Robin Hood: un fuorilegge che difendeva i poveri

Robin Hood un fuorilegge che difendeva i poveri

Robin Hood, l’abile arciere difensore dei poveri, è un personaggio che tra storia e leggenda ha attraversato i secoli, e dalla letteratura al cinema ha lasciato un segno indelebile.

Robin Hood (“Robyn Hode” in manoscritti più antichi), eroe popolare del Regno Unito, che oscilla tra storia e leggenda, ha ispirato alcune opere della letteratura britannica e nell’immaginario collettivo moderno è assurto al ruolo del generoso giustiziere che ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Si ritiene che Robin Hood sia realmente esistito e forse, era un bandito o un nobile sassone decaduto alla cui figura sono state associate preesistenti leggende di un dio della foresta.
Per quanto riguarda la sua zona d’azione, sappiamo che lui e la sua banda erano attivi nell’area della foresta di Sherwood e nella Contea di Nottingham.

Alcuni storici ritengono fosse originario di Loxlley nello Yorkshire, mentre altri sostengono fosse di Wakefield.
Discordanti sono anche le supposizioni sulle possibili date di nascita di Robin Hood: c’è chi propende per un intervallo compreso tra il 1285 e il 1295 e chi, invece, ritiene sia deceduto nel 1247 circa.

La versione più nota delle vicende di Robin Hood fa di lui un nobile, un abile arciere, devoto e fedele a Riccardo Cuor di Leone (1157 – 1199), il cui trono era stato usurpato dal fratello, Giovanni Senzaterra (1166 – 1216). A causa della sua fedeltà al legittimo sovrano d’Inghilterra, Robin Hood fu privato del titolo di cavaliere e anche dei possedimenti che gli spettavano di diritto, così decise di ritirarsi in una foresta e, insieme a una banda di fuorilegge, compiva azioni di guerriglia contro l’autorità e depredava i ricchi, per favorire i poveri, fino a quando non riuscì a spodestare Giovanni Senzaterra.

Non sono del tutto chiare le origini della leggenda di Robin Hood e le testimonianze storiche sono confuse. Ad esempio, è stata rinvenuta una pergamena del 1225, della Corte d’Assise dello Yorkshire, che parla di un “Robin Hood fuggitivo (fuorilegge)“, mentre al 1248, risale un testamento che fa riferimento a “Il Conte Robin di Huntingdon“, purtroppo nessuno di questi documenti fornisce un’identificazione storica certa di Robin Hood.

La prima testimonianza dell’esistenza di un eroe del popolo risale al 1377, è un poema dal titolo “Piers Plowman”, nel quale il chierico londinese William Langland scrive: “Non conosco bene le Preghiere di Nostro Signore, ma conosco le ballate di Robin Hood”, questo ci fa capire che la figura del brigante era già piuttosto nota all’epoca.

Trent’anni dopo troviamo un’altra citazione, in un manoscritto del 1410, custodito nella cattedrale di Lincoln. In tale nota si dice: “Robin Hood in Sherwood stood” (Robin Hood si trovava a Sherwood), un modo di dire piuttosto diffuso a quel tempo, per indicare qualcosa di ovvio.

Per avere un resoconto completo della leggenda del difensore dei poveri, dobbiamo attendere fino al 1510, quando compare il racconto: “Le gesta di Robin Hood”.
Nei secoli la storia dell’eroe di Sherwood si è notevolmente modificata, prendendo sempre più le distanze dalla verità storica e avvicinandosi maggiormente alla leggenda, quella di un eroe che è innanzitutto un patriota, perché sosteneva il legittimo sovrano; era un difensore dei più deboli e meno abbienti; era un non violento perché non usava mai le maniere forti quando rapinava i potenti.

Comprendere quanto ci sia di vero e quanto di inventato su Robin Hood non è semplice, perché la sua storia è stata ampliata e arricchita negli anni, non solo di dettagli, ma anche di personaggi.
Inoltre, a complicare le cose, nel corso del XX secolo, il cinema ha continuato ad aggiungere personaggi alla saga e persino nuove situazioni, proprio come era avvenuto in precedenza, quando la storia era tramandata oralmente e anche successivamente, quando si diffuse grazie alle versioni stampate.

