Romanzo gotico: tra cupe atmosfere e personaggi misteriosi

Il romanzo gotico è un genere molto particolare che ebbe grande successo di pubblico. Terrore, turbamento, ambientazioni fosche e personaggi ambigui, a suo tempo, hanno sorpreso e affascinato un gran numero di lettori della media borghesia.

Il romanzo gotico, genere narrativo che ha fuso elementi del romanticismo con sfumature dell’orrore, nasce in seguito alla crescente alfabetizzazione della media borghesia, che nella letteratura cercava occasioni di evasione, e si evolve dalla seconda metà del XVIII secolo.
Le storie di questo particolare filone sono ambientate in epoca medievale. I luoghi dell’azione preferiti sono castelli diroccati, sotterranei e altri ambienti cupi e tetri.

Gli argomenti più trattati nel romanzo gotico, definito successivamente “romanzo nero” (attualmente è chiamato così il genere noir), sono l’amore perduto, i conflitti interiori e il soprannaturale.

Il termine “gotico” fu coniato con intento spregiativo da Giorgio Vasari (1511 – 1574; pittore, architetto e storico dell’arte italiano) nel Cinquecento, come sinonimo di barbarico e spaventoso, e faceva riferimento allo stile artistico e architettonico che nacque in Francia nel 1100 e si diffuse in Europa tra il Trecento e il Quattrocento.
Solo più avanti tale termine fu rivalutato e adottato per definire il genere narrativo che ebbe origine in Inghilterra dalla metà del Settecento e fu anticipatore del romanticismo.
Inoltre, nell’Ottocento, il romanzo gotico trovò un altro parallelo architettonico, quello con lo stile neogotico, che si affermò in contrasto con quello neoclassico, ed ebbe una certa fortuna proprio come il suo omologo letterario.

Per quanto riguarda le caratteristiche del romanzo gotico esso mostra innanzitutto amore per la fantasia e il sogno. Questo genere, che si allaccia per vari aspetti alla fiaba anche se i suoi finali sono generalmente amari, si ammanta di tutto ciò che terrificante, abnorme, mostruoso, inverosimile, soprannaturale. Inoltre, il soprannaturale può assumere varie sembianze: quelle di un fantasma oppure di un animale, o ancora di un oggetto. Quello che contava per gli autori di queste storie era provocare sorpresa, angoscia, terrore e un turbamento profondo nei lettori.

Il capostipite dei romanzi gotici è ritenuto “Il castello di Otranto”, romanzo breve del 1764 di Horace Walpole (1717-1797). Questo testo è ritenuto il primo racconto fantastico della letteratura inglese moderna ed è un’opera innovativa nel panorama letterario dell’epoca.
L’autore, conscio della novità del suo romanzo e temendo di coprirsi di ridicolo, se il libro non avesse incontrato il favore del pubblico, presentò la sua storia come la traduzione di un antico manoscritto, stampato a Napoli nel 1529 e trovato causalmente nella biblioteca di un’antica famiglia cattolica del nord Inghilterra.
La storia si svolge nella Puglia medievale, più precisamente nel Regno di Sicilia del re Manfredi (Manfredi di Hohenstaufen o Manfredi di Svevia o Manfredi di Sicilia, 1232 – 1266; ultimo sovrano della dinastia sveva del Regno di Sicilia). Questo romanzo che divenne un modello cui fecero riferimento nei secoli molti intellettuali, è una miscela ben riuscita di realismo e grottesco. Inoltre, l’autore non ha lesinato su misteri da svelare, passaggi segreti e minacce. Queste ultime in genere provengono dall’autorità politica e religiosa, come è possibile rilevare in alcune opere in particolare, quali: “L’italiano, o il confessionale dei penitenti neri” (1797) di Ann Radcliffe e “Il monaco” (1795) di Matthew Lewis.

Walpole temeva inutilmente il ridicolo: il suo romanzo ebbe un immediato successo, al punto che lo scrittore decise di far uscire, a soli due mesi di distanza dalla prima edizione, una seconda edizione.
In questa nuova pubblicazione, al sottotitolo “story”, fu aggiunto l’aggettivo “gothic” (a gothic story).

L’uso del termine “gotico” non era casuale e neppure limitato al raffronto con l’architettura omonima, esso includeva il forte interesse che nella seconda metà del Settecento si afferma nei confronti del Medioevo e di tutto ciò che è medievale: espressioni artistiche, oggetti dell’epoca, come: collezioni di monete, armature, antiche ballate. Tanto che l’aggettivo “gotico” finì per definire non solo lo stile architettonico, ma anche il periodo cui faceva riferimento e ben presto fu utilizzato come sinonimo di “medievale”.
Simbolo di questa nuova tendenza e del recupero dell’epoca antica è Strawberry Hill, la casa di campagna che Walpole comprò nel 1747 e che trasformò secondo il gusto gotico, fino a farla diventare una fortezza nei pressi di Londra.

A fare compagnia a Walpole nell’Inghilterra della seconda metà del Settecento ci sono altri scrittori di questo genere narrativo, come: Clara Reeve (1729-1807), William Beckford (1760-1844), Matthew Lewis (1775-1818), Charles Robert Maturin (1782-1824) e John William Polidori (1795-1821).

Dopo Walpole e Clara Reeve, le storie gotiche, pur svolgendosi sempre in ambientazioni fosche e tenebrose, videro ridursi gli eventi soprannaturali.
Fu Ann Radcliffe (1764 – 1823; popolare scrittrice inglese, pioniera della letteratura dell’orrore e in particolare, del romanzo gotico) a inaugurare questa nuova direzione del genere e importante in questo senso fu anche il romanzo epistolare “Dracula” (1897) di Bram Stoker (1847 – 1912; scrittore irlandese, noto in particolare per essere l’assistente personale dell’attore Henry Irving e il direttore economico del Lyceum Theatre di Londra) che rese popolare il personaggio del vampiro.

A livello temporale, il romanzo gotico è collocato preferibilmente in epoca medievale oppure nell’Ottocento. I temi più gettonati sono la morte, le antiche profezie e la possessione demoniaca, mentre le storie sono calate in un clima di terrore e di conflitti interiori senza soluzione.

Gli scrittori di romanzi gotici fanno a gara per destare nei lettori un senso di turbamento e di allarme costante, non si lasciano neppure sfuggire l’occasione di inserire scene violente, sangue e morti truculente.
Anche i personaggi si allineano a tutto il resto, spesso misteriosi e ambigui sono tormentati da pene d’amore e soggetti a passioni violente.

Immancabile poi in questo genere narrativo è una certa tipologia di donna: la vergine perseguitata (vedi il romanzo epistolare “Clarissa Richardson” di Samuel Richardson, pubblicato nel 1748, Lewis, la Radcliffe e il già citato Walpole). Queste giovani donne sono spesso vittime delle loro stesse pulsioni e spesso in fuga da seduttori malvagi o da terribili creature, come vampiri, fantasmi e stregoni. Possono anche essere imprigionate o essere affette da turbe psichiche che impediscono loro di distinguere la realtà dall’immaginazione.
A completare il quadretto idillico e richiamando scene consuete nei film horror, i personaggi dei romanzi gotici in generale vivono in luoghi isolati, lontani dai centri abitati oppure il loro isolamento è di matrice sociale, sono cioè degli emarginati.

In copertina: particolare del ritratto di Horace Walpole di Sir Joshua Reynolds (1756)

“La freccia nera”: romanzo storico tra avventura e amore

“La freccia nera”: romanzo storico tra avventura e amore

“La freccia nera” romanzo di Robert Louis Stevenson racconta le avventure di un eroe, Richard Shelton, nell’Inghilterra del XV secolo, durante la Guerra delle Due Rose e sotto il regno di Enrico VI.

“The Black Arrow: A Tale of the Two Roses” (La freccia nera: una storia delle due rose) è un romanzo del 1888 di Robert Louis Stevenson (Edimburgo, 13 novembre 1850 – Vailima, 3 dicembre 1894; scrittore, drammaturgo e poeta scozzese dell’età vittoriana) ed è sia un romanzo storico d’avventura sia un romanzo d’amore.

Apparve per la prima volta in diciassette puntate nel 1883, firmate con lo pseudonimo di Captain George North e con il sottotitolo “A Tale of Tunstall Forest” (Un racconto della foresta di Tunstall), in “Young Folks”, una rivista letteraria settimanale per bambini (pubblicata nel Regno Unito tra il 1871 e il 1897, inizialmente a Manchester, poi a Londra, nel 1873; è nota proprio per aver pubblicato per prima alcuni romanzi di Stevenson in forma seriale, tra cui: “L’isola del tesoro”, “Rapito” e, appunto, “La freccia nera”), “A Boys’ and Girls’ Paper of Instructive and Entertaining Literature” (Un giornale per ragazzi e ragazze di letteratura istruttiva e divertente) dal vol. XXII, n. 656 (sabato 30 giugno 1883) sino al vol. XXIII, n. 672 (sabato 20 ottobre 1883).

Le “Paston Letters” (Lettere Paston, una grande collezione di lettere che fanno parte della corrispondenza tra la famiglia Paston, una famiglia della piccola nobiltà del Norfolk, ed i loro congiunti ed altre persone a loro legate, fra il 1422 e il 1509. La collezione include diversi importanti documenti) furono la principale fonte letteraria di Stevenson per La freccia nera.

La trama di questo romanzo avventuroso è incentrata sulla storia di Richard (Dick) Shelton, di come diventò cavaliere, del modo in cui salvò la sua dama, Joanna Sedley, e anche di come ottenne giustizia per l’omicidio di suo padre, Sir Harry Shelton.

