Carlo Goldoni: l’autore che avvicinò il teatro al reale e alla quotidianità

Carlo Goldoni l’autore che avvicinò il teatro al reale e alla quotidianità

Oggi, 25 febbraio, ricorre l’anniversario della nascita di Carlo Goldoni. Il commediografo veneziano ha lasciato un’impronta tangibile nel mondo teatrale e per farlo, a sentire lui, non ha dovuto far altro che non scostarsi mai dalla natura.

Carlo Osvaldo Goldoni (Venezia, 25 febbraio 1707 – Parigi, 6 febbraio 1793), ritenuto uno dei padri della commedia moderna, è stato commediografo, appunto, scrittore, librettista e avvocato italiano.
Le sue origini sono borghesi.
Nato a Venezia, ancora giovane si trasferì con la famiglia a Perugia, dove studiò dapprima, con un precettore, poi in un collegio gesuitico. Trasferitosi ancora, stavolta a Rimini proseguì gli studi presso un istituto gestito dai domenicani.

Nel 1721, torna a Venezia con la madre e qui inizia il praticantato presso lo studio legale dello zio.
Nel 1723, è a Pavia, dove prosegue gli studi presso l’Università della città. Successivamente, andrà a Udine e poi a Vipacco, insieme al padre che esercita come medico presso il conte Francesco Antonio Lantieri.

Negli anni successivi, Goldoni continuò a spostarsi, riprendendo ancora gli studi continuamente interrotti.
Nel 1729, è a Feltre e già da qualche tempo ha iniziato a dedicarsi alla scrittura di opere teatrali: intermezzi comici per lo più, che già rivelano appieno la sua passione per il teatro.
Nel 1731, morì suo padre e Goldoni tornò a Venezia, qui, finalmente terminò i suoi studi a Padova e iniziò la sua carriera forense.

È del 1734 un incarico per il teatro San Samuele, Goldoni deve scrivere dei testi, così nascono le prime tragicommedie: “Belisario” (1734); “Don Giovanni Tenorio” (1735); “Giustino” (1738).
In questo stesso periodo, Goldoni si spostò a Genova, seguendo la compagnia teatrale per cui lavorava, e qui conobbe Nicoletta Conio che poi sposò e con lei tornò a Venezia.

La prima commedia di Goldoni è del 1738, il “Momolo cortesan” che presenta un’unica parte completamente scritta, quella del protagonista. Tra il 1742 e il 1743 scrisse invece la prima commedia con tutte le parti scritte: “La donna di garbo”.

Tra fughe per debiti, viaggi, esperienze teatrali e mestiere dell’avvocatura, Goldoni affronta diverse vicissitudini, prima di approdare di nuovo al teatro, con un’altra compagnia e un nuovo capocomico: Girolamo Medebach (1706-1790; attore teatrale).
La nuova compagnia recitava a Venezia al teatro Sant’Angelo.
Le commedie che l’autore veneziano scrive tra il 1748 e il 1753 si allontanano dai modelli della commedia dell’arte e iniziano a rivelare i principi di una “riforma” del teatro.
In questo periodo scrive: “L’uomo prudente”, “La vedova scaltra”, “La putta onorata”, e altro ancora.

Nel 1750 altro tour de force del nostro commediografo che riuscì a scrivere sedici commedie in un solo anno, tra queste ricordiamo: “Il teatro comico” (manifesto della sua riforma teatrale); “La bottega del caffè”, “Il bugiardo”, “Il poeta fanatico”, “La finta ammalata”, “I pettegolezzi delle donne”.
Sempre per la compagnia del Medebach, Goldoni produsse altri testi fino a giungere a “La locandiera” e a “Le donne curiose”.

Nel 1753, Goldoni ruppe i suoi rapporti con la compagnia del Medebach e firmò un nuovo contratto con il teatro San Luca.
Furono anni difficili per l’autore che dovette affrontare la sfida di un edificio teatrale molto più grande e attori che non conoscevano il suo stile, lontano dai modelli della commedia dell’arte.
In questo periodo fu particolarmente apprezzata la “Trilogia persiana” e diverse commedie, tra le quali primeggia il capolavoro “Il campiello”.

Nel 1761, il commediografo ricevette un invito per recarsi nella capitale francese a prendersi cura della Comédie Italienne.
Prima della partenza, Goldoni regalò al Teatro San Luca un’ultima vivace stagione, producendo diverse opere teatrali: “La trilogia della villeggiatura”, “Sior Todero brontolon”, “Le baruffe chiozzotte”, “Una delle ultime sere di carnovale”.

A Parigi dal 1762, Goldoni ebbe il suo daffare per far valere la Commedia Italiana e qui riprese la sua battaglia per la riforma del teatro.
Quando giunse, la rivoluzione francese sconvolse la sua vita e nel 1793, il 6 febbraio, morì in miseria alla soglia degli 86 anni.

Goldoni scrisse avendo sempre ben presente precise contingenze: occasioni specifiche; necessità degli attori, dei teatri e delle compagnie.
Tutta la sua opera è un’interrotta serie di situazioni; giocata su un parlare quotidiano e volta a rappresentare in modo attento il reale.
Inoltre, Goldoni passava sovente dall’italiano al veneziano e viceversa, lasciando spazio ai vari usi sociali del linguaggio, consentendogli così di aderire alle situazioni più svariate in cui erano calati i personaggi.
Il veneziano adottato dall’autore era quello del mondo borghese, e il dialetto, quando lo utilizzava, non era uno strumento di gioco, bensì un linguaggio concreto e indipendente che si differenziava in base alle diverse classi sociali dei personaggi che ne facevano uso.

Goldoni nella sua riforma pose come elemento fondamentale: il richiamo alla natura, in un confronto costante con la realtà quotidiana.
Il commediografo ostentava nella sua opera un illuminismo popolare che si opponeva a qualsiasi forma di ipocrisia e al contempo dava rilevanza alla classe sociale dei piccoli borghesi.
Goldoni mirava a rappresentare un mondo razionale pacifico, dove esistevano le gerarchie sociali e ognuno aveva un ruolo ben preciso: dalla nobiltà alla borghesia sino al popolo.

Il commediografo rivolse la sua attenzione ai vizi – per colpirli, aspirando al contempo a correggerli – contrapposti alle virtù.
Nelle sue opere c’era sempre una precisa morale e i caratteri avevano uno scopo pedagogico.
Il suo teatro faceva riferimento alla vita quotidiana e racchiudeva tutta la vita della Venezia e dell’Italia del suo tempo.
Facendo riferimento alle classi sociali, Goldoni diede ai borghesi il ruolo centrale, mentre i nobili si rivelavano senza valori. I servi, dal canto loro, facevano ancora riferimento alla commedia dell’arte, erano trattati con maggiore schematicità e risaltavano per la loro intelligenza. Negli ultimi anni a Venezia, l’autore garantì loro un maggiore respiro e attraverso essi avanzò critiche alla ragione borghese dei loro padroni.

