Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #7 Il “mistero etrusco”

etruschiAlfabeto simile a quello greco, L’alfabeto etrusco si componeva inizialmente di 26 lettere, ridotte poi a 21-20 lettere.

La scrittura etrusca ha di regola un andamento da destra a sinistra ed è documentata sin dal VII secolo d.C., grazie a brevi iscrizioni sepolcrali e ad alcuni testi più lunghi, come quelli scritti sulla benda che avvolge una mummia del museo di Zagabria, sulla cosiddetta “tegola di Capua”, sulle lamine d’oro rinvenute nel 1964 a Pyrgi.

Il liber linteus di Zagabria, come viene chiamato perché era in origine un libro scritto su tessuto di lino che si leggeva srotolando, fu tagliato in bende e posto a copertura di una mummia egiziana. Portato a Zagabria, dove è tuttora conservato il testo, è stato ricostruito accostando le bende. In sostanza, questo documento è un calendario che indica in quali giorni compiere le offerte religiose per onorare le divinità.

La tegola di Capua risale al V o IV secolo a.C. ed è un testo di carattere religioso, una specie di formulario per i riti funebri.

Le lamine di Pyrgi sono tre documenti incisi su lamine d’oro, rinvenute a Pyrgi (oggi Santa Severa, in provincia di Roma), sono di notevole interesse storico-linguistico per l’archeologia etrusca e sono conservate a Roma, presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

I tentativi d’interpretazione della scrittura etrusca si sono basati su vari metodi.
La grande maggioranza dei testi epigrafici è traducibile, si conoscono vocaboli riferiti alle divinità e al culto: ais (dio); thaur(a) (tomba), phersu (maschera); tin (giorno); zichuch (scrivere), ma il lessico che ne deriva è ridotto a pochi elementi grammaticali sicuri, quindi, i testi più lunghi restano per buona parte oscuri.

Gli Etruschi non usarono un sistema di scrittura uniforme in tutto il territorio da loro occupato: esistono piccole differenze a seconda dell’area geografica.
In origine le frasi venivano scritte senza soluzione di continuità: le parole erano poste una dopo l’altra, senza spazi a separarle, e le lettere erano di forma spigolosa e irregolare.

Dopo il VI secolo a.C., la scrittura si stabilizzò: i tratti erano più regolari, lettere arrotondate e, infine, comparvero dei punti o più raramente dei trattini per separare le parole. Questa sorta di punteggiatura rendeva il testo più semplice da leggere.

La civiltà etrusca ha visto nascere al suo fianco la città di Roma, e i romani hanno imparato molto dai loro vicini, ma dopo un periodo di convivenza pacifica, gli etruschi hanno dovuto arrendersi alla loro avanzata e a quella di altri popoli del nord e del sud Italia, che, gradualmente, li inglobarono sotto il loro dominio.

Tuttavia l’influenza della civiltà etrusca si fece sentire anche dopo la perdita dell’autonomia politica. La cultura, l’amore per il lusso e per le cose belle, i gusti raffinati e alcune pratiche religiose furono trasmesse ai romani, contribuendo al loro sviluppo. La lingua etrusca continuò a essere parlata fino al I secolo d.C. e il suo sistema di scrittura si diffuse in larga parte d’Italia, dando origine a vari alfabeti italici.

Espressioni “intraducibili” della lingua tedesca: l’importanza della parola che identifica una cultura

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Nelle lingue esistono delle espressioni che sono intraducibili o difficilmente traducibili. Tradurre significa “trasporre” o “trasferire” in un’altra lingua, diversa da quella originale, un testo scritto o orale, una parte di esso ma anche una singola parola.

È proprio la traduzione di singole parole o espressioni che spesso risulta difficile se non impossibile. Perché?

Nella lingua tedesca esistono molte parole composte che, per via della loro composizione, sono dense di significato e per questo sono in grado di esprimere un concetto complesso e consentono di entrare in contatto con la ricchezza del vocabolario tedesco. Non si possono tradurre in italiano utilizzando un’espressione ma soltanto con una frase o una parafrasi che tenta di spiegare il concetto alla base della parola o espressione nella lingua di origine.

Di seguito proviamo ad analizzare alcune di queste parole:

Weltschmerz”: letteralmente significa dolore del mondo da “Welt” (mondo) e “Schmerz” (dolore). È stata coniata da un autore tedesco, Richter, per riferirsi al dolore cosmico che provano tutti quegli individui che si rendono conto dell’impossibilità della realtà di soddisfare i bisogni della mente umana. È un sentimento comune e condiviso da molti poeti e autori tra cui Leopardi, Lord Byron e Heinrich Heine.

