Proust e Bergotte alla “Recherche” di un’ala di muro giallo

Proust e Bergotte alla "Recherche" di un’ala di muro giallo

La pandemia e il conseguente lockdown mi hanno lasciato una piacevole abitudine, seguire dei corsi online.
Qualche mese fa, ho visto delle mini conferenze su “Feltrinelli Education”, la piattaforma digitale di servizi formativi.

Tra le tante esperienze e possibilità offerte, ho scelto di esplorare il “Breve corso sulla letteratura del ‘900” con Paolo Di Paolo, dedicato nello specifico a “Il grande romanzo del ‘900: Proust, Joyce, Woolf”.
È stato un viaggio interessante ed emozionante al tempo stesso.

Sono rimasta particolarmente colpita dalla lezione dedicata a Proust e non poche riflessioni ho tratto dalla parte in cui si parla di un personaggio creato da Marcel Proust: Bergotte.

Bergotte è uno scrittore e appartiene alla schiera dei personaggi minori descritti e fatti agire da Proust nella sua À la recherche du temps perdu (“Alla ricerca del tempo perduto”).
Nel V volume, intitolato “La prigioniera”, veniamo a sapere che Bergotte sta per morire, ma che non vuole andarsene da questo mondo senza aver rivisto, almeno per una volta, un quadro di Jan Vermeer (1632-1675; pittore olandese), la Veduta di Delft.

È davvero singolare questo desiderio del personaggio proustiano e ci spinge a chiederci: che cosa può contenere di così affascinante questo dipinto, tale da scatenare un desiderio così intenso? E al contempo, che cosa porteremmo via con noi, come ultima cosa da questo mondo, se fossimo al suo posto?

Bergotte ha fatto la sua scelta: porterà con sé un assaggio di bellezza, quell’assaggio è contenuto nel quadro di Vermeer. Non lo interessa l’intero dipinto, bensì un piccolo dettaglio che lo spinge a indugiare, ancora una volta, davanti alla Veduta di Delft.

Proust ci dice che Bergotte muore a causa di una crisi di uremia (stadio terminale dell’insufficienza renale), abbastanza leggera, ma lo scrittore aveva trascurato le prescrizioni del medico che gli aveva consigliato di riposare. Ma Bergotte non può riposare, perché ha letto una recensione di un critico sul quadro di Vermeer, che lui amava particolarmente, ed era convinto di conoscerlo a fondo.

Nella recensione c’è segnalato che “una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa”.

Così, Bergotte, mangia un po’ di patate, esce di casa e si dirige dritto filato alla mostra, dove è esposto il Vermeer. Già nel fare questi primi passi, si sente mancare. Entrato nelle sale della mostra, scorre rapidamente davanti agli altri dipinti, ricavandone un’impressione di inutilità e aridità; finché non giunge davanti al dipinto che è venuto a rivedere.

Ora, seguendo le indicazioni del critico, Bergotte nota altri particolari, nella Veduta di Delft, cui non aveva prestato attenzione in precedenza, e infine, si sofferma sulla “preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo”.
Nonostante i suoi disturbi aumentino in modo preoccupante, lo scrittore è troppo preso dalla meravigliosa vista e insiste a fissare quel piccolo dettaglio, quel minuscolo barlume di giallo, come volesse afferrarlo e portarlo via con sé.

Quella minuta meraviglia dipinta, lo costringe anche a un parallelo con la sua scrittura e gli fa pronunciare: “È così che avrei dovuto scrivere […]. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo”.

Siamo alle ultime battute, Bergotte si rende conto, dall’aumentare dei suoi capogiri, che sta per morire e pensa che “in una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ala di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda”.

Pochi istanti dopo questi pensieri, Bergotte precipita su un divano e da qui finisce a terra. Morto.
Lo seppellirono, ma tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate e sembravano per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione”.

Con queste parole, Proust mette un suggello: è l’arte a renderci immortali. Per cui, Bergotte è morto, ma è più vivo che mai, almeno finché ci saranno lettori che continueranno a stupirsi, leggendo di lui e del suo speciale legame con il dipinto di Vermeer.

