Mottetto di Dufay e cupola di Brunelleschi: due meraviglie a confronto #1

Mottetto di Dufay e cupola di Brunelleschi due meraviglie a confronto #1

“Nuper rosarum flores” è un brano musicale composto da Guillaume Dufay in occasione di una celebrazione fiorentina: la consacrazione della chiesa di Santa Maria del Fiore.

Chi non conosce la cupola di Brunelleschi, ma quanti sanno che un mottetto fu scritto appositamente da un musicista franco-fiammingo, Guillaume Dufay, per essere cantato durante la cerimonia della consacrazione della celebre cattedrale di Firenze?

Il mio ultimo soggiorno a Firenze risale a poco prima che esplodesse l’epidemia di covid. Ci sono un’infinità di luoghi interessanti e meravigliosi da visitare a Firenze, ma una delle cose più preziose da ammirare in città è la cupola di Santa Maria del Fiore. Impossibile non restare affascinati da una struttura così straordinaria.

Ai tempi della mia tesi di laurea, ho scoperto la relazione esistente tra questa grandiosa opera architettonica e una composizione musicale altrettanto pregevole. Si tratta di “Nuper rosarum flores” (Ecco fiori di rosa) di Guillaume Dufay (1397 ca. – 1474; compositore e teorico musicale franco-fiammingo, figura di rilievo della scuola di Borgogna e tra i più noti compositori europei della metà del Quattrocento. La sua opera ha dato inizio al periodo rinascimentale in musica), un mottetto isoritmico (isoritmia: ripetizione di una figura ritmica – successione di valori di durata delle note – nelle diverse frasi di una composizione musicale) composto nel 1436, che fa riferimento al nome e allo stemma di Firenze, e alla dedica della basilica a Santa Maria del Fiore.

“Nuper rosarum flores” fu scritto da Dufay in occasione della cerimonia per la consacrazione della cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, quando finalmente, la cupola edificata dall’architetto e scultore Filippo Brunelleschi (1377-1446) fu portata a compimento. Per rendere l’idea del fasto e della solennità della cerimonia basterà dire che il rito della dedicazione fu officiato da Papa Eugenio IV in persona, il 25 marzo del 1436.

I mottetti celebrativi come quello di Dufay erano una consuetudine per quell’epoca, si trattava di brani destinati a dare veste sonora a importanti eventi della vita pubblica. Inoltre, il musicista franco-fiammingo è riuscito in questa composizione a coniugare l’antico stile isoritmico con il nuovo stile contrappuntistico che fu sviluppato nel decennio successivo da lui stesso e dai suoi successori.

Possiamo solo immaginare l’effetto che produsse il prodigioso brano musicale in coloro che furono presenti, possiamo però farcene un’idea, leggendo le testimonianze scritte che sono rimaste di quei memorabili festeggiamenti.
In particolare, è interessante la descrizione fornita da Giannozzo Manetti (1396-1459; scrittore, filologo e umanista italiano, importante esponente del primissimo Rinascimento letterario), uno dei pochi testi umanistici che descrivono, anche se in modo generico, una esecuzione di musica polifonica.

Si udirono cantare voci così numerose e così varie, e tali sinfonie s’elevarono verso il cielo, che si sarebbe creduto di sentire un concerto d’angeli […] Quando il canto cessava […] si sentivano suonare gli strumenti in maniera […] allegra e soave […] Al momento dell’elevazione la basilica tutta intera risuonò di sinfonie così armoniose, accompagnate dal suono di diversi strumenti, che si sarebbe detto che il suono e il canto del paradiso fossero scesi dal cielo sulla terra” (Giannozzo Manetti, “Oratio de secularibus et pontificalibus pompis in consecratione basilicae florentinae”, 1436).

Nuper rosarum flores è una composizione simbolica, essa rappresenta, più di qualunque altro esempio del genere, la tendenza quattrocentesca, ereditata dal Medioevo, di strutturare una composizione musicale sulla base di rapporti di grandezza stabiliti matematicamente.

La singolarità del brano di Dufay, però, si spinge oltre le semplici cifre matematiche.
Il musicologo Charles Warren, in un suo articolo del 1973, sostenne che le strutture proporzionali del mottetto fossero collegate alle proporzioni della cupola di Brunelleschi. In realtà, questa tesi si rivelò errata: Craig Wright dimostrò, successivamente, che le proporzioni impiegate dal musicista, probabilmente, derivavano dalle indicazioni bibliche relative alle misure del tempio di Salomone. Le indagini in questo senso non si arrestarono: la possibilità di un rapporto diretto tra le proporzioni del mottetto e quelle della costruzione di Brunelleschi si ripresentarono e furono ampliate, includendo persino la simbologia legata all’Apocalisse.

Nuper rosarum flores è un mottetto a quattro voci: due tenores, motetus e triplum.
La struttura del brano poggia su un cantus firmus (canto fermo, melodia eseguita da una voce – tenor – nell’arco della composizione; base su cui si sviluppava il gioco contrappuntistico delle altre voci) la cui melodia era tratta dal repertorio liturgico, nel caso specifico era l’incipit dell’introito dalla messa per la dedicazione di una chiesa: “Terribilis est locus iste” (Questo luogo incute rispetto).
Tenor I e II (strumentali) eseguono la melodia con note lunghe e ritmicamente sfalsata, a distanza di una quinta l’uno dall’altro.

Il mottetto è diviso in quattro parti; in ognuna compare il cantus firmus che però è variato ritmicamente nelle sue quattro riproposizioni da parte dei due tenores.
Le altre due voci: triplum e motetus intonano una lirica latina, iniziano ciascuna sezione da soli e tali restano per 28 brevi (breve: valore musicale di durata doppia dell’intero; è raffigurata come una testa rettangolare vuota o, più recentemente, come una testa ovale vuota tra due barre laterali), poi alle loro voci si uniscono i due tenores, per la durata di altre 28 brevi.
Ogni sezione è formata da due segmenti (28+28 brevi), il primo è eseguito a due voci, il secondo a quattro.

Osservando esclusivamente la notazione del mottetto di Dufay si rilevano dimensioni identiche (56 brevi), ma il metro nella composizione è variato, per cui la durata autentica di note e pause non è la stessa. Considerando il numero di tactus (unità di misura del tempo e relativa figura di nota; nella musica rinascimentale, di solito, corrispondeva al battito medio del polso umano che era il punto di riferimento per stabilire il valore assoluto di durata di tutte le figure musicali della notazione) si ricavano quattro numeri dalle corrispondenti sezioni: 168, 112, 56, 84. Riducendo a i minimi termini questi numeri e affiancando a essi altre cifre – ricavate dai loro prodotti e dai divisori usati per semplificare i quattro numeri delle sezioni – si ottengono altre serie, tra cui compare il numero 7 che emerge anche dal testo (quello in latino cantato da motetus e triplum è composto da 4 strofe di 7 versi e ogni strofa possiede versi di 7 sillabe).

I numeri ottenuti rientrano nel panorama della metafisica medievale e umanistica che riteneva che la struttura del cosmo e dell’uomo fossero regolati da rapporti matematici.
Il mottetto di Dufay non fa difetto a tale regola: l’esistenza di rapporti proporzionali tra le dimensioni delle sezioni e la presenza frequente di certi valori numerici nella struttura interna di Nuper rosarum flores rientrava nella consuetudine di ricreare l’ordine cosmico, anche all’interno di creazioni musicali, come in qualsiasi altra realizzazione umana.
Inoltre, in Nuper rosarum flores sono presenti numeri con un significato simbolico, oltre ai riferimenti biblici al tempio di Salomone (le cifre 6, 4, 2 e 3 rimandano alle proporzioni secondo cui, stando all’antico testamento, era stato edificato il tempio) c’è anche un richiamo esplicito alla Vergine, attraverso il numero 7 che nel simbolismo medievale era a lei tradizionalmente collegato (sette dolori di Maria, sette gioie, sette opere di misericordia, sette anni di esilio trascorsi in Egitto, ecc.)