Torschlußpanik”: è formata dalle parole “Panik” (panico) e “Torschluß” (chiusura del portone) questa parola ha un’origine antica. Infatti nel Medioevo indicava la paura che si provava quando il ponte levatoio veniva sollevato perché si stavano avvicinando i nemici. Ora si utilizza per raccontare quella sensazione che si ha quando ci si rende conto che si sta perdendo l’occasione di realizzare i nostri sogni.

Fernweh”: è formata dalle parole “Fern” (lontano) e “Weh” (qualcosa che provoca dolore, doloroso). Questa espressione nella sua complessità si potrebbe tradurre come una “malinconia” o “nostalgia” per qualcosa di lontano, che si trova in un altro luogo. È un sentimento che provano tutti coloro che desiderano viaggiare, conoscere il mondo nella sua totalità.

Un’altra espressione con un significato simile ma che non esprime nostalgia, bensì un desiderio instancabile di scoprire è “Wanderlust” composta da “wandern” (errare) e “Lust” (voglia) e racconta la voglia di scoprire luoghi lontani, paradisi incontaminati ove fuggire. È talmente significativa che viene utilizzata senza essere tradotta, spesso si dice che qualcuno è affetto dalla sindrome da Wanderlust!

Ed eccoci arrivati a una delle espressioni probabilmente più famose della lingua tedesca, che appartiene al mondo della filosofia. Stiamo parlando della “Weltanschauung”: nella sua composizione apparentemente semplice ovvero “Welt” (mondo) e “Anschauung” (concezione, visione) esprime però un concetto complesso che non è possibile tradurre in italiano o in altre lingue. Questo termine è stato utilizzato per la prima volta dal filosofo Kant ed è stato poi ripreso da altri filosofi e pensatori tra cui Hegel. Esprime una visione, concezione del mondo e può riguardare una persona singola, un gruppo umano o un popolo nel suo insieme. Altri ambiti di studio tra cui la geografia e l’antropologia hanno iniziato ad utilizzare questa espressione nello studio delle società, delle etnie e dei popoli.

È molto interessante cercare di comprendere queste espressioni nella loro complessità.

A volte le abbiamo incontrate ma non ci siamo mai chiesti quale fosse l’origine del loro significato o il loro vero utilizzo.

Naturalmente, come detto, non esiste un traducente non soltanto nella lingua italiana ma in tutte le altre lingue perché questi termini sono peculiari di una lingua e si definiscono “culture-bound” per utilizzare una definizione inglese ovvero strettamente legati alla cultura che permea una lingua e allo stesso tempo a una lingua che permea una cultura.

Vorfreude: la gioia dell’attesa

attesa

Leggendo “Piccolo viaggio nell’anima tedesca” di Vanna Vannuccini e Francesca Predazzi, mi sono imbattuta nella parola: Vorfreude, l’attesa che precede la gioia.
Le autrici sostengono che tale parola per i tedeschi “è quasi una profilassi contro le possibili amarezze della vita. La premonizione che la delusione verrà e che il momento della gioia non sarà quello che ci siamo immaginati. In fondo, perciò, è quasi meglio non provarlo mai“.

Vorfreude ist die schönste Freude, l’attesa della gioia è la gioia più grande, dice il proverbio.

Ho subito pensato a Leopardi.
Vorfreude potrebbe essere il correlativo del Sabato:

Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
(Sabato del villaggio)

È il sabato il giorno più gradito della settimana, perché la felicità può risiedere solamente nell’attesa.

Questa Weltanschauung (concezione del mondo e della vita) condivisa da due nazioni diverse, mi fa ben sperare.
In un’Europa che si è unita sulla carta, ma che ha ancora molta strada da fare per diventare un organismo effettivamente unitario, esistono comunque affinità di “poetica” in cui la Freude diviene il vero momento di gioia e di condivisione, che, per una volta, non è solo… nell’attesa.

