Riflessioni sulla solitudine: una condizione con cui convivere

altalena vuota

Si rese conto che tutti gli uomini erano così: che ciascuno, ai propri occhi, era perduto e solo. Un’unità che insieme ad altre unità formava una città, ma che pur sempre rimaneva singola e spaurita. Come loro, sul bordo del crepaccio. Se Tom avesse urlato, se avesse chiamato aiuto, a pieni polmoni, sarebbe servito a qualcosa?
Le tenebre potevano inghiottirlo con grande rapidità: un’ondata nera e tutto sarebbe finito. Molto prima dell’alba […]
La constatazione fisica che la vita è solitudine schiacciò il suo corpo, che cominciava a tremare. Anche la mamma era sola, e in quel momento non poteva fare affidamento né sul sacramento del matrimonio né sulla protezione della famiglia, o sulla Costituzione degli Stati Uniti e la polizia della città; non poteva fare affidamento su nient’altro che il suo animo, e là non c’erano che invincibile ripugnanza e il desiderio di abbandonarsi alla paura. In momenti simili il problema è sempre individuale, ed esige soluzioni individuali. Tom doveva accettare di essere solo e procedere da quel punto (“L’estate incantata” di Ray Bradbury).

Oggi pensavo alla solitudine e nella memoria ho recuperato il ricordo di questo passo del libro di Bradbury.
L’autore riesce a farci provare un senso di inquietudine e ci avvolge in una spirale di disperazione di fronte all’ineluttabilità della morte e della solitudine, uniche certezze nella vita di ogni persona.
Anche se siamo circondati da amici, parenti e conoscenti, se ci fermiamo un istante a pensare, ci renderemo conto che siamo soli, che ognuno di noi può ridere, scherzare, prendere parte a conversazioni, ma né cene in compagnia né feste per quanto allegre e divertenti ci potranno allontanare da questa realtà.

Il fatto stesso di esistere, pur in mezzo agli altri, ma di essere un’entità a sé; gli stessi atti di nascere e morire sono compiuti da soli: un sasso lanciato in uno stagno buio, una corsa verso l’ignoto.

Spesso questo senso di solitudine ci schiaccia, ci coglie di sorpresa, alle spalle, come un subdolo assalitore. Ci tormenta e ci avvolge nelle sue spire, senza lasciarci scampo.
Ogni nostro atto vitale è in fondo, la ricerca di riempire questo vuoto, di sentirci meno soli dentro la nostra pelle.

Amare, provare passione per le cose che facciamo sono i nostri amuleti, la nostra redenzione da questo fardello, da questi lacci che a volte, tentiamo, invano, di allentare.

Lo scrittore: un lanciatore solitario. “Per gli scrittori non ci sono panchine”

palla da baseball

Mi sono immersa nella lettura de “Il mestiere dello scrittore” con la stessa fiducia e curiosità con cui avevo affrontato “On Writing” di Stephen King.
Leggere i consigli degli scrittori sulla scrittura è un’esperienza interessante da cui si riemerge più consapevoli e muniti di qualche strumento in più per destreggiarsi nel difficile mestiere di scrivere.

Ingenuità, semplificazione e spontaneità sono, secondo Murakami, essenziali per chi decide di affrontare lo scoglio della scrittura, per chi ha deciso di iniziare a comunicare, scrivendo.

Ho trovato interessante l’osservazione disincantata di Haruki Murakami della sua stessa scrittura e della sua evoluzione nel tempo.
Il suo primo romanzo è stato partorito con assoluta ingenuità (nei confronti del panorama letterario del momento, di cui non sapeva nulla e nella totale ignoranza delle regole da seguire per scrivere un romanzo) ed estrema semplificazione (parole semplici ottenute con un lavoro di sottrazione).

Scrivere il suo primo romanzo per Murakami è stato come, metaforicamente parlando, costruire uno scheletro che nel tempo si è dotato di una muscolatura.
In pratica, per lui, l’esercizio di scrivere è stato un vero e proprio processo di stratificazione e ispessimento; i suoi lavori successivi si sono irrobustiti e sono diventati più complessi, seguendo una sorta di evoluzione fisiologica.