Se il mottetto Nuper rosarum flores di Dufay è un capolavoro sonoro che ha travalicato i secoli, la cupola di Brunelleschi non è certo da meno: è una realizzazione architettonica grandiosa che tuttora suscita ammirazione e stupore (ne parleremo in un prossimo post).

Testo e traduzione del mottetto

Nuper rosarum flores
Ex dono pontificis
Hieme licet horrida
Tibi, virgo coelica,
Pie et sancte deditum
Grandis templum machinae
Condecorarunt perpetim.

Hodie vicarius
Jesu Christi et Petri
Successor Eugenius
Hoc idem amplissimum
Sacris templum manibus
Sanctisque liquoribus
Consecrare dignatus est.

Igitur, alma parens
Nati tui et filia
Virgo decus virginum,
Tuus te Florentiae
Devotus orat populus,
Ut qui mente et corpore
Mundo quicquam exorarit

Oratione tua
Cruciatus et meritis
Tui secundum carnem
Nati Domini sui
Grata beneficia
Veniamque reatum
Accipere mereatur.
Amen

Recentemente fiori di rose,
come dono del pontefice, – nonostante il terribile inverno –
hanno ornato questo tempio
di eccezionale costruzione
dedicato devotamente e solennemente
a te, vergine del cielo.

Oggi il vicario di Gesù Cristo
e il successore di Pietro, Eugenio,
si è degnato di consacrare
questo grandissimo tempio
con le sue sante mani
e con i sacri oli.

Ora, benevola madre
e figlia di tuo figlio,
vergine e decoro di tutte le vergini,
il tuo devoto popolo di Firenze
prega che chiunque abbia richiesto
qualcosa con una mente e un corpo sani

sia degno di ottenere
con la tua preghiera
e per i meriti di tuo figlio
nella sua sofferenza carnale
i graditi doni del Signore
e il perdono dei peccati.
Amen

In copertina: Guillaume Dufay e Gilles Binchois (a destra). Miniatura tratta da Martin Le Franc, “Champion des dames” (Arras 1451), collezione BnF, ms. en 12476, foglio 98.

Cardarelli: il poeta che conciliò passione e compostezza formale

Cardarelli il poeta che conciliò passione e compostezza formale

Cardarelli ha espresso nei suoi versi le emozioni create dal passare del tempo, dall’avvicendarsi delle stagioni, dal trascorrere dei giorni e delle ore. Due delle sue poesie più famose sono dedicate a Venezia, qui i versi che descrivono la città si fondono con le emozioni del poeta.

Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia, 1° maggio 1887 – Roma, 18 giugno 1959), il cui vero nome era Nazareno Caldarelli, è stato un poeta, scrittore e giornalista italiano.
A Corneto Tarquinia, Vincenzo trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Due periodi della sua vita particolarmente duri, segnati dall’assenza della madre, che lasciò la famiglia quando il poeta era ancora piccolo, dalla solitudine e da problemi di salute.

Cardarelli compì studi irregolari e per la maggior parte, come autodidatta.
A diciassette anni scappò di casa e si recò a Roma, per mantenersi si dedicò ai più svariati mestieri, poi nel 1909, intraprese la carriera giornalistica, iniziando a collaborare con vari quotidiani e riviste.
Nel 1916, diede alle stampe la sua prima raccolta di poesie, “Prologhi”. Da quel momento, l’attività giornalistica si intrecciò con quella poetica.

Vincenzo Cardarelli è famoso per le numerose raccolte poetiche, ma anche per le prose autobiografiche di costume e di viaggio: “Prologhi” (1916), “Viaggi nel tempo” (1920), “Favole e memorie” (1925), “Il sole a picco” (1929), “Il cielo sulle città” (1939), “Lettere non spedite” (1946), “Villa Tarantola” (1948).
I suoi punti di riferimento letterari furono: Charles Baudelaire (1821-1867), Friedrich Nietzsche (1844-1900), Giacomo Leopardi (1798-1837), Blaise Pascal (1623-1662). Grazie a loro riuscì a dare forma alle proprie passioni incastonandole in una cornice razionale.
La sua poesia era essenzialmente descrittiva, connessa ai ricordi: di paesaggi, di animali, di persone e di stati d’animo. Il poeta utilizzava un linguaggio discorsivo ma al contempo, passionale e profondo.

La vita di Cardarelli fu essenzialmente un’esistenza isolata; per similitudini poetiche, caratteriali e anche per problemi di salute (soffriva del morbo di Pott, una forma di tubercolosi extrapolmonare) fu accostato a Leopardi.
Morì a Roma, il 18 giugno 1959, e il suo corpo fu sepolto nel cimitero di Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca, come da lui specificatamente richiesto nel testamento.

La sua opera poetica si colloca tra l’avanguardia del primo decennio del Novecento e la restaurazione classicista degli anni venti. Dello spirito avanguardistico restò sempre un’eco nella poesia di Cardarelli, anche quando formalmente se ne distaccò. Nelle poesie più vicine a quella corrente il poeta aderiva a particolari scelte espressive, come frammentismo ed espressionismo linguistico, e utilizzava argomenti, quali lo sradicamento, la perdita di identità, l’adolescenza, il viaggio.
Il ritorno all’ordine, dopo le pulsioni avanguardiste, si verificò intorno agli anni Venti e fu la conseguenza di un’incertezza psicologica, causata dalla crisi della funzione sociale dell’intellettuale. Questo clima restaurativo fu accolto con entusiasmo da Cardarelli che reputò tale ritorno al passato e alla tradizione, come un’occasione per rilanciare l’identità del letterato e dell’intellettuale.

I versi di Cardarelli manifestano una grande chiarezza logica e limpidezza linguistica; lo stile è elegante e rigoroso. Il poeta nelle sue liriche ha sempre aspirato alla compostezza, a un tono colloquiale e a un atteggiamento distaccato, muovendosi sempre tra due poli contrastanti, quello dell’impulso trasgressivo e quello del desiderio di autocontrollo. Tra i due estremi, solitamente, prevaleva la moderazione che sfociava in un garbo formale.

Nelle poesie di Cardarelli, i temi ricorrenti sono il trascorrere delle stagioni, i ricordi dell’infanzia e dei paesaggi collegati a quel periodo. Il poeta esplorava allo stesso modo la vitalità estiva e il disfacimento malinconico dell’autunno. Per lui, il passare del tempo era l’emblema delle vicissitudini della vita.

Tra le due Guerre mondiali, Cardarelli visse tra Toscana, Lombardia e Veneto. Il Veneto sembra aver dato le ali alla sua ispirazione, specialmente la città di Venezia alla quale il poeta ha dedicato due tra le sue poesie più note.

La prima poesia sulla città veneta è: “Settembre a Venezia” che compare per la prima volta nella raccolta “Poesie”, del 1936.
Il poeta raffigura la città lagunare durante un crepuscolo di settembre; gli ultimi raggi del sole fanno brillare gli ori dei mosaici di San Marco, mentre la luna sorge sulle Procuratie vecchie.
Il componimento poetico è diviso in due parti. Nella prima, il poeta descrive gli effetti del tramonto sulla città; nella seconda, riflette sulle impressioni che susciterà in lui il ricordo, quando le immagini davanti ai suoi occhi si saranno sedimentate, diventando finalmente sue.
I versi di questa lirica sono liberi, ci sono soltanto due casi di rima (vv.8 e 11; 20 e 22), mentre ci sono allitterazioni e rispondenze interne.

Settembre a Venezia

Già di settembre imbrunano
a Venezia i crepuscoli precoci
e di gramaglie vestono le pietre.
Dardeggia il sole l’ultimo suo raggio
sugli ori dei mosaici ed accende
fuochi di paglia, effimera bellezza.
E cheta, dietro le Procuratìe,
sorge intanto la luna.
Luci festive ed argentate ridono,
van discorrendo trepide e lontane
nell’aria fredda e bruna.
Io le guardo ammaliato.
Forse più tardi mi ricorderò
di queste grandi sere
che son leste a venire,
e più belle, più vive le lor luci,
che ora un po’ mi disperano
(sempre da me così fuori e distanti!)
torneranno a brillare
nella mia fantasia.
E sarà vera e calma
felicità la mia.