Coreografia come scrittura dell’anima

coreografia danza

Le due opposte fazioni si sfidarono con lo sguardo e con la postura, in un silenzio teso, quasi magico. Poi Lisa si mosse, agitò le braccia in gesti ampi e frenetici […].
A turno partirono anche le altre ragazze, con lo stesso movimento […] aggiungendosi una alla volta, finché non furono tutte insieme […].
I ragazzi erano immobili e le osservavano in silenzio.
Le ragazze continuarono a sfidare i ragazzi con movimenti sinuosi delle braccia che si intrecciavano e si scioglievano, creando un complesso tessuto visivo, mentre postura e sguardi comunicavano una forte carica emotiva.
I ragazzi rispondevano, proponendo la loro serie di movimenti molto più audaci […]
Guardandoli si aveva l’impressione di uno strano contrappunto visivo […].
Gli unici suoni erano i passi strisciati sul palcoscenico, i colpi dei piedi che toccavano le tavole di legno del pavimento, quando i ragazzi atterravano dai salti e i suoni secchi prodotti dalle ragazze che scandivano il tempo con colpi ritmici di tacco all’unisono.
La scena in sé aveva qualcosa di affascinante e minaccioso al tempo stesso” (da Segui il cuore di Jillian Moore).

Quando ho scritto questa scena di danza conoscevo già Pina Bausch, avendo fatto danza per diversi anni, ma è solo dopo aver visto un documentario dedicato a questa donna straordinaria che sono rimasta folgorata.

Mi ha colpito in particolare la sua interpretazione coreografica de “La sagra della primavera“, anche se tutti i suoi lavori sono di un’intensità tale da lasciare senza parole l’osservatore.

Nelle sue coreografie i ballerini prima di tutto esprimono se stessi, la loro individualità. I movimenti hanno una forza di penetrazione incredibile sia i gesti singoli portati all’estremo sia i movimenti corali dove gruppi di persone esprimono con gesti identici uno stato d’animo condiviso.

Nei suoi lavori trapelano emozioni molto intense, espresse in gesti a volte esasperati che tendono il corpo dei ballerini fino al limite. Spesso le sue coreografie contemplano movimenti ripetuti all’infinito, in un ciclo disperato e metodico.

Ritmi infernali della musica vengono rappresentati con virtuosismi ritmici, cesure di attesa, dove campeggia un’immobilità o una lentezza esasperata dei movimenti. A volte i ballerini si muovono senza alcun legame l’uno con l’altro, pur essendo compresenti sulla scena. In altri casi il confronto tra soggetti è estraniato e si assiste a una parodia dei classici passi a due, dove il collegamento della coppia si esprime in gesti folli o pieni di frenesia.

L’isterismo di alcune coreografie, il senso di solitudine e incomunicabilità che si percepisce dalle dinamiche dei danzatori in molti lavori della Bausch colpiscono per la loro intensità e per il parallelo che di essi si può fare con le nostre attuali realtà sociali che ci vedono allontanarci sempre di più l’uno dall’altro, mentre i rapporti umani diventano ogni giorno più complessi e difficili da gestire.

Nel documentario c’erano anche spezzoni di interviste e alcune parti in cui Pina Bausch spiegava ai danzatori alcuni movimenti della coreografia. Ascoltando le impressioni dei ballerini e osservando gli insegnamenti della Bausch, ho concluso che lei lavorava con i danzatori per spingerli a far emergere la loro personalità, esortandoli a usare il corpo in modo totale per rivelare i moti dell’anima. Per questo nelle sue coreografie non è più il virtuosismo tecnico a rivelarsi, ma l’espressione portata a livelli altissimi.

Quando ti salta la mosca al naso

 pesca a mosca

Il più delle volte inizio a scrivere partendo da un’immagine sorta in modo spontaneo nella mia mente.

Nel giallo “La firma dell’assassino” ho visualizzato questa scena:

“Lasciati guardare… Sfumature morbide, ali nell’esatta angolazione… perfetta. Ora, possiamo andare a pesca”.
L’uomo posò con delicatezza il piccolo ‘insetto’, un capolavoro di fili e piume, sul tavolo insieme agli attrezzi e poi, fissò la parete tappezzata di ritagli di giornale, alcuni più vecchi, altri più recenti: un muro d’odio allestito con cura e caparbietà.
Ogni tassello era al suo posto, non restava che uccidere.

Mi sono quindi documentata sulla pesca a mosca e soprattutto sulle “mosche”, argomento affascinante e coinvolgente.
Ho passato diverse serate a leggere riviste del settore corredate di immagini molto belle e ho intuito la passione che c’è dietro questo “sport” singolare.

La sfida che pescatore e pesce mettono in atto è davvero intrigante.

Il pescatore a mosca deve usare tutta la sua abilità per convincere il pesce ad abboccare e le mosche artificiali sono solo uno dei tanti stratagemmi che impiega per raggiungere il suo scopo.