La scrittura, secondo l’autore, nasce da pochi elementi, parole semplici e discorsi semplificati, dove la sottrazione è un’operazione fondamentale.
In seguito, questa struttura andrà ispessita e acquisterà forza ed energia, in modo naturale e, crescendo, con costanza e determinazione, acquisterà concretezza e un certo livello di maturità.

Tutto però deve partire da un impulso puramente interiore.
La gioia spontanea e il senso di libertà che ne consegue, insiti nel gesto di scrivere, devono permeare il lavoro dello scrittore.
Murakami, parlando di questo impulso, fa un esempio che mi ha ricordato due parabole evangeliche: quella del seminatore (Matteo 13,1-23, Marco 4,1-20 e Luca 8,4-15) e quella della casa costruita sulla roccia e la casa costruita sulla sabbia (Matteo 7,21-29), quando dice che chi scrive senza avere dentro di sé questo impulso non combinerà granché, come le piante che non hanno radici saldamente affondate nella terra.

Lo scrittore è un accumulatore di informazioni.
Leggere, senza dubbio, è il primo dovere di un buon scrittore.
La lettura continua e infaticabile è un compito imprescindibile del processo di scrivere.
Inoltre, un esercizio molto importante, per Murakami e non solo per lui, è osservare con attenzione: cose, eventi, persone e riflettere su quanto si è osservato, senza, però, formulare giudizi.

Questa operazione di raccolta del materiale deve essere seguita da un’efficace organizzazione di quanto si è accumulato.
La memoria ovviamente non riesce a ricordare ogni cosa al millesimo, quindi, bisogna operare una selezione, centellinare quanto si è raccolto dal mondo circostante, isolare e poi, conservare dettagli concreti e peculiari, quelli cioè che hanno maggiormente attirato la nostra attenzione, “tanto meglio se inspiegabili, è ovvio. Poco ragionevoli, privi di filo logico, poco convincenti o misteriosi“.
Murakami sostiene che “gettando dentro la mente le cose alla rinfusa, quello che deve sparire sparisce, quello che deve restare resta. A me piace questa selezione naturale della memoria“.
Rimanendo in argomento, Burrhus F. Skinner (psicologo statunitense) definisce cultura “ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto“, quindi, bisogna fidarsi del potere selettivo della nostra mente di conservare solo ciò che è davvero importante, quello che è indispensabile o utile e magari, abbandonare il fedele taccuino su cui normalmente si annota ogni cosa, per lasciare sedimentare i ricordi e filtrare solo ciò resta.

Dal ripostiglio dove sono rinchiusi alla rinfusa i materiali più disparati, bisogna trarre gli elementi che opportunamente composti diano vita a una sorta di magia
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Murakami sostiene di scrivere come se stesse componendo musica, la magia, che dà senso a una storia e la rende meritevole di essere letta, secondo lui, si crea tenendo conto di alcuni preziosi alleati: il ritmo, elemento fondamentale per costruire e tenere in piedi una storia, un ritmo saldo dall’inizio alla fine; l’armonia creata da una serie di accordi molto diversi fra loro; l’improvvisazione, quella dei musicisti jazz che attraverso la libera espressione mettono in gioco tutte le loro capacità tecniche e il gusto musicale.
Secondo Murakami se ritmo e armonia sono ben gestiti si può improvvisare in maniera spontanea. Improvvisare per creare liberamente il proprio suono.

Secondo Murakami si scrive perché si ha il desiderio di farlo, mossi da un interesse genuino, da una forza che permette di superare ogni difficoltà.
In ogni caso, quando l’autore inizia a scrivere un romanzo, è solo. Nessuno lo può aiutare a organizzare il materiale nella sua testa o a trovare le parole giuste per esprimere quello che intende dire. Quello che si è iniziato da soli, si deve portare avanti e completare da soli.
Non si può fare come i giocatori di baseball, che di questi tempi, dopo aver lanciato sette volte, lasciano il posto a un altro e vanno ad asciugarsi il sudore in panchina. Per gli scrittori non ci sono panchine. Una volta iniziata la lunga sfida, devono continuare a lanciare la palla, forse anche quindici, diciotto volte, fino al termine della partita“.