L’altra poesia dedicata da Cardarelli alla città lagunare è: “Autunno veneziano”. Fu pubblicata nel 1942, nella raccolta “Poesie”. In questi versi, il poeta illustra un autunno fatto di morte e di disfacimento, privo di suoni e velato di una malinconia venefica.

Autunno veneziano

L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale,
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando

il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale

è tutto l’autunno veneziano.

Così a Venezia le stagioni delirano.

Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.

Venezia ha avuto un’eco nella vita e nella produzione poetica di Cardarelli. Mentre risiedeva nella città veneta, il poeta diede corpo al suo fascino, attraverso versi dotati di sensibilità ed eleganza. Le sue parole la raffigurano sospesa in un magico equilibrio tra decadenza e antichi splendori bizantini.
Il punto di partenza di Cardarelli, anche nel caso delle due liriche dedicate a Venezia, è lo stesso che ricorre in tutta la sua poetica: una stagione, un ricordo, un’emozione.

“Dieci piccoli indiani”: una singolare lettura dell’assassino

Dieci piccoli indiani una singolare lettura dell’assassino

“Dieci piccoli indiani” è uno dei tanti capolavori gialli di Agatha Christie. In una prefazione, di una delle tante edizioni del libro, ho apprezzato l’originale punto di vista applicato al misterioso signor Owen.

In una strana associazione per contrasto, pensando a “Dieci piccoli indiani” mi è tornata in mente la frase evangelica “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8,3). In realtà nel famosissimo giallo, nonché pièce teatrale di Agatha Christie, accade l’esatto contrario: nel gruppo riunito a Nigger Island nessuno è innocente.

A partire dagli invitati del misterioso signor Owen: Anthony Marston, John Macarthur, Emily Brent, Lawrence Wargrave, William Blore, Edward Armstrong, Philip Lombard e Vera Claythorne, sino ai due coniugi, Thomas ed Ethel Rogers, assunti come domestici.

Io sono tra coloro che leggono prefazioni e postfazioni, a volte mi sento un po’ sciocca, a perdermi in tanti lunghi discorsi attorno all’autore o all’opera che sto per leggere, ma lo considero quasi un rito, un rito di attesa che non riesco a tralasciare.
Spesso, questo atteggiamento paga: si scoprono notizie interessanti e punti di vista curiosi che finiscono per assommarsi piacevolmente al ricordo del libro stesso. Leggendo “Dieci piccoli indiani” mi sono trovata in una di queste felici situazioni.

Nella prefazione di un’edizione di questo capolavoro della Christie – purtroppo, e me ne rammarico moltissimo, non ricordo chi ne fosse l’autore e neppure l’edizione del libro – ho trovato un’osservazione singolare sulla storia e in particolare, sul personaggio del misterioso ospite: il signor Owen.
Secondo l’autore della prefazione, la Christie ci ha deliziato con gialli in cui gli assassini uccidono per moventi tradizionali: denaro, vendetta, gelosia; moventi concreti e gli assassini non sono mai dei seriali, anche se ne “La serie infernale”, almeno per un certo lasso di tempo, crediamo proprio di trovarci di fronte a un serial killer, ma in realtà, le cose prenderanno una piega ben diversa.

In “Dieci piccoli indiani”, secondo l’autore della prefazione, invece, siamo proprio alle prese con un serial killer.
Secondo alcuni studi fatti sui seriali, si è stimato che alcuni di loro sceglievano delle professioni che consentivano loro di uccidere, in modo legale, alcuni diventavano boia, altri mercenari.
Anche il personaggio di Agatha Christie, Lawrence Wargrave, ha scelto una professione che gli consentiva, legalmente, di commettere degli omicidi, per interposta persona, e in più le vittime non erano innocenti, bensì dei criminali. Il suo desiderio di uccidere era così sublimato dal ruolo che svolgeva per la comunità.

Scoperto di avere poco tempo da vivere e spinto da un desiderio più forte di uccidere, il giudice decide di passare dall’altra parte della barricata: sceglie dieci vittime, dieci persone colpevoli di aver commesso un omicidio e tutte sfuggite alle maglie della legge.

La uccisione sequenziale di questi soggetti inizia dopo il verdetto, emesso da una voce proveniente da un grammofono che inchioda ognuno di loro, anche i domestici, alla propria colpa, elencando date e nomi delle vittime dei loro omicidi.

Da quel momento in poi gli invitati sull’isola iniziano a morire, e se il giudice, non ha un modus operandi identico per ogni omicidio, come accade per solitamente per i serial killer, in quanto le cause di morte sono sempre diverse, si può però intravedere una firma: la famosa filastrocca profetica e le statuine dei negretti che scompaiono a una a una dal centrotavola della sala da pranzo.

Giacomo Casanova: la vita rocambolesca di un seduttore II

Giacomo Casanova era un uomo colto e grande viaggiatore, in un’epoca, il Settecento, in cui la gente non viaggiava molto. Nella sua vita avventurosa finì varie volte in carcere e affrontò persino un duello.

Nel 1755, Giacomo Casanova fu arrestato a Venezia, i motivi del suo imprigionamento sono stati oggetto di varie discussioni.
La sua non fu di certo una vita irreprensibile e indubbiamente non lo si poteva definire un uomo dalle specchiate virtù. Anzi, proprio a causa della sua vita spregiudicata, era controllato dagli inquisitori, come dimostrano molti rapporti delle spie al servizio dei suoi accusatori. In questi documenti sono riferiti in maniera puntuale tutti i suoi comportamenti, specialmente quelli immorali e disdicevoli.
Le accuse che, in particolare, furono rivolte a Casanova, al tempo dell’imprigionamento ai Piombi, riguardavano il “libertinaggio”, attuato con donne sposate, il vilipendio della religione, i raggiri ai danni di alcuni nobili e un contegno pericoloso sia per il buon nome sia per la stabilità del regime aristocratico.

L’esistenza sregolata – anche se molto simile a quella che conducevano molti giovani eredi di grandi casate: giocava e barava, aveva idee non del tutto ortodosse in materia di religione e soprattutto faceva ogni cosa alla luce del sole – il fatto di essere un membro della Massoneria, la scandalosa relazione con una suora “M.M.”, di sicuro una nobile, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in Murano, non deponevano a suo favore e l’oligarchia veneziana non poteva accettare che un uomo di tale risma potesse restare in circolazione.
Ma Casanova aveva dalla sua amicizie di un certo peso nell’aristocrazia, amicizie che gli garantirono una condanna lieve durante la reclusione e forse gli furono di aiuto anche per l’evasione.

Quando fu arrestato, Giacomo Casanova non si perse d’animo e si organizzò per fuggire.
Il primo tentativo andò a vuoto a causa di uno spostamento di cella, ma il secondo, nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1756, andò a buon fine.
Per evadere passò dalla cella alle soffitte, sfruttando un’apertura procurata da un suo compagno di prigione, il frate Marino Balbi, da qui uscirono sul tetto e poi scesero all’interno del palazzo attraverso un abbaino. Insieme al complice varcarono diverse stanze, finché non li vide un passante che li scambiò per visitatori rimasti chiusi all’interno. Prontamente avvisato un addetto del palazzo, fu aperto loro il portone e i due fuggitivi, guadagnata l’uscita, si involarono rapidamente con una gondola.

La fuga condusse i due ex galeotti verso nord. Ripararono per un po’ a Bolzano, poi si rifugiarono a Monaco di Baviera, da qui, Giacomo Casanova proseguì da solo verso Augusta prima e poi Strasburgo.
Il 5 gennaio 1757, il nostro fuggitivo giunse a Parigi, dove trovò accoglienza e appoggio dal suo amico François-Joachim de Pierre de Bernis (1715-1794) che nel frattempo era diventato ministro.
Sistematosi a dovere, riprese le sue normali attività, facendosi notare in società e frequentando la crème de la crème della capitale.
Provvidenziale fu la conoscenza della marchesa d’Urfé, un’aristocratica ricchissima e stravagante. Con lei Casanova intrecciò una lunga e fruttuosa relazione: sperperò notevoli somme di denaro che la donna, conquistata dal suo fascino, gli elargiva.