Pazienza, passione e una buona dose di astuzia sono alcuni degli elementi che possono condurre a buon fine una giornata passata lungo il fiume.

Dalle mie letture ho concluso che i pesci sono come le persone: ognuno ha il suo carattere e le sue esperienze.
Sono certa che alcuni sono più furbi di altri, più difficili da ingannare e quindi, da catturare. Del resto, la cattura, per i “veri” pescatori a mosca, dura solo pochi istanti: il tempo di una fotografia, da mostrare poi con orgoglio agli amici del circolo.

Ho voluto trasferire alcune di queste qualità nel mio personaggio che ha deciso di uccidere invece che limitarsi a pescare.

Se volete scoprire perché e come finisce questa avventura in giallo, non vi resta che leggere tutta la storia, altrimenti, godetevi questo piccolo cammeo dedicato alla pesca a mosca.

 

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #6 Alfabeto greco: arrivano le vocali

Vaso greco

Tutte le scritture derivate dal fenicio fanno uso di sole consonanti.
In Grecia però, si parla una lingua diversa che non può essere trascritta con gli alfabeti allora esistenti.

Così i Greci prendono a prestito dall’aramaico molti segni (consonanti ignote al greco) per trascrivere le vocali.

Verso il V secolo a.C. esiste già l’alfabeto greco che comprende 24 lettere: 17 consonanti e 7 vocali. Inoltre, questo alfabeto prevede l’uso di maiuscole e minuscole, le prime venivano utilizzate per incisioni su pietra, le seconde per scrivere sui papiri o sulle tavolette di cera.

Dal V-VI secolo a.C., con la scrittura greca compare una letteratura molto ricca e noi siamo gli eredi di quella letteratura e della scrittura che ha consentito di diffonderla.

Il greco ha dato origine a molte scritture, come l’armeno, il copto e il georgiano, ma ha condotto anche alla nascita dell’alfabeto latino, la storia di questo passaggio è complessa e ancora non del tutto chiara, ma è probabile che i Greci, grandi navigatori, possano aver trasmesso la loro scrittura agli Etruschi che vivevano nell’odierna Toscana.

la storia continua…

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #5 Scrittura araba: multiforme e decorativa

Moschea decorazione soffitto

Verso il 650, i primi testi del Corano, vengono trascritti in arabo.

Nel Corano, la scrittura è di per se stessa “scrittura di Dio” e la si onora, senza neppure leggerla né comprenderla.

Come l’ebraico, l’arabo si scrive e si legge da destra a sinistra e ugualmente, non trascrive le vocali. Comprende 18 lettere che associate a dei punti diventano 29.

La caratteristica geniale di questa scrittura è la sua capacità di prestarsi a innumerevoli forme.

Grazie a questa sua singolare caratteristica, la scrittura araba è diventata elemento decorativo essenziale delle moschee e degli altri monumenti e costituisce la base dell’arte degli “arabeschi“.

La calligrafia araba ha conosciuto fino a oggi stili di una varietà infinita e di una fantasia illimitata.

Nelle regioni meridionali dell’Arabia sino all’Etiopia si sono sviluppati molti altri tipi di scrittura, tutti nati dal fenicio e per la maggior parte scomparsi.

Sono sopravvissute solo la scrittura etiopica e quella dei tuaregh: il tifinagh contraddistinta da caratteri dalla forma geometrica.

Caso raro nella scrittura, il tifinagh è appannaggio delle donne e qui, come altrove, possedere la scrittura significa avere un certo potere.

la storia continua…

Parola del giorno: leggerezza

colibri leggerezza

Oggi, camminando tra i miei pensieri sono inciampata sulla “leggerezza”.

Che pesa relativamente poco, che fa sentir poco il suo peso
Così definisce il termine “leggero” il vocabolario Treccani

Calvino, nelle Lezioni americane, tenta di definire la leggerezza che ritiene una caratteristica ben presente nelle sue opere.
Lo scrittore sostiene di aver sottratto peso alle figure umane, ai corpi celesti e alle città, ma soprattutto, ritiene di aver tolto peso alla struttura del racconto e del linguaggio.

Seguendo i suoi suggerimenti si arriva a Montale, a Piccolo testamento, dove la leggerezza assume labili sembianze:
traccia madreperlacea di lumaca/o smeriglio di vetro calpestato

Questi sono solo alcuni esempi letterari legati a questa parola: molti si sono interrogati sul suo significato e hanno cercato di dare risposte o definizioni, magari attraverso complessi trattati filosofici.