Un elemento fondamentale del mondo per Goldoni era l’amore: un sentimento spesso affermato sulla scena dai giovani e costretto a sottostare alle regole sociali e familiari e che doveva anche tenere conto dell’onore e della reputazione.

Per riassumere nel complesso l’avventura teatrale di Goldoni e per definire lo scopo e il modo in cui fu attuata la sua riforma teatrale possiamo appoggiarci alle sue affermazioni: “Sebben non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali, come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro”.

In Copertina: Canaletto, “Piazza San Marco” (1723 ca., Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza)

Manoscritto Voynich: “il libro più misterioso del mondo” #1

Manoscritto Voynich il libro più misterioso del mondo 1

Il manoscritto Voynich, custodito presso la Biblioteca Beinecke di manoscritti e libri rari dell’Università di Yale, è un codice illustrato, risalente al XV secolo.
La sua datazione è stata precisata al radiocarbonio e colloca la sua stesura tra il 1404 e il 1438.

Il manoscritto Voynich, deve la definizione di “libro più misterioso del mondo” e l’aura arcana che lo circonda a diversi aspetti che lo riguardano:

  • è stato scritto con un sistema di scrittura tuttora non decifrato
  • nel testo compaiono immagini di piante non raffrontabili con alcun vegetale conosciuto
  • l’idioma utilizzato non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico finora noto

Questo singolare volume deve il suo nome a Wilfrid Michael Voynich, in origine Michał Wojnicz (1865 – 1930), un antiquario e mercante di libri rari polacco, successivamente naturalizzato inglese.
Il manoscritto finì nelle mani di Voynich grazie a padre Giuseppe Strickland (1864 – 1915), un religioso gesuita che, nel 1912, fece da tramite tra l’antiquario e il collegio gesuita di Villa Mondragone, vicino Frascati. L’ordine di cui Strickland faceva parte necessitava di fondi per restaurare la villa, li ottenne vendendo trenta volumi della sua biblioteca, tra questi era compreso il manoscritto Voynich.

Entrato in possesso del libro, Voynich rilevò nel testo delle annotazioni in greco antico e stimò che il libro appartenesse al XIII secolo. Inoltre, all’interno del volume, trovò una lettera di Jan Marek Marci (1595 – 1667), rettore dell’Università di Praga e medico reale di Rodolfo II di Boemia (1552 – 1612). Nella missiva era specificato che Marci lo inviava a Roma, all’amico poligrafo, Athanasius Kircher (1602 – 1680; gesuita, filosofo, storico e museologo tedesco del XVII secolo), affinché lo decifrasse.

Nella lettera, datata “Praga, 19 agosto 1665” (o 1666), Marci sosteneva di avere ereditato il manoscritto medievale da un amico, Georg Barches (1585 – 1662), un alchimista (si conobbe il suo nome solo successivamente, grazie a delle ricerche). Il proprietario antecedente del libro era stato l’imperatore Rodolfo II che lo aveva comprato per una cifra considerevole per l’epoca, ben 600 ducati, poiché credeva fosse stato scritto da Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292 ca.; filosofo, scienziato, teologo ed alchimista inglese).
Infine, dalle mani di Voynich il manoscritto passò a quelle di Hans P. Kraus (1907 – 1988; antiquario e libraio austriaco naturalizzato statunitense) che ne fece dono all’Università di Yale.

Il manoscritto Voynich è redatto su pergamena di vitello; ha dimensioni ridotte: 16 cm di larghezza per 22 di altezza e 5 di spessore.
Grazie alle due numerazioni, presenti sui margini delle pagine, si è dedotto che il libro fosse composto da 116 fogli, suddivisi in 20 fascicoli. Inoltre, nel volume sono presenti pagine più grandi che sono state ripiegate, mentre si è riscontrato che all’insieme mancano 14 fogli.

Il libro non contiene solo testo, ma è impreziosito da un certo numero di illustrazioni a colori che raffigurano molti soggetti diversi. La presenza delle immagini ha consentito di comprendere sia la natura del manoscritto di Voynich sia le sezioni in cui è suddiviso:

  • La sezione I (fogli 1-66), “botanica”, presenta 113 disegni di piante sconosciute.
  • La sezione II (fogli 67-73), “astronomica o astrologica”, ha 25 diagrammi che sembrano richiamare delle stelle e sono riconoscibili anche alcuni segni zodiacali. Nonostante ciò, non è possibile definire di cosa parli questa sezione.
  • La sezione III (fogli 75-86), “biologica”, in quanto presenta molte figure femminili nude, spesso immerse fino al ginocchio in un liquido scuro, in delle vasche intercomunicanti.
  • Dopo la sezione III è presente un foglio ripiegato sei volte, dove sono rappresentati nove medaglioni con figure di stelle, raggiere di petali e fasci di tubi.
  • La sezione IV (fogli 87-102), “farmacologica”, è definita così, perché vi sono raffigurate ampolle e fiale. Inoltre, in questa parte del manoscritto Voynich ci sono anche disegni di piccole piante e radici, forse, erbe medicinali.
  • L’ultima sezione (dal foglio 103 sino alla fine) presenta unicamente delle stelline, a sinistra delle righe. Si pensa possa trattarsi di una specie di indice.

La datazione, almeno fino all’inizio del 2011, è stata oggetto di varie ipotesi; tutte scartate nel febbraio 2011, grazie alla datazione del manoscritto Voynich effettuata con la tecnica del carbonio-14.
La datazione precisa si è ottenuta prelevando dei piccoli campioni dai margini di alcune pagine e si è precisato che le pergamene che compongono il volume appartengono a un periodo compreso tra il 1404 e il 1438.
Inoltre, recenti analisi dei pigmenti presenti nel manoscritto, hanno evidenziato affinità con quelli di altri manoscritti del Quattrocento e medievali in genere.

In un primo momento, si pensò si trattasse di un falso, realizzato nel Cinquecento, per ingannare Rodolfo II. L’autore dell’abile truffa fu individuato in Edward Kelley (1555 – 1597; alchimista, mago, astrologo, glottoteta e medium inglese. La glottopoiesi è l’arte di creare linguaggi artificiali sviluppandone la fonologia, il vocabolario e la grammatica), aiutato nella singolare malefatta da John Dee (1527 – 1608; filoso, matematico, geografo, alchimista, astrologo e astronomo inglese).

Altre interessanti teorie stimavano che il libro fosse databile agli inizi del Seicento, in seguito alla scoperta di una firma, grazie all’infrarosso, di Jacobi à Tepenecz, noto come Jacobus Horcicki (1575 – 1622), alchimista al servizio di Rodolfo II. Un’altra possibile datazione fu suggerita da una delle piante rappresentate nella sezione “botanica”, simile al comune girasole, questo pianta giunse in Europa solo dopo la scoperta dell’America, per cui si immaginò che il libro fosse stato scritto dopo il 1492.