Giacomo Casanova promosse anche una lotteria nazionale per rimettere in sesto le finanze dello Stato. Fu autorizzato ufficialmente e nominato “Ricevitore”. La sua idea fu così brillante che tuttora è ancora utilizzata.
Nello stesso periodo, fu coinvolto in un’intricata e incresciosa vicenda da cui riuscì a salvarsi grazie alla sua proverbiale prontezza.
Successivamente, abbandonò la lotteria e tentò di mettere in piedi un’attività imprenditoriale: una manifattura di tessuti che fu un totale fallimento, anche a causa della guerra in corso. Il fallimento e i debiti lo condussero di nuovo in carcere, ma la marchesa d’Urfé intervenne prontamente a soccorrerlo.

Successivamente, viaggiò per l’Europa, nei Paesi Bassi e poi in Svizzera, infine tornò in Italia, a Genova, poi a Firenze e infine, a Roma.
Nel 1762 è di nuovo a Parigi, dove tornò a praticare rituali magici insieme alla marchesa d’Urfé, almeno finché la donna non fu consapevole di essere stata ingannata e raggirata da Casanova, a quel punto, la donna interruppe ogni rapporto e Casanova si trasferì a Londra, poi andò a Berlino e nel 1764, giunse in Russia, a San Pietroburgo, mentre l’anno successivo lo troviamo a Mosca.

Dovunque andasse, Giacomo Casanova era accolto da membri altolocati dell’aristocrazia, da imperatori e personaggi storici di notevole rilevanza. Sorprende di questa straordinaria vita non solo la quantità e la varietà di avvenimenti, ma anche questa facilità di poter incontrare persone a dir poco inaccessibili, o comunque avvicinabili solo da pochi e centellinati visitatori.
È quasi certo fosse la fama che lo precedeva a spalancargli innanzi tutte queste porte e la curiosità che circondava la sua persona.

Inoltre, non guastava il fatto che, Casanova fosse un abile intrallazzatore: trovava agganci, si procurava lettere di presentazione e si muoveva con grande destrezza. Era anche largamente favorito dalla sua vasta cultura, dalla sua capacità di intessere conversazioni brillanti e si avvantaggiava del fascino del viaggiatore.

Nel 1766, un episodio spiacevole segnò il suo soggiorno in Polonia: il duello con il conte Branicki.
Durante un litigio, il conte offese Casanova che non si ritirò in buon ordine di fronte a quell’uomo potente e pericoloso, come avrebbe fatto chiunque altro. Giacomo Casanova che era anche un uomo coraggioso: sfidò a duello Branicki e nonostante fosse ferito, riuscì a lasciare la Polonia; il conte, ferito gravemente, riconobbe la correttezza del suo avversario e impedì ai suoi di fermarlo.

Casanova si spostò poi a Vienna e da qui a Parigi, da dove fu espulso a causa di un provvedimento voluto dai parenti della marchesa d’Urfé. Lasciata la capitale francese si diresse in Spagna, dove finì di nuovo in prigione. La tappa successiva fu la Provenza e dopo una brutta malattia riprese a viaggiare: Roma, Napoli, Bologna, Trieste. Intanto, sperava di ottenere la grazia da Venezia che finalmente arrivò il 3 settembre 1774.

Tornato a Venezia, Giacomo Casanova si riavvicinò alle sue vecchie frequentazioni e amicizie. Essendo in ristrettezze si dedicò alla scrittura, sfruttando la sua ampia rete di relazioni per assicurarsi sottoscrittori per le sue opere letterarie, trovando molti consensi.
Di questi anni è la relazione con Francesca Buschini, una ragazza semplice e incolta. Casanova rimase molto legato a questa donna, anche quando fu costretto ad allontanarsi da lei.

Negli anni a seguire, pubblicò altre opere, ma fu di nuovo vittima della sua indole passionale e impetuosa. Fece pubblicare un libello, per vendicarsi della famiglia Grimani che non aveva preso le sue parti in una discussione.
Nello scritto rivelò di essere il vero figlio di Michele Grimani e dichiarò che un altro Grimani era nato da una relazione adulterina. La nobiltà si schierò contro di lui e Giacomo Casanova fu costretto all’esilio. Lasciò Venezia per sempre, nel gennaio 1783 e si recò dapprima a Vienna. Gli ultimi anni li passò in Boemia, dove finì i suoi giorni.

Da lontano, ascoltò gli echi della Rivoluzione francese, ricevette le notizie della caduta della Repubblica di Venezia e vide crollare a poco a poco il suo mondo.
Unico conforto in tanta desolazione, oltre alla nutrita corrispondenza con i suoi amici veneziani, fu la stesura della “Histoire de ma vie”, l’opera autobiografica che impegnò le sue residue energie.
Casanova si dedicò alla scrittura di questo testo con foga e tenacia, per scongiurare che la morte sopravvenisse prima che avesse concluso il suo lavoro.

La sua opera letteraria ebbe un destino opposto a quello che l’autore avrebbe desiderato. I testi di ordine filosofico, storico e matematico non ebbero mai il riconoscimento letterario e scientifico che lo scrittore aveva agognato, mentre le opere autobiografiche ebbero grande successo, soprattutto l’Histoire, ma dopo la sua morte, qui Casanova si rivela un moderno scrittore di costume.

In copertina: particolare del dipinto di Jean-Honoré Fragonard “I fortunati casi dell’altalena”

Codice 206: I casi del commissario Nick Raisi

In “Codice 206”, il commissario Nick Raisi si troverà coinvolto in un cold case. A trascinarlo dentro le indagini saranno i misteriosi messaggi lasciati da “Ala”, un writer che ha fatto della sua arte un’arma al servizio della giustizia.

Dopo “Rime Mortali“, torna con “Codice 206”, il personaggio di Nick Raisi, un tipo davvero singolare a cominciare dalle sue passioni: l’hip hop e i dolci. Il commissario romano odia la neve e la montagna, ma a causa di un’indagine scabrosa si ritrova catapultato, suo malgrado, dalla sua amata Roma a Brunico, in Alto Adige. Il suo arrivo ha portato diversi cambiamenti in città, soprattutto nel modo di condurre le indagini.

Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.” (Friedrich Nietzsche)

Nick Raisi è insolito, a volte divertente.
Conduce le indagini con una patina d’ironia e riesce sempre a fiutare la pista giusta che conduce alla verità.
Stavolta il commissario romano, trasferito a Brunico, deve indagare su un uomo scomparso anni prima, che i suoi concittadini credevano morto per un incidente in montagna.
Ad aiutarlo ci sarà un misterioso writer che si firma “ALA” e che lo sfiderà a risolvere i suoi rebus tappezzati per la città.
Raisi con l’aiuto della sua squadra e le felici intuizioni della sua ragazza, Larissa Meier, darà una luce completamente diversa al caso dell’uomo scomparso che dietro una impeccabile facciata nascondeva un terribile segreto.
Il commissario dovrà muoversi tra omertà e coni d’ombra, fino a svelare la vera natura della vittima e l’identità del suo assassino.

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Giacomo Casanova: la vita rocambolesca di un seduttore I

Giacomo Casanova la vita rocambolesca di un seduttore

Giacomo Casanova, il cui anniversario della nascita ricorre proprio oggi, 2 aprile, fu un uomo dai molti talenti. Grande viaggiatore, mente brillante passava dalla poesia all’alchimia e fu anche un notevole scrittore, soprattutto quando mise per iscritto le sue mirabolanti avventure.

Chi non conosce il termine “Casanova”?
Immagino che tutti sappiano il significato acquisito di tale parola, cioè seduttore e donnaiolo, individuo che ha successo con le donne ed è sempre in cerca di avventure galanti. Scommetto che altrettanto nota sia la sua derivazione dal settecentesco scrittore e avventuriero veneziano, Giacomo Casanova.

Ma quanti conoscono la vita di questo singolare personaggio che era molto più di un raffinato seduttore?

