitturare questa recinzione, e il lavoro non riuscisse bene…» «Oh, storie; starei molto attento. Su, lasciami provare. Senti… ti darò il torsolo della mela.» «Be’, allora… No, Ben, non posso. Ho paura che…» «Te la darò tutta!» Tom consegnò il pennello, con riluttanza sulla faccia, ma alacrità nel cuore. E mentre [il suo amico] […] sgobbava e sudava al sole, l’artista a riposo sedette all’ombra su un barile lì accanto, fece dondolare le gambe, rosicchiò la mela e progettò il massacro di altri innocenti. La materia prima non mancò; altri ragazzi passarono di lì per caso, di tanto in tanto; si avvicinarono per prendere in giro e rimasero a imbiancare a calce. Quando Ben non ne poteva ormai più, Tom aveva barattato la possibilità successiva con Billy Fisher contro un aquilone in buono stato; e quando anche Billy fu sfinito, Johnny Miller pagò lo spasso di pitturare con un topo morto e un pezzo di spago per farlo girare in aria; e così via e così via, un’ora dopo l’altra. E allorché giunse la metà pomeriggio, Tom, che quel mattino era stato un ragazzo afflitto dalla miseria, si rotolava, letteralmente, tra le ricchezze. Oltre alle cose che ho già menzionato, possedeva dodici bilie, parte di uno scacciapensieri, un frammento di bottiglia blu per guardarci attraverso, un rocchetto, una chiave che non avrebbe mai aperto niente, un pezzo di gesso, il tappo di vetro di una caraffa, un soldatino di stagno, due girini, sei petardi, un gattino con un occhio solo, una maniglia di porta in ottone, un collare per cani, ma non il cane, il manico di un coltello, quattro pezzi di buccia d’arancia e un vecchio e malconcio telaio di finestra. Per tutto il tempo era rimasto in ozio divertendosi piacevolmente, in buona e numerosa compagnia, e la recinzione aveva ben tre strati di imbiancatura a calce! Se non fosse rimasto senza calce per imbiancare, avrebbe mandato in bancarotta tutti i ragazzi del villaggio. Tom disse a se stesso che il mondo non era poi così desolato, in fin dei conti. Senza rendersene conto, aveva scoperto una grande legge delle azioni umane, vale a dire che per indurre un uomo o un ragazzo a bramare qualcosa, è necessario soltanto far sì che quella cosa sia difficile da ottenere” (Mark Twain, “Le avventure di Tom Sawyer”)
La scena descritta da Twain non solo è vivace e divertente ma è anche facile da immaginare, quasi fosse lo stralcio della sceneggiatura di un film o magari il testo di un fumetto per ragazzi. Al contempo, dobbiamo fare i complimenti al nostro Tom che, con la sua sottile psicologia, darebbe, oggi, filo da torcere al più abile stratega del marketing.
Avete mai provato a osservare la città dove vivete come se foste dei turisti in vacanza?
Diamo tutti per scontato il luogo dove viviamo. Spesso ci lamentiamo del troppo traffico, della mancanza di servizi; del fatto che non ci siano poi tutte queste meraviglie da vedere o magari sì, ma sono sempre le stesse: ci passiamo davanti tutti i giorni e ormai non ci fanno più nessun effetto.
Eppure… se guardassimo meglio, scopriremmo cose mai notate prima: un dettaglio sopra l’arco di una finestra; un cortile che si apre all’improvviso dietro un portone; una statua quasi invisibile, perché per vederla bisogna alzare gli occhi al cielo.
Pensando alla mia città, che può sembrare priva di attrattiva, mi si stringe il cuore. Nonostante i suoi problemi, la sua mancanza di straordinarie meraviglie da annoverare, resta comunque la mia città, con i suoi ricordi e la sua sottile magia.
Dovremmo vivere la nostra città come una qualsiasi meta di viaggio: quando siamo in vacanza siamo più attenti, più pronti ad accogliere con tutti i sensi i particolari di un luogo sconosciuto.
Le città che visitiamo ci sembrano infinitamente più belle del luogo in cui viviamo, ma in realtà, ogni città ha i suoi misteri da scoprire, le sue piccole meraviglie per cui stupirsi, basta solo aprire bene gli occhi e non lasciare che il pregiudizio, legato all’abitudine, ci renda ciechi di fronte alla bellezza, anche quella che incontriamo ogni giorno.
A volte, sono i racconti degli altri a mostrarci l’invisibile, un po’ come per il Kublai Kan de “Le città invisibili” di Calvino: “Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”.
In Francia, alcuni decenni prima dell’affermarsi dell’Illuminismo, viene fatto il primo valido studio scientifico sui caratteri tipografici, da cui avranno origine una serie di font con un luminoso futuro, tra questi il carattere Romain du Roi.
Mentre in Olanda, il libro continuava a incontrare grande successo; in Francia, il Re Sole (Luigi XIV di Borbone 1638 – 1715), forse infastidito da tanto trionfo, pensò fosse il caso di riformare la stampa francese. Saranno intrapresi studi sulle proporzioni dei font tipografici e nascerà anche un nuovo carattere.