Le citazioni sono tratte da Marcel Proust, La prigioniera, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, edizione integrale a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso, condotta sul testo critico stabilito da Jean-Yves Tadié, Newton Compton editori, Roma 2010

In copertina: Veduta di Delft di Jan Vermeer

Storia della scrittura #19: il libro si riduce di formato e diventa tascabile

Storia della scrittura 19 il libro si riduce di formato e diventa tascabile

La Controriforma mette dei paletti alla diffusione della cultura, per fortuna, stampatori, editori e tipografi trovano un’isola felice dove continuare a svolgere il loro lavoro: l’Olanda. Inoltre, prende campo la riduzione di formato del libro che diventa a tutti gli effetti un tascabile, consentendo una più rapida diffusione della cultura.

Alla fine del ’500, l’Olanda protestante accolse stampatori e tipografi, e rappresentò un rifugio per il libro, di fronte all’avanzata delle tendenze repressive della Controriforma e dell’Inquisizione.
Intanto dal 1550, gli eruditi passano dal latino – utilizzato fino a quel momento per stampare i classici greci e latini – alle lingue nazionali.

Gli stampatori erano consapevoli di cosa significasse andare contro gli inquisitori. Avevano ancora ben presente il martirio di Étienne Dolet (1509 – 1546) umanista, poeta ed editore che, accusato di ateismo, perché aveva osato pubblicare Rabelais, Marot e soprattutto, l’ “Enchiridion militis christiani” di Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469 – 1536), fu impiccato e bruciato sul rogo, il 3 agosto del 1546, a Parigi.
L’Olanda diventa quindi la patria della letteratura che era proibita in altri luoghi.

In questo periodo prende campo il libro tascabile che consente una maggiore diffusione.
L’idea partì da Venezia, con Aldo Manuzio (tra il 1449 e il 1452 – 1515) che già nel 1501 diede il via a una collana di libri (in formato ridotto, conosciuto come in-8° piccolo), nella quale, per la prima volta, fu usato lo stile corsivo che, essendo più compatto, consentì una riduzione del formato.

Manuzio stampò libri in ottavo (un singolo foglio di stampa è piegato in otto, corrisponde a sedici pagine), invece che nei soliti formati in folio (un singolo foglio piegato in due, quattro pagine) e in quarto (un singolo foglio piegato in quattro, otto pagine).
Manuzio lo battezzò: enchiridion forma, dall’ “Encheiridion” (che sta in una mano) o Manuale di Epitteto (scritto di filosofia ed etica stoica, compilato dallo scrittore greco-romano, Arriano, discepolo del filosofo greco, Epitteto), uno dei primi libri a essere stampati con questo nuovo formato; leggeri, maneggevoli e facilmente trasportabili.

Questa soluzione rivoluzionaria fu subito adottata dagli Elzevier (celebre famiglia di tipografi, editori e librai), molto attivi in Olanda tra il 1583 e il 1713. Al loro nome è associata una serie di classici latini in piccolo formato, che aiutarono non poco la diffusione della cultura.

Anniversari letterari: Émile Zola, uno scrittore tutto d’un pezzo

Anniversari letterari: Émile Zola, uno scrittore tutto d’un pezzo

Émile Zola fu un grande scrittore che impiegò il metodo scientifico nei suoi romanzi, per analizzare e mettere a nudo la società francese del suo tempo.

29 settembre 1902, muore Émile Édouard Charles Antoine Zola (Parigi, 2 aprile 1840 – Parigi, 29 settembre 1902); figura poliedrica fu: scrittore, giornalista, saggista, critico letterario, ma anche filosofo e fotografo.
È stato uno degli esponenti di maggior spicco del naturalismo. Le sue opere ebbero un enorme successo e sono state tradotte, pubblicate e commentate in tutto il mondo.
La sua attività di scrittore ha lasciato un segno profondo nel mondo letterario francese e molti sono gli studi storici fatti sui suoi romanzi e sulla sua vita.