Giacomo Girolamo Casanova (Venezia, 2 aprile 1725 – Duchov, 4 giugno 1798) oltre alle donne, aveva anche molti altri interessi, altrettanto impegnativi, quali l’esoterismo, l’alchimia, la filosofia e tra le tante professioni e mestieri che esercitò, un po’ per passione e un po’ per necessità, fu diplomatico, scienziato e persino agente segreto. Fu anche scrittore e autore di una considerevole produzione letteraria che abbracciava: trattati e testi saggistici di vari argomenti; opere letterarie in prosa e in versi.

A dargli fama e maggiore lustro e a fargli acquisire notorietà mondiale come conquistatore di cuori femminili, fu l’ “Histoire de ma vie” (Storia della mia vita). In questo testo, Casanova descrisse con una certa schiettezza le sue avventure, parlò dei suoi viaggi e narrò, in particolare, le sue relazioni amorose.
L’autore scelse il francese per scrivere l’Histoire, questa decisione fu frutto di una ponderata valutazione: nel XVIII secolo, il francese era la lingua più nota ed era parlata dall’élite europea.

Casanova visse in una fase di svolta della storia e persino la sua opera letteraria precorreva i tempi, anche se lui non se ne rese conto. Come non si rese conto che i valori e i principi dell’ancien régime e della sua classe dominante: l’aristocrazia, su cui lui aveva modellato la sua esistenza, erano avviati irrimediabilmente al declino.

Giacomo Casanova nacque in Calle della Commedia (attualmente Calle Malipiero), vicino alla chiesa di San Samuele. Suo padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino, mentre sua madre, Zanetta Farussi, era un’attrice veneziana che riscosse nella sua vita un certo successo professionale – ricevette elogi anche da Carlo Goldoni.
Già la nascita di questo singolare personaggio nasconde un segreto, neanche troppo nascosto, perché circolava tra il popolo e fu confermato dallo stesso Casanova in un libello. Inoltre, non si spiegherebbero certi fatti, se appunto non si nutrissero dubbi sulla vera identità di suo padre. Le voci popolari indicavano, come più probabile genitore, il nobile veneziano, Michele Grimani, che aveva avuto una relazione con la madre di Casanova. Anche una certa somiglianza tra padre e figlio non faceva che confermare tale possibilità e piuttosto rivelatore fu anche l’aiuto e la protezione che la famiglia Grimani concesse a Casanova in tutto l’arco della sua esistenza.

Fu la nonna materna, Marzia Baldissera in Farussi, a occuparsi principalmente di lui che era rimasto orfano del padre in tenera età ed era poco seguito dalla madre, costretta a viaggiare per lavoro.
A nove anni Casanova si trasferì a Padova per studiare e qui frequentò anche l’università. Alla fine degli studi, fece i suoi primi viaggi e nel 1742, comparve di nuovo a Venezia. L’anno successivo si verificarono diversi fatti spiacevoli per il nostro libertino: morì sua nonna, alla quale era particolarmente legato; la madre lasciò la casa in Calle della Commedia e si sistemò con i figli in un’abitazione più modesta. Questi cambiamenti influirono molto nella vita di Casanova che, per la prima volta, finì in carcere, a causa del suo atteggiamento ribelle.

Uscito di prigione, dapprima fu in Calabria, poi si spostò a Napoli e a Roma. Fu al servizio di vari prelati, ma ben presto fu liquidato per la sua condotta imprudente e nel 1744, approdò, per la seconda volta ad Ancona, qui si innamorò di un castrato: Bellino che in realtà era una donna, il suo nome era Teresa, con lei Casanova ebbe una lunga relazione e persino un figlio.

Tornato a Venezia, visse per un po’ dei proventi guadagnati suonando il violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei Grimani. Nel 1746, per un caso fortuito, strinse un’amicizia che durò tutta la vita con il senatore veneziano Matteo Bragadin e inoltre, conobbe i due più cari amici del patrizio veneziano, Marco Barbaro e Marco Dandolo. Queste conoscenze gli furono utili in più occasioni.
Qualche anno dopo, invece, conobbe Henriette, uno dei suoi più grandi amori. Si pensa si trattasse di un’aristocratica di Aix-en-Provence, forse, Adelaide de Gueidan.

Nelle sue memorie, Casanova cita personaggi reali, a volte ne vela l’identità, specie quando si trattava di donne sposate che spesso sono menzionate con le sole iniziali oppure con nomi inventati, ma in generale è semplice individuare chi siano i soggetti di cui parla l’autore e anche i fatti sono corretti e verificabili.
Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che alcuni passaggi siano romanzati e inventati dall’autore, pur facendo riferimento a personaggi esistiti storicamente. In ogni caso, episodi veri o romanzati, la qualità delle Memorie non muta: lo scrittore riesce a creare un ritmo serrato e persino la tensione emotiva dei suoi personaggi è dotata di un sorprendente realismo. Non sarà tutto vero, forse, ma il testo funziona ed è efficace.

Nel 1750, Casanova torna a Venezia, ma pochi mesi dopo parte di nuovo alla volta di Parigi. In questo periodo aderisce alla Massoneria che gli consente non solo di incontrare personaggi di un certo rilievo, quali Mozart e Franklin, ma di ottenere non poche facilitazioni di varia natura.

È il 1755, quando lo troviamo di nuovo a Venezia, di rientro da viaggi in varie città: Dresda, Praga e Vienna. L’accoglienza non fu delle migliori: Casanova fu arrestato e imprigionato nei Piombi (antica prigione ubicata nel sottotetto del Palazzo Ducale di Venezia, nel sestiere di San Marco; il singolare nome deriva dal materiale con cui era fabbricato il loro tetto. Qui si era imprigionati per volontà del Consiglio dei Dieci, per crimini politici o perché si era in attesa di giudizio).
Casanova però, restando fedele alla sua natura, sprezzante del pericolo e della possibile conseguente eliminazione da parte degli inquisitori, evade in maniera rocambolesca dalla prigione veneziana.

I motivi dell’arresto vedono fioccare molte ipotesi, ma ne parleremo in seguito, in un prossimo post

In copertina: particolare di un presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo)

Manoscritto Voynich: “il libro più misterioso del mondo” #2

Manoscritto Voynich il libro più misterioso del mondo 2

Il mistero attorno alla lingua e al contenuto del manoscritto Voynich non è stato ancora svelato, anche se c’è chi sostiene il contrario, ma i risultati a tutt’oggi ottenuti non hanno fornito testi di senso compiuto.

Sono stati davvero numerosi i tentativi volti a sciogliere il mistero di questo curioso manoscritto.
Il primo a tentare la sorte fu il professore di filosofia medievale all’Università di Pennsylvania, William Newbold (1865 – 1926) che sostenne si trattasse di un latino “camuffato”, addirittura da Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292 ca.; filosofo, scienziato, teologo ed alchimista inglese).

Negli anni quaranta, furono due crittografi, Joseph Martin Feely e Leonell C. Strong, a tentare un nuovo approccio: applicarono al testo dei sistemi di decifratura sostitutiva, ma non approdarono a nulla.
Con criteri simili operarono gli esperti di crittografia della marina statunitense, approdando a risultati altrettanto inconcludenti.

Nel 1945, un crittografo statunitense, William F. Friedman (1891 – 1969), pensò bene di dare vita a un gruppo di studiosi: il “First Voynich Manuscript Study Group” (FSG) per venire a capo della questione. Da queste nuove analisi, emerse solo una certa ripetitività del linguaggio del testo, ma a parte questo, anche tale tentativo fu solo un altro buco nell’acqua.

Nel 1978, fu la volta di un filologo dilettante, John Stojko, il quale avanzò l’ipotesi che la lingua del manoscritto Voynich fosse ucraino con delle vocali rimosse. Ahimè! La traduzione possedeva un vago senso, ma non aveva nulla a che fare con le raffigurazioni presenti nel testo.

Ci sono state altre ipotesi ancora, tutte accomunate dall’impossibilità di raggiungere un risultato concreto.
Le uniche cose che si sono evidenziate nel corso degli anni e delle numerose analisi del manoscritto Voynich è che, nonostante l’alfabeto non sia ancora stato decifrato, esso è unico e sono state riconosciute 19-28 lettere che non mostrano alcun legane con gli alfabeti finora noti.
C’è anche il sospetto che chi ha scritto il libro abbia impiegato due alfabeti complementari ma diversi; inoltre, si ritiene che il testo sia opera di più autori. Si è anche rilevata la totale mancanza di errori ortografici, esitazioni e persino cancellature.