L’interpretazione tra una lingua e un’altra: un esercizio mentale a 360 gradi

welcome lingueQuando mi trovo a lavorare come interprete tra il pubblico c’è sempre qualcuno che mi chiede, stupito: ma come fai a tradurre simultaneamente in un’altra lingua la persona che sta parlando?

Non che io sia un genio, è una domanda che viene posta sia a me che ai miei colleghi 🙂

In effetti spesso me lo chiedo anche io e chissà, forse tutto è iniziato quando grazie alla mia grande curiosità e voglia di esprimermi in altre lingue, ho scoperto che tradurre in simultanea, o meglio interpretare le parole di un’altra persona è qualcosa di davvero unico.

Interpretare è semplicemente ciò che dobbiamo fare quando vogliamo parlare in un’altra lingua: come diceva il mio professore all’università “KISS” ovvero “Keep It Short and Simple” – una grande e semplice raccomandazione che non bisogna mai dimenticare. Se quando traduciamo, interpretiamo e semplifichiamo le frasi, saremo in grado di esprimere il concetto nel modo più chiaro possibile. Interpretare significa entrare nel pensiero dell’oratore che dobbiamo tradurre, comprendere a fondo tutto il contesto che circonda la tematica di cui si sta parlando ma anche il suo background.

Una parte fondamentale dell’interpretazione è legata alla lingua di partenza e a quella di arrivo: ogni lingua infatti ha le sue caratteristiche che si riflettono nell’oratore. Quando dobbiamo interpretare, la nostra mente è come estraniata da ciò che ci circonda e deve svolgere tre funzioni fondamentali: comprendere il senso di quanto l’oratore sta affermando, rielaborare il concetto nella lingua di arrivo e riproporre il tutto con la massima coerenza e chiarezza. Ciò che conta non è tradurre meccanicamente ogni frase detta ma appunto interpretarla per far sì che chi ci sta ascoltando sia perfettamente a suo agio e partecipe.

Per interpretare, conoscere perfettamente la lingua di arrivo e di partenza (lingua madre o lingua straniera) non è sufficiente: non essendo un mero esercizio di traduzione meccanica l’interprete deve mantenere sempre la calma e dominare le paura di sbagliare che come essere umano ha.

Un esempio molto chiaro è quello del tedesco: se dobbiamo interpretare un oratore che sta parlando in tedesco non possiamo parlare “inseguendolo” nel suo ragionamento visto che fino alla fine della frase spesso non conosciamo il verbo che nella maggior parte dei casi è l’ultima parola che ascoltiamo. Inoltre il tedesco è ricco di parole composte e per interpretarne il significato dobbiamo fare un vero e proprio esercizio di comprensione legata al contesto e riformulazione: il nostro atteggiamento deve essere distaccato dalla singola parola ma allo stesso tempo partecipe perché dobbiamo entrare nel concetto che viene espresso.

In conclusione, se vi capita di ascoltare un interprete sappiate che quella persona sta facendo un grandissimo sforzo per trasmettervi il concetto che l’oratore vuole esprimere, creando una connessione tra mondi, storie e background spesso opposti.

Indagare? Un’opera di fede. Singolari figure di detective

Saturno cappello prete

Che cosa ne pensate della figura del sacerdote-investigatore?

A giudicare dalle serie che circolano in televisione, direi che questa singolare figura di detective riscuota un notevole successo sia nei libri che in TV.

Penso alla serie dei gialli con protagonista Padre Brown (tratta dai libri dello scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton), al più recente Don Matteo o ancora,  alla serie inglese Grantchester (tratta dal ciclo di romanzi “The Grantchester Mysteries” di James Runcie) che ha come protagonista un sacerdote anglicano, Sidney Chambers; senza dimenticare poi, altri soggetti le cui storie sono ambientate in periodi storici più remoti.