Tra le sue opere più note citiamo un ciclo di venti romanzi, pubblicati tra il 1871 e il 1893, i “Rougon-Macquart”, dove è descritta la vita di una ricca famiglia, attraverso il suo albero genealogico, e al contempo, è mostrata la storia di un’epoca: dal colpo di Stato di Napoleone III, nel dicembre 1851, fino alla sconfitta di Sedan che condusse la Francia sull’orlo della rovina.

Zola fu un assiduo sostenitore della ricerca della verità che trasfuse nelle sue opere letterarie, applicando il metodo scientifico all’osservazione della realtà sociale. Diede vita a un mondo immaginario di grande potenza ed efficacia che suscitava domande angosciate sulla società. Annotava osservazioni e documentazioni su qualsiasi argomento; illustrò la società del Secondo Impero, mostrandone: la durezza (specie verso i lavoratori); le aberrazioni; i successi.

Lo scrittore non prese posizione solo attraverso i suoi romanzi, ma fece sentire la sua voce di fronte a delle ingiustizie, anche pubblicamente. Negli ultimi anni della sua vita, fu coinvolto nell’affare Dreyfus.
Nel gennaio del 1898, pubblicò sul quotidiano L’Aurore il famoso “J’Accuse… !”, una lettera, diretta al Presidente della Repubblica.

“L’affare Dreyfus” andò così: nel 1894, Alfred Dreyfus, ufficiale di artiglieria dell’esercito francese, fu accusato di essere una spia dei tedeschi e per questo, fu degradato e poi processato e condannato all’ergastolo.
Alcuni intellettuali fecero notare diverse anomalie riguardo alle accuse rivolte all’ufficiale ebreo, ma la voce che si fece sentire più forte di tutte, fu proprio quella di Zola. Nel suo “J’Accuse”, lo scrittore parlava di complotto, di documenti d’accusa falsificati e fece persino i nomi degli ufficiali dell’esercito che avevano architettato la congiura ai danni di Dreyfus. Una congiura che aveva tutto il sapore dell’antisemitismo, in un clima politico avvelenato dalla recente perdita, per opera dell’Impero tedesco di Bismarck, dell’Alsazia e di parte della Lorena.

Per le sue accuse, Zola fu multato e condannato a un anno di carcere, che evitò con l’esilio.
Le sue parole però, avevano scosso le coscienze. Oltre a svelare la verità, ebbero un effetto dirompente: l’edizione de L’Aurore che conteneva la sua lettera, vendette oltre 300.000 copie (di media ne vendeva 20.000 al giorno).
A furore di popolo si ottenne la revisione del processo, ma era ancora lunga la strada per il re-integro e la liberazione di Dreyfus.
Bisogna attendere il 12 luglio del 1906: dopo 11 anni dall’inizio del processo, finalmente, la Corte di Cassazione accolse la richiesta di revisione del processo a carico di Dreyfus. Era ormai chiaro che tutto “l’affaire” era stato un errore giudiziario, una terribile macchinazione messa in piedi solo per individuare un capro espiatorio.

Quando finalmente Dreyfus fu liberato, Zola era già morto, da ben quattro anni (29 settembre 1902).
La sua morte è rimasta un mistero e tuttora, ci si chiede se sia stato un incidente o un omicidio orchestrato dalla Destra reazionaria, proprio per la posizione da lui assunta nell’ “affare Dreyfus”.
Lo scrittore aveva un nutrito numero di nemici: durante la sua esistenza espresse sempre la sua opinione e non accettò compromessi.

La morte di Zola fu archiviata dagli investigatori come morte accidentale, da avvelenamento da monossido di carbonio, dovuta alle esalazioni di una stufa.
Nel 1953, Pierre Hacquin, un farmacista, disse al giornalista Jan Bedel che era stato il fumista, Henri Buronfosse – che lo aveva confessato ad Hacquin – a ostruire intenzionalmente il camino di casa dello scrittore.

Dopo tali rivelazioni, si profilò l’ipotesi di assassinio politico: il farmacista e il fumista facevano parte di un gruppo di nazionalisti antisemiti e reazionari. Buronfosse era però già morto, nel 1928, e non si trovarono sufficienti prove per riaprire il caso.