La storia è ambientata durante il regno del “vecchio re Enrico VI” (1422-1461, 1470-1471), nel periodo della Guerra delle due rose (“Wars of the Roses”), una sanguinosa lotta dinastica combattuta in Inghilterra tra il 1455 e il 1485 (1487 per una parte della storiografia inglese), tra due diversi rami della casa regnante dei Plantageneti: i Lancaster e gli York. La guerra fu così denominata, nel XIX secolo, dopo che Walter Scott (1771 – 1832; scrittore, poeta e romanziere scozzese, considerato il padre del moderno romanzo storico), nel 1829, ebbe pubblicato il romanzo “Anna di Geierstein”, facendo riferimento agli stemmi dei due casati che recavano rispettivamente una rosa di colore rosso e una bianca.

Il titolo del romanzo di Stevenson fa riferimento al “biglietto da visita”, nonché arma dei fuorilegge della foresta di Tunstall, una freccia nera, appunto. I fuorilegge, organizzati da Ellis Duckworth faranno sospettare a Dick che il suo tutore, Sir Daniel Brackley, e i suoi servitori siano responsabili dell’omicidio di suo padre.
I sospetti di Dick basteranno a mettere Sir Daniel contro di lui, per cui al giovane non resterà che la fuga e in seguito, la decisione di unirsi ai fuorilegge della Freccia Nera contro l’assassino di suo padre. Questa lotta lo coinvolgerà anche nel più grande conflitto che li circonda.

La trama è piuttosto articolata e sono presenti numerosi personaggi, ne passiamo in rassegna alcuni:
Richard (Dick) Shelton, protagonista del romanzo, figlio del defunto Sir Harry Shelton ed erede di Tunstall. Il ragazzo non ha ancora diciotto anni, nel maggio 1460, periodo in cui si svolge la prima parte della narrazione. Stevenson lo dipinge come “bruno e con gli occhi grigi“. È considerato il capo dei fuorilegge della Freccia Nera a Shoreby, mentre cercano di salvare Joanna Sedley da Sir Daniel. È nominato cavaliere da Richard Crookback nel corso della battaglia di Shoreby.
Nicholas Appleyard, veterano settuagenario della battaglia di Agincourt (si svolse vicino l’omonima località nell’odierno dipartimento del Passo di Calais, il 25 ottobre 1415, durante la guerra dei cent’anni e vedeva contrapposte le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d’Inghilterra di Enrico V). Nel romanzo è descritto, così: “il suo viso era come un guscio di noce, sia per il colore che per le rughe; ma il suo vecchio occhio grigio era ancora abbastanza chiaro, e la sua vista non era diminuita“.
Sir Oliver Oates, parroco locale di Tunstall e impiegato di Sir Daniel. Fisicamente Stevenson di lui ci dice che era un uomo “alto, corpulento, rubicondo e con gli occhi neri, di quasi cinquant’anni”. Nel romanzo è ritratto come una vile spia di Sir Daniel Brackley.
Sir Daniel Brackley, l’antagonista, cavaliere egoista e senza scrupoli; noto per passare dai Lancaster agli York e viceversa “continuamente”, seguendo solo il suo tornaconto personale. Brackley si arricchì, ottenendo la tutela di ricchi eredi in minore età, come Dick Shelton, e procurando loro ricchi matrimoni. Il suo carattere vacillante ricorda quello dello storico conte Thomas Stanley e di suo fratello Sir William Stanley nella Guerra delle due Rose. Tuttavia, Sir Daniel era diverso dagli Stanley: non era un semplice opportunista, ma anche un furfante subdolo e avido. Stevenson dice che è calvo e ha un “viso magro e scuro“; aggiunge su lui anche qualche elemento positivo: era “un cavaliere molto allegro, nessuno più di lui in Inghilterra” e anche un buon capo militare.
I Walsingham, nome dato da Stevenson ai Woodville delle Guerra delle due Rose. Non hanno alcun ruolo nella narrazione del romanzo, ma si dice che nel recente passato avessero esercitato la signoria e ricevuto affitti a e Kettley. Sono descritti come “poveri come ladri“: la famiglia Woodville durante la Guerra era povera, essendo composta in gran parte da popolani, nobilitati dal matrimonio sotto Edoardo IV d’Inghilterra.
Joanna Sedley, l’eroina, nota anche come John Matcham, è la pupilla di Lord Foxham, rapita da Sir Daniel. Nel maggio del 1460, ha sedici anni, Stevenson, riferendosi a lei nel primo libro, parla spesso della sua morbidezza e della sua struttura minuta, in contrasto con gli abiti maschili che indossa.
Will Lawless, fuorilegge, membro della Compagnia della Freccia Nera, che nella vita è stato molte cose, ad esempio: marinaio e persino frate francescano. Stevenson lo descrive come un uomo dal fisico imponente e grande bevitore.
Ellis Duckworth, organizzatore della Black Arrow Fellowship (Compagnia della Freccia Nera), nata per vendicare Harry Shelton, Simon Malmesbury e se stesso. Fu accusato della morte di Harry Shelton e si dice che fosse un agente di Richard Neville, conte di Warwick.
Lord Foxham, magnate Yorkista locale, tutore di Joanna Sedley, che si unisce a Dick Shelton e ai fuorilegge nel tentativo di salvarla.
Lord Shoreby, magnate locale dei Lancaster, ucciso dai fuorilegge della Freccia Nera, nella chiesa dell’Abbazia di Shoreby, per impedire il suo matrimonio con Joanna Sedley.
Richard Crookback, (personaggio storico), Riccardo Plantageneto, duca di Gloucester, futuro re Riccardo III d’Inghilterra.
Sir William Catesby, (personaggio storico), servitore di Richard Crookback.

Per quanto riguarda alcuni riferimenti cronologici e geografici presenti nel romanzo, sono possibili dei parallelismi con avvenimenti e luoghi storici reali.
Innanzitutto, il romanzo ci dà una serie di informazioni che conducono a due riferimenti temporali, per i due blocchi di azione che costituiscono la narrazione e cioè: Maggio 1460 e gennaio 1461. L’indicatore temporale fondamentale è la battaglia di Wakefield (30 dicembre 1460) che Stevenson descrive nel primo capitolo del terzo libro.
Inoltre, la Battaglia di Shoreby, una battaglia fittizia, è l’evento principale del quinto libro ed è modellata sulla Prima Battaglia di St Albans, durante la Guerra delle due Rose. Questa battaglia, nella storia come nel romanzo, fu vinta dagli York. Inoltre, la presenza di una chiesa abbaziale a Shoreby ricorda la chiesa abbaziale di Tewkesbury, in cui i Lancaster si rifugiarono, dopo la battaglia del 4 maggio 1471.

Per quanto riguarda i luoghi, nel “prologo” Stevenson lascia intendere che Tunstall sia un luogo reale: “Il borgo di Tunstall a quel tempo, nel regno del vecchio re Enrico VI, aveva più o meno lo stesso aspetto che ha oggi“. In effetti, nel Suffolk sud-orientale, in Inghilterra, a 18 miglia a NE di Ipswich, a meno di 10 miglia dal Mare del Nord, si trova una “Tunstall” con una foresta annessa.
Stevenson e la sua famiglia avevano visitato il Suffolk nel 1873.
La somiglianza dei toponimi nei pressi della Tunstall, nel Suffolk, con quelli del romanzo fa pensare che si tratti della Tunstall di Stevenson. Kettley, Risingham e Foxham coincidono probabilmente con Kettleburgh, Framlingham e Farnham nella realtà.
Shoreby-on-the-Till e Holywood dovrebbero corrispondere a Orford e Leiston. La prima è sul Mare del Nord ed è unita a Framlingham da una strada che va verso nord-ovest (la “strada maestra da Risingham a Shoreby”), e Leiston, anch’essa sul Mare del Nord, ha un’abbazia medievale, proprio come la Holywood del romanzo.
Il fiume Till, che è citato in gran parte nel primo libro, sarebbe quindi il fiume Deben che scorre vicino a Kettleburgh.

Il nome del protagonista, Richard Shelton, e la sua eredità, Tunstall, erano il nome e il titolo di un personaggio storico reale: Sir Richard Tunstall. Questi era un lancasteriano e sostenitore del re Enrico VI d’Inghilterra, tenne il castello di Harlech contro gli Yorkisti dal 1465 al 1468, durante la prima parte del regno di Edoardo IV. Al contrario, Richard Shelton de “La freccia nera” è un convinto Yorkista.

Metà dei manoscritti originali di Stevenson sono andati perduti, tra i quali: “L’isola del tesoro”, “La freccia nera” e “Il maestro di Ballantrae”.
Durante la prima guerra mondiale, gli eredi dello scrittore vendettero le sue carte; molte furono messe all’asta nel 1918.
Il testo, così come comparve per la prima volta a stampa, nel 1883, come serie in “Young Folks”, è stato reso disponibile dall’Università della Carolina del Sud.
Stevenson modificò il testo del 1883 nel 1888, per pubblicarlo come libro.

Ivan Kramskoj e l’intimità della lettura

Ivan Kramskoj e l'intimità della lettura

Ivan Kramskoj è un altro degli autori che ha rappresentato in diversi dipinti il tema della lettura. In questo specifico ritratto, “Lettura. Ritratto della moglie dell’artista”, il pittore ha raffigurato sua moglie, Sofia Kramskaya, immersa nella lettura di un libro.

Lettura. Ritratto della moglie dell’artista” è un dipinto del 1866, del pittore e critico d’arte russo, Ivan Nikolaevič Kramskoj (Ostrogožsk, 8 giugno 1837 – San Pietroburgo, 6 aprile 1887), che fu anche capo e organizzatore del gruppo di artisti aderenti al Tovariščestvo peredvižnych chudožestvennych vystavok (Società per le esposizioni d’arte ambulanti). Gruppo che sorse nel 1870 a Pietroburgo, in reazione all’accademismo ufficiale, con il programma di rivolgere l’arte a motivi veristici e farne mezzo di educazione ed elevazione sociale.