In effetti, la figura di un sacerdote alle prese con delle indagini poliziesche è un ottimo accostamento: chi può conoscere meglio l’animo umano di un prete abituato ad armeggiare con il materiale umano e allenato a scrutare oltre l’apparenza per arrivare a sondare i lati più oscuri dell’animo umano?

Alla fine, queste storie che hanno come protagonisti investigatori con la tonaca vedono la netta distinzione tra giustizia terrena e giustizia divina.
A un certo punto, le due strade, quella della polizia e quella “ecclesiastica” che indagano si dividono. Entrambi i rappresentanti delle due istituzioni fanno il proprio lavoro: chi vuole assicurare alla legge il criminale e chi vuole redimerlo, ma il viaggio fino al punto dello svelamento è davvero interessante.

Di solito, assistiamo a divertenti scaramucce tra il sacerdote e il rappresentante ufficiale della giustizia, fino a una resa più o meno evidente, di fronte alla soluzione del caso che, ovviamente, viene brillantemente risolta dal detective dilettante (che proprio dilettante non è).
Queste baruffe servono a rendere più interessante la storia, allentano la tensione e offrono spesso spunti comici, donando vivacità alle storie e facendo da riempitivo nei momenti in cui l’indagine langue.

Inoltre, una buona parte di questi sacerdoti, oltre a una notevole intelligenza e astuzia, sono dei tremendi ficcanaso, la loro curiosità li rende ancora più simpatici e quando prendono (in buona fede, per carità) per i fondelli il rappresentante della legge di turno, non possiamo far altro che stare dalla loro parte e sorridere di quanto accade.

In ogni caso, questi preti-investigatori, impiccioni e arguti, agiscono sempre a fin di bene, in fondo, fanno solo la volontà di Dio…

Sehnsucht: parole in tedesco impossibili da tradurre

 SehnsuchtDa quando tanti anni fa ho iniziato a studiare tedesco ciò che mi ha affascinato è stata la grande potenza espressiva di questa lingua, apparentemente considerata fredda o arida da chi non la conosce.

Ciò che mi ha stimolato particolarmente (perché non si finisce mai di imparare) è stata la capacità di questa lingua di essere “assemblata” come un vero e proprio Lego e allo stesso tempo di essere estremamente espressiva e profonda grazie a questa caratteristica.

In questo periodo sto leggendo un libro che si intitola “Anna. Sehnsucht“: l’ho scelto perché ero curiosa di conoscere in che cosa consistesse questo sentimento che prova la protagonista del libro.

Ho imparato a conoscere l’espressione “Sehnsucht” quando studiavo il Romanticismo perché viene da sempre utilizzato per descrivere il sentimento provato dagli esponenti di questo movimento letterario e artistico che erano sempre alla ricerca di qualcosa apparentemente inafferrabile, ineffabile. Ed ecco che entra in gioco questa bellissima, a mio modo di vedere, caratteristica della lingua tedesca: creare parole composte che hanno la capacità di descrivere perfettamente qualcosa ma che non sono traducibili in nessun’altra lingua.

Sehnsucht” infatti è una parola formata da una parte del verbo sich sehnen che significa sia avere nostalgia di qualcosa che desiderare fortemente o meglio anelare a qualcosa. La seconda parola è Sucht, ovvero dipendenza. In una parola il tedesco è stato in grado di racchiudere un concetto che in altre lingue è impossibile da spiegare in una sola parola.

Ma che cos’è quindi la Sehnsucht provata da Anna, la protagonista del libro?
È la voglia, il desiderio di raggiungere un obiettivo per lei imprescindibile, ovvero fuggire dalla sua vita grigia nella DDR per realizzare il suo desiderio: lavorare nella moda. E questo sarebbe stato possibile soltanto fuggendo da Berlino Est.

Penso che ognuno di noi in fondo è “affetto” se così si può dire dalla Sehnsucht così come lo erano i poeti romantici o la stessa Anna… una sensazione a volte ineffabile, incomprensibile che proviamo quando ci troviamo di fronte ad un bellissimo tramonto, al mare o alle montagne innevate: come esseri umani siamo sempre alla ricerca di qualcosa che ci renda felici e ci faccia sentire realizzati. A volte tutto questo si nasconde in un incontro casuale, un’amicizia che si crea sulla base di interessi comuni, un lavoro che ci soddisfa, godere delle piccole cose della vita in una società sempre più frenetica.