Zola aveva costruito tutta la sua vita e anche la sua arte sull’onestà intellettuale e non tacque mai di fronte a ciò che riteneva scorretto o ingiusto sia che si trattasse dell’ipocrisia e dell’immoralità della borghesia francese sia che riguardasse questioni artistiche. Si schierò, ad esempio, dalla parte degli Impressionisti e di Manet, mentre schernì i pittori dell’Accademia, con il loro dipinti ammantati di retorica e privi di qualsiasi attinenza con la realtà del tempo.

Non ebbe molti amici, non solo perché non accettava compromessi, ma anche per il suo carattere aspro. Nonostante ciò, alcuni grandi lo apprezzarono e gli furono vicini per tutta la vita: Anatole France (1844-1924), ad esempio, che al suo funerale fece un’orazione commovente ed Édouard Manet (1832-1883), altro amico fedele, che riuscì, in un dipinto, a ritrarre con grande accuratezza il temperamento ombroso di Zola.

P.S. “L’affaire Dreyfus” e il J’Accuse di Zola determinarono la nascita dell’impegno intellettuale.
L’editoriale di Zola fece della parola intellettuale un simbolo dell’impegno civile, un titolo di gloria. Prima dell’affare Dreyfus, invece, “intellettuale” aveva una connotazione negativa: si parlava di “giudizio intellettuale”, come di qualcosa di trascurabile o incomprensibile.

In copertina: particolare del Ritratto di Émile Zola di Édouard Manet (1868)

“I Buddenbrook” di Thomas Mann: una complessa partitura fatta di parole

“I Buddenbrook” è il primo romanzo di Thomas Mann, dove l’autore segue le vicende di una famiglia per ben quattro generazioni.
L’opera è una sorta di complessa partitura musicale, dove i personaggi sono gli strumenti. Nella parte finale, lo scrittore, attraverso l’improvvisazione al pianoforte di Hanno, ci fa assaporare in modo concreto la sua grande musica fatta di parole.

Paul Thomas Mann, più conosciuto come Thomas Mann (Lubecca, 6 giugno 1875 – Zurigo, 12 agosto 1955), è stato uno scrittore e saggista tedesco.
All’inizio, la sua vita professionale sembra essere orientata verso il settore commerciale, ma la scrittura è una forte tentazione, tanto che ben presto finirà per dedicarsi solo alla letteratura.
La sua affermazione come scrittore avviene nel primo dopoguerra e, passando di successo in successo, Mann finirà per diventare il massimo rappresentante della letteratura tedesca e nel 1929, vincerà persino il Premio Nobel.

Una delle opere più famose di Thomas Mann è il romanzo, “I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia”, pubblicato nel 1901, è il primo romanzo dello scrittore tedesco.
Nel libro è narrata la progressiva rovina di una famiglia benestante della borghesia mercantile di Lubecca. E la vicenda che si svolge tra il 1835 e il 1877, abbraccia ben quattro generazioni.

Per costruire il complesso intreccio de “I Buddenbrook”, Mann si ispirò alla sua storia familiare e, al contempo, si profuse in letture e studi di opere simili alla sua, che trattavano saghe familiari, ad esempio, Il ciclo de “I Rougon-Macquart” di Émile Zola; le opere di Jonas Lie e Alexander Kielland, che trattavano vicende di famiglie di estrazione borghese. Inoltre, furono di ispirazione anche i libri dei fratelli Jules e Edmond de Goncourt e quelli di Paul Bourget.

Mann consegnò il manoscritto de “I Buddenbrook” il 15 agosto 1900 all’editore Fischer, che lo considerò di lunghezza eccessiva. La prima edizione del romanzo, uscì nell’agosto del 1901.
Il successo dell’opera arrivò più tardi, con la stampa di un’edizione economica che a Lubecca letteralmente spopolò: c’era una forte curiosità, per il fatto che il figlio di un senatore aveva messo in piazza la vita della sua famiglia.