Lascio a voi il compito di rintracciare altre impronte della leggerezza nella letteratura, nella filosofia, e perché no, anche in qualche singolare trattato scientifico.

Se facessi diversamente, appesantirei questo post che vuole essere un semplice suggerimento.

Per quanto mi riguarda, io credo che in qualsiasi modo la si rappresenti, la leggerezza sia una conquista, la capacità di sentire le cose che ci circondano senza farsi soffocare da esse, dalla pesantezza delle giornate, dalle fatiche quotidiane e dal dolore.

Ritengo che leggerezza sia la capacità e la certezza di avvertire un barlume di gioia nascosto o lontano; il desiderio che prende corpo senza pesare sull’anima.

Lezioni di creatività #4 Tutto inizia da un’idea!

Idea

Parlare di fumetti per ragionare di tecnica: l’importanza della documentazione.

Mettiamo che abbiate avuto un’idea. E che l’idea sia proprio forte, che ogni volta che tornate a soffermarvi su di lei si arricchisca di particolari nuovi, piuttosto appetibili… È il momento di cominciare a raccogliere materiale. Se i vostri personaggi si muovono sotto la città, guardatevi intorno con molta cura, se vi capita di usare la metropolitana.

Fate ricerche in Internet utilizzando come chiavi di ricerca frasi del tipo tunnel sotto la città o mappe fognarie, ma anche un generico cunicoli, bunker, sopravvivere al 2012. Non ricaverete soltanto informazioni di massima ma, soprattutto, la possibilità di nuovi spunti per la storia che ancora non sapete di possedere.

Questa non sarà una documentazione vera e propria (operazione che farete cercando informazioni molto più mirate) ma il primo nutrimento visivo dello spunto narrativo che dovete sviluppare. Segnatevi sempre le fonti particolarmente ricche, che vi hanno ben impressionato, nonostante, magari, non c’entrino nulla con l’argomento che avete intenzione di trattare: domani sarete felici d’averlo fatto.

PERSONAGGI, NEMICI E SPALLE.

Può darsi che vi sembri strano che io cominci a parlarvi di come si costruisce un personaggio, piuttosto che di come si assembla una storia. In realtà, non lo è. Lo sceneggiatore di fumetti ha solo due sbocchi: o i personaggi (quindi le storie) esistono già o ne crea lui ex-novo. Se l’idea è proporsi come autore/ sceneggiatore (non sempre si ricoprono entrambi i ruoli: nel caso di Diabolik, difficilmente il soggettista è anche sceneggiatore) di un fumetto seriale (l’esempio più diffuso lo abbiamo con i prodotti Sergio Bonelli Editore) la prima operazione da effettuare è studiare il personaggio.

Voglio sperare che a nessuno venga in mente di ripetere certe ignobili figure fatte anni addietro da sedicenti aspiranti sceneggiatori di fumetti che, alla domanda “Quali fumetti leggi?” ebbero il coraggio di rispondere che non ne leggevano perché non avevano tempo. Peggio ancora, qualcuno asseriva candidamente di “voler fare fumetti in attesa di qualcosa di più serio”. Vi risparmio tutta una serie di commenti che mi nascerebbero dal profondo del cuore.

Mettete in conto che, se volete lavorare con un prodotto seriale già esistente, dovrete vedervela con un editor o facente funzioni. Spesso è il responsabile della serie, qualche volta il suo braccio destro, ed è sempre e comunque una rogna (se non proprio una ca-rogna).

Difficilmente è un raccomandato incompetente, superficiale e fatuo, ma questo non migliora la vostra situazione (quella della casa editrice sì): vi scontrerete con un pezzo di granito, spesso altrettanto comunicativo, molto più predisposto a usare il bastone invece della carota. Spazziamo via qualunque ambiguità: LUI HA RAGIONE. Non perché siate in torto voi, ma perché l’editore ha deciso di lasciare a lui facoltà di scelta su autori e storie e su questo investe discrete somme ogni mese.

Nessuno mette in discussione che le idee di un esordiente possano davvero essere buone, deflagranti e innovative, ma difficilmente saranno prese in considerazione: quando ci si avvicina a un personaggio è consigliabile rimanere nei solchi della tradizione, inserendo al massimo un colpo di scena per storia.

Riceverete un sacco di rifiuti.