“Lettura” fa parte dei lavori della fase iniziale dell’attività artistica di Kramskoj, ma già in questa tela si possono individuare gran parte dei tratti che caratterizzeranno la sua produzione pittorica futura.
Nel quadro possiamo ammirare un incantevole ritratto di donna che, seduta all’aperto, in un parco o in un giardino, sta leggendo un libro.

La donna del quadro è Sofia Kramskaya, consorte del pittore. I due coniugi ebbero un matrimonio felice e armonioso; Kramskoj nutriva per sua moglie un grande affetto e spesso la troviamo raffigurata nei suoi dipinti.
In questo specifico ritratto, Sofia è seduta su una panchina di pietra, ha un’espressione seria; gli occhi sono bassi, rivolti verso un grande libro che tiene aperto, sostenuto dalla sua mano sinistra. Il braccio destro è appoggiato con grazia su un cornicione di pietra, sul cui lato anteriore si affacciano delle foglie di una pianta rampicante.

Sofia è ritratta in una posa libera: la mano destra sorregge la fronte, la testa è inclinata leggermente in avanti, la mano sinistra aperta è posata sul grembo.
Gli abiti che indossa sono alla moda: uno scialle verde chiaro a strisce rosse (le avvolge morbidamente i fianchi e sporge da sotto il braccio, posato sul davanzale di pietra della panchina); una camicetta bianca con il colletto a balze; un’ampia gonna marrone.

I colori dei suoi vestiti sono chiari e brillanti, specie la camicia. Inoltre, una fonte di luce è concentrata sulla figura e la fa spiccare sullo sfondo scuro, dando la sensazione che Sofia sia avvolta in un alone luminoso, mentre un riverbero della luce investe anche il suo volto assorto nella lettura.
Un ciondolo compare al centro della sua scollatura a V, mentre attorno alla vita indossa una fascia di colore scuro.
Sul davanti della gonna è appoggiato un ombrello, mentre alle sue spalle, sulla sinistra del dipinto, intravediamo un cappello di paglia, a tesa larga, che presenta una fascia scura intorno alla base, dietro di esso sporgono le foglie di una pianta.

L’artista ha curato con precisione e realismo ogni dettaglio: i capelli scuri, lucidi e ricci composti in un’elegante acconciatura; la costosa spilla sul vestito; lo squisito scialle che è sceso dalle spalle.
Il pittore ha utilizzato colori espliciti e ha giocato con luci e ombre che donano una nota di morbidezza all’intera figura, al fine di esaltarne la sensualità, nonché la tenerezza.
È una scena intima, caratterizzata da una compostezza aristocratica e sembra quasi che la donna fosse ignara di essere oggetto delle attenzioni dell’artista.

Lo sfondo è fatto di alberi dalle foglie rosse e verdi; il sole sta tramontando e intravvediamo sulla sinistra del quadro uno scorcio del suo viaggio verso la notte, testimoniato dal cielo tinto di arancione.

In copertina: “Lettura. Ritratto della moglie dell’artista” (1866-1869) di Ivan Nikolaevič Kramskoj, olio su tela (dimensioni 56 x 64 cm), Tretyakov Gallery – Mosca, Russia

Giallo: storia di un genere letterario di grande successo #3

Giallo storia di un genere letterario di grande successo 3

Il giallo è un genere in continua evoluzione, nella sua lunga e fortunata storia è stato oggetto di numerose trasformazioni, seguendo mode, cambiamenti sociali e subendo sempre nuove contaminazioni.

Nel periodo che va dagli anni cinquanta agli anni settanta, il giallo fu sempre meno caratterizzato dalla sua originale funzione catartica e consolatoria, acquisita negli anni dominati dal modello inglese.
I nuovi intrecci hanno un impianto meno ottimistico, sia se si guarda al genere hard boiled americano sia alle esperienze europee, con Simenon, ad esempio, e il suo Maigret.
Inizia in questi anni a profilarsi lo “spettro” della fallibilità della giustizia umana che con Friedrich Dürrenmatt (Stalden im Emmental, 5 gennaio 1921 – Neuchâtel, 14 dicembre 1990; scrittore, drammaturgo e pittore svizzero), poco tempo dopo, sarà condotta alle estreme conseguenze.

Per Dürrenmatt il romanzo giallo è soltanto una costruzione artificiosa studiata dagli autori, perché il più delle volte è la casualità a decretare il successo o il fallimento di una trama investigativa.
Per lo scrittore svizzero, la macchina della giustizia, che racchiude le indagini svolte dalla polizia sino agli aspetti giudiziari-processuali, non è in grado di comprendere appieno la verità umana che si cela dietro a un delitto.

Su questa linea procedono anche diversi altri autori europei. In Italia, citiamo Giorgio Scerbanenco (Kiev, 28 luglio 1911 – Milano, 27 ottobre 1969; scrittore, giornalista e saggista) i cui romanzi, dei capolavori del noir, mostrano l’amara realtà degli anni sessanta in Italia. L’Italia di quella fase storica era un paese difficile, cattivo, che aveva la smania di emergere ed era al contempo disincantato.

Negli anni settanta, il genere giallo affronta sempre di più il tema dell’sopraffazione da parte del potere di cui svela intrighi e nefandezze, ed è sempre più evidente l’impotenza di coloro che indagano.
Molti gialli italiani, stampati dagli anni quaranta in poi dichiarano le responsabilità criminali delle istituzioni. Da Scerbanenco a Fruttero & Lucentini, numerosi commissari sono raffigurati come dei perdenti e le trame dei gialli si tingono sempre più di noir. I lettori non si trovano più di fronte al finale classico, quando le istituzioni intervenivano e l’ordine precostituito era ristabilito, ora c’è solo disordine e caos.

A partire dagli anni ottanta fino a oggi, il giallo ha iniziato a proporre tematiche esistenziali, ma soprattutto sociali, come pure politiche e storiche. Pensiamo in questo caso, alle pagine di scrittori come: Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Manuel Vázquez Montalbán, Andrea Camilleri, Daniel Pennac, Stieg Larsson.
Queste nuove tendenze sono volte a sensibilizzare e a destare le coscienze, piuttosto che a divertire, come avveniva con le storie classiche, secondo il modello inglese.

In Italia, hanno avuto particolare fortuna i gialli di Camilleri, che si caratterizzano per: ambientazione; ironia; umanità dei personaggi; finezza degli intrecci polizieschi calati in uno sfondo sociale ben definito.

Alla fine del Novecento, inizia a profilarsi una schiera di giallisti scandinavi, quali Stieg Larsson, Jo Nesbø, Henning Mankell, Per Wahlöö, Camilla Läckberg, Liza Marklund, uniti da vari fattori: la scelta di ambientazioni similari, ovviamente, nordiche; dal fatto che le indagini sono condotte da detective “anomali” sia a livello umano sia investigativo; dalla presenza di forti legami tra fatti criminosi, indagini e tematiche con un considerevole impatto sociale.

Valutando l’evoluzione del genere giallo, possiamo rilevare che il divario tra il modello anglosassone e quello europeo si consoliderà fino ai nostri giorni. Questo è dovuto a motivi sia culturali sia commerciali, che hanno fatto sì che il giallo anglosassone restasse più o meno nei suoi binari, mentre in Europa, la tendenza di questo modello classico di giallo è andata affievolendosi negli anni, fin quasi a sparire.
Restano comunque ancora degli scrittori estimatori della tipologia classica, ad esempio, Gōshō Aoyama (pseudonimo di Yoshimasa Aoyama; Daiei, 21 giugno 1963; fumettista giapponese) che con il suo famoso Detective Conan riprende lo stereotipo dell’investigatore infallibile; la deduzione è ancora il suo strumento di indagine fondamentale; la struttura di alcuni suoi gialli ricalca quella degli emblematici delitti impossibili (enigma della camera chiusa).

Il genere giallo, così come altri generi altrettanto fortunati, con una lunga vita e un nutrito pubblico, hanno subito varie contaminazioni e dato vita a singolari ibridismi.
Un’interessante sfumatura assunta dal genere è rappresentata dal romanzo mistery, dove l’aspetto razionale, tipico del romanzo di indagine, si unisce a un’esplorazione del mondo dell’occulto e del paranormale. Questi nuovi esempi di giallo “contaminato”, oltre a svolgersi in atmosfere gotiche, hanno anche subìto una trasformazione a livello strutturale, spesso non del tutto in sintonia con una narrazione che richiede, proprio per sua natura, razionalità.
Una volta terminata questa fase di passaggio, nonché di riordino, potremo scoprire quale direzione prenderà il nuovo romanzo giallo.

Opera al nero #3. Tosca di Puccini: un crimine tira l’altro

Opera al nero Tosca di Puccini un crimine tira l’altro

“Tosca” di Giacomo Puccini ha tutti gli ingredienti per essere una storia “nera”. Nell’agile e drammatica trama si avvicendano diversi eventi tragici, tra cui un omicidio e un suicidio.

Proseguendo sulla scia delle opere al nero possiamo includere anche il capolavoro di Giacomo Puccini (1858 – 1924; compositore italiano, ritenuto uno dei maggiori e più significativi operisti di tutti i tempi), “Tosca”, anche qui gli atti criminosi e i gesti disperati certamente non difettano. Infatti, nel corso dell’opera assistiamo a un ricatto, a un tentato stupro, a un omicidio, a un’esecuzione per fucilazione e infine, a un suicidio.

E voi vi chiederete, c’è spazio per altro, dopo questa carrellata di disgrazie e violenze?
Sì, c’è spazio per una storia d’amore e qualche tocco di ambientazione storica.
In realtà, ciò che predomina in quest’opera di Puccini, al di là dei tragici eventi, è l’amore tra Tosca e Mario Cavaradossi; attorno alla loro relazione appassionata è costruita l’intera vicenda.