Le novità che Mann introduce con questo romanzo sono: la scrupolosa ricostruzione sociale e il minuzioso approfondimento delle componenti psicologiche dei personaggi.
La storia si dipana in un lungo arco di tempo e, ovviamente, non c’è un solo protagonista. Lo scrittore si sofferma sui vari componenti della famiglia, spostandosi di generazione in generazione, prestando particolare attenzione ad alcuni più che ad altri.

La parte finale de “I Buddenbrook” è ad esempio dedicata quasi completamente ad Hanno, l’ultimo erede maschio della famiglia.
Hanno ha un carattere sensibile, è timido e fragile, tutto l’opposto dell’erede che avrebbe voluto avere suo padre, Thomas Buddenbrook, che considera la spiccata sensibilità dell’animo di suo figlio, una debolezza che si aggiunge a quella fisica.

Uno dei pochi svaghi che Hanno si concede è la musica, suonando il pianoforte di casa.
La musica consente al ragazzo di essere se stesso, di esprimere i più profondi moti del suo animo, soprattutto, quando si concede delle improvvisazioni alla tastiera.

Se il padre cerca inutilmente di instradarlo verso il mondo degli affari, senza riuscirvi, questo tentativo, destinato all’insuccesso, non rappresenta nell’economia del romanzo una sconfitta, bensì una vittoria: perché Hanno segue la sua passione artistica e non si sacrifica alla volontà della famiglia. Questo personaggio è riuscito a raggiungere, a differenza degli altri, una dimensione più alta della vita.

Anche per Thomas Mann la musica aveva una notevole importanza e lo si percepisce dalla cura con cui descrive il monologo sonoro improvvisato da Hanno al pianoforte.
Il ragazzo rimasto solo nel salone dà liberamente sfogo alla sua interiorità e lo scrittore delinea con grande precisione ogni passaggio, dal comparire di una melodia, un tema di breve respiro che si evolve in variazioni sempre nuove, mentre il ritmo incalza.
Seguendo le parole dello scrittore, possiamo quasi udire la musica prendere vita, dipanarsi dalle mani di Hanno.

Se nei primi due terzi del romanzo la musica ha un ruolo secondario, nell’ultimo terzo de “I Buddenbrook”, il soggetto musicale diventa centrale e addirittura fondamentale per gli sviluppi e per la conclusione della storia.

Storia della scrittura #18: tipografi e tipografia rinascimentale

Storia della scrittura: la tipografia rinascimentale

Nel Rinascimento, alcune famiglie di tipografi hanno reso grande quest’arte, lasciando ai posteri un vero tesoro.

In Francia, durante il regno di Francesco I (1494-1547), re amante delle lettere, nasce una dinastia di creatori di caratteri: gli Estienne, una famiglia di tipografi, librai eruditi che hanno svolto la loro attività per ben 160 anni. Furono attivi a Parigi e a Ginevra e divennero famosi, soprattutto per delle edizioni di classici greci e latini di elevata qualità e per i loro lessici monumentali.

Dalla fine del XVI secolo, gli Estienne fanno di Ginevra una capitale dell’editoria europea. Questa famiglia portò avanti una professione che era in grado di superare le divisioni tra: traduzione di opere antiche, erudizione, creazione di caratteri e composizione di nuove opere.

In Olanda invece, Christophe Plantin (1520–1589) che fu nominato “arcitipografo” dal re di Spagna, Filippo II, era un tipografo fiammingo, di origine francese, il quale fece buon uso, nella sua bottega, delle sedici macchine tipografiche che aveva a disposizione e produsse in trentaquattro anni più di millecinquecento opere.

A Leida, ci sono gli Elzévir, un’altra famiglia di editori che operarono nei Paesi Bassi, dal 1580 al 1712.
La loro fortunata attività editoriale era fondata soprattutto sulle edizioni dei classici.
Le edizioni degli Elzévir erano stampate in caratteri stretti su una carta di Angoulême (comune francese, capoluogo del dipartimento della Charente, situato nella regione Nuova Aquitania) molto fine.

Questi sono gli ultimi grandi stampatori del Rinascimento, coloro che hanno preceduto la stampa industriale.