Questa Sehnsucht caratterizza anche la mia personalità, ma ho sempre cercato di trasformarla in qualcosa di positivo. La mia curiosità ha trovato un terreno fertile proprio nel tedesco che con le sue tante sfumature mi offre ogni giorno la possibilità di imparare qualcosa e non smettere mai di voler conoscere e sapere. E poi mi ha riservato in questi anni incontri con persone che poi sono diventate amiche e spero lo saranno sempre. Forse perché la mia anima così “sehnsüchtig”, così appassionata riconosce subito le persone che sono sulla stessa lunghezza d’onda.

Libreria Libri e Libri: chiude (anche) la libreria della mia città

Libreria Libri E Libri Falconara

Libreria Libri e Libri, via Flaminia 508 – Falconara Marittima (Ancona)

In questi tempi bisognerebbe istituire una fascia a lutto speciale per ogni libreria che chiude, perché ognuno di questi luoghi “sacri” che è costretto a serrare le porte è indice di una morte, la morte di uno spicchio di cultura.

Se poi a chiudere è la libreria della tua città, se la diligente commessa in quella libreria era diventata tua amica, dopo prolungate e piacevoli soste a cercare nuovi libri da leggere, allora la tragedia è doppia.

I libri sono oggetti personali e chi ti consiglia, giorno dopo giorno, finisce per diventare un’amica, una confidente preziosa, perché deve conoscerti molto bene, altrimenti come potrebbe consigliarti letture che ti faranno sognare o che ti manterranno saldamente con i piedi a terra?

Sembra non si possa fare nulla per queste piccole morti e anche io, purtroppo, non ho soluzioni.
Vorrei solo far riflettere su quanto sta accadendo attorno a noi.

Ci sono segnali netti di uno sfaldamento, di un problema grave di fondo, se a ogni crisi a pagare le spese in prima fila c’è sempre la cultura, come se fosse una cosa superflua, inutile, mentre la cultura è alla base di tutto e quando agonizza e muore sono la nostra identità, la nostra consapevolezza, le nostre possibili realizzazioni future che muoiono con lei.

Un concerto jazz: coinvolgenti narrazioni fatte di note

Manifesto concerti jazz 2017

Ripenso con piacere al concerto jazz di ieri sera, a Falconara presso la scuola Artemusica; ripercorro con la mente le sensazioni che ho provato mentre ascoltavo le melodie dipanarsi.
A tratti il ritmo cullante riportava al lento e inarrestabile movimento delle onde, in altri momenti il ritmo dato da figurazioni puntate creava un’energia scattante, un’elettricità che era impossibile ignorare, quasi una sensazione fisica che si diffondeva seducente dai musicisti al pubblico presente.

Vorrei essere capace di creare un tessuto di parole che possa anche solo lontanamente richiamare l’intreccio sapiente di pianoforte, contrabbasso, batteria e voce del concerto jazz al quale ho partecipato.

Vorrei poter tradurre il basso ostinato del contrabbasso che in un brano ha dato il via alla composizione musicale, trascinando gli altri strumenti in un’elaborata costruzione, dove cascate di note del pianoforte erano sostenute da un ritmo serrato della batteria e la voce di Diana Torto (questo il nome della cantante) si stagliava regina su questo paesaggio sonoro e al tempo stesso si fondeva nella miscela, aggiungendo l’ultimo prezioso elemento per una perfetta narrazione.

Molti degli interventi di Diana Torto erano privi di parole, monosillabi ripetuti e variati a richiamare le sonorità di strumenti jazz; con questo “gioco” la cantante riusciva a creare la meraviglia ineccepibile di un improbabile strumento fatto di corde vocali e anima.

Perché le narrazioni non sono fatte solo di parole, ma anche di tutto quello che si riesce a percepire tra le righe, è quella vibrazione che afferriamo con i sensi e portiamo dentro di noi.
Questa vibrazione a volte è più forte, altre, delicata, ma credo che possa essere compresa a fondo solo con l’anima, un’anima attenta che trasforma sensazioni e intuizioni in pensieri concreti.