Le vicende di Robin Hood si collocano tra la morte di re Enrico II (1133 – 1189) e l’inizio del regno di re Edoardo III (1312 – 1377). La saga, invece, si svolge tra i secoli XII e XIII, durante il regno di re Giovanni d’Inghilterra, cioè tra il 1199 ed il 1216. In questo periodo ci furono conflitti senza fine che erano finanziati con tasse esorbitanti, al punto che i baroni si ribellarono al re e lo costrinsero a firmare la “Magna Charta Libertatum”, per limitare i suoi poteri e aumentare i loro.
Alcuni storici credono di ravvisare nei baroni ribelli lo stesso Robin Hood e i suoi adepti.

Un ulteriore ostacolo nella ricerca del personaggio reale cui fa riferimento la saga è legato al nome: “Robert” (da cui deriva “Robin”) è sempre stato un nome popolare, mentre il cognome “Hood” e le sue varianti erano anch’essi piuttosto utilizzati all’epoca.
Inoltre, le prime ballate che sono arrivate fino a noi non forniscono alcuna informazione sulle origini del personaggio e neppure cenni sul contesto storico. Da esse traiamo solo la misera conclusione che era un furfante, attivo tra Sherwood e Barnsdale. E sappiamo anche della notevole fortuna incontrata tra il XII ed il XIV secolo dalla saga che lo riguarda: molti briganti si facevano chiamare “Robin Hood”.

Il brigantaggio fu una conseguenza delle tasse esorbitanti che Giovanni senzaterra impose ai suoi sudditi, molti dei quali furono ridotti in povertà e costretti per sopravvivere a darsi alla ruberia e al brigantaggio. Inoltre, peggiorando ancora di più la situazione, il sovrano emanò anche l’impopolare “Legge della Foresta” che consentiva solo alla corte reale di accedere alle vaste distese di territori di caccia e di legname da ardere, e le punizioni per chi trasgrediva erano spietate.

Tornando alle incongruenze tra storia e fantasia popolare, anche l’ambientazione della saga non coincide con la realtà. Infatti, con una buona dose di certezza si può sfatare l’idea che l’eroe e la sua banda si nascondessero nella Foresta di Sherwood, in quanto, anche se nel Medioevo l’estensione boschiva era maggiore di quella attuale, di certo non avrebbe consentito a dei ribelli di scampare a eventuali ricerche da parte delle autorità e, cosa ancora più certa, la quercia nota come “Major Oak”, non offriva a Robin Hood e ai suoi seguaci di radunarsi sotto le sue fronde, dal momento che l’albero ha solo otto secoli, per cui, quando il nostro eroe imperversava in quei luoghi, sarebbe stato solo un esile fuscello.

Un altro mistero è legato alla morte di Robin Hood.
La leggenda più popolare afferma che morì presso l’antica canonica di Kirklees, in seguito a un agguato delle autorità, favorito dal tradimento di un membro della banda. Robin moribondo, passò le consegne a Little John e gli chiese di seppellirlo nel luogo in cui si sarebbe conficcata nel terreno l’ultima freccia scoccata dal suo arco.

A 550 metri dalla finestra della sua presunta camera mortuaria c’è in effetti un’antica tomba e sulla lapide c’è inciso che essa si trova nel punto esatto in cui la freccia aveva raggiunto il terreno. Secondo l’iscrizione la data presunta della morte di Robin Hood sarebbe il 21 dicembre 1247. La tomba però è della seconda metà del Settecento ed è solo un cenotafio, cioè non sono stati rinvenuti resti umani ivi sepolti.