Storia della scrittura #17: spuntano nuovi caratteri tipografici

Storia della scrittura spuntano nuovi caratteri tipografici

La stampa consentì una vera proliferazione di libri in tutto il mondo e contribuì ad allargare l’uso e la conoscenza delle lingue scritte. Novità e tradizione andavano a braccetto: gli stampatori crearono nuovi caratteri, ma imitando le scritture a mano.

Il primo libro stampato con caratteri mobili metallici vide la luce in Cina nel 1390. Da qui, la prodigiosa invenzione della macchina a stampa passò in Europa, dove dal 1462, conobbe una rapida diffusione: da Lione a Norimberga, da Venezia ad Anversa, da Parigi a Praga.

Nel Cinquecento, iniziano a formarsi dinastie di stampatori; nel termine “stampatore” erano racchiuse diverse professionalità: fonditore, incisore e tipografo.

I caratteri ispirati alla scrittura a mano, iniziano a comparire in Italia durante il Rinascimento.
A Venezia, Aldo Manuzio (tra 1449 e 1452 – 1515, editore, grammatico e umanista) inventa la “lettera antiqua” nel tentativo di riprodurre in versione tipografica un’elegante calligrafia; questi caratteri saranno imitati da molti altri stampatori.
Per riprodurre la scrittura a mano, invece, Manuzio assunse come modello la calligrafia di Petrarca e ideò il suo “italico” – un corsivo inclinato.

Un altro interessante studio dei caratteri, costruiti seguendo delle regole precise, lo dobbiamo a Luca Pacioli (1445 ca. – 1517, religioso, matematico ed economista) che incise il “De divina proportione”, un manuale contenente le lettere dell’alfabeto, regolate sulle proporzioni del corpo umano e collocate all’interno di una cornice geometrica.

Intanto, in Francia, si affermano esperienze analoghe: Geoffroy Tory (1480 ca. – 1533, editore-libraio, calligrafo e disegnatore, “imprimeur du Roi” dal 1530) crea lo stile “champfleury” e diventa il decoratore di Simone de Colines (1480 – 1546, uno dei primi stampatori del Rinascimento; attivo a Parigi tra il 1520 ed il 1546) che per comporre utilizza un carattere derivato dalla “lettera antiqua” e successivamente, disegnerà e poi inciderà un carattere greco.

Nel 1540-41, i lavori di De Colines serviranno alla realizzazione del “greco del re”, che Claude Garamond (1480 – 1561, tipografo francese) inciderà, seguendo i modelli del calligrafo cretese Angelo Vergezio. I punzoni per la stampa furono commissionati da Francesco I di Francia (1494 – 1547, figlio di Carlo di Valois-Angoulême e di Luisa di Savoia, fu re di Francia dal 1515 fino alla morte).
Nel 1946, i punzoni insieme alle relative matrici furono classificati come monumenti storici e, attualmente, sono conservati presso l’Imprimerie Nationale (stamperia nazionale; stabilimento tipografico della Repubblica francese, con sede a Parigi).

Garamond realizzò anche dei caratteri romani, ispirati a quelli di Geoffroy Tory che sono considerati, secondo la formula del “champfleury” (trattato di estetica del 1529, importante per la storia della lingua francese e della riforma scrittoria rinascimentale di Geoffroy Tory), un alfabeto che possiede: “l’arte e la scienza della giusta e vera proporzione delle lettere”.

In copertina: Ritratto di Luca Pacioli (1495), attribuito a Jacopo de’ Barbari, museo nazionale di Capodimonte

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #16 nasce la tipografia

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon 16 nasce la tipografia

La scrittura finora è stata legata alle capacità di abili artigiani che per svolgere il loro difficile compito impiegavano anni, chini sulla carta a tracciare segni.
Ora, con la rivoluzionaria invenzione della stampa, le cose cambiano profondamente.

Inizialmente, la stampa non fu percepita come un cambiamento determinante, come invece sarà chiaro in tempi successivi, anche perché si cercò di mantenere una continuità con le opere manoscritte: le prime opere a stampa cercavano di emulare il lavoro degli scrivani.