Nel 1692, il ministro, Jean-Baptiste Colbert, incaricò la Commissione Bignon di compilare la “Description des Métiers”, in pratica, un compendio di arti e mestieri. Della commissione facevano parte quattro scienziati: Jean-Paul Bignon (1662 – 1743; capo della commissione), Padre Sébastien Truchet (1657 – 1729), Jacques Jaugeon (1690 – 1710) e Gilles Filleau des Billettes (1634 – 1720).
Uno dei primi compiti della commissione fu occuparsi della stampa e della tipografia. Jaugeon assistette padre Truchet nella creazione del primo sistema di punti tipografici e del “Romain du Roi” (Romano del Re). Essi fissarono la proporzione delle lettere di questo nuovo carattere, da cui è derivato il “Times New Roman”.
Il Re, in quello stesso periodo, aveva fatto costruire l’Ospedale Generale di Parigi (27 aprile 1656), per far imprigionare vagabondi, prostitute, pazzi e poveri; allo stesso modo, in una strana corrispondenza, le lettere, che sarebbero andate a costituire il nuovo alfabeto, furono collocate dietro a delle griglie e inserite in diagrammi. Ogni lettera era inscritta in un quadrato, suddiviso mediante un reticolo, composto da 44 caselle: archetipo della perfezione tipografica.
A questo carattere si ispirarono in molti: Pierre Simon Fournier (1712 – 1768), i Didot e Giovanni Battista Bodoni. Questa iniziativa francese rappresenta il primo studio scientifico di una certa valenza sui caratteri tipografici, ed è anche alla base del concetto di punto tipografico (la prima definizione è del tipografo francese, Pierre Simon Fournier, nel 1737).
Lo studio fatto sui font si rivelò utile anche durante l’Illuminismo. I lettori del Settecento sono cambiati, non desiderano più svagarsi con le letture, ma essere informati. Nasce in questo periodo, L’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert che utilizza tavole tecniche, per illustrare in modo più chiaro gli argomenti di cui tratta; lo stile impiegato è semplice, privo di inutili ghirigori. I caratteri, quindi, in linea con tale pensiero, devono essere altrettanto semplici e facilitare la lettura. A ciò pensano i fratelli Didot che realizzano un carattere, perfettamente, al passo con i tempi.
Il nuovo alfabeto fu disegnato e poi inciso nel 1755, rispettivamente da Francois-Ambroise Didot (1730 – 1804) e da Pierre-Louis Wafflard. I nuovi caratteri sono semplici, di una purezza esemplare. Una costruzione perfettamente bilanciata di pieni e di filetti puliti e taglienti, che faranno di questo carattere il “gioiello” della tipografia francese.
Nel 1716, in Inghilterra, William Caslon (1692/1693 – 1766) disegnò il carattere romano che sarà usato per la Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776. È però Giambattista Bodoni (1740 – 1813) l’imitatore più geniale. Questo ingegnoso italiano creò un carattere che porta il suo nome e si ispira ai “garamond”, che papa Sisto V (1521 – 1590) aveva fatto incidere a Claude Garamond (1480 – 1561) e Guillaume Le Bè (1524 – 1598). Questo carattere ebbe un grande successo. Diffuso in tutta Europa, sarà usato in Inghilterra per stampare i giornali fino alla metà del XX secolo.
La pandemia e il conseguente lockdown mi hanno lasciato una piacevole abitudine, seguire dei corsi online. Qualche mese fa, ho visto delle mini conferenze su “Feltrinelli Education”, la piattaforma digitale di servizi formativi.
Tra le tante esperienze e possibilità offerte, ho scelto di esplorare il “Breve corso sulla letteratura del ‘900” con Paolo Di Paolo, dedicato nello specifico a “Il grande romanzo del ‘900: Proust, Joyce, Woolf”. È stato un viaggio interessante ed emozionante al tempo stesso.
Sono rimasta particolarmente colpita dalla lezione dedicata a Proust e non poche riflessioni ho tratto dalla parte in cui si parla di un personaggio creato da Marcel Proust: Bergotte.
Bergotte è uno scrittore e appartiene alla schiera dei personaggi minori descritti e fatti agire da Proust nella sua À la recherche du temps perdu (“Alla ricerca del tempo perduto”). Nel V volume, intitolato “La prigioniera”, veniamo a sapere che Bergotte sta per morire, ma che non vuole andarsene da questo mondo senza aver rivisto, almeno per una volta, un quadro di Jan Vermeer (1632-1675; pittore olandese), la Veduta di Delft.
È davvero singolare questo desiderio del personaggio proustiano e ci spinge a chiederci: che cosa può contenere di così affascinante questo dipinto, tale da scatenare un desiderio così intenso? E al contempo, che cosa porteremmo via con noi, come ultima cosa da questo mondo, se fossimo al suo posto?
Bergotte ha fatto la sua scelta: porterà con sé un assaggio di bellezza, quell’assaggio è contenuto nel quadro di Vermeer. Non lo interessa l’intero dipinto, bensì un piccolo dettaglio che lo spinge a indugiare, ancora una volta, davanti alla Veduta di Delft.