Anzi, a voler essere onesti i professionisti del settore affermano di aver ricevuto più rifiuti che risposte affermative. Ricordatevelo, quando sarete furiosi (o terribilmente infelici, a seconda di quella che è la predisposizione personale) perché vi avranno cestinato la storia perfetta. Prima riuscirete a dotarvi di una robusta crosta psicologica, meglio sarà; e questo non vi autorizza assolutamente a peccare in senso opposto, cioè a credere di essere sopra chiunque altro e che qualunque rifiuto sia dettato da invidia o manifesta incapacità.

Uno sceneggiatore famoso (rubacchiando un pensiero di Angelo Branduardi rivolto al mondo delle produzioni musicali) ha raccolto in una frase il difficile equilibrio interiore che ci dobbiamo sforzare di raggiungere quando ci esponiamo al giudizio professionale degli altri: “… per affermarsi nel mondo del fumetto è necessario possedere il 20% di talento. Il restante ottanta è questione di carattere, e non sono affatto convinto che ribaltando le proporzioni possiamo ottenere lo stesso risultato”.

In realtà, credo che il ragionamento sia applicabile a qualunque professione creativa; proprio perché si tratta di professioni. Nessuno obbliga uno scrittore a misurarsi col giudizio altrui, ma se si decide di uscire dalla dimensione diaristica o dalle protettive quattro mura della propria stanzetta la faccenda cambia.

Bisogna acquisire GLI STRUMENTI e, specie se ci avviciniamo a un prodotto già esistente come il fumetto seriale, dobbiamo smettere di essere fans e ragionare come autori.

Questo non significa che dovrete smettere di divertirvi.

Solo, se riuscirete a fare le cose per bene e avrete una carriola di fortuna, qualcuno vi pagherà per farlo. Adesso studiamo la costruzione di un personaggio.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #4 L’alfabeto che rivoluzione!

caratteri alfabeto colorati

Scrittura cuneiforme, geroglifici e caratteri cinesi consentono di trascrivere sia parole intere sia sillabe, ma con questi sistemi, scrivere e leggere implica la conoscenza di una grande quantità di segni o caratteri.

Mille anni prima della nascita di Cristo però, si verifica una vera e propria rivoluzione che già si preparava da tempo: l’invenzione dell’alfabeto.

L’alfabeto consente di scrivere tutto con una trentina di segni.
In realtà, anche il nostro alfabeto di ventuno lettere, non traduce tutti i suoni, ma ventuno lettere sono meno: delle diverse centinaia di geroglifici; dei mille caratteri da tenere a mente per un cinese; dei seicento segni cuneiformi assimilati dagli scribi in Mesopotamia.
L’alfabeto, inoltre, allarga le possibilità delle persone di accedere al sapere.

Il primo modello di alfabeto è fenicio.

La scrittura fenicia si diffonde in Grecia, qui vengono ritrovati dei frammenti di argilla, ma non si sa da dove provengano questi caratteri.

L’alfabeto fenicio non ha vocali, solo consonanti.
Essendo mercanti e navigatori, i fenici vengono a contatto con tutti i popoli del bacino del Mediterraneo e grazie a questi scambi, il loro alfabeto si diffonde.

Intorno all’VIII secolo a.C. nel paese di Aram (attuale Siria) compare un alfabeto “aramaico”, simile a quello usato dai Fenici.

Scrittura e lingua aramaica sono importanti perché con esse verranno scritti alcuni libri dell’Antico Testamento. Gran parte di quest’opera però, ci è arrivata in un’altra lingua: l’ebraico. Nella sua forma primitiva, questa scrittura non trascrive le vocali e si legge da destra a sinistra.

L’ebraico quadrato, cioè l’antico ebraico, non si è modificato in modo significativo nel corso dei secoli. Questa scrittura usa accanto alle maiuscole (incise su monumenti e presenti sui sacri rotoli della Bibbia) delle lettere corsive usate nella vita di tutti i giorni.

La storia della scrittura è intrecciata come una saga familiare.

Arabo ed ebraico discendono dal fenicio, ma non conosciamo ancora molto del passaggio dall’uno agli altri.
Agli albori della nostra era, le popolazioni arabe del nord usavano una scrittura che non era più fenicia ma non era ancora araba.

Le prime iscrizioni arabe sono databili attorno al 512-513 d.C.

Nel 622, Maometto fugge dalla Mecca per rifugiarsi a Medina: questa data segna l’inizio dell’Egira, l’era musulmana.

la storia continua…