Le pagine stampate prevedevano degli spazi vuoti che sarebbero stati riempiti da un miniatore e la parola d’ordine era: proseguire con la tradizione.
A questo scopo, si studiavano delle lettere maiuscole molto elaborate; si usavano gruppi di caratteri legati fra loro per simulare le legature tipiche della scrittura a mano.
La Bibbia latina stampata da Gutenberg nel 1450 è molto vicina agli esempi manoscritti del suo tempo.

In ogni caso, la stampa non fu una conquista semplice e immediata, bensì fu il risultato di molte invenzioni tecniche.
I cinesi conoscevano i caratteri mobili già dall’XI secolo; era già noto anche il torchio a vite che era usato ancor prima di Gutenberg, per stampare sui tessuti e lisciare e lucidare la carta.

Nel XV secolo si imprimevano lettere e immagini in precedenza incise sul legno; la stampa si otteneva sfregando il verso di un foglio sistemato su legno. La novità introdotta da Gutenberg, rispetto a tale procedimento, fu quella di meccanizzare il processo di stampa.

Il tipografo tedesco, Peter Schöffer o Petrus Schoeffer, (1425 ca.-1503) amico e collaboratore di Gutenberg, trovò il sistema per fondere i caratteri con l’aiuto di una lega di antimonio e piombo.
Gutenberg, invece, intuì le possibilità di un materiale già utilizzato in Cina: la carta.

I cinesi impiegarono diversi materiali prima di pervenire a quello più idoneo per produrre la carta, cioè la fibra di lino che diede i risultati più soddisfacenti.
Il procedimento prevedeva la decomposizione della fibra vegetale mediante macerazione, poi seguivano il lavaggio e la pressatura. La fibra forniva una polpa a cui si aggiungevano acqua e amido e si otteneva così la pasta della carta.

I cinesi non rivelarono il processo usato per ottenere la carta, almeno fino all’VIII secolo, quando lo comunicarono ai vincitori mongoli; da loro poi, passò ai persiani di Samarcanda, successivamente, ne furono informati i commercianti arabi che introdussero la carta in Sicilia e in Spagna.

Nel Duecento, in Europa esistevano già diverse fabbriche di carta che avevano migliorato il procedimento cinese, ma in sostanza, il processo restava quello da loro ideato.
A questo punto, la storia della scrittura si intreccia a doppio nodo con quella della tipografia.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #15 i caratteri si evolvono

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon i caratteri si evolvono

Con l’evoluzione dell’editoria manoscritta si assiste nello stesso periodo a un evolversi della materia prima della scrittura: i caratteri.

Dai precedenti caratteri utilizzati, di tipologia carolina, i copisti passano alla scrittura gotica di origine tedesca.
Questo passaggio di consegne è dovuto sia a motivazioni culturali sia a esigenze pratiche: i caratteri gotici erano più stretti di quelli finora impiegati e consentivano un notevole risparmio di spazio.

Per scrivere i caratteri gotici i copisti dovettero attrezzarsi. In concreto, fu necessario modificare gli strumenti di lavoro.
Le penne subirono qualche sostanziale cambiamento, furono tagliate obliquamente e i copisti furono costretti a modificare anche il modo tradizionale con cui impugnavano i loro strumenti: non più di piatto, bensì di lato.

La scrittura gotica, ovviamente, ha risentito dei cambiamenti culturali e artistici, in pratica, la sua nascita non è dovuta a un fenomeno isolato, ma è l’espressione di un’epoca che ha influenzato non solo la forma dei caratteri ma anche l’arte e l’architettura.

Gli archi a ogiva, le volte a crociera che si possono ammirare nelle chiese gotiche non sono altro che rappresentazioni in grande scala dei caratteri gotici usati nella scrittura. Essi, infatti, ripropongono, a modo loro, le stesse forme appuntite e spezzate con un’altrettanto forte componente di spinta verso l’alto.

Intorno al XIV e XV secolo, mentre il Rinascimento è alle porte, in Italia si profila un ulteriore cambiamento di “carattere”. Dalle forme gotiche “appuntite” e strette si passa a forme più rotonde, così ha inizio la scrittura denominata “umanistica”.