I misteri attorno al manoscritto non hanno interessato solo la datazione, ora svelata grazie alla scienza, ma anche la sua decifrazione, ma di questo parliamo in un prossimo post…

Giuseppe Ungaretti: la poesia pura che “porta in sé un segreto”

L’8 febbraio del 1888 nasceva Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1° giugno 1970), poeta, scrittore, traduttore, giornalista e accademico italiano.
Le sue poesie hanno lasciato un segno profondo nella letteratura italiana del XX secolo.

Ungaretti e in generale la poesia ermetica, che il famoso poeta ha anticipato, hanno sempre fatto risuonare in me delle profonde emozioni.
Il primo incontro con le poesie di Ungaretti è stato di ordine scolastico ed è stato un colpo di fulmine. C’è stato anche un secondo incontro, altrettanto forte, musicale stavolta: quando con il coro abbiamo affrontato una versione musicale della sua poesia “La madre”.

I versi di Ungaretti hanno il potere di toccare l’anima e la loro bellezza risiede in ciò che riescono a suggerire e nella loro capacità di far vibrare corde segrete nell’animo di chi legge.

In questo, a prima vista, scarno mondo poetico si avverte, sotto la superficie, un mondo di sentimenti e di emozioni espressi con poche essenziali parole, che però riescono a far percepire il tutto, anche e soprattutto, il non detto, perché ciò che sembra mancare è presente dentro di noi e si manifesta attraverso risonanze profonde. Le parole di Ungaretti sono una sorta di richiamo che ci consente, leggendo le sue poesie, di recuperare un mondo sommerso.

Giuseppe Ungaretti è stato una tra le voci più rilevanti nel panorama letterario italiano del XX secolo. Mosse i primi passi, seguendo il simbolismo francese e in un primo tempo, produsse componimenti poetici stringati, limitati a poche parole e animati da analogie originali. Successivamente, le sue poesie acquisirono una maggiore complessità, mentre i concetti si facevano più ardui.

La sua poetica subì un’importante evoluzione indotta in particolare dal dolore per la morte del figlio. Le poesie di questo periodo assumono una veste meditativa e sono concentrate su un’intensa riflessione sul destino umano.
Negli ultimi anni di vita, nei versi di Ungaretti spiccano la saggezza raggiunta dal poeta ormai giunto a un’età avanzata e un senso di tristezza e distacco.

Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto, da genitori italiani.
Il padre morì due anni dopo la nascita del poeta e fu la madre, gestendo un forno di proprietà, a garantire i migliori studi al figlio che poté frequentare le più prestigiose scuole.
Proprio durante il periodo scolastico, il poeta iniziò ad avvicinarsi alla poesia, giovandosi degli stimoli che provenivano sia dalle antiche tradizioni sia dalle novità, garantite dalla multietnicità del suo luogo di nascita.
Fu particolarmente vicino alla letteratura francese ma anche a quella italiana: lesse le opere di Rimbaud, Mallarmé, Baudelaire, ma anche di Leopardi e persino di Nietzsche.

Dopo una breve esperienza lavorativa nel settore commerciale, il poeta si trasferì a Parigi per frequentare l’università. In questi anni conoscerà diverse importanti personalità del panorama artistico, quali: Guillaume Apollinaire, Georges Braque, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Pablo Picasso, Giorgio de Chirico, Amedeo Modigliani; iniziò anche a collaborare alla rivista “Lacerba”, pubblicando alcuni suoi componimenti poetici e liriche.

Nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale e quando l’Italia entrò nel conflitto, il poeta decise di arruolarsi.
Durante gli anni di guerra, Ungaretti teneva con sé un taccuino, su cui appuntava le sue poesie che furono stampate nel 1916, con il titolo: “Il porto sepolto”.
Proprio di questi anni sono le sue poesie più famose: “Mattina” scritta il 26 gennaio del 1917 e “Soldati” nel mese di luglio del 1918.

Negli anni che seguirono la prima guerra mondiale e precedettero la seconda, il poeta rimase a Parigi e fu, dapprima, corrispondente del giornale “Il Popolo d’Italia”, poi fu impiegato dell’ufficio stampa all’ambasciata italiana.

Nel 1920, conobbe Jeanne Dupoix e la sposò; l’anno successivo si trasferì a Marino (Roma), dove collaborò all’ufficio stampa del Ministero degli Esteri, mentre si dedicava a una fitta attività letteraria su riviste e quotidiani francesi. Nello stesso periodo, viaggiò molto e ottenne parecchi riconoscimenti ufficiali.

Dal 1931, Ungaretti divenne inviato speciale de “La Gazzetta del Popolo” e per tale incarico fu in Egitto, in Corsica, nei Paesi Bassi e in Italia meridionale.
Nel 1933, il poeta è all’apice della sua celebrità; dal 1936 al 1942 lo troviamo con la famiglia in Brasile, dove si era trasferito per ricoprire la cattedra di letteratura italiana, all’Università di San Paolo del Brasile.

Tornato in Italia, Ungaretti fu nominato Accademico d’Italia. Caduto il fascismo, nel luglio del 1944, il poeta fu sospeso dall’insegnamento e fu reintegrato solo nel febbraio del 1947; mantenne il ruolo di docente universitario fino al 1958 e fuori ruolo fino al 1965.

Dal 1942, Mondadori incominciò a pubblicare l’opera omnia del poeta, con il titolo “Vita di un uomo”. Inoltre, Ungaretti stesso, a partire dal secondo dopoguerra, mandò in stampa nuove raccolte poetiche e ricevette diversi premi.
Nel 1958, il poeta perse sua moglie Jeanne che morì dopo una lunga malattia.
Il 1° gennaio del 1970, Ungaretti scrisse la sua ultima poesia, “L’Impietrito e il Velluto” e nello stesso anno fece un viaggio a New York, dove ritirò il premio internazionale dall’Università dell’Oklahoma.
Morì all’età di 82 anni, nella notte tra il 1° e il 2 giugno 1970, a Milano, di broncopolmonite; fu seppellito nel Cimitero del Verano, a Roma, accanto alla moglie Jeanne.

Per quanto riguarda la poetica di Ungaretti, una delle sue raccolte di poesie: “L’allegria” rappresenta un momento fondamentale per la storia della letteratura italiana. Le poesie, scritte in gran parte tra il 1914 e il 1919, manifestano i sentimenti del poeta nei confronti di ciò che ha vissuto durante la prima guerra mondiale: c’è il dolore, ma sono presenti anche valori quali umanità e fratellanza e il desiderio di riscoprire un’armonia con il cosmo, come appare chiaramente nella poesia “Mattina”. Nelle opere successive si delineerà sempre più, non solo una particolare cura della parola, ma anche l’idea che la poesia sia l’unico mezzo per l’uomo o uno dei pochi per salvarsi dall’ “universale naufragio”. Inoltre, emerge anche uno “slancio vitale”, rafforzato dalla precarietà della vita e dalla visione della morte legate all’esperienza della guerra.