L’ipotesi della lingua artificiale ebbe diversi sostenitori, soprattutto per la presenza nel testo di numerose ripetizioni di sillabe che sembrerebbero rimandare a una divisione degli enti in categorie. A ciascuna di tali categorie poi, è associata una sillaba o una lettera.
Questa affascinante teoria riesce a spiegare la ripetizione delle sillabe, ma non dà alcuna risposta riguardo ai prefissi e ai suffissi presenti nel manoscritto Voynich.

Un’ulteriore ipotesi è del 2003, ed è quella di Gordon Rugg (1955; informatico e studioso di psicologia scozzese) che sostenne si trattasse di un falso rinascimentale, creato all’unico scopo di truffare studiosi o sovrani.
Secondo la sua teoria, gli autori del libro avrebbero prodotto un testo, utilizzando metodi combinatori, già utilizzati all’epoca della stesura del Voynich, e in particolare, Rugg fece riferimento alla “griglia di Cardano”, opera di Girolamo Cardano (1501 – 1576; medico, filosofo, matematico, illusionista, astrologo e accademico italiano), nel 1550.

Il metodo ispirato a Cardano è particolarmente ingegnoso ed era impiegato per scrivere messaggi segreti. Si utilizzava un foglio di carta, nel quale erano state ritagliate delle apposite aperture, attraverso queste si tracciava il messaggio su un foglio sottostante. Una volta eliminata la griglia, si completavano le porzioni del messaggio e si terminava lo scritto, ponendo del testo di senso compiuto, fino a produrre un messaggio che sembrasse del tutto normale.
Secondo Rugg, che è riuscito a individuare alcune regole base del linguaggio del manoscritto è da escludere l’idea di un testo falso, il Voynich non contiene nessun messaggio segreto codificato nel testo, in quanto, in questo specifico caso, la griglia non è stata creata per codificare, ma per comporre il testo.

Attorno al manoscritto Voynich sono state fatte moltissime altre ipotesi riguardo al perché fu scritto, da chi e quali fossero gli argomenti in esso trattati. Altrettante teorie girano attorno alla decodifica delle parole in esso contenute e dei simboli dell’alfabeto.

Stephen Bax (1960 – 2017), professore di linguistica all’Università del Bedfordshire, ad esempio, ha tentato un approccio applicato alle illustrazioni della parte erboristica e astronomica. Guardando il manoscritto da questo punto di vista, si sono individuati i possibili nomi di piante e costellazioni, ciò ha fatto dedurre che il testo non sia cifrato e neppure privo di senso, bensì un testo prodotto in un’area specifica e in una lingua o dialetto estinto, con un proprio alfabeto, anch’esso perduto.

Ci sono state molte altre ricerche e analisi sul manoscritto Voynich, ma le conclusioni a cui sono pervenute non sono né certe né tanto meno definitive, e forse, il fascino che avvolge questo manoscritto sta proprio nel suo mistero che nessuno è riuscito, nonostante gli innumerevoli tentativi, a intaccare.

Il manoscritto di Voynich non ha fatto solo lambiccare molte menti brillanti, ma ha anche ispirato molti scrittori, che ne hanno fatto uso in vari modi, ed è stato citato anche in alcune famose serie a fumetti.

Vedi prima parte del post

“La Primavera”: un dipinto che riunisce bellezza, armonia e mistero

La Primavera un dipinto che riunisce bellezza armonia e mistero

Botticelli è riuscito con il suo dipinto “La Primavera” a mostrare tutta la bellezza che ogni anno rifiorisce nella stagione della rinascita.

Come tutti gli anni, la primavera climatologica inizia il 1° marzo, mentre quella astronomica è il 20 marzo, cioè il giorno in cui cade l’equinozio di primavera.
L’arrivo della stagione della rinascita si coglie già: dai primi rami fioriti lungo le strade; dalle gemme in attesa del benefico calore del sole; dal cielo azzurro pieno di promesse.

La primavera si avverte anche nell’aria: nel canto degli uccelli, nel ronzio festante delle api. Ma qualcuno diversi secoli fa, ha immaginato alla perfezione questa stagione e le ha fornito le sembianze di una donna con indosso uno splendido abito fiorito che sparge fiori a terra, cogliendoli dal suo grembo.
Stiamo parlando de “La Primavera” di Sandro Botticelli (1445 – 1510) che il pittore realizzò intorno al 1478. Dopo tanti secoli, questo dipinto continua a stupirci e a riempirci di meraviglia, non solo per la sua bellezza, ma anche per la grazia insita nelle pose e nelle figure racchiuse in un boschetto ombroso, e per l’aura di mistero che avvolge il dipinto, il cui significato più profondo è ancora in gran parte da svelare.

Il dipinto è una tempera grassa su tavola. Botticelli la realizzò per la villa medicea di Castello; attualmente, il quadro si trova nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
La Primavera è considerato il capolavoro di Botticelli ed è al contempo una delle opere più celebri del Rinascimento italiano.
Il titolo fa riferimento a una nota del Vasari: “Venere che le Grazie fioriscono, dinotando Primavera”, dalla quale si è partiti per dipanare la complessa trama allegorica del quadro.

Botticelli realizzò questo dipinto per Lorenzo di Piefrancesco de’ Medici (1463-1503), cugino di secondo grado di Lorenzo il Magnifico.
In origine, “La Primavera” si trovava nel Palazzo di via Larga, poi fu trasferita nella Villa di Castello, dove Giorgio Vasari (1511 – 1574) la vide, nel 1550, accanto alla “Nascita di Venere”.
Nel 1815, l’opera era collocata nel Guardaroba mediceo; nel 1853 passa alla Galleria dell’Accademia e infine, nel 1919, approda agli Uffizi.

Guardando il dipinto ci ritroviamo immersi in un bosco. Le fronde degli alberi si flettono a formare una sorta di semi cupola da cui spuntano arance e fiori che trapuntano il verde come fosse un tessuto prezioso. Sullo sfondo si individua un cielo di un lieve azzurro. I personaggi sono nove e campeggiano in questo spazio in perfetta armonia, circondando il fulcro del quadro: la donna che sfoggia sopra l’abito chiaro, un drappo rosso e verde.

Il prato verde su cui i personaggi si muovono mostra una profusione di specie vegetali e sono visibili moltissimi fiori perfettamente riconoscibili: nontiscordardimé, viole, iris, ranuncoli, papaveri, fiordalisi, margherite, gelsomini, e altri ancora. Botticelli sfoggia le sue conoscenze botaniche, probabilmente coadiuvate da un’attenta osservazione di piante e fiori dal vivo e al contempo di numerosi erbari medievali. Nel dipinto sono state individuate ben centotrentotto specie di piante diverse.

Per quanto della scena generale non sia ancora del tutto chiaro il significato, i personaggi e l’iconografia del dipinto sono stati invece identificati, seguendo in particolare i suggerimenti del Vasari.
Ci troviamo in un boschetto di aranci che altro non è che il giardino delle Esperidi.
Il dipinto si legge da destra verso sinistra, per cui abbiamo: Zefiro, il vento di nord ovest e di primavera, che attrae con il suo soffio e rapisce la ninfa Clori; la mette incinta e lei rinasce trasformata in Flora, la personificazione della primavera che qui appare come una donna con un magnifico abito fiorito, che dissemina fiori, trattenuti in una piega del suo vestito.
Al centro della composizione c’è Venere che è l’emblema dell’amore più elevato. Sopra di lei c’è suo figlio, Cupido; alla sua sinistra sono ritratte le Grazie che si muovono leggiadre a passo di danza. Nell’estremità sinistra del quadro c’è Mercurio che armato di caduceo allontana le nubi.