Schreiben: ein komplizierter Beruf

Schreiben

(Übersetzung von Daniela Carbini)

Schreiben ist ein komplizierter Beruf.

Man muss so viele Daten wie möglich aus der Umgebung und jeden Gedanken für die Zukunft aufbewahren.
Die Informationen über Natur und Menschen sind unschätzbare Werte, sie sind ein fruchtbarer Boden, aus den wir Geschichten ableiten können, aber es gibt auch die andere Seite der Münze: in diesem weiten Bereich, müssen wir die richtige Wahl treffen.

Neben der Fähigkeit zu beobachten, eine wesentliche Qualität für Schriftsteller, ist es auch notwendig zu filtern, was aus der Außenwelt kommt: Eine weitere Voraussetzung für gutes Schreiben.

Zuallererst wählen man alles was wir jeden Tag durch die Sinne wahrnehmen, dann baut man eine Geschichte, unter Berücksichtigung der Wenden und des allgemeinen Trends. Dann überprüfen wir, was wir zur Verfügung haben: Wir teilen und verfeinern die Sätze und wägt mit Akribie die Wörter ab, mit denen wir uns ausdrücken. Schließlich, bleiben nur die genauen Wörter, die mit Präzision unsere Botschaft dem Leser mitteilen können, auch die Nuancen, die jeden Satz, jedes Wort und sogar jedes Satzzeichen prägen.

Für einen Zeitraum habe ich Gesang gelernt und ich erinnere mich noch an eine Empfehlung meiner Lehrerin über die Lage der Klänge.
Sie sagte, wenn man einen höhen Ton erreicht, muss die Stimme zu einem imaginären Punkt gehen. Je besser wir den Klang an diesen imaginären Punkt richten, desto mehr ist der Klang in der richtigen Lage.
Die Stimme ist ein unscheinbares Wesen in Körper und gültige Bezugspunkte sind erforderlich, um sich zu orientieren. Diese Punkte sind nicht real, aber unser Gehirn verwendet sie, um die Töne zu kontrollieren und sie besser zu stellen.

Warum dieses Beispiel?
Weil ich heute an die unentbehrliche Sorgfalt für gutes Schreiben dachte und ich habe mich diesen unscheinbaren Punkt auf der Stirn als Ziel vorgestellt. Durch diesen Punkt, der als Filter dient, müssen Gedanken, Gefühle gehen um dann eine Geschichte zu werden.

Schreiben ist also der extreme Versuch, ein Kamel durch das Nadelöhr gehen zu lassen.

 

Narrare storie è anche questione di ritmo: prezioso alleato o nemico giurato

metronomo e spartito musicale

Narrare storie è indubbiamente una questione di ritmo.

Di sicuro avrete incontrato, e anche più di una volta, l’amico, il conoscente o il parente simpatico che vuole raccontarvi una barzelletta…

La barzelletta, c’è poco da prenderla sotto gamba, è una storia a tutti gli effetti.
Vi sarà capitato di farvi matte risate oppure di dover ridere a denti stretti, per non offendere il narratore di turno.
Perché non tutti riescono a far ridere?

A parte gli errori classici di chi inciampa, chi anticipa il finale o dimentica elementi essenziali della narrazione, esiste un problema di fondo.
La barzelletta, come qualsiasi storia, per funzionare ha bisogno di alcuni elementi: a volte di un antefatto; certamente, di una serie di eventi che si verificano; infine di una conclusione a effetto.

Però, quello che conta di più è il ritmo.
Credo che la barzelletta sia l’esempio più calzante per parlare di questo elemento fondamentale per la riuscita di una storia.
Ne sanno qualcosa i musicisti che vedono spartiti e partiture costellati di diciture sul ritmo: Allegro, Adagio, Grave, Largo, Presto con fuoco...

I compositori, grazie a questi termini specifici, indicano l’andamento di un brano, il suo umore.
Certo, alcuni Allegri sono più allegri di altri (a volte ci sono indicazioni di tempo con il metronomo). Più o meno precise, queste indicazioni descrivono il ritmo del brano che si va ad eseguire con la voce, con uno strumento o più strumenti insieme.