Puccini come Verdi sceglieva con cura i testi che intendeva musicare.
L’intreccio doveva essere avvincente e scorrevole e al contempo, suscitare forti emozioni sulle quali il musicista potesse poggiare e modellare i suoi impianti sonori, fondendo note, parole e azione in una perfetta drammaturgia.

I libretti delle opere liriche, quelle definite “serie” nel XVIII secolo, sono spesso incentrati su un triangolo amoroso (o anche più di uno), composto da due figure maschili tenore e baritono/basso e una figura femminile (soprano).
Dalle relazioni conflittuali tra queste tre figure scaturisce l’azione del dramma.
Semplificando, diremo che la storia d’amore, che in genere coinvolge il tenore e il soprano, sarà immancabilmente contrastata dal baritono/basso.

Questo schema triangolare ha incontrato molta fortuna nell’opera e compare in varie salse, calato in diverse ambientazioni e gestito con motivazioni conflittuali sempre diverse, tutte, però, condite di bellissima musica.
Puccini nella Tosca, ovviamente, non rinuncia al collaudato triangolo che qui vede impegnati: Floria Tosca (soprano), Mario Cavaradossi (tenore) e Vitellio Scarpia (baritono).

L’idea di scrivere quest’opera venne a Puccini dopo aver assistito, nel 1889, al dramma “La Tosca” di Victorien Sardou (1831 – 1908; drammaturgo francese), al teatro dei Filodrammatici di Milano.
Il compositore ne fu particolarmente colpito e chiese all’editore Giulio Ricordi (1840 – 1912) di interessarsi ai diritti perché intendeva musicarla.
Sardou non rigettò la richiesta, ma mostrò una certa freddezza e solo nel 1893, Ricordi riuscì a ottenere l’autorizzazione, ma per un altro musicista, Alberto Franchetti (1860 – 1942; compositore italiano appartenente alla scuola verista).

Fu così approntato un abbozzo di libretto, da Luigi Illica (1857 – 1919; commediografo e librettista italiano) e Giuseppe Giacosa (1847 – 1906; drammaturgo, scrittore e librettista italiano), che ottenne l’approvazione dell’autore del dramma. Franchetti però non volle comporre la musica, così Ricordi, nel 1895, chiese di occuparsene a Puccini. Il compositore si mise all’opera nella tarda primavera del 1896.
L’opera fu completata nel mese di ottobre del 1899 ed andò in scena il 14 gennaio 1900, al Teatro Costanzi di Roma.

Per passare dalla prosa alla musica, la vicenda di Sardou fu innanzitutto ristretta dai cinque atti originali a tre e furono operati diversi tagli. I librettisti eliminarono numerosi particolari attinenti alla cornice storica realistica del dramma e anche parecchi personaggi secondari.
Lo scopo era quello di concentrare al massimo la storia sui tre personaggi principali e sull’amore tormentato tra Tosca e Mario.

Tosca è ritenuta l’opera più drammatica di Puccini; essa presenta numerosi colpi di scena e situazioni che mantengono ben desto l’interesse del pubblico.
La musica è caratterizzata da incisi tematici taglienti e brevi, e si adatta perfettamente al testo e alla struttura generale del libretto, grazie al suo rapido decorso.

Ai momenti drammatici dell’azione, Puccini è riuscito a contrapporre delle parti liriche, dove emerge prepotentemente la vena melodica, come ad esempio nei duetti tra Tosca e Mario e nelle loro rispettive romanze (Recondita armonia, Vissi d’arte, E lucevan le stelle).
A livello orchestrale, poi, il compositore ha dato vita a delle sonorità che anticipano addirittura l’espressionismo musicale tedesco.

Per quanto riguarda la storia, la vicenda si svolge a Roma. Abbiamo anche la data precisa: martedì 17 giugno 1800, cioè tre giorni dopo la battaglia di Marengo (combattuta nel corso della seconda campagna d’Italia, durante la guerra della seconda coalizione; le truppe francesi dell’Armata di riserva, guidate da Napoleone Bonaparte, si scontrarono con l’esercito austriaco, comandato dal generale Michael von Melas. La battaglia ebbe luogo a est del fiume Bormida, vicino all’attuale Spinetta Marengo, nel territorio della Fraschetta, odierna provincia di Alessandria).

Ci troviamo calati in un particolare momento storico, in un’atmosfera tesa, tra gli avvenimenti rivoluzionari in Francia e la caduta della prima repubblica romana.
La prima scena dell’atto primo vede il bonapartista, nonché ex console della repubblica romana, Cesare Angelotti, evaso da Castel Sant’Angelo, entrare nella Basilica di Sant’Andrea della Valle per nascondersi. Qui incontrerà il suo amico, il pittore Mario Cavaradossi, che sta lavorando in una cappella.
Il colloquio fra i due è interrotto dall’arrivo di Tosca, amante di Mario, che costringe Angelotti a rintanarsi di nuovo nella cappella. Il pittore nasconde alla donna la presenza del suo amico, perché teme che lei possa rivelarlo al suo confessore.

Il colloquio amoroso tra Tosca e Mario è turbato dalla gelosia di lei che scorge nella figura della Maddalena, ritratta dal suo amante, la marchesa Attavanti.
Il pittore riesce a tranquillizzarla e a congedarla e a quel punto, Angelotti può uscire di nuovo dal suo nascondiglio. I due riprendono il discorso precedentemente interrotto. Mario offre all’amico protezione e lo accompagna alla sua casa in periferia. Andandosene, portano con loro anche gli abiti femminili che la sorella del fuggiasco ha dato al fratello per travestirsi; dimenticano però nella cappella un ventaglio.

Nel frattempo, in chiesa piomba il barone Scarpia, capo della polizia papalina, che sta cercando l’evaso. L’uomo sospetta anche di Cavaradossi del quale conosce le simpatie bonapartiste.
Per trovare Angelotti e arrestare lui e il pittore, Scarpia pensa di coinvolgere Tosca. La cantante è tornata in chiesa, per informare Mario che il loro appuntamento è saltato: lei deve cantare a Palazzo Farnese.
Scarpia, novello Jago, approfitta della gelosia della donna e abilmente la induce a credere che Mario la tradisce con la marchesa Attavanti, e il ventaglio dimenticato nella cappella ne sarebbe la prova.

Tosca esce sconvolta dalla chiesa, meditando di cogliere i due presunti amanti in flagrante, mentre Scarpia ordina a uno dei suoi luogotenenti di seguirla. L’uomo è convinto di scovare Angelotti e di poter imprigionare Mario che probabilmente lo nasconde. E già si immagina “L’uno al capestro [Cavaradossi], l’altra fra le mie braccia [Tosca]”.

Il secondo atto si apre sull’appartamento di Scarpia intento a consumare la sua cena, mentre a un piano inferiore di Palazzo Farnese sono in corso i festeggiamenti in onore del generale Melas.
Gli uomini di Scarpia hanno seguito Tosca fino alla villa di Mario. La cantante se n’è già andata, quando gli sbirri piombano in casa del pittore. Non trovano Angelotti, ma arrestano Mario, perché ritengono sappia dove sia nascosto il fuggiasco. Cavaradossi, condotto davanti a Scarpia, si rifiuta di svelare dove è nascosto il suo amico.

Tosca che ha appena cantato al cospetto della regina al piano inferiore, si reca anche lei nell’appartamento di Scarpia, convocata da uno dei suoi uomini e vede Mario, prima che l’uomo sia condotto in un’altra stanza per essere torturato.
Il capo della polizia, dopo aver costretto la donna ad ascoltare le urla del suo amante, riesce a piegare la sua volontà e a farle rivelare il nascondiglio di Angelotti.
Nel frattempo, un messaggero arriva e annuncia che a vincere la battaglia di Marengo sono state le truppe di Napoleone, non quelle austriache.

Mario inneggia alla vittoria e Scarpia lo condanna a morte. Tosca implora Scarpia di concedere la grazia a Mario. L’uomo acconsente, ma vuole che in cambio la donna gli si conceda.
Tosca è combattuta, prega, piange e si dispera, ma il barone non si fa impietosire. Nel frattempo giunge la notizia che Angelotti si è suicidato e Scarpia dà l’ordine di giustiziare Cavaradossi, ma con una fucilazione simulata. In realtà, è solo una finzione volta a ingannare la cantante, ma quello che l’uomo non si aspetta è la reazione di Tosca. Mentre Scarpia scrive il salvacondotto per la cantante e il suo amante, la donna riesce a impadronirsi di un pugnale e quando lui tenta di avvicinarla lo uccide al grido: “Questo è il bacio di Tosca!” e poi fugge con il salvacondotto.

Nell’atto terzo, Tosca incontra per un’ultima volta Cavaradossi a Castel Sant’Angelo e lo rassicura: non morirà. La donna gli mostra il salvacondotto firmato da Scarpia e gli confida di averlo ucciso.
Purtroppo, non ci sarà alcuna simulazione, Mario viene fucilato veramente e Tosca disperata e inseguita dagli sbirri, che hanno trovato Scarpia morto, si getta dagli spalti di Castel Sant’Angelo, dopo aver gridato “O Scarpia, avanti a Dio!!

Rocambole, l’eroe moderno: avventuriero e ladro gentiluomo

Rocambole, l’eroe moderno: avventuriero e ladro gentiluomo

Rocambole, avventuriero e ladro gentiluomo, è un singolare personaggio della letteratura ottocentesca. Un eroe dalle tinte fosche, che a un certo punto della sua vita decide di lasciare il “lato oscuro” per difendere i più deboli.

