Scrittori e investigatori hanno in comune una cosa: non smettono mai di pensare.
La scrittura è un’indagine sempre aperta, una ricerca appassionata di elementi, un lavorio continuo per recuperare materiale. Tutto per produrre una storia, per lo scrittore; per impostare un caso se ci riferiamo all’investigatore.
Qualsiasi narrazione vede la luce dopo un lungo lavoro di accumulo: il nostro cervello non smette mai di immagazzinare informazioni, durante il giorno, ma anche nel corso della notte, attraverso i sogni.
Il lavoro cosciente dello scrittore si basa sulla ricerca di nozioni specifiche su un dato argomento o su spunti in generale, spesso, però, questo lavoro occupa una percentuale inferiore rispetto all’accumulo casuale di notizie e indicazioni che ci arrivano da ogni angolo della nostra vita quotidiana: un dialogo di un film, un articolo postato sui social, la frase di un libro, un concetto espresso da qualcuno.
Anche l’investigatore raccoglie materiali e informazioni e poi, entrambi, quando hanno elementi sufficienti, accostano i pezzi e formulano ipotesi; poi, lo scrittore plasmerà una storia, mentre l’investigatore giungerà alla soluzione del caso; da una parte ci sarà un libro, dall’altra, un colpevole assicurato alla giustizia.
Chi dice che le parole non contano? Le parole contano, eccome.
Le parole hanno potere, specie se arrivano alle orecchie giuste, se vengono comprese in tutta la loro multiforme complessità.
Le parole hanno un’anima, hanno un colore, bruciano e fanno male; a volte, sono un balsamo per il cuore. Usiamole con parsimonia e preferiamo il silenzio a parole vuote o delle quali non siamo sicuri.
Impariamo a cercare le parole giuste: non accontentiamoci di falsi simulacri che non esprimono nulla, di parole dette da altri e con poca convinzione.
Sondiamo il nostro vocabolario e scoviamo quelle che si adattano ai nostri sentimenti e alle nostre emozioni come un guanto che calzi alla perfezione. Ma soprattutto, amiamo le parole che ci permettono di entrare in comunicazione con gli altri, che ci fanno sentire più forti, più giusti, più umani.
Scegliamo con cura le nostre parole e creeremo un mondo migliore, più vero, più libero, dove ci sarà spazio per le parole di tutti.
Auguri a tutti quelli che passano per questa pagina per caso, a quelli che tornano perché hanno trovato qualcosa che li ha emozionati o interessati. Auguri anche a quelli che cercavano tutt’altro, a quelli ai quali piace leggere e a quelli ai quali non piace neanche un po’. Auguri a quelli che ci seguono sempre e a quelli che sono qui per la prima volta.
Auguro a tutti il meglio: la salute, la felicità vera quella che ti fa stare bene ovunque e con chiunque, ma soprattutto, vi auguro e mi auguro che potremo riabbracciare quelli che amiamo al più presto, che sì, tutto torni alla normalità, ma che quello che ci è accaduto ci renda diversi, migliori più disponibili con gli altri, più pazienti e soprattutto, più coscienti…
Leggere e scrivere sono due attività che non subiscono battute d’arresto a causa del Coronavirus: si possono tranquillamente praticare restando a casa.
Inoltre, mi sono chiesta: che cosa può fare uno scrittore in tempi di Coronavirus per essere d’aiuto? Scrivere, ovviamente. Così ho pensato di scrivere qualche breve riflessione sulle mie giornate e sulle meste osservazioni giornaliere dalle mie stanze.
Non è un gran contributo, ma ci tengo a dedicarlo a tutti quelli che si sacrificano, affinché la nostra vita possa andare avanti, nonostante le limitazioni, e a tutti coloro che hanno bisogno di un istante di distrazione e di sollievo in questi momenti così difficili.
Dall’alto della terrazza, la mia città è strana: lontana eppure vicina, quasi potessi toccare le sue case di cartapesta colorata.
I gialli, gli aranci, il verde appena accennato, il rosso bruciato dei tetti sono affastellati, uno sull’altro; mentre alberi svettanti lanciano le loro chiome verso il cielo.
Rari passanti misurano i loro passi lungo i marciapiedi; auto sparute scorrono rapide, senza dover più contendere l’asfalto ad altri veicoli all’assalto.
Il mare è un tappeto screziato, un miraggio nel deserto solitario del paesaggio.