Il quadro nasconde un complesso intreccio di significati. Non si tratta di una novità, bensì della logica tipica delle opere di questo periodo.
La lettura de “La Primavera” può essere operata in base a vari punti di vista: mitologico, riferito ai personaggi presenti nel quadro; filosofico, la filosofia dell’accademia neoplatonica e altre dottrine; storico-dinastico che si allaccia ad eventi contemporanei al dipinto e mira a onorare il committente e la sua famiglia.

Come si è già accennato, i misteri de “La Primavera” non sono ancora stati svelati del tutto e ci si muove per ipotesi, più o meno probabili.
Sembra che il dipinto sia l’allegoria del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici e Semiramide Appiani; Botticelli realizzò il dipinto in due fasi, perché il dipinto all’inizio era destinato a un altro committente, Giuliano de’ Medici, e l’occasione non era una cerimonia nuziale, bensì la nascita di un figlio.

I personaggi, tenendo fede alle due committenze, raffigurerebbero:

  • Venere, Fioretta Gorini (nella prima versione), poi l’Amore Universale
  • Mercurio, Lorenzo di Pierfrancesco
  • Le tre Grazie, l’Amore humanus (la Grazia al centro aveva le sembianze di Semiramide Appiani), cioè spirituale e puro
  • Zefiro-Cloris-Flora, l’Amore Ferinus, cioè l’amore carnale
    I fiori, invece, sottintendono significati matrimoniali: margherite, fiordalisi e nontiscordardimé fanno riferimento alla donna amata; i fiori d’arancio e la borrana sono simbolo di felicità matrimoniale.

In base alla lettura storica, “La Primavera” è un’allegoria dell’età medicea, interpretata come età dell’oro sotto la guida di Lorenzo di Pierfrancesco, da cui consegue che: Flora è Florentia; le tre Grazie sono Pisa, Napoli e Genova; Mercurio è Milano; Venere è Venezia; Cupido è Roma; Borea è Bolzano.

Se leggiamo il dipinto dal punto di vista filosofico è l’amore il protagonista della scena, l’amore nei suoi diversi gradi, che spinge l’uomo a distaccarsi dal mondo terreno per rivolgersi a quello spirituale.
Questa lettura è confortata dalla centralità della figura di Venere che in questo caso rappresenta l’amore spirituale.

Flâneur e l’arte di “andare a zonzo” per le vie della propria città

Flâneur l’arte di andare a zonzo per la propria città

Come vi muovete in città? Camminate senza guardarvi intorno, infilando un passo dietro l’altro? Per raggiungere la vostra meta percorrete solo le vie più brevi o quelle che conoscete meglio? O siete, invece, degli inguaribili “flâneur”?

Flâneur, come avrete già intuito, è un termine francese, a coniarlo e renderlo famoso fu il poeta simbolista Charles Baudelaire (1821-1867; oltre che poeta, critico letterario, critico d’arte, giornalista, filosofo, aforista, saggista e traduttore).
Il termine flâneur indica il gentiluomo che vaga oziosamente per le vie della città, senza alcuna fretta. Il suo girovagare ha come unico scopo quello di sperimentare e provare emozioni, osservando il paesaggio.
Se volessimo tradurre l’arte del flâneur in italiano, potremmo dire: “andare a zonzo“.

Baudelaire usò il termine flâneur per definire l’artista la cui mente è indipendente, imparziale e appassionata, “che il linguaggio può solo definire maldestramente“.
Per il perfetto flâneur, per l’osservatore appassionato, è un piacere immenso prendere la residenza nel numeroso, nell’ondulato, nel mobile, nel fugace e infinito. Essere lontano da casa, eppure sentirsi a casa ovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo, e rimanere nascosto al mondo“.

Sotto l’influenza di Georg Simme (1858-1918; sociologo e filosofo tedesco), Walter Benjamin (1892 – 1940; filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco, fu un pensatore eclettico che si occupò di estetica, sociologia e materialismo storico), che tradusse Baudelaire, sviluppò la nozione di flâneur e spesso nella sua opera ricorre tale termine.
Molti altri pensatori, dopo di lui, ripresero il concetto di flâneur e lo collegarono alla modernità, alle metropoli, all’urbanismo e al cosmopolitismo. Con il passare del tempo, esso assunse un notevole peso sia in architettura sia urbanistica.

Negli anni intorno al 1850, Baudelaire teorizzava che la figura dell’artista a lui contemporaneo dovesse avere un atteggiamento diverso dal passato, un atteggiamento cioè in sintonia con le nuove dinamiche e le complicazioni introdotte dalla vita moderna che aveva subito parecchi cambiamenti sia a livello sociale sia a livello economico, principalmente legati al processo di industrializzazione.

Secondo il poeta, l’artista doveva immergersi nella città e trasformarsi in “un botanico del marciapiede“, in qualcuno che conoscesse a fondo il tessuto urbano.
Osservatore, flâneur, filosofo, chiamatelo come volete; ma sarete certamente portati, per caratterizzare questo artista, a gratificarlo di un epiteto che non potreste applicare al pittore di cose eterne, o almeno più durature, di cose eroiche o religiose. A volte è un poeta; più spesso è più vicino al romanziere o al moralista; è il pittore della circostanza e di tutto ciò che suggerisce dell’eternità“.

I termini flâneur e flânerie (bighellonare, passeggiare, vagare) furono creati da Baudelaire, pensando in particolare ai parigini; per lui, le città ideali in cui vagare erano Parigi e Napoli, in quanto idonee all’esplorazione condotta in tutta calma e senza pianificazioni.
L’atteggiamento del flâneur è bene definito dalla frase: “uno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie di Parigi“, che definisce il suo vagare volutamente pigro e senza ombra di urgenza.

Il filosofo Benjamin afferrò il concetto di flâneur come mezzo di analisi e stile di vita. Lo stile di vita che derivava dalla vita moderna e dalla rivoluzione industriale.
Il flâneur per Benjamin è un borghese dilettante e lui stesso ne vestì i panni: faceva lunghe passeggiate per le strade di Parigi e da queste escursioni urbane traeva osservazioni sociali ed estetiche.

In architettura e urbanistica contemporanea, la progettazione è per il flâneur una maniera per avvicinarsi ai risvolti psicologici della costruzione di edifici. Ad esempio, l’architetto americano, Jon Jerde (1940-2015), concepì il suo Horton Plaza a San Diego e l’Universal CityWalk di Los Angeles, in modo da sorprendere e distrarre potenziali passeggiatori.

Secondo Baudelaire, per il perfetto flâneur “è un piacere immenso prendere dimora nel numero, nell’ondulazione, nel movimento, nel fugace e nell’infinito. Essere lontano da casa, e tuttavia sentirsi a casa ovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo e rimanere nascosto al mondo, questi sono alcuni dei piaceri minimi di quegli spiriti indipendenti, appassionati, imparziali che il linguaggio può solo maldestramente definire. L’osservatore è un principe che si gode il suo incognito ovunque. […] Può anche essere paragonato a uno specchio immenso come questa folla; a un caleidoscopio dotato di coscienza che, con ciascuno dei suoi movimenti, rappresenta la vita multipla e la grazia mobile di tutti gli elementi della vita. È un sé insaziabile del non sé, che in ogni momento lo rende e lo esprime in immagini più vivide della vita stessa, che è sempre instabile e fugace”.

E voi, alla luce di queste parole, vi potete definire dei perfetti flâneur?
Vivete la vostra città appieno oppure per voi le città sono solo luoghi nati per soddisfare bisogni pratici e urgenti necessità?

In copertina: Gustave Caillebotte, “Strada di Parigi in un giorno di pioggia” (Rue de Paris, temps de pluie) (1877), Art Institute of Chicago

Alessandro Manzoni, “I promessi sposi” e il personaggio dell’Innominato

Alessandro Manzoni, "I promessi sposi" e il personaggio dell’Innominato

Il 7 marzo del 1795 nasceva Alessandro Manzoni, uno dei maggiori romanzieri italiani, noto soprattutto per “I promessi sposi”, opera che gettò le basi del romanzo moderno.
I personaggi manzoniani sono così reali che fanno pensare di poterli incontrarli nella quotidianità; uno di loro resta saldo nei miei ricordi: l’Innominato.