Rocambole, il cui nome originale era Joseph Fipart dit Rocambole, è un personaggio inventato, protagonista del romanzo a puntate, “Les Drames de Paris” (I drammi di Parigi), del 1857, dello scrittore francese Pierre Alexis Ponson du Terrail (Montmaur, 8 luglio 1829 – Bordeaux, 10 gennaio 1871; autore di romanzi popolari o roman-feuilleton).
Le vicende di questo singolare personaggio hanno avuto una grande influenza sullo sviluppo della narrativa d’avventura, precorrendo la narrativa eroica moderna.

Ponson du Terrail iniziò a scrivere il primo romanzo del ciclo “Les Drames de Paris”, cioè “L’Héritage Mysterieux” (L’eredità misteriosa) nel 1857, per il quotidiano “La Patrie”. La sua idea era quella di sfruttare il successo dei “Misteri di Parigi” di Eugène Sue (1804 – 1857; scrittore francese, noto soprattutto per i suoi romanzi d’appendice a carattere sociale), scritto circa quindici anni prima.

Il protagonista della saga, Rocambole, ottenne un enorme successo popolare che garantì al suo autore un’ottima e costante fonte di reddito.
Du Terrail scrisse in totale nove romanzi con protagonista Rocambole. I testi erano destinati a vari giornali dell’epoca e l’autore fu costretto a produrli in fretta, questo, purtroppo, andò a discapito della qualità della scrittura e dello stile che risulta stereotipato. Per questi motivi, probabilmente, l’interesse per Rocambole decadde quasi del tutto nei secoli successivi al suo periodo d’oro.

In ogni caso, Rocambole ha la sua importanza: per la prima volta con i suoi romanzi ci troviamo di fronte ad avventure di fantasia. Il suo personaggio segna il passaggio dagli eroi del romanzo gotico a quelli più moderni, intraprendenti e dotati di un carattere oscuro.

Quando scriveva le peripezie di Rocambole, Ponson du Terrail fu sottoposto a notevoli pressioni da parte dei suoi affezionati lettori. Tutti erano ansiosi di conoscere il seguito delle sue avventure. Queste pressioni spiegano gli sviluppi imprevisti della serie, come la cancellazione di alcuni personaggi e l’ascesa di altri, in particolare, quella del protagonista che dall’ottobre del 1858, diventò l’eroe principale con “Les Exploits de Rocambole” (Le imprese di Rocambole).

I romanzi di du Terrail oltre a portare qualcosa di nuovo, sono un ottimo spiraglio per conoscere la vita parigina. Lo stesso personaggio dell’avventuriero spericolato è una miscela ben riuscita di sfacciataggine parigina e fascino orgoglioso del bandito romantico.

Scendendo più nei dettagli, riguardo a Rocambole, l’autore ci informa che era orfano e già da bambino, viveva rubando. Poi, dopo un arresto e una fuga dalla colonia penale completerà la sua formazione criminale, grazie a due personaggi chiave della sua vita: la vedova Fipart e Sir Williams (vero nome Andréa Felipone).

La vita di Rocambole può essere divisa in due fasi principali. Nella prima, si industria a compiere ogni sorta di crimine: ricatti, furti e persino omicidi. Poi, dopo varie vicissitudini, finito di nuovo in prigione e successivamente evaso, ancora una volta, decide di cambiare vita e di dedicare le sue “arti” al bene.
In questa seconda fase della sua esistenza, Rocambole trova diversi alleati, ad esempio: pentiti come lui e persino alcuni che in passato erano stati suoi avversari. Con essi inizia una sorta di crociata, a favore di orfani defraudati delle loro eredità da persone malvage e di bambini rapiti e strappati ai loro genitori.

Viaggia anche molto, arrivando persino in India. Fa diverse tappe a Londra e continua a entrare e uscire di galera. Le sue evasioni, come le sue avventure sono in tutto e per tutto delle vere acrobazie.
Di romanzo in romanzo, lo vediamo coinvolto in situazioni sempre più complicate e pericolose, pronto ad affrontare mille pericoli e a gettarsi nella mischia, per vivere peripezie sempre più audaci e temerarie. Non per niente, il termine “rocambolesco”, mutuato dal nome del personaggio, è entrato nell’uso corrente, quando si vuole descrivere azioni particolarmente spericolate e azzardate.

Dopo Ponson du Terrail, altri scrittori hanno proseguito la saga di Rocambole e sull’avventuriero sprezzante del pericolo sono stati girati anche diversi film e serie televisive.

In copertina: a sinistra, “Rocambole: les drames de Paris”, copertina di Gino Starace per la ristampa della libreria Arthème Fayard del 1909; a destra, copertina del primo numero di una ristampa del ciclo di romanzi Rocambole, pubblicato in 219 numeri dalle Éditions Rouff (1908-1910). Illustrazione di Louis Bombled

“La lettrice” di Fragonard e il fascino della bellezza femminile

"La lettrice" di Fragonard e il fascino della bellezza femminile

“La lettrice” è un dipinto di Jean-Honoré Fragonard, risalente al 1776. Questo ritratto rappresenta una sorta di meditazione sulla bellezza e sugli effetti della lettura sull’animo femminile.

Jean-Honoré Fragonard (Grasse, 5 aprile 1732 – Parigi, 22 agosto 1806) è stato un pittore francese, un importante esponente del rococò e uno dei più importanti artisti francesi del Settecento.

Fragonard sapeva sfruttare al meglio le sue doti pittoriche. Faceva un uso particolare della luce e si avvaleva di una singolare rarefazione di specifiche parti, un valido artificio che gli consentiva di rappresentare con efficacia la leggerezza di alcuni elementi, come i panneggi o le bianche acconciature femminili.

Lavorò a Versailles fino alla rivoluzione, dopo la quale il suo stile fu rimpiazzato da quello neoclassico, caratterizzato da severità e tetraggine; l’opposto di quello di Fragonard che era assolutamente incapace di dipingere temi seri. Infatti, impossibilitato a gareggiare con i suoi pari aulici, aveva scelto di primeggiare tra i pittori di moda e i suoi dipinti più famosi raffigurano scene leggere e frivole, spesso erotiche.

Non disdegnò neppure i soggetti storici, i paesaggi e le opere di genere, ma la sua grande eleganza fu chiaramente impiegata nella pittura di carattere frivolo e malizioso.

Affascinato dalla bellezza femminile, Fragonard dipinse un nutrito gruppo di dipinti in cui sono raffigurate giovani donne in momenti di quieta solitudine.
Questi dipinti sono una specie di evocazione; le fanciulle che l’artista amava dipingere sono una sorta di personificazione della musica e della poesia.

Uno di questi dipinti “al femminile” è “La lettrice”. Nel quadro è raffigurata una ragazza con uno sgargiante vestito giallo; ha il capo inclinato ed è appoggiata a un grande cuscino rosa, piacevolmente assorta nella lettura di un libro che sorregge con delicatezza con la mano destra; l’altra mano è appoggiata a una poltrona.
Non sappiamo chi sia questa giovane concentrata a leggere, invece sappiamo, grazie ai raggi x, che sotto questo dipinto, l’artista aveva tracciato un disegno differente.
L’opera è datata 1776 ed è stata utilizzata in svariate edizioni del romanzo “Madame Bovary” di Gustave Flaubert.

Rispetto alle altre opere di Fragonard, questo dipinto è certamente più tranquillo. Si tratta di una scena di erudizione di una giovane donna e potrebbe essere definito un ritratto, anche se la donna non ci guarda. Da notare la postura delle mani e della schiena (molto dritta nonostante il grande cuscino) che denotano che la ragazza ha ricevuto un’educazione in materia di decoro ed etichetta.

La tecnica utilizzata da Fragonard è l’olio su tela. Notevole per la varietà dei tocchi, il dipinto è un buon esempio della pennellata rapida e vigorosa sviluppata dall’artista, e a volte definita “escrime” (scherma) dai suoi contemporanei.

Fragonard ha concepito questo dipinto, affinché fosse gradito agli occhi di chiunque, evitando gli interessi intellettuali e con l’intento di arrecare gioia e calore allo spettatore che l’artista coinvolge, inducendolo a porsi delle domande sulle conseguenze della lettura nel pensiero e nelle emozioni della fanciulla ritratta.
In questo modo, “La lettrice” diventa una meditazione sulla bellezza, ma anche sulle implicazioni della lettura nell’animo femminile.

Attualmente, “La lettrice” è conservata alla National Gallery of Art di Washington. Fu donata al museo nel 1961, dalla signora Mellon Bruce, in memoria di suo padre, Andrew W. Mellon. In precedenza, era appartenuta al dottor Tuffier.

In copertina: “La lettrice”, olio su tela (dimensioni 81,1×64,8 cm) di Jean-Honoré Fragonard, conservato alla National Gallery of Art, Washington

“Messa da Requiem” di Verdi: grido di fede nel terrore della morte

Messa da Requiem”di Verdi grido di fede nel terrore della morte

La “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi è una composizione sacra per coro, voci soliste e orchestra, che il compositore ha dedicato ad Alessandro Manzoni e che esprime tutta l’angoscia e lo smarrimento dell’uomo di fronte alla morte.

La genesi della “Messa da Requiem” (1874) di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901) si colloca in un periodo in cui il musicista ha deciso di abbandonare la composizione per il teatro d’opera. Successivamente, sarà convinto a tornare a comporre altre opere, ma nel 1871, reduce dai grandi consensi ottenuti da Aida, Verdi si prende una lunga pausa dalle scene teatrali, pur continuando a comporre musica.