Come ignorare un fenomeno che ci tiene incollati davanti alla TV o su internet a sondare dati, a sincerarci sulle nuove scoperte, a fare un bilancio di morti, guariti e contagiati?
Il virus, sani o malati, ci ha contagiato tutti. Ha superato i confini delle nazioni ed è l’argomento principe ovunque: nei talk show, al telegiornale, sui social.
Ci sta facendo esplorare le nostre fragilità, la nostra solitudine, il nostro attaccamento alla vita; sta mettendo alla prova il nostro senso di responsabilità, ma anche il grado della nostra umanità, la capacità di essere solidali verso gli altri. Ci ha messo davanti agli occhi che non possiamo più marciare da soli, che serve coesione, condivisione, empatia.
Abbiamo anche scoperto che ci sono moltissimi eroi, gente comune che si è ritrovata a dover fronteggiare con coraggio questa terribile emergenza: medici, infermieri, forze dell’ordine, sacerdoti, volontari, e non dobbiamo neppure dimenticare tutte quelle persone che ci consentono di portare in tavola il cibo: gli agricoltori, ad esempio, e tutte le persone legate a questa filiera, i trasportatori e i commessi che, anche nascosti dietro una mascherina, ci accolgono con gentilezza nei negozi, nei supermercati.
Come voi, sto sperimentando il tormentone #iorestoacasa e lo vivo bene: mi sto rendendo conto di quante cose ci sono da fare in casa e mi sento più vicina alle persone che condividono con me questa quotidianità.
Sperimento il desiderio di cercare sui social persone che non sento da un po’ e chiedo loro come stanno. Forse, sono anche più connessa di prima alle emozioni e ai sentimenti, perché ho più tempo per riflettere e sto riconsiderando la mia vita, le mie priorità, e so che, come voi, uscirò trasformata da questa esperienza. Sono certa che una volta fuori da questa emergenza, i miei passi prenderanno un’altra direzione.
Questo virus danneggia i polmoni, uccide le persone, anche quelle che amiamo; sta mettendo in ginocchio l’economia mondiale, ma ci ha anche fatto capire che dobbiamo guardare il mondo con occhi diversi, che solo uniti possiamo ottenere dei risultati, che dobbiamo salvaguardare il nostro pianeta, che dobbiamo aiutarci l’un l’altro, perché essere più umani non vuol dire essere deboli, e forse, da tutto questo, il nostro cuore uscirà rinnovato.
Le parole hanno un enorme potere evocativo ne abbiamo la prova ogni giorno, ma spesso non ci facciamo caso.
Prendiamo me, sto facendo ricerche per un articolo sulla seta e appena mi sono concentrata sulla parola “seta” ho subito creato una serie di collegamenti tra questo specifico termine e una serie di ricordi legati a questa parola: ho pensato a Marco Polo e poi, a “Le città invisibili” di Calvino.
Ovviamente, se pensate voi alla parola “seta” creerete altri collegamenti nella vostra testa, in base ai vostri personali ricordi, magari legati alla scuola (vedi Marco Polo) e alle vostre esperienze personali. La seta, in tal caso, potrebbe riportarvi alla memoria un foulard particolarmente prezioso e una giornata speciale che avete passato indossandolo oppure chissà quali altri tristi o felici ricordi.
Le parole creano mondi, ma sono in grado di creare anche collegamenti, suggestioni, immagini. Mai sottovalutare il potere di una parola e spesso è difficile individuare fin dove possa arrivare la sua capacità evocativa, e le sue possibilità di suscitare emozioni negative o positive in chi la vede scritta o la sente pronunciare.
Quando si scrive è importante non sottovalutare questa capacità delle parole di creare collegamenti anche con elementi molto lontani tra loro. Certo, non possiamo sapere tra le tante persone che metteranno gli occhi su delle righe di testo da noi scritte, quali emozioni o possibili collegamenti potranno creare, ma in certi casi, certe associazioni sono un tesoro comune cui attingere, perché si sono creati nel tempo dei legami fortissimi tra alcune parole e degli eventi precisi o delle sensazioni tangibili.
Se ad esempio, leggete la parola “cioccolato“, a meno che non apparteniate a quella minoranza che non ama questo particolare alimento, è probabile che vi venga la nota acquolina in bocca. Se invece dico “dentista“, quasi sicuramente, il ricordo non sarà altrettanto piacevole e forse, vi immaginerete, con una punta di terrore, su una poltrona con qualcuno che traffica nella vostra bocca.