Non tutti furono concordi nell’affermare la grandezza della poesia di Ungaretti, infatti, oltre agli estimatori, ci furono anche molti critici, una condizione normale per qualsiasi precursore e riformatore.
Ad apprezzare in particolare i suoi versi furono i poeti dell’ermetismo che videro in lui un maestro e un iniziatore della poesia “pura”.

Storia della scrittura #22: la tipografia dalla rotativa alla linotype

Storia della scrittura 22 la tipografia dalla rotativa alla linotype

La tipografia continua a evolversi: il complesso e delicato lavoro dei compositori sarà semplificato con l’avvento della linotype.

Dall’epoca di Johannes Gutenberg (1400-1468), per comporre i testi, i tipografi avevano bisogno di alcuni strumenti: il compositoio; le pinze; il vantaggio; il tirabozze; il taglietto (per interlinee e angoli); il curva filetti e altri ancora.
In tipografia, il primo passo che conduceva alla stampa era scegliere le lettere, una per una dalle casse tipografiche, poi bisognava disporle sul compositoio, per realizzare la linea. Era essenziale inserire anche gli spazi (caratteri che non erano stampati e avevano un’altezza di poco inferiore alle lettere), in seguito la linea assemblata andava posta sul “vantaggio”.

Le pinze erano indispensabili per correggere in piombo. Questo particolare utensile era dotato di una punta acuminata che serviva ad abbassare gli spazi nella composizione e a effettuare la legatura del pacco di composizione. Poi le linee combinate nel compositoio andavano piazzate sul “vantaggio”, allineate una sotto l’altra.
Se si dovevano creare composizioni di grandi dimensioni al posto del “vantaggio” si utilizzava la “balestra”.

L’addetto alla composizione faceva riferimento all’originale che gli era stato fornito e realizzava le linee seguendo la “giustezza” di riga (lunghezza delle linee di una composizione) che gli era stata indicata.
Terminata la composizione, il blocco era legato con lo spago e portato al tirabozze che realizzava la bozza, usata poi dal compositore per controllare eventuali refusi, doppioni o altri errori che erano corretti sul vantaggio. Successivamente, si procedeva alla tiratura delle bozze in colonna.
Una volta stampato il testo, i caratteri dovevano essere riordinati uno per uno e ricollocati nelle rispettive cassette.

Con questo procedimento si riusciva a comporre un testo alla velocità di 1.200-1.500 caratteri tipografici all’ora. Con l’arrivo della linotype si potevano invece mettere insieme dai 6.000 ai 9.000 caratteri l’ora.
Un bel progresso, tanto che diventa possibile raccontare un fatto nel momento stesso in cui avviene.
Giunti a questo punto, quotidiani, periodici e stampati commerciali ridussero il libro a occupare una quota modesta nel totale delle pubblicazioni.

Chi non conosce le fiabe dei fratelli Grimm?

Chi non conosce le fiabe dei fratelli Grimm?

Sono quasi certa che molti bambini siano andati a dormire, almeno una volta, accompagnati dalle parole: “C’era una volta”.
Ma forse non tutti sanno che, molte delle fiabe che seguivano queste parole le dobbiamo a due fratelli tedeschi: Jacob e Wilhelm Grimm.

Le fiabe dei fratelli Grimm, note in tutto il mondo, non sono nate allo scopo di dilettare grandi e piccini, ma fanno parte di un’attenta e oculata operazione di recupero di una tradizione, quella tedesca.

L’idea della raccolta fu di Jacob (Hanau, 4 gennaio 1785 – Berlino, 20 settembre 1863) – filologo, linguista e scrittore, nonché professore di lettere e bibliotecario – fratello maggiore di Wilhelm (Hanau, 24 febbraio 1786 – Berlino, 16 dicembre 1859) e richiese ben tre anni di lavoro: dal 1812 al 1815.
In questa prima fase del progetto, i due Grimm furono supportati da alcuni amici scrittori: Clemens Brentano (1778 – 1842) e Achim von Arnim (1781 – 1831).

Nella prima edizione, “Kinder und Hausmärchen” (Fiabe per bambini e famiglie), i Grimm pubblicarono anche fiabe francesi, successivamente, le eliminarono, mettendo al loro posto altre di origine germanica.
Prima di questa operazione di recupero e trascrizione dei due fratelli tedeschi, le fiabe erano tramandate oralmente, per cui era difficile fornire loro un’attribuzione precisa e anche una datazione corretta.

I due fratelli dedicarono molto tempo ed energie a trascrivere miti e leggende dell’area germanica e questo intenso lavorio li spinse a interessarsi anche al ricco patrimonio favolistico del loro Paese.
Le fiabe sono profondamente legate all’oralità, erano tramandate di generazione in generazione attraverso la memoria, ma con l’avvento della carta stampata, questa tradizione rischiava di perdersi.
I Grimm sapevano che questo tesoro da preservare era conservato, ormai, esclusivamente nelle campagne, dove le persone anziane erano ancora analfabete e qui, iniziarono il loro lavoro di recupero.

I due fratelli seguirono il loro progetto con animi diversi: Jacob aveva un atteggiamento più scientifico, mentre Wilhelm aveva un approccio più poetico e fantastico.
Quasi certamente fu il modo differente di porsi di fronte al progetto che condusse Jacob ad abbandonare l’impresa, subito dopo il deludente esito della prima edizione delle fiabe (1812-1815), invece, il fratello minore, Wilhelm continuò nell’opera, fino a pochi anni prima della morte: l’ultima edizione risale al 1857.

La prima edizione delle fiabe non era adatta ai bambini: le storie contenevano dettagli cruenti e particolarmente realistici. Con il tempo, però, le storie subirono un pesante processo di edulcorazione e depurazione dai particolari truculenti, ciò avvenne, in particolare, con la settima edizione (1857), quando furono tradotte in lingua inglese.

Le ambientazioni delle storie dei fratelli Grimm sono tenebrose e oscure. Si svolgono per la maggior parte in fitte foreste, popolate da creature orribili, come streghe, troll e goblin e, ovviamente, considerata l’atmosfera e i personaggi coinvolti, gli eventi di queste storie hanno come oggetto terribili fatti di sangue.
Del resto, tutto questo rispondeva pienamente alla tradizione popolare tedesca.

I Grimm sono ricordati come gli “iniziatori” della germanistica e furono, prima di tutto, due linguisti e filologi. Fuori della Germania sono famosi appunto per la raccolta e la rielaborazione delle fiabe, tra le quali ricordiamo: Cenerentola, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, Hänsel e Gretel, per citare solo le più famose.

La decisione dei Grimm di dedicarsi alla trascrizione delle fiabe tedesche era legata al desiderio di far nascere una identità germanica: all’epoca, la Germania era suddivisa in tanti principati e piccole nazioni che avevano quale unico elemento unificatore la lingua.