Il compositore accarezza da tempo il progetto di realizzare una Messa da Requiem.
Nel 1869, l’aveva addirittura proposta in occasione della morte di Gioachino Rossini (Pesaro, 29 febbraio 1792 – Passy, 13 novembre 1868). La composizione avrebbe dovuto essere un collage realizzato da dodici musicisti. Per sé, Verdi aveva riservato la sezione conclusiva, il “Libera me”.
Purtroppo, questo interessante progetto, pensato per Bologna, fallì per motivi politico-economici, ma Verdi compose comunque il Libera me e successivamente, lo inserirà nella Messa da Requiem da lui composta nel 1874.

Fu la morte di Manzoni, il 22 maggio 1873, che spinse Giuseppe Verdi a rinnovare il suo proposito di una Messa per i morti, dopo il fallito progetto rossiniano.
La scomparsa dell’autore de “I promessi sposi” colpì profondamente il musicista che condivideva con Manzoni i valori risorgimentali, quali, libertà e giustizia, e come lui si era adoperato per l’Unità d’Italia.

Verdi si attivò per attuare il suo progetto già dal 3 giugno del 1873, rivolgendosi all’editore Ricordi: “vorrei dimostrare quanto affetto e venerazione ho portato e porto a quel grande che non è più e che Milano ha tanto degnamente onorato. Vorrei mettere in musica una Messa da morto da eseguirsi l’anno venturo per l’anniversario della sua morte. La Messa avrebbe proporzioni piuttosto vaste, ed oltre ad una grande orchestra ed un grande coro, ci vorrebbero anche […] quattro o cinque cantanti principali”.

Il Requiem fu offerto dal musicista alla città di Milano e la sua prima esecuzione si tenne nella Chiesa di San Marco, a Milano, il 22 maggio 1874. A dirigere la messa fu lo stesso Verdi, a interpretare le quattro parti solistiche furono: Teresa Stolz (soprano); Maria Waldmann (mezzosoprano); Giuseppe Capponi (tenore); Ormondo Maini (basso).
L’esecuzione ottenne un grandissimo successo e la fama della Messa superò rapidamente i confini nazionali.

La Messa era suddivisa in:
Requiem et Kyrie (quartetto solista, coro)
Dies Irae (coro)
Tuba Mirum (basso e coro)
Mors stupebit (basso e coro)
Liber Scriptus (mezzosoprano, coro)
Quid sum miser (soprano, mezzosoprano, tenore)
Rex tremendae (solisti, coro)
Recordare (soprano, mezzosoprano)
Ingemisco (tenore)
Confutatis (basso, coro)
Lacrymosa (solisti, coro)
Offertorium (solisti)
Sanctus (a doppio coro)
Agnus Dei (soprano, mezzosoprano, coro)
Lux Aeterna (mezzosoprano, tenore, basso)
Libera Me (soprano, coro)

L’organico, oltre ai quattro solisti e al coro misto, prevedeva: 3 flauti (3 anche ottavino); 2 oboi; 2 clarinetti; 4 fagotti; 4 corni; 4 trombe; 3 tromboni; basso tuba; timpani; grancassa; archi.

La Messa da Requiem di Verdi è ispirata ai temi fondamentali della spiritualità: dalla ricerca della fede alla paura della morte e di ciò che ci riserva l’aldilà.
Quando mette mano alla composizione il musicista sta attraversando una fase difficile della sua vita: si sente lontano dalla fede e i lutti che ha affrontato lo hanno spinto a porsi domande sulla morte e sul trascendente.

La Messa rispecchia nel suo insieme questa duplice condizione di ricerca della spiritualità e di scetticismo sulla questione della fede. Il risultato è un elevato messaggio espresso da una voce laica, perfettamente calata nel pensiero ottocentesco europeo, quella di un individuo che avverte la sua debolezza di fronte al mistero della morte. L’individuo che non ha le certezze della fede e neppure ancora il sostegno delle filosofie della vita e degli esistenzialismi.

Giuseppe Verdi con la sua Messa da Requiem afferma, tra i due estremi di coloro che credono e quelli che non credono o sono incerti e dubbiosi, la posizione dell’uomo lasciato a se stesso, privo della certezza della redenzione, solo di fronte al mondo vuoto della voce di Dio.
La grandezza di questa composizione è nel fatto che il musicista è riuscito a esprimere la posizione dell’individuo che terrorizzato dal nulla, cerca disperatamente una voce divina che lo rassicuri.
La Messa di Verdi rappresenta un interrogativo aperto sulle paure e sull’impossibilità di trovare un orientamento sicuro.

Verdi era un romantico e avvertiva sia il rischio della mancanza di fede sia il convenzionalismo cattolico.
Il suo rifiuto della fede è l’atteggiamento di chi non accetta il formalismo del falso credente, il rispetto pedissequo delle regole comportamentali e delle pratiche devote al fine di ottenere la salvezza.
Questo suo atteggiamento è un riflesso della decadenza morale, politica, strutturale che il musicista avvertiva attorno a sé.

Il desiderio di scrivere una Messa da Requiem in onore di Manzoni, nasceva in Verdi da una vicinanza verso lo scrittore milanese per il quale nutriva, sin dagli anni giovanili, una vera propria venerazione.
Verdi incontrò Manzoni il 21 maggio 1867 e attraverso il resoconto fatto da Giuseppina Strepponi (1815 – 1897; soprano, seconda moglie di Giuseppe Verdi) in una lettera di indirizzata a Clara Maffei (1814 – 1886; patriota e mecenate italiana) si avverte l’ammirazione che il musicista aveva per l’autore de “I promessi sposi”: “se poi andrai a Milano, ti presenterai a Manzoni. Egli t’aspetta, […] Pouff! Qui la bomba fu così forte ed inaspettata, che non seppi più se dovevo aprir gli sportelli della carrozza per dargli aria, o se dovessi chiuderli, temendo che nel parossismo della sorpresa e della gioia non mi saltasse fuori! È venuto rosso, smorto, sudato; si cavò il cappello, lo stropicciò in modo che per poco non lo ridusse in focaccia. Più (e ciò resti fra noi) il severissimo e fierissimo orso di Busseto n’ebbe pieni gli occhi di lagrime, e tutti e due commossi, convulsi, siamo rimasti dieci minuti in completo silenzio”.

Passando all’analisi musicale della Messa da Requiem di Verdi possiamo osservare, come prima cosa, che si tratta in sintesi di una riflessione sull’anima dopo la morte.
In tutta la composizione è tangibile il senso di umiltà dell’uomo che, angosciato dalla propria vita e dal dolore, si trova al cospetto di Dio.
L’intero Requiem è costellato di elementi ricorrenti e in generale, si può cogliere l’ambiguo oscillare tra un sentimento collettivo apocalittico e un ripiegamento intimistico.

Il Kyrie inizia sottovoce, simulando delle anime imploranti davanti a un giudice.
Il Dies irae è invece una sorta di esplosione musicale: l’orchestra esibisce un fortissimo, mentre il coro emette suoni strazianti e le grancasse sparano cannonate. Qui in particolare emergono il terribile giudizio e l’angoscia, e la potenza esibita da orchestra e coro, spinti al limite delle loro possibilità tecniche, servono a Verdi per illustrare musicalmente degli scenari apocalittici.

A queste sezioni si contrappone il lirismo del Recordare, un duetto tra soprano e mezzosoprano, una sorta di inno d’amore verso Gesù, e il Lux Aeterna, dove la luce emanata da Dio è espressa dal tremolo dei violini iniziale e dal canto del mezzosoprano, mentre basso, timpani e ottoni evocano l’idea che la punizione divina arriva per tutti.

In alcune sezioni, come il Kyrie eleison, il Recordare, l’Ingemisco e in alcuni versi del Lux Aeterna e del Libera me, Verdi dà voce al sentimento individuale, manifestato nella maniera più calorosa e di chiara derivazione operistica.

In altre parti della composizione, il musicista tiene vivo il sentimento musicale, lasciando però emergere una religiosità di sapore arcaico, prossima ai modelli della ritualità popolare, che si allontana temporaneamente sia dallo spirito prettamente operistico sia dalla rigida polifonia.
Alcuni esempi sono: il canto salmodiato (canto su una sola nota) del coro che apre l’introito; l’invocazione drammatica (libera me) del soprano; il canto monodico e austero dell’Agnus dei.

Nel Lacrimosa, invece, Verdi mette in risalto la disperazione, suggerita, sin dall’inizio, dagli archi che sembrano prodursi in un lamento.

L’unità costruita da Verdi nella Messa da Requiem è un sottile gioco di richiami delle medesime pulsioni.
Nell’arco dell’intera composizione si è sospinti e abbrancati dal primordiale; si oscilla tra il terrore del Dies Irae e il grido di fede del Libera me che fanno irruzione a più riprese nel tessuto musicale con una forza che resta invariata.

In copertina: particolare del ritratto di Alessandro Manzoni (lo scrittore al quale Verdi dedicò il Requiem) di Francesco Hayez (1841), Pinacoteca di Brera

Giallo: storia di un genere letterario di grande successo #2

Giallo storia di un genere letterario di grande successo 2

A inizio Novecento soffiano venti di cambiamento per il giallo. Tra gli anni venti e trenta, il genere prenderà le distanze dal modello instaurato dai gialli di Conan Doyle e si creeranno correnti diverse in Europa e in America.

Agli inizi del Novecento il genere giallo incontra sempre più consensi, innanzitutto da parte dei lettori, successivamente, anche da parte della critica.

Molti autori si dedicano alla scrittura di gialli e un certo numero di essi ha anche raggiunto una fama mondiale, tra questi: Raymond Chandler (1888-1959), Rex Stout (1886-1975) e Agatha Christie (1890-1976).

Compaiono anche dei tentativi di dare forma a un detective diverso, più umano, meno freddo, altrettanto si cerca di fare con le storie.

Un esempio di tali iniziative si rilevano nei libri di Gilbert Keith Chesterton (1874 – 1936; scrittore e giornalista britannico, molto prolifico e versatile), creatore del prete detective, Padre Brown.