Ho letto “I promessi sposi” di Manzoni molti anni fa, fu una lettura scolastica, imposta dal programma. Ricordo a grandi linee la trama del romanzo e la simpatia/antipatia che ho nutrito per alcuni dei personaggi del libro. Uno, però, ha colpito la mia immaginazione, forse per il timore che incuteva e il mistero che lo circondava: l’Innominato.

Alessandro Manzoni, il cui nome completo era, Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – Milano, 22 maggio 1873), è stato non solo scrittore, ma anche poeta e drammaturgo.
L’autore de “I promessi sposi” fu anche un patrocinatore dell’unità linguistica italiana, anche lui seguiva la tendenza tutta illuminista della letteratura impegnata sia civilmente sia moralmente.
Nell’arco della sua vita, lo scrittore fu a contatto con la migliore cultura intellettuale francese (Johann Wolfgang von Goethe 1749-1832) e con grandi intellettuali (Antonio Rosmini 1797-1855), inoltre, era ben informato sulle novità britanniche (Walter Scott 1771-1832).

Per quanto riguarda la formazione culturale, come già si nota nelle poesie che Manzoni scrisse durante l’adolescenza, lo scrittore, all’epoca era particolarmente interessato alla mitologia e alla letteratura latina.
Prediligeva, soprattutto, Virgilio e Orazio, ma è forte nella sua scrittura anche l’impronta di Dante e quella di Petrarca. Tra i contemporanei, oltre a Vincenzo Monti (1754-1828), Manzoni subì l’influsso anche di Giuseppe Parini (1729-1799) e Vittorio Alfieri (1749-1803).

Le prime esperienze poetiche di Manzoni sono databili alla metà del 1801, insieme ad esse, lo scrittore ci ha lasciato delle traduzioni di alcune parti della “Eneide” e della “Satira terza” di Orazio.
Il periodo più creativo per lo scrittore, però, fu indubbiamente il quindicennio tra il 1812 e il 1827.
All’epoca, Manzoni si era già convertito al cattolicesimo e alle idee del romanticismo e in questo periodo scrisse le sue opere principali, passando dalla poesia – sacra e civile – ai saggi filosofico-religiosi, alle tragedie, fino ad arrivare alla realizzazione del primo grande romanzo della storia della letteratura italiana: “I promessi sposi”.

In queste opere si avverte già il desiderio di verosimiglianza e il crescente interesse per i sentimenti umani che saranno pienamente manifestati nel romanzo, alla cui stesura Manzoni iniziò a dedicarsi dall’autunno del 1821.
In un primo tempo il titolo dell’opera fu “Fermo e Lucia” e in questa prima stesura è evidente l’influenza esercitata dai romanzi europei, soprattutto quelli inglesi. Inoltre, per dare veridicità ai fatti che avrebbe descritto e per conoscere le ambientazioni e gli usi dell’epoca, Manzoni si dedicò anche a una minuziosa attività di ricerca storica.

Furono necessari molti altri impegnativi anni di lavoro, di rielaborazione strutturale e linguistica, per arrivare al romanzo che tutti conosciamo, il cui titolo fu mutato in “I promessi sposi”, e fu pubblicato nella versione definitiva tra il 1840 e il 1842.

Il romanzo è ambientato in Lombardia, nel periodo tra il 1628 e il 1630, durante il dominio spagnolo.
“I promessi sposi” sono il primo esempio di romanzo storico della letteratura italiana.
Manzoni si avvalse della sua approfondita ricerca storica per diversi episodi: le vicende della monaca di Monza (Marianna de Leyva y Marino); le vicissitudini legate alla Grande Peste (1629-1631). Sono tutti basati su documenti d’archivio e cronache dell’epoca.

Oltre a rappresentare un passaggio essenziale per la nascita della lingua italiana, il romanzo di Manzoni è anche il testo più significativo del romanticismo italiano, soprattutto per la profondità dei temi e perché, per la prima volta, un romanzo di successo ha come protagonisti, gli umili, invece dei potenti della storia.

Leggendo “I promessi sposi”, ricordo che rimasi colpita da un personaggio, in particolare, che, pur non appartenendo alla schiera degli umili, si staglia all’interno della complessa vicenda, ed è l’Innominato. Credo che ne fui affascinata per il timore reverenziale da cui era circondato, grande nel male quanto poi nel bene, e dall’alone di mistero dal quale era avvolto, tanto da rendere impossibile farlo passare inosservato.

L’Innominato è un personaggio singolare anche perché, mentre gli altri personaggi maturano nel corso dei due anni in cui si svolgono gli eventi, subisce nell’arco di una sola notte – anche se il cambiamento era già in atto da più tempo – una mutazione profonda.
Manzoni di lui dice: “Di costui non possiamo dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo” (“I promessi sposi”, capitolo XIX, pp. 371-372)

L’innominato, che in “Fermo e Lucia” era denominato come, il Conte del Sagrato, è tra i personaggi più complessi e inquietanti di tutto il romanzo.
Fu identificato storicamente con Bernardino Visconti (1579-1647), un nobile che guerreggiava con gli spagnoli, potentissimo e sanguinario.
Quando Manzoni ce lo presenta, l’Innominato è vicino alla vecchiaia, è pieno di dubbi per la vita che ha condotto: tra omicidi e soprusi nei confronti dei più deboli.
Nella storia è chiamato ad agire da don Rodrigo che gli chiede di rapire Lucia dal monastero di Monza, dove si è rifugiata, sotto la protezione di Gertrude.
L’Innominato incarica il Nibbio, capo dei bravi al suo servizio, del delicato compito, questi, con l’aiuto di Egidio e la complicità di Gertrude, riesce a rapire Lucia e a condurla al castello del suo padrone.

Per delineare la figura di questo statuario cattivo, Manzoni si serve anche del paesaggio e nel delineare la valle, dove si trova il castello dell’Innominato, ci dice che: il territorio è aspro, arido, minaccioso e incutente paura, con il chiaro intento di riflettere la personalità e lo stile di vita del personaggio.

Al cospetto dell’Innominato, Lucia è terrorizzata; lo prega di lasciarla libera, esortandolo al contempo a redimersi: “Dio perdona molte cose per un atto di misericordia”.
L’uomo resta turbato dalla semplicità della ragazza, dalla sua vulnerabilità e dalle sue parole. Queste emozioni, unite alle sue crisi di coscienza già in atto, lo spingeranno verso la conversione.

Famosa è la notte al castello dell’Innominato, subito dopo il rapimento di Lucia.
Una notte terribile per entrambi i personaggi: Lucia sconvolta dalla paura pronuncia un voto, mentre l’Innominato è tormentato dai sensi di colpa che lo condurranno a un passo dal suicidio.
L’alba e il suono delle campane, che annunciano l’imminente visita del cardinale Federico Borromeo, distolgono l’Innominato dai suoi propositi di morte e lo spingono a incontrarsi con il prelato e infine, alla conversione.
Dopo questo cruciale cambiamento, l’Innominato, innanzitutto, libererà Lucia e poi comincerà a condurre una vita all’opposto della precedente: si dedicherà a opere di misericordia e, più avanti nel romanzo, ne abbiamo una chiara testimonianza, quando si offrirà di ospitare gli abitanti della zona nella sua fortezza, in occasione della temuta discesa dei lanzichenecchi.

Non solo l’Innominato, ma anche altri personaggi manzoniani analizzano costantemente le proprie dinamiche interiori, rispecchiando quel “guazzabuglio del cuore umano“, particolarmente caro all’autore. Questo emerge in particolare nella figura dell’Innominato, ma anche in quella di Renzo.
Tali analisi conducono a dei cambiamenti, dovuti anche all’accumulo delle nuove esperienze e al passare del tempo, e sono evidenti, anche se in modo più sottile, anche in altri personaggi, come fra Cristoforo e Lucia. La giovane, in particolare, sembra restare la stessa dall’inizio alla fine della storia, ma in realtà anche lei subisce una maturazione costante e progressiva che il Manzoni non mancherà di registrare.

In copertina: particolare de “l’Innominato” di Andrea Gastaldi (olio su tela, 1860)