Questo nuovo tipo di scrittura prende campo velocemente e prolifera dovunque, proprio mentre accade un evento epocale: l’invenzione della tipografia che per la stampa si avvale di caratteri mobili.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #14 malizie degli scrivani

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon malizie degli scrivani

Gli scrivani non erano dei semplici esecutori senza fantasia, tutt’altro. Il loro mestiere richiedeva una notevole creatività sia quando si trattava di copiare un testo sia quando si dovevano emendare gli errori.

Gli scrivani dovevano avere un’abilità camaleontica in fatto di scrittura. Essere in grado di destreggiarsi da uno stile a un altro, mantenendo una bella grafia a qualsiasi testo stessero lavorando.

Nonostante possedessero notevoli capacità, gli scrivani, anche i più dotati, potevano incorrere in errori. Per questo, le botteghe si premunivano, rivolgendosi a correttori che individuavano gli errori, li segnavano a margine e li corredavano delle correzioni necessarie.

Gli scrivani emendavano gli errori a seconda della gravità:

  • un errore semplice poteva essere risolto con una semplice grattatura della pergamena e poi con una riscrittura sopra la parte cancellata;
  • una parola mancante era inclusa a margine e un dito, opportunamente disegnato, indicava il punto del testo in cui andava posizionata;
  • righe intere o paragrafi mancanti richiedevano una certa malizia per essere integrati. Il testo omesso poteva essere collocato in fondo alla pagina e poi ci si affidava all’illustratore che poteva ad esempio, inserire un personaggio che simulava di risalire fino al punto richiesto.

Con il passare del tempo la formazione degli scrivani era sempre più minuziosa e rigida; alcuni di loro, grazie alla grande maestria che possedevano, riuscivano a produrre dei veri e propri capolavori.

Purtroppo, artigiani e artisti – e ahimè, ben poco è cambiato ai nostri tempi – non erano tenuti in alcuna considerazione sociale e guadagnavano così poco che quelli più abili si affidavano alla Chiesa: una volta entrati nel clero, potevano dedicarsi alla loro arte, liberi da qualsiasi preoccupazione materiale.

Trovare la parola giusta è un’arte: mai accontentarsi di un sinonimo

Trovare la parola giusta è un'arte mai accontentarsi di un sinonimo

Sono rimasta colpita da un’affermazione sulle parole: “Da un punto di vista espressivo non esistono sinonimi in una lingua, ossia, non esistono due parole che si possono considerare identiche o equivalenti“.

Capite che questa affermazione – espressa da Giuseppe Pontiggia nel suo “Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere” – scatena in uno scrittore molti pensieri e fa riflettere sulle responsabilità che investono chiunque abbia fatto della scrittura un mestiere.

La mia formazione musicale, inoltre, mi impone di scegliere le parole anche in base alla loro capacità di generare una sensazione di piacevolezza all’orecchio, ma ovviamente, mi pongo anche il problema del loro significato.

Quanto conosciamo davvero il senso di un termine?
Alcune parole sembrano significare la medesima cosa, ma in realtà ci sono mille sfumature o addirittura un oceano a distanziarle.

Alcuni termini hanno assunto con il tempo delle connotazioni particolari, negative o positive, in base all’uso che ne è stato fatto negli anni, e non solo: ci sono parole che hanno una sottile caratterizzazione e solo chi ha di una data lingua una conoscenza davvero approfondita può conoscerla e apprezzarla.

Io, ad esempio, ho notato che studiando altre lingue si finisce per conoscere meglio la propria; si notano delle singolarità cui non si era prestata attenzione fino a quel momento.

Le parole sono per me fonte di stupore continuo, alcune, se si sonda la loro etimologia, danno vita a scoperte sorprendenti.
Sono convinta, fin qui, che non deluda mai comprendere le parole sempre meglio e usarle in modo sempre più corretto e appropriato.

Questo atteggiamento non solo aiuta a ottenere una scrittura più coinvolgente e adeguata, ma ci consente soprattutto di comunicare in modo più efficace e di farci capire dagli altri: essere accurati con le parole ci rende, sicuramente, delle persone migliori.