Pensando al ritmo, mi viene in mente una novella del Decameron di Boccaccio, dove una “madonna Oretta” si trova nelle condizioni di far tacere un cavaliere che sta rovinando una bella storia con il suo pessimo narrare.
La donna, sfruttando la metafora del viaggio, fa tacere con poche parole il molesto narratore: “Messere, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto, per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè“.

Quindi, se vogliamo evitare che chi ci ascolta o ci legge sia trasportato in malo modo dalle nostre parole, dobbiamo considerare con attenzione il ritmo di una storia, rispettare le sue svolte, le sue variazioni in base agli eventi o persino agli umori mutevoli dei personaggi.

Il ritmo, torno a dire, è un elemento indispensabile per scrivere una storia che funzioni.
Pensate ad esempio, alla sensazione di tensione che si prova leggendo certe pagine di un thriller, dove gli eventi si incalzano l’un l’altro o all’opposto, la sensazione distensiva che proviamo leggendo la descrizione di un paesaggio.

Non bisogna mai sottovalutare il ritmo: prezioso alleato se usato in modo corretto, nemico giurato se non si dà ad esso la giusta importanza quando si costruisce una storia.

Finestre: fonte insolita di ispirazione per la scrittura

finestreIeri sera ho visto in TV “Il giovane favoloso“, film dedicato alla figura di Leopardi.
Il giovane poeta era spesso mostrato mentre studiava o scriveva affacciato alla finestra della sua stanza.

Quella finestra e lo scrutare fuori mi hanno fatto ripensare per analogia ad altre finestre famose: “La finestra sul cortile” di Alfred Hitchcock e “La finestra di fronte” di Ferzan Özpetek.

Queste finestre diventano in tutti e tre i casi terreno fertile per l’immaginazione e spunto di ispirazione per costruire storie.
Leopardi ha scritto molte poesie guardando dalla sua finestra di Recanati; il protagonista del film di Hitchcock sospetta che un omicidio sia avvenuto nel palazzo di fronte al suo, mentre uno dei personaggi de “La finestra di fronte” immagina una vita tutta nuova, radicalmente diversa da quella che sta conducendo, semplicemente spiando ciò che avviene fuori dalla sua finestra.

Le persone affacciate alla finestra vera o a quella virtuale della finzione cinematografica hanno altri punti in comune: non solo passano molto tempo davanti a una finestra a osservare la vita degli altri, ma in tutti e tre gli esempi, coesiste la stessa angusta prospettiva.

Leopardi vorrebbe affrancarsi da Recanati e dalla sua ristrettezza, vorrebbe vedere il mondo, tuffarcisi dentro, vivere a pieno la sua appassionata vitalità.
La sua è un’angustia di tipo spirituale e logistica, mentre quella di Jeff, il fotoreporter de “La finestra sul cortile“, è rappresentata dalla sua condizione fisica: una frattura alla gamba sinistra che lo costringe a una forzata immobilità e lo pone davanti alla sua finestra, unico svago di una giornata noiosa: osservare le vite piuttosto variegate dei suoi dirimpettai.
L’angustia di Giovanna, protagonista del film di Özpetek, invece, è di tipo morale. La donna è insoddisfatta del lavoro come contabile in una polleria e anche della sua vita familiare con due figli da crescere e un marito che passa da un lavoro precario all’altro. La sua finestra si apre su quella di Lorenzo, suo dirimpettaio che le fa intravedere una vita migliore, una vita diversa.

Questo ricorrente “tema della finestra” è molto interessante da indagare anche rispetto alla scrittura, perché quando si scrive, il punto di vista o le prospettive da cui ci si pone non sono cosa trascurabile.

La finestra può essere un interessante espediente e una singolare fonte di ispirazione. È una porta sul mondo, anche se inquadra uno spazio ristretto. Questa apertura limitata consente di visionare uno spaccato, anche se angusto, della vita degli altri e può dare vita a storie con insoliti e interessanti risvolti.