Contemporaneamente alla raccolta delle fiabe, i due fratelli tedeschi lavorarono alla redazione di un dizionario, il “Deutsches Wörterbuch”. Composto da 33 volumi ha rappresentato un passo fondamentale per creare la lingua che oggi è il tedesco e tuttora, è ritenuto una delle fonti preminenti per l’etimologia dei vocaboli di questa lingua.

In Italia, le fiabe dei fratelli Grimm uscirono in prima edizione, nel 1897, con il titolo: “Cinquanta novelle”. La casa editrice era la Hoepli. Il libro ebbe un grande successo e fu ristampato diverse volte negli anni successivi: nel 1940, era giunto già alla decima edizione.

In copertina: Cappuccetto Rosso e il lupo in un dipinto di Carl Larsson (1881).

“Stille Nacht”: la notte silenziosa cantata in tutto il mondo

Stille Nacht la notte silenziosa cantata in tutto il mondo

Stille Nacht o Silent Night o Astro del Ciel è considerata la canzone simbolo del Natale. Originaria dell’Austria è arrivata in tutto il mondo e quando le sue note risuonano nell’aria, cantate da un solista o da un coro, si sente nell’aria la festa. Si sente che è arrivato Natale.

Stille Nacht, heilige Nacht è uno fra i più famosi canti di Natale al mondo: conta traduzioni in più di 300 lingue e dialetti.
Per conoscere la sua storia bisogna risalire al 1816, quando Joseph Mohr (1792-1848), prete salisburghese, all’epoca assistente parrocchiale nella chiesa di Mariapfarr (Lungau, regione di Salisburgo), mise per iscritto le parole di questa commovente canzone, in attesa di trovare chi fosse in grado di musicarle.

Devono trascorrere due anni prima che si verifichi il felice incontro tra testo e musica. Il compositore che rivestì di note il testo di Mohr fu Franz Xaver Gruber (1787-1863), maestro elementare ad Arnsdorf e organista a Oberndorf, il quale compose di getto la musica per questa canzone.

Nel 1816, ancora priva di musica, Stille Nacht fu semplicemente recitata. Mohr aveva scritto quelle parole ispirate per dare conforto e un barlume di speranza alla popolazione, provata dalle recenti guerre napoleoniche e dalla miseria che ne era derivata.
Finalmente, nel 1818, il giorno della vigilia di Natale, i versi di Stille Nacht furono anche cantati.

Fu lo stesso Mohr a chiedere a Gruber di mettere in musica le sue parole, per due voci soliste, coro e chitarra. Ciò avvenne il 24 dicembre del 1818, la partitura fu stesa rapidamente e il paroliere la approvò immediatamente.
Sembra che la richiesta di questa composizione fosse avanzata al musicista in quanto l’organo della chiesa di San Nicola era guasto e impossibile da sistemare in breve tempo, questo fatto giustificava anche la scelta della chitarra come accompagnamento.

Quindi, la prima esecuzione pubblica in assoluto di Stille Nacht ebbe luogo la notte del 24 dicembre 1818, durante la Messa di Natale, nella chiesa di San Nicola a Oberndorf, presso Salisburgo.
La canzone natalizia fu suonata e cantata dai due autori: Mohr cantò la parte del tenore, mentre suonava la chitarra; Gruber eseguì la parte del basso.

Musica e testo furono raccolti da un fabbricante di organi della Zillertal (la maggiore tra le valli laterali della Inntal, nel Tirolo austriaco), Karl Mauracher (1789-1844), che li portò con sé in Tirolo, dove si diffusero rapidamente.
Tutti gli anni, dalla regione dello Zillertal, molte persone si spostavano per vendere nei paesi vicini i prodotti dell’artigianato locale e da quel momento, fecero viaggiare anche la musica e le parole di Stille Nacht.
In particolare, due famiglie, Strasser e Rainer, diffusero la melodia di Gruber in tutta Europa e poi, nel mondo.

Attualmente, è una delle più celebri canzoni natalizie: più di due miliardi persone la conoscono.
Nel 2018, anno cui ricorreva il bicentenario della nascita di Stille Nacht, in Austria sono stati programmati una serie di eventi: una mostra regionale che coinvolgeva 13 località (collegate ai luoghi dove presero vita i versi e dove fu scritta la musica, ma anche dove insegnò Gruber, dove morì e fu sepolto); l’inaugurazione di alcuni musei dedicati al canto; un musical, in lingua inglese composto da John Cardon Debney (1956; compositore e direttore d’orchestra statunitense).

La versione italiana di Stille Nacht è Astro del ciel, pur in una veste diversa, questa emozionante canzone non manca mai di risuonare durante le feste natalizie e di commuovere il pubblico, dovunque sia eseguita, nei luoghi di culto ma anche nelle sale concerto durante il periodo natalizio.
Il testo italiano non è una traduzione di quello tedesco, ma è originale, scritto dal prete bergamasco, Angelo Meli (1901-1970).

Testo originale in tedesco

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Alles schläft; einsam wacht
Nur das traute hochheilige Paar.
Holder Knab´ im lockigen Haar,
Schlafe in himmlischer Ruh!
Schlafe in himmlischer Ruh!

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Gottes Sohn! O wie lacht
Lieb´ aus deinem göttlichen Mund,
Da uns schlägt die rettende Stund´,
Jesus in deiner Geburt!
Jesus in deiner Geburt!

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Die der Welt Heil gebracht,
Aus des Himmels goldenen Höhn
Uns der Gnaden Fülle läßt seh´n
Jesum in Menschengestalt,
Jesum in Menschengestalt

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Wo sich heut’ alle Macht
Väterlicher Liebe ergoss

Und als Bruder huldvoll umschloss
Jesus die Völker der Welt,
Jesus die Völker der Welt.


Stille Nacht! Heilige Nacht!
Lange schon uns bedacht,
Als der Herr vom Grimme befreit,
In der Väter urgrauer Zeit
Aller Welt Schonung verhieß,
Aller Welt Schonung verhieß.

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Hirten erst kundgemacht
Durch der Engel Alleluja.
Tönt es laut bei Ferne und Nah:
Jesus, der Retter ist da!
Jesus, der Retter ist da!


Auguri a tutti voi di cuore, che il Natale vi porti gioia e tanta serenità.
Buon ascolto!

Natale a Regalpetra: le feste natalizie narrate da Sciascia

Natale a Regalpetra le feste natalizie narrate da Sciascia

Quale migliore augurio di Natale per chi ama la letteratura di un cammeo tratto da un’opera di Leonardo Sciascia?

Natale è ormai alle porte, per celebrare questa festa ho scelto un brano tratto da “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia (1921-1989), autore di cui quest’anno si è celebrato il centenario della nascita.
Nel testo, alcuni bambini raccontano come hanno trascorso le feste natalizie.