Le parole, in ogni caso, non hanno solo un potere evocativo, dicono molto anche su di noi, quando scegliamo un dato termine piuttosto che un altro, per esprimere un’emozione o per raccontare un aneddoto.
Il nostro legame con le parole è complesso e plurimo e si muove dall’esterno verso l’interno o viceversa. Quando sentiamo o leggiamo una parola, siamo noi a provare una sensazione o ci troviamo a evocare un ricordo; quando invece ci esprimiamo con certi termini, comunichiamo agli altri chi siamo: la nostra cultura, la nostra sensibilità, le nostre esperienze.
Le parole, in pratica, veicolano e portano con sé molti significati, oltre a quelli reperibili su un dizionario; per questo bisogna fare attenzione all’uso che facciamo delle parole sia quando si usano per mestiere sia quando ci rivolgiamo agli altri, in ogni situazione della vita quotidiana, perché le parole possono curare o avvelenare un’anima.
I Caffè letterari erano luoghi di socializzazione e di cultura. I dibattiti e le discussioni che si svolgevano tra i tavolini, sorseggiando una tisana o bevendo un caffè, hanno cambiato il mondo e la società di quei tempi.
I caffè letterari, dei quali abbiamo sentito parlare a scuola, a proposito di diffusione delle idee illuministe prima e dei fermenti romantici poi, esistono ancora nelle varie capitali e principali città d’Europa, ma non assolvono più alla funzione di incontro per discussioni vivaci e confronto che avevano svolto nei secoli passati.
Nei Caffè letterari si sono progettate rivoluzioni, non solo culturali.
A partire dal ‘700, i Caffè letterari si diffusero nel tempo un po’ dovunque in Europa (Francia, Austria, Italia, Spagna), diventando il luogo simbolo della cultura borghese e d’incontro degli intellettuali dell’epoca, dove si discuteva di arte, letteratura, filosofia e politica.
Il luogo di aggregazione, aperto a chiunque volesse partecipare alle questioni poste dai letterati riuniti nel Caffè, come risposta ai salotti nobili e alle accademie universitarie, più inclini al mantenimento dell’ordine pre-costituito!
Oggi rimangono le strutture, dove si organizzano iniziative culturali, ma che purtroppo, ormai, svolgono più una funzione ricreativa, avendo perso lo scopo originale e il collegamento diretto tra idee che da lì scaturivano e il mondo esterno, la società contemporanea.
I luoghi concepiti con lo scopo degli originali Caffè letterari non esistono più (almeno per la mia esperienza), mentre oggi ne avremmo un gran bisogno. Luoghi dove la gente possa incontrarsi e discutere, confrontare le proprie idee, sviscerare problemi e valutare soluzioni; luoghi dove le persone possano immaginare e progettare una società migliore, un mondo migliore.
Ora, siamo immersi in un mondo tecnologico e complicato, bombardati di notizie che fatichiamo a vagliare e verificare. La comunicazione si è trasformata in un must e ci viene spiegato come dobbiamo comunicare, nel modo più efficace e in ogni situazione: dal colloquio di lavoro alla presentazione di un brand aziendale. Purtroppo, non ci rendiamo conto di essere precipitati in un paradosso: comunichiamo senza interruzione e in modo sempre più qualificato, ma in pratica non comunichiamo più tra noi, su questioni assillanti che liquidiamo con un semplice tacet o mi piace.
Gli emoticon hanno sostituito le parole, i faccia a faccia sono sempre più rari: ora ci sono i cellulari con i quali possiamo essere raggiunti in qualunque posto a qualunque ora. Abbiamo la sensazione di essere connessi con tutti e con il mondo in ogni istante, ma in realtà le informazioni che viaggiano tra le persone sono sempre più superficiali e rapide, mancano i tempi per riflettere su quel che apprendiamo, non c’è più lo sguardo di colui con cui si dialoga e, soprattutto, manca la possibilità di “scollegarsi”, e ciò ci rende schiavi delle troppe informazioni e della cacofonia che producono: siamo diventati ciechi e incapaci di interpretare un mondo che va sempre più veloce e che ogni giorno diventa più complicato.
Gino Paoli cantava: “Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo“. Chissà, magari una scintilla peregrina del Caffè letterario settecentesco è sopravvissuta e potrebbe ancora appiccare un fuoco. Il risultato sarà diverso e diversi saranno anche gli strumenti di cui faremo uso, ma io spero davvero che gli obiettivi siano gli stessi.
in copertina: Artisti nel Caffè Greco a Roma, di Ludwig Passini, 1856
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.OkLeggi di più