Proust ci dice che Bergotte muore a causa di una crisi di uremia (stadio terminale dell’insufficienza renale), abbastanza leggera, ma lo scrittore aveva trascurato le prescrizioni del medico che gli aveva consigliato di riposare. Ma Bergotte non può riposare, perché ha letto una recensione di un critico sul quadro di Vermeer, che lui amava particolarmente, ed era convinto di conoscerlo a fondo.
Nella recensione c’è segnalato che “una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa”.
Così, Bergotte, mangia un po’ di patate, esce di casa e si dirige dritto filato alla mostra, dove è esposto il Vermeer. Già nel fare questi primi passi, si sente mancare. Entrato nelle sale della mostra, scorre rapidamente davanti agli altri dipinti, ricavandone un’impressione di inutilità e aridità; finché non giunge davanti al dipinto che è venuto a rivedere.
Ora, seguendo le indicazioni del critico, Bergotte nota altri particolari, nella Veduta di Delft, cui non aveva prestato attenzione in precedenza, e infine, si sofferma sulla “preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo”. Nonostante i suoi disturbi aumentino in modo preoccupante, lo scrittore è troppo preso dalla meravigliosa vista e insiste a fissare quel piccolo dettaglio, quel minuscolo barlume di giallo, come volesse afferrarlo e portarlo via con sé.
Quella minuta meraviglia dipinta, lo costringe anche a un parallelo con la sua scrittura e gli fa pronunciare: “È così che avrei dovuto scrivere […]. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo”.
Siamo alle ultime battute, Bergotte si rende conto, dall’aumentare dei suoi capogiri, che sta per morire e pensa che “in una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ala di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda”.
Pochi istanti dopo questi pensieri, Bergotte precipita su un divano e da qui finisce a terra. Morto. “Lo seppellirono, ma tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate e sembravano per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione”.
Con queste parole, Proust mette un suggello: è l’arte a renderci immortali. Per cui, Bergotte è morto, ma è più vivo che mai, almeno finché ci saranno lettori che continueranno a stupirsi, leggendo di lui e del suo speciale legame con il dipinto di Vermeer.
Le citazioni sono tratte da Marcel Proust, La prigioniera, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, edizione integrale a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso, condotta sul testo critico stabilito da Jean-Yves Tadié, Newton Compton editori, Roma 2010
La Controriforma mette dei paletti alla diffusione della cultura, per fortuna, stampatori, editori e tipografi trovano un’isola felice dove continuare a svolgere il loro lavoro: l’Olanda. Inoltre, prende campo la riduzione di formato del libro che diventa a tutti gli effetti un tascabile, consentendo una più rapida diffusione della cultura.
Alla fine del ’500, l’Olanda protestante accolse stampatori e tipografi, e rappresentò un rifugio per il libro, di fronte all’avanzata delle tendenze repressive della Controriforma e dell’Inquisizione. Intanto dal 1550, gli eruditi passano dal latino – utilizzato fino a quel momento per stampare i classici greci e latini – alle lingue nazionali.
Gli stampatori erano consapevoli di cosa significasse andare contro gli inquisitori. Avevano ancora ben presente il martirio di Étienne Dolet (1509 – 1546) umanista, poeta ed editore che, accusato di ateismo, perché aveva osato pubblicare Rabelais, Marot e soprattutto, l’ “Enchiridion militis christiani” di Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469 – 1536), fu impiccato e bruciato sul rogo, il 3 agosto del 1546, a Parigi. L’Olanda diventa quindi la patria della letteratura che era proibita in altri luoghi.
In questo periodo prende campo il libro tascabile che consente una maggiore diffusione. L’idea partì da Venezia, con Aldo Manuzio (tra il 1449 e il 1452 – 1515) che già nel 1501 diede il via a una collana di libri (in formato ridotto, conosciuto come in-8° piccolo), nella quale, per la prima volta, fu usato lo stile corsivo che, essendo più compatto, consentì una riduzione del formato.
Manuzio stampò libri in ottavo (un singolo foglio di stampa è piegato in otto, corrisponde a sedici pagine), invece che nei soliti formati in folio (un singolo foglio piegato in due, quattro pagine) e in quarto (un singolo foglio piegato in quattro, otto pagine). Manuzio lo battezzò: enchiridion forma, dall’ “Encheiridion” (che sta in una mano) o Manuale di Epitteto (scritto di filosofia ed etica stoica, compilato dallo scrittore greco-romano, Arriano, discepolo del filosofo greco, Epitteto), uno dei primi libri a essere stampati con questo nuovo formato; leggeri, maneggevoli e facilmente trasportabili.
Questa soluzione rivoluzionaria fu subito adottata dagli Elzevier (celebre famiglia di tipografi, editori e librai), molto attivi in Olanda tra il 1583 e il 1713. Al loro nome è associata una serie di classici latini in piccolo formato, che aiutarono non poco la diffusione della cultura.
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