“Le parrocchie di Regalpetra” fu pubblicato nel 1956. Il punto di partenza di quest’opera letteraria è stato un capitolo: “Cronache scolastiche”, uscito autonomamente nel 1955, sul numero 12 della rivista “Nuovi Argomenti” e successivamente incluso nel testo stampato l’anno successivo.
Il libro di Sciascia nel suo complesso narra la vita di un paese qualunque della Sicilia e, in particolare, parla della scuola; è suddiviso in parti che si differenziano per l’argomento trattato.

Regalpetra non esiste: è un paese di fantasia. È nato dalla fusione tra il nome Racalmuto (borgo nativo dello scrittore) e il libro di Nino Savarese, “Fatti di Petra”.
Sciascia in questo libro racconta le condizioni delle classi povere e descrive le difficoltà che ogni giorno devono affrontare.
Nel brano che segue ci troviamo sui banchi di scuola, le feste natalizie sono terminate e un maestro legge i diari che gli allievi hanno scritto come compito a casa.

– Il vento porta via le orecchie – dice il bidello.
Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa.
I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni.
L’aula ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo.
Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale:
tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette e mezzo e ti-vitti (ti ho visto :un gioco che non consente la minima distrazione); sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo.
Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente.
In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca: “La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù”.
Alcuni hanno scritto, senza consapevole amarezza, amarissime cose:
“Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa”.
Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre pagandogli il biglietto del cinema…
Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato.
“La mattina del Santo Natale – scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto”.
La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre “per fare la spesa”. Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone.
“E così ho passato il Santo Natale”
.
(tratto da “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia)

Pirandello e il ragioniere, Belluca, de “Il treno ha fischiato”

Pirandello e il ragioniere Belluca de Il treno ha fischiato

Nell’anniversario della morte di Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) voglio dedicare al famoso drammaturgo, scrittore e poeta italiano, scomparso, un breve ricordo, legato a una delle sue novelle: “Il treno ha fischiato”.

Pirandello è stato uno dei più grandi scrittori di novelle.
I personaggi delle sue storie hanno sempre a che fare con il male di vivere, con il caso e con la morte. Si tratta di gente comune, il classico vicino della porta accanto, come: sarte, professori, piccoli proprietari di negozi, semplici impiegati che vivono piccole tragedie quotidiane, sconvolti dalla sorte e da drammi familiari.

Negli anni è rimasto sempre vivo in me, il ricordo di un personaggio, di uno di questi poveri cristi che popolano le sue pagine, Belluca, il “computista”, cioè il ragioniere, protagonista della novella: “Il treno ha fischiato”.

Pirandello ci immette subito nel vivo della scena: il viavai di gente che va a visitare il malato e c’è un passaggio di notizie: le diagnosi spicciole sulla salute del poveretto, tra quelli che ritornano dall’ospedale e quelli che stanno andando a saggiare la follia del collega di lavoro.
I resoconti sono unanimi: Il povero Belluca è impazzito, dice frasi senza senso; vittima di una sorta di insanabile frenesia, parla di un treno che ha fischiato. Per di più, si è ribellato, lui che era sempre sottomesso, quasi spento; una bestia da soma che si caricava di ogni insulto, di ogni crudele angheria e sopruso, di ogni rimprovero – quasi sempre ingiusto – senza fiatare, senza reagire, come fosse privo di volontà, avvezzo a sopportare tutto, come colui che evangelicamente porge sempre l’altra guancia.

Solo un suo vicino di casa, che è anche il narratore della novella, comprende che in questa singolare rivolta, in questo fraseggiare inconsulto deve esserci un’orditura di fondo, un motivo preciso, una scintilla che deve aver fatto avvampare questa presunta e improvvisa follia. E lo dice in maniera illuminante, con una ineguagliabile metafora: “Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro. ‘Una coda naturalissima’ ” (Luigi. Pirandello, “Tutte le novelle”, RLI CLASSICI).

La spiegazione è semplice: il treno di cui farnetica Belluca che, improvvisamente, nella notte profonda, lui ha sentito fischiare, gli ha aperto gli occhi e le orecchie; quel fischio non è altro che il richiamo della vita, il richiamo del mondo, mondo che ha continuato a esistere al di fuori della menagrama vita condotta dal povero “computista”.

Mark Twain, “Le avventure di Tom Sawyer” e la scena della staccionata

Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer e la scena della staccionata

Oggi, 30 novembre, è l’anniversario della nascita di Mark Twain che molti di noi ricordano per le storie del suo scapestrato personaggio, Tom Sawyer.
Voglio onorare questo grande scrittore, parlando un po’ di lui, di un suo libro e in particolare, di una scena, tratta da un suo romanzo, che ho letto anni fa ma che ancora mi fa sorridere.

Mark Twain era lo pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens (Florida, 30 novembre 1835 – Redding, 21 aprile 1910), scrittore, umorista, aforista e docente, nonché autore di diversi capolavori della letteratura statunitense del XIX secolo.

Iniziò come giornalista, successivamente, passò a scrivere racconti umoristici. Con il passare degli anni e, dopo aver subito una serie di tragici lutti, diventò un cronista severo, estremamente critico nei confronti delle religioni e sospinto da un pessimismo venato di ironia.

Nella sua attività letteraria, Samuel Langhorne Clemens utilizzò diversi pseudonimi, il più noto è “Mark Twain” che ha un’origine curiosa; deriva da un grido: “by the mark, twain” (dal segno è due tese, cioè, l’acqua è profonda 12 piedi, quindi, era sicuro passare) che, nello slang della marineria fluviale degli Stati Uniti d’America, serviva a indicare la profondità delle acque.
La scelta di tale pseudonimo fu una sorta di omaggio, al lungo periodo trascorso dallo scrittore a pilotare battelli a vapore sul Mississippi.

Inoltre, il termine “Mark” è ambivalente perché è anche un nome proprio; “Twain”, invece, è la forma arcaica di “Two” (due).
Prima di usare definitivamente questo pseudonimo, lo scrittore ne adoperò altri: fino al 1863, firmò i suoi abbozzi umoristici e fantastici con il nome, “Josh”; utilizzò anche “Thomas Jefferson Snodgrass” e “Sieur Louis de Conte”, quest’ultimo solo per firmare la biografia di Giovanna d’Arco.

Uno dei maggiori meriti di Mark Twain come scrittore fu quello di aver dato vita a una letteratura specificatamente americana: nelle tematiche e nei linguaggi espressivi.
Hemingway disse di lui: “tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain, Huckleberry Finn […] Tutti gli scritti Americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza”.
Uno dei maggiori talenti che gli è riconosciuto è la sua capacità di tradurre in parole scritte la conversazione colloquiale.

Twain fu autore di molte opere conosciute, come: “Il principe e il povero; “Un americano alla corte di re Artù”; “Vita sul Mississippi”, ma, indubbiamente, i suoi due romanzi più noti, di genere picaresco (da pícaro: briccone, furfante; narrazione in apparenza autobiografica, dove il personaggio principale racconta le proprie avventure dalla nascita alla maturità) sono: “Le avventure di Tom Sawyer” e “Le avventure di Huckleberry Finn”.