Il vero cambiamento, però si avrà solo verso la metà degli anni trenta, quando gli autori di questo genere inizieranno ad affrancarsi dagli schemi del giallo classico. Ed è proprio in questa fase che iniziano a definirsi due strade che, parallelamente, e in modo molto diverso, in Europa e in America, prenderanno le distanze dal modello creato da Conan Doyle (1859 – 1930) con “Sherlock Holmes”.

Negli anni venti e trenta, negli Stati Uniti si afferma un genere di giallo che sarà poi definito hard boiled. Le storie di questo tipo sono descritte con toni oscuri e negativi; lo stile è tagliente, il linguaggio crudo si spinge ai limiti del volgare.

Il delitto è uno degli elementi della narrazione, mentre le ambientazioni e la descrizione psicologica dei personaggi assurgono a parte di rilievo nella storia.

Gli scenari degradati delle metropoli americane fanno da sfondo a una società in cui contano solo potere e denaro, mentre i buoni e i deboli sono – ahimé – destinati a soccombere.

I detective di queste storie sono figli dell’America spietata e disincantata degli anni successivi alla terribile crisi del 1929. Sono dei solitari, avventurieri, dei duri, traditi dalla vita e per questo, spesso alcolizzati o comunque forti bevitori, che non hanno più nulla in cui credere.

In Europa, invece, dai primi anni trenta i cambiamenti nel genere giallo assumono toni meno duri di quelli usati dagli scrittori che vivono dall’altra parte dell’oceano.

In Italia, Augusto De Angelis (1888 – 1944; scrittore e giornalista, attivo in particolare durante gli anni del fascismo) diede vita al suo commissario De Vincenzi, una sorta di Maigret italiano che, purtroppo, non incontrò grande favore di pubblico. Forse, anche a causa della chiusura culturale dovuta al fascismo e anche per lo scarso apprezzamento del genere poliziesco da parte del regime.

Nel 1943, fu imposto il sequestro in Italia di “tutti i romanzi gialli in qualunque tempo stampati e ovunque esistenti in vendita“. Fu anche chiusa la famosa collana di gialli di Arnoldo Mondadori Editore.

Il regime fascista, per motivi propagandistici e di ordine pubblico, mirava a nascondere sotto il tappeto qualsiasi cosa potesse incrinare la facciata positiva e integra della società italiana, che era mostrata agli italiani e al mondo. Per questo motivo, il crimine fu fatto scomparire sia dalla cronaca sia dalla letteratura. I gialli, anche se trattavano di atti criminali immaginari, erano comunque visti con sospetto, come un mezzo per istigare e sovvertire l’ordine costituito.

In Europa, invece, il genere continuava la sua inarrestabile evoluzione.
A metà degli anni trenta, George Simenon (1903 – 1989) creò il personaggio di Maigret e sovvertì in maniera definitiva l’idea di indagine e persino il concetto di romanzo poliziesco. Grazie a lui, non mutò solo la figura del detective, ma anche gli ambienti, le situazioni e i personaggi in generale, diversissimi da quelli cui si era abituati a “frequentare” con il giallo classico.

Ora, sotto la lente dell’investigatore non c’è più il mondo aristocratico, ma l’uomo comune, il piccolo borghese, e le trame dei nuovi libri gialli tengono sempre più conto delle tematiche esistenziali, filosofiche e psicologiche.

Lasciando al passato le ambientazioni rarefatte e mondane, si scende nelle strade, ad affrontare le inquietudini della gente comune. Il romanzo poliziesco a questo punto non è più strettamente letteratura di genere, ma accresce il suo spessore sia a livello contenutistico sia stilistico e finisce per mescolarsi con una letteratura dotata di un più ampio respiro.

Simenon, a braccetto con il suo Maigret, ha fatto e tuttora fa “visitare” ai suoi lettori una Parigi fatta di brasserie e quartieri popolari, spingendosi fin nella provincia francese.

Il commissario di Simenon non è un eroe, è un uomo ordinario e vulnerabile, un poliziotto e un borghese, che però è dotato di una profonda umanità.

Le sue indagini, condotte in modo molto diverso da quelle dei suoi predecessori, danno quasi l’idea che non stia per niente indagando, e arrivano a rivelare il più delle volte una verità amara.

Anche gli assassini di Maigret non hanno niente a che vedere con i loro predecessori del genere: sono persone comuni che uccidono, perché un imprevisto ha sconvolto le loro vite e le ha costrette ad agire di conseguenza.

Nelle storie di Simenon, non c’è il gioco della deduzione, al fine di individuare l’assassino. Il colpevole, infatti, è spesso individuato o comunque sospettato abbastanza presto, ma quello che conta in questo percorso non è capire chi, piuttosto perché, cioè ricostruire la verità umana, arrivare al motivo che ha fatto scatenare il dramma e ovviamente, ottenere le prove per inchiodare il colpevole.

Quello che conta, insomma, per Maigret e per Simenon è la vicenda umana dietro al crimine che si è consumato.
(prosegue)

Opera al nero #2. I Capuleti e Montecchi di Bellini: tragedie familiari

Opera al nero 2. I Capuleti e Montecchi di Bellini tragedie familiari

La vicenda di Romeo e Giulietta è stata origine di un proliferare di opere. Dalla letteratura alle scene, dalla pagina scritta alla pagina musicale, gli sfortunati amanti sono diventati una tra le coppie più famose e celebrate.
Vincenzo Bellini, compositore catanese, come molti altri, non ha resistito al fascino di questa famosissima e tragica storia d’amore.

Anche il travagliato amore tra Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti si presta alla definizione di opera al nero: anche qui l’atmosfera da tragedia non disattende le attese.

I due infelici innamorati sono stati celebrati in ogni salsa. Dalla letteratura al teatro, la loro storia è rimbalzata fino al mondo del balletto (“Romeo e Giulietta”, Op. 64 di Sergej Sergeevič Prokof’ev,1891 – 1953) e, ovviamente, è transitata anche per l’opera.

In effetti, è impossibile che una vicenda che tratti di un amore epocale, condito da un retroscena (neanche troppo) sanguinoso, potesse sfuggire al mondo della lirica che ha sempre cercato trame in grado di destare i sentimenti e far lievitare le emozioni sino al loro massimo livello. Inoltre, nella storia di Romeo e Giulietta non mancano neppure inganni e sotterfugi, fughe e cripte sotterranee, veleni e colpi di spada che sono ugualmente benedette da impresari, librettisti e musicisti.

Diversi autori hanno pensato bene di rivestire di musica questa tragedia, ricordiamo il famoso dramma “Giulietta e Romeo” del compositore Nicola Antonio Zingarelli (1752 -1837; compositore italiano, esponente della Scuola musicale napoletana) su libretto di Giuseppe Maria Foppa (1760 – 1845; librettista italiano, autore di oltre 80 libretti realizzati tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento), tratto non dalla tragedia shakespeariana, bensì dalla novella cinquecentesca con il medesimo titolo scritta da Luigi da Porto (1485 – 1529; scrittore e storiografo italiano). L’opera, ritenuta il capolavoro di Zingarelli, fu composta in pochissimo tempo e fu eseguita per la prima volta durante la stagione di Carnevale del Teatro alla Scala di Milano, il 30 gennaio 1796.

Altro compositore che si cimentò sulla vicenda degli sfortunati amanti è Nicola Vaccaj (1790 – 1848; compositore e insegnante italiano). Il libretto in questo caso è di Felice Romani (1788 – 1865; librettista, poeta e critico musicale, fra i più celebri e prolifici del suo tempo: scrisse circa un centinaio di libretti, per i massimi operisti italiani della prima metà dell’Ottocento).
Per la stesura, l’autore si basò su una tragedia di Luigi Scevola (1770 – 1818; drammaturgo italiano), tratta dall’omonimo lavoro di Shakespeare, e soprattutto, su un’ampia tradizione letteraria italiana, tra cui la “Novella IX” (La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti che l’un di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti), contenuta nel novelliere di Matteo Bandello (1485 – 1561; vescovo cattolico e scrittore italiano del Cinquecento), nonché su un balletto ispirato ai due amanti veronesi, “Le tombe di Verona”, messo in scena a Milano nel 1820. Il testo così concepito è piuttosto lontano dalla tragedia di Shakespeare.
Il melodramma di Vaccaj andò in scena, per la prima volta, il 31 ottobre del 1825, al Teatro alla Canobbiana di Milano.

In ordine cronologico, altra opera che riprende la tragedia amorosa è “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini (Catania, 3 novembre 1801 – Puteaux, 23 settembre 1835). Il libretto su cui lavorò il compositore era un adattamento di quello di Romani, già utilizzato da Nicola Vaccaj.

Per la sua “Roméo et Juliette”, Charles Gounod (1818 – 1893), dopo un tentativo fallito sul libretto di Felice Romani, nel 1841, utilizzò il libretto in francese di Jules Barbier (1825 – 1901; poeta, scrittore e librettista francese) e Michel Carré (1821 – 1872; librettista francese), tratto da “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare (1564 – 1616).
La sua opera vide la luce nel 1865, dopo solo pochi mesi di lavoro, ma per vederla allestita al Théâtre Lyrique Impérial du Châtelet di Parigi, dove ottenne un successo immediato e duraturo, il musicista dovette attendere fino al 27 aprile 1867.

Tornando a Bellini, la sua opera, divisa in due atti, apparve in prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo 1830 e fu un successo. Il libretto era di Felice Romani.
Il musicista compose “I Capuleti e i Montecchi” a tempo di record. Impiegò poco più di un mese, dalla fine di gennaio ai primi di marzo. Per accelerare i tempi, trasse molta della musica per il nuovo melodramma da un’opera da lui musicata l’anno precedente, che era stata un irrimediabile insuccesso: la “Zaira”. Inoltre, recuperò una romanza anche dalla sua opera d’esordio “Adelson e Salvini”.