Il primo romanzo della serie, “The Adventures of Tom Sawyer”, fu pubblicato nel 1876; è il primo di una serie di libri collegati tra loro: “Le avventure di Huckleberry Finn” (1884); “Tom Sawyer Abroad” (1894); il racconto, “Tom Sawyer Detective” (1896).
In tutti e quattro sono narrate le avventure di un ragazzino, Tom Sawyer, per l’appunto, che vive nel sud degli Stati Uniti, negli anni immediatamente antecedenti la guerra di secessione.

Le storie sono ambientate nella cittadina di St. Petersburg – non la cercate: non esiste – in Missouri, sulle rive del grande fiume Mississippi.
I personaggi sono ispirati alla vita dello scrittore, ai suoi amici e familiari, come veniamo a sapere da Twain stesso: “la gran parte delle avventure riportate in questo libro sono accadute realmente. Un paio sono esperienze personali, le altre di quei ragazzi che erano a scuola con me. Huck Finn è preso dal vero, e così Tom Sawyer. Tom, però, non nasce da una persona sola: per lui ho messo insieme il carattere di tre ragazzi che conoscevo, il risultato è quindi un’architettura d’ordine composito” (Mark Twain, prefazione dell’autore a “Le avventure di Tom Sayer”, 1876).

Ho letto il romanzo, “Le avventure di Tom Sawyer”, parecchi anni fa e ora, mi resta un vago e diluito ricordo della trama: un ragazzo vivace, a volte un po’ attaccabrighe che passa le giornate a combinare guai, ma dotato di una grande simpatia, di un grande senso dell’avventura e di un’arguzia, davvero senza confini.
I ricordi dei dettagli del libro sono annebbiati dal tempo, ma una scena del libro è rimasta – come dice ne “Il mestiere dello scrittore”, Haruki Murakami, “gettando dentro la mente le cose alla rinfusa, quello che deve sparire sparisce, quello che deve restare resta” – impigliata nei miei ricordi: l’imbroglio ben congegnato della staccionata.

Padrone assoluto della scena è Tom, che una ne pensa e dieci ne fa.
In questo particolare frangente, il nostro “eroe” è costretto dalla zia Polly a ridipingere una staccionata: una punizione esemplare, per l’ennesimo guaio che ha combinato.
La sottile ironia di Mark Twain sembra esplodere nell’incipit, quando descrive l’inizio della giornata – piena di promesse, specie per un ragazzo che vive di avventure – in cui Tom deve subire la punizione e quindi, non potrà godere delle eccellenti condizioni atmosferiche che si preannunciano già dal mattino:
La mattina di sabato era spuntata e l’intero mondo estivo splendeva luminoso e traboccante di vita. Ogni cuore conteneva una canzone e, se il cuore era giovane, la musica scaturiva dalle labbra. Tutti i volti esprimevano allegria, tutti i passi avevano un che di elastico. I carrubi erano in fiore e la fragranza della fioritura colmava l’aria. Verdeggiante vegetazione rivestiva Colle Cardiff, che dominava il villaggio e ne distava abbastanza per sembrare una Terra Promessa, sognante, riposante e invitante”.

Tom entra in questa scena idilliaca, comparendo da un vialetto con un secchio e un pennello.
Il ragazzo osserva la staccionata: nove metri di lunghezza per due e settanta di altezza, e la tristezza già gli invade l’animo, soprattutto perché ha saggiato le condizioni della giornata che sarebbe degna di ben altri programmi.
Svogliato ma rassegnato inizia a tinteggiare le assi, ma la sua mente già si arrovella per uscire da quell’incubo.
Con l’approssimarsi di uno dei suoi amici, il ragazzo intravede già una soluzione al suo problema.
Ben arriva saltellando su un piede; ha il cuore leggero e colmo di piacevoli aspettative, e mentre procede, addenta una mela e lancia, a intervalli, un “lungo e melodioso grido di gioia, seguito da un ‘ding dong dong, ding dong dong’ in tono profondo”: sta fingendo di essere un battello a vapore.
Dopo uno scambio vivace di battute con Ben Rogers, “proprio il ragazzo, tra tutti quelli del villaggio, le cui prese in giro [Tom] temeva di più” – ci informa Twain – il gioco è fatto.

Tom è un abilissimo manipolatore e ha una mente brillante, specie quando si tratta di evitare un impegno gravoso e magari, di guadagnarci pure qualcosa.
Fatto sta che, il nostro novello tinteggiatore di staccionate, riesce a convincere il suo amico, Ben – che, fra parentesi, si sta avviando felicemente a fare una nuotata – a prendere il suo posto e a sgobbare con calce e pennello, per sbrigare il faticoso lavoro in sua vece.

Vale la pena studiare l’astuta strategia messa in atto da Tom per ottenere il suo scopo e, in particolare, l’abilità di Mark Twain nel rappresentare con le parole, il modo sottile con cui il raggiro è messo in pratica.
Tom contemplò per un momento il ragazzo e disse:
«Cos’è che chiami lavoro?»
«Perché, non è un lavoro, questo?»
Tom ricominciò a pitturare, e rispose, con noncuranza:
«Be’, forse lo è e forse no. Io so soltanto che si addice a Tom Sawyer.»
«Oh, andiamo, non vorrai farmi credere che ti piace?»
Il pennello continuò a muoversi.

«Se mi piace? Be’, non vedo perché non dovrebbe piacermi. Capita forse ogni giorno, a noi ragazzi, la possibilità di imbiancare a calce una recinzione?»
Queste parole fecero apparire la cosa sotto una nuova luce. Ben smise di mordicchiare la mela. Tom passò il pennello, delicatamente, avanti e indietro… indietreggiò di un passo per ammirare l’effetto… aggiunse un tocco qua e uno là… poi tornò a esaminare l’effetto con aria critica, mentre Ben seguiva ogni sua mossa e diventava sempre e sempre più interessato, sempre e sempre più affascinato. Infine disse:
«Ehi, Tom, lasciami imbiancare un po’.»
Tom rifletteva. Parve sul punto di acconsentire, ma poi cambiò idea:
«No, no; credo proprio che non sia possibile, Ben. Vedi, zia Polly ci tiene enormemente a questa recinzione… dà proprio sulla strada, capisci… se si trattasse della recinzione dietro casa non m’importerebbe, e non importerebbe nemmeno a lei. Sì, è tremendamente pignola per quanto concerne questa recinzione; il lavoro deve essere fatto con somma cura; non c’è un ragazzo su mille, forse su duemila, scommetto, che possa pitturarla come deve essere pitturata.
«Ah no… eh? Oh, andiamo, lasciami soltanto provare, soltanto per un po’. Se fossi al posto tuo io te lo consentirei, Tom.»
«Ben, vorrei lasciarti provare, te lo giuro, ma zia Polly… vedi, Jim voleva pitturarla lui la recinzione, e zia Polly non glielo ha consentito. Voleva pitturarla anche Sid, e lei non ha consentito nemmeno a Sid.

Andiamo, non lo capisci in che situazione mi trovo? Se tu dovessi pitturare questa recinzione, e il lavoro non riuscisse bene…»
«Oh, storie; starei molto attento. Su, lasciami provare. Senti… ti darò il torsolo della mela.»
«Be’, allora… No, Ben, non posso. Ho paura che…»
«Te la darò tutta!»

Tom consegnò il pennello, con riluttanza sulla faccia, ma alacrità nel cuore. E mentre [il suo amico] […] sgobbava e sudava al sole, l’artista a riposo sedette all’ombra su un barile lì accanto, fece dondolare le gambe, rosicchiò la mela e progettò il massacro di altri innocenti. La materia prima non mancò; altri ragazzi passarono di lì per caso, di tanto in tanto; si avvicinarono per prendere in giro e rimasero a imbiancare a calce. Quando Ben non ne poteva ormai più, Tom aveva barattato la possibilità successiva con Billy Fisher contro un aquilone in buono stato; e quando anche Billy fu sfinito, Johnny Miller pagò lo spasso di pitturare con un topo morto e un pezzo di spago per farlo girare in aria; e così via e così via, un’ora dopo l’altra. E allorché giunse la metà pomeriggio, Tom, che quel mattino era stato un ragazzo afflitto dalla miseria, si rotolava, letteralmente, tra le ricchezze. Oltre alle cose che ho già menzionato, possedeva dodici bilie, parte di uno scacciapensieri, un frammento di bottiglia blu per guardarci attraverso, un rocchetto, una chiave che non avrebbe mai aperto niente, un pezzo di gesso, il tappo di vetro di una caraffa, un soldatino di stagno, due girini, sei petardi, un gattino con un occhio solo, una maniglia di porta in ottone, un collare per cani, ma non il cane, il manico di un coltello, quattro pezzi di buccia d’arancia e un vecchio e malconcio telaio di finestra. Per tutto il tempo era rimasto in ozio divertendosi piacevolmente, in buona e numerosa compagnia, e la recinzione aveva ben tre strati di imbiancatura a calce! Se non fosse rimasto senza calce per imbiancare, avrebbe mandato in bancarotta tutti i ragazzi del villaggio.
Tom disse a se stesso che il mondo non era poi così desolato, in fin dei conti. Senza rendersene conto, aveva scoperto una grande legge delle azioni umane, vale a dire che per indurre un uomo o un ragazzo a bramare qualcosa, è necessario soltanto far sì che quella cosa sia difficile da ottenere
” (Mark Twain, “Le avventure di Tom Sawyer”)

La scena descritta da Twain non solo è vivace e divertente ma è anche facile da immaginare, quasi fosse lo stralcio della sceneggiatura di un film o magari il testo di un fumetto per ragazzi.
Al contempo, dobbiamo fare i complimenti al nostro Tom che, con la sua sottile psicologia, darebbe, oggi, filo da torcere al più abile stratega del marketing.

Storia della scrittura #20: Romain du Roi, un carattere dal brillante futuro

Storia della scrittura #20: Romain du Roi, un carattere dal brillante futuro

In Francia, alcuni decenni prima dell’affermarsi dell’Illuminismo, viene fatto il primo valido studio scientifico sui caratteri tipografici, da cui avranno origine una serie di font con un luminoso futuro, tra questi il carattere Romain du Roi.

Mentre in Olanda, il libro continuava a incontrare grande successo; in Francia, il Re Sole (Luigi XIV di Borbone 1638 – 1715), forse infastidito da tanto trionfo, pensò fosse il caso di riformare la stampa francese. Saranno intrapresi studi sulle proporzioni dei font tipografici e nascerà anche un nuovo carattere.

Nel 1692, il ministro, Jean-Baptiste Colbert, incaricò la Commissione Bignon di compilare la “Description des Métiers”, in pratica, un compendio di arti e mestieri.
Della commissione facevano parte quattro scienziati: Jean-Paul Bignon (1662 – 1743; capo della commissione), Padre Sébastien Truchet (1657 – 1729), Jacques Jaugeon (1690 – 1710) e Gilles Filleau des Billettes (1634 – 1720).

Uno dei primi compiti della commissione fu occuparsi della stampa e della tipografia.
Jaugeon assistette padre Truchet nella creazione del primo sistema di punti tipografici e del “Romain du Roi” (Romano del Re). Essi fissarono la proporzione delle lettere di questo nuovo carattere, da cui è derivato il “Times New Roman”.

Il Re, in quello stesso periodo, aveva fatto costruire l’Ospedale Generale di Parigi (27 aprile 1656), per far imprigionare vagabondi, prostitute, pazzi e poveri; allo stesso modo, in una strana corrispondenza, le lettere, che sarebbero andate a costituire il nuovo alfabeto, furono collocate dietro a delle griglie e inserite in diagrammi.
Ogni lettera era inscritta in un quadrato, suddiviso mediante un reticolo, composto da 44 caselle: archetipo della perfezione tipografica.

A questo carattere si ispirarono in molti: Pierre Simon Fournier (1712 – 1768), i Didot e Giovanni Battista Bodoni.
Questa iniziativa francese rappresenta il primo studio scientifico di una certa valenza sui caratteri tipografici, ed è anche alla base del concetto di punto tipografico (la prima definizione è del tipografo francese, Pierre Simon Fournier, nel 1737).

Lo studio fatto sui font si rivelò utile anche durante l’Illuminismo.
I lettori del Settecento sono cambiati, non desiderano più svagarsi con le letture, ma essere informati. Nasce in questo periodo, L’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert che utilizza tavole tecniche, per illustrare in modo più chiaro gli argomenti di cui tratta; lo stile impiegato è semplice, privo di inutili ghirigori. I caratteri, quindi, in linea con tale pensiero, devono essere altrettanto semplici e facilitare la lettura. A ciò pensano i fratelli Didot che realizzano un carattere, perfettamente, al passo con i tempi.

Il nuovo alfabeto fu disegnato e poi inciso nel 1755, rispettivamente da Francois-Ambroise Didot (1730 – 1804) e da Pierre-Louis Wafflard. I nuovi caratteri sono semplici, di una purezza esemplare. Una costruzione perfettamente bilanciata di pieni e di filetti puliti e taglienti, che faranno di questo carattere il “gioiello” della tipografia francese.

Nel 1716, in Inghilterra, William Caslon (1692/1693 – 1766) disegnò il carattere romano che sarà usato per la Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776.
È però Giambattista Bodoni (1740 – 1813) l’imitatore più geniale. Questo ingegnoso italiano creò un carattere che porta il suo nome e si ispira ai “garamond”, che papa Sisto V (1521 – 1590) aveva fatto incidere a Claude Garamond (1480 – 1561) e Guillaume Le Bè (1524 – 1598).
Questo carattere ebbe un grande successo. Diffuso in tutta Europa, sarà usato in Inghilterra per stampare i giornali fino alla metà del XX secolo.