Il materiale musicale “riciclato” fu comunque sottoposto da Bellini a un lavoro molto accurato di rielaborazione, affinché fosse adeguato ai personaggi mutati, così come ai versi e agli interpreti.
Anche in quest’opera, il compositore affidò le parti della coppia di protagonisti a due voci femminili.
Quindi, non stupitevi se andando a vedere quest’opera troverete un Romeo mezzosoprano “en travesti” (o “travesti”, personaggio che in un’opera teatrale o lirica è interpretato da un attore o cantante di sesso opposto). Questo tipo di soluzione era appropriata per la rappresentazione di un amore fra adolescenti.

Con “I Capuleti e i Montecchi” Bellini getta le basi da cui si evolverà la ricerca formale delle sue opere successive. Questo melodramma è andato spesso in scena, soprattutto perché la scrittura vocale non è particolarmente difficile e la drammaturgia è semplice, espressiva e fondata su una trama di sicuro interesse.
Per la notorietà, però, ci fu un prezzo da pagare. Per tutto il corso dell’Ottocento, l’opera subì ogni tipo di stravolgimento, a cominciare dalla “variazione” introdotta da Maria Malibran (1808 – 1836) che sostituì, in modo arbitrale, il duetto finale, che non consentiva una consona esibizione vocale, con il convenzionale finale dell’opera di Vaccaj.
Non mancarono stravolgimenti anche nel Novecento, in particolare con la scelta di affidare la parte di Romeo alla voce di un tenore.

Per quanto riguarda la genesi di quest’opera, dobbiamo tornare al 1829.
Bellini era a Venezia e stava seguendo alla Fenice la messa in scena del “Pirata”. Il teatro veneziano aveva in programma come terza opera della stagione un nuovo lavoro di Giovanni Pacini (1796 – 1867) che, sovraccarico di lavoro, alzò bandiera bianca, così il teatro si rivolse a Vincenzo, perché facesse le sue veci.
Il musicista accettò anche se era piuttosto dubbioso, a causa del poco tempo concesso per portare a termine il lavoro. Per accelerare il procedimento decise di usare lo stesso libretto di Romani, già impiegato da Vaccaj, ma operando qualche rimaneggiamento.

Fortunatamente, il libretto era perfetto per la compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione. Tra i cantanti ingaggiati spiccava il mezzosoprano Giuditta Grisi (1805 – 1840) alla quale il compositore diede la parte di Romeo.
Affidare il ruolo del giovane innamorato a una donna, in abiti maschili, era una consuetudine di lunga data e all’epoca di Bellini non costituiva una stranezza.
Romeo, affidato alla Grisi, faceva coppia con il soprano Rosalbina Carradori Allan (1800 – 1865) nei panni di Giulietta. Il tenore Lorenzo Bonfigli era Tebaldo, mentre il basso, Gaetano Antoldi, Capellio.
L’opera mandò in visibilio il pubblico veneziano. Il 26 dicembre dello stesso anno (1830) fu allestita al Teatro alla Scala di Milano con notevoli rimaneggiamenti, soprattutto per la nuova interprete nel ruolo di Giulietta, Amalia Schütz Oldosi (1803 – 1852), che era un mezzosoprano.

Diamo uno sguardo alla trama.
L’atto primo ci catapulta nella Verona del Duecento. La città è lacerata dalla faida tra la famiglia dei Capuleti, guelfi, e quella dei Montecchi, ghibellini. Il principale rappresentante dei Capuleti, Capellio (basso), padre di Giulietta, riunisce i suoi e li sprona a combattere gli avversari. Inoltre, comunica loro che i Montecchi, sostenuti da Ezzelino (Ezzelino III da Romano, 1194 – 1259, signore di Vicenza, Verona e Padova; ghibellino, sostenne l’imperatore Federico II), sono capitanati da Romeo, l’assassino di suo figlio, che vuole inviare un ambasciatore per proporre la pace. Lorenzo (basso), medico e familiare dei Capuleti, osteggiato dagli altri, suggerisce di ascoltare le parole del messaggero.

A capo della fazione guelfa c’è Tebaldo (tenore) che giura di uccidere Romeo, per vendicare la morte del figlio di Capellio che in cambio gli offre sua figlia in sposa. Le nozze saranno celebrate la sera stessa.
Lorenzo, però, sa che Giulietta è segretamente legata a Romeo e cerca di evitare il matrimonio, sostenendo che Giulietta è malata. Tebald, dal canto suo, non vuole far soffrire la promessa sposa. Si dice pronto a rinunciare alle nozze, ma il padre di Giulietta sostiene che la giovane sarà grata a chi vendicherà la morte del fratello.

Nel frattempo, sopraggiunge l’ambasciatore dei Montecchi a proporre la pace. Si tratta di Romeo che è tornato a Verona sotto mentite spoglie. Per ricomporre la faida tra le due famiglie, il giovane suggerisce di celebrare un matrimonio: tra Romeo e Giulietta. Capellio rifiuta, mentre Giulietta è disperata nella sua stanza per la sua sorte. Lorenzo le svela che Romeo è di nuovo in città, in incognito, e riesce a far incontrare i due giovani innamorati. Romeo esorta l’amata a fuggire con lui. All’inizio Giulietta rifiuta la proposta, poi si convince e si allontana con lui.

Nel frattempo, nel palazzo di Capellio si stanno preparando i festeggiamenti per le nozze tra Giulietta e Tebaldo.
Romeo si confonde tra gli invitati e avvisa Lorenzo che mille ghibellini armati sono giunti in città per sorprendere gli avversari. Lorenzo lo esorta a lasciare Verona e a rinunciare ai suoi piani.
Intanto, si sente un tumulto: i Montecchi hanno attaccato alcuni Capuleti.
I convitati scappano, Romeo si unisce ai suoi. Mentre il frastuono scema, giunge Giulietta vestita da sposa, in ansia per il combattimento. Romeo tenta ancora di farsi seguire da lei. Intanto, arrivano Tebaldo e Capellio, seguiti dai guelfi armati che scoprono Romeo, il quale riesce a fuggire grazie all’intervento dei suoi.

Nell’atto secondo, troviamo Giulietta da sola nella sua stanza. La battaglia prosegue, la ragazza è in ansia, poi scopre che Romeo è salvo. Purtroppo, però, il giorno successivo lei sarà condotta al castello di Tebaldo per convolare con lui a nozze.
Lorenzo le suggerisce uno stratagemma: ingerire un filtro che la farà sembrare morta; la ragazza beve, dopo alcuni istanti di esitazione. Subito dopo, giunge Capellio che obbliga la figlia a ritirarsi e a predisporsi all’imminente matrimonio. Successivamente, chiede a Tebaldo di sorvegliare Lorenzo, del quale non si fida più.

Romeo, ancora a Verona, sta cercando Lorenzo per avere notizie di Giulietta. Nel mentre, incontra Tebaldo che lo sfida a duello. I due sfidanti sono sul punto di battersi, quando giunge ai loro orecchi una musica funebre: è il corteo che conduce Giulietta alla tomba.
I due rivali sono presi da grande sconforto. Romeo si reca con i suoi nel luogo ove è sepolta Giulietta. Fa aprire la tomba e si rivolge all’amata. Fa allontanare i suoi e, invocando il nome di Giulietta, si avvelena. La giovane si risveglia e vede Romeo ai piedi del sepolcro, pensa l’abbia raggiunta, avvisato da Lorenzo della sua morte simulata. I due sfortunati amanti hanno appena il tempo di abbracciarsi un’ultima volta.
Romeo muore e Giulietta cade sopra di lui. Intanto, sopraggiungono i seguaci di Romeo, inseguiti dai Capuleti. Tutti si trovano davanti al sepolcro dove i due innamorati si sono tolti la vita. Di fronte a questa scena tragica, Capellio si sente responsabile per l’odio che ha diviso le due famiglie e che ha condotto alla morte dei due giovani.

In quest’opera Bellini fa ritorno al lirismo canoro, alle melodie morbide, romantiche e suadenti che si accordano alla perfezione con la storia messa in musica.
Ne “I Capuleti e i Montecchi” confluiscono espressività del canto, particolare cura per l’intonazione del testo poetico, equilibrio della strumentazione.

Degno di nota è il finale, in stile declamato, dove si assiste a un’alternanza tra recitativo accompagnato e arioso. Qui il compositore ha concentrato la sua attenzione, in particolare sui trapassi psicologici dei personaggi in scena, giungendo a esiti struggenti.
L’opera di Bellini fu accolta in modo controverso, in particolare, il finale rappresentava una novità per l’epoca e disorientò buona parte del pubblico. Inoltre, esso non rispondeva alle esigenze esibizionistiche di una prima donna. Infatti, già dalla rappresentazione di Firenze nel 1831, fu sostituito con quello più convenzionale di Vaccaj.

I Capuleti e i Montecchi fu una tra le opere più rappresentate durante l’Ottocento, nei teatri italiani ed europei.
A quest’opera di Bellini sono legati i nomi di alcuni dei più famosi cantanti dell’epoca: Maria Malibran, Giuditta Pasta, Fanny Tacchinardi Persiani, Giovanni Battista Rubini, Domenico Donzelli.
Nel Novecento, l’opera fu rappresentata dapprima a Catania (1935), per il centenario della morte di Bellini, poi in altri teatri a iniziare dagli anni Cinquanta.
Attualmente, essa occupa un posto fisso nel repertorio dei teatri lirici.

In copertina: particolare del dipinto “Romeo e Giulietta” di Frank Bernard Dicksee (1884)