Sono stati fatti molti paralleli tra il personaggio leggendario e personaggi realmente esistiti.
Prendendo come riferimento sia l’epoca in cui pare sia vissuto Robin Hood sia le somiglianze con il suo nome, sono stati individuati diversi personaggi: Sir Robert Fitz Ooth, conte di Huntingdon (1160 – 1247); Robert de Kyme (1210 – 1285), condannato come fuorilegge e poi amnistiato); Robert Hood (1290 – 1347); Robert Foliot (1110 – 1165); Robert Hod, grassatore sulla cui testa, nel 1226, c’era una cospicua taglia.

Ci sono anche degli studiosi che affermano che la figura di Robin Hood derivi da miti celtici. Secondo tale interpretazione l’eroe sarebbe ricollegabile a un nume dei boschi, venerato nella festa di Calendimaggio e il cui culto risalirebbe alla Preistoria.
Altri ancora, lo identificano con Robin Goodfellow, una divinità dei boschi, successivamente tradotta in semplice folletto e resa famosa, a distanza di secoli, da William Shakespeare (1564 – 1616) nel “Sogno di una notte di mezza estate”.

In ambito letterario, la prima apparizione di Robin Hood la troviamo nel “Piers Plowman”, un manoscritto di William Langland (1332 – 1386) del 1377.
Nel 1420 circa, invece, compare nella “Scottish Chronicle” di Wynton.
Per avere poi delle versioni stampate delle ballate a lui dedicate dobbiamo attendere il Cinquecento e in esse lo troviamo rappresentato come un mercante o un contadino. Solo più avanti sarà descritto come un nobiluomo: Earl di Huntington, Robert di Loksley o Robert Fitz Ooth.
Anche il suo amore per Lady Marian (o Marion) risale a questo periodo e probabilmente si può collegare al dramma pastorale francese del 1280: “Jeu de Robin et Marion”.

Drammi, canzoni, giochi e a seguire romanzi, musical, film e serie televisive hanno ripreso la storia di Robin Hood che, nonostante le numerose manipolazioni, anche di natura ideologica, ha conservato intatto tutto il suo fascino.

La sera fiesolana di D’Annunzio: perfetta fusione tra uomo e natura

La sera fiesolana di D’Annunzio perfetta fusione tra uomo e natura

Nella poesia “La sera fiesolana” Gabriele d’Annunzio inneggia alla sensualità della natura che si tramuta in donna, mentre il poeta si inebria di suoni e profumi al calare della notte.

“La sera fiesolana” di Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938) fu scritta e pubblicata sulla rivista “Nuova Antologia” nel 1899. Essa apre la raccolta “Alcyone” (1903) ed è ritenuta uno dei vertici della vasta produzione poetica di D’Annunzio.

Questa poesia è incentrata sul rapporto di reciproca e costante fusione tra uomo e natura, tema caro a D’Annunzio che con questa lirica tocca la sua massima espressione artistica e mostra una piena maturità umana e creativa, maturità che ha raggiunto negli anni a cavallo fra i due secoli. In questa fase si allontana dai temi politici e patriottici e si rifugia in una poesia più intima.

La sera fiesolana è composta da tre strofe di quattordici versi di varia lunghezza. Al termine di ogni strofa il poeta ha introdotto una laudazione di tre versi.
Ogni strofa include tre, o due, o quattro endecasillabi iniziali e un quinario finale, che rima con il primo verso successivo. L’ottavo verso, all’inizio della seconda parte della strofa, è sempre endecasillabo.
Il terzetto a fine strofa, concepito in forma di antifona, richiama il “Cantico delle creature di san Francesco” ed è formato da un endecasillabo, dal trisillabo “o Sera” associato a un dodecasillabo, e da un quinario.

Questa poesia dannunziana è un esempio di musicalità che discende da un uso accorto delle rime e delle allitterazioni, ed è esaltata dall’impiego di numerose figure retoriche. Ad esempio: la sinestesia con cui inizia la lirica (“Fresche le mie parole”) che affianca la sensazione uditiva delle parole a quella tattile della freschezza; le similitudini (“come labbra”, “come il fruscio”, ecc.); le metafore (“rosei diti”, “vesti aulenti”, ecc.); l’apostrofe (“O sera“); l’anastrofe (“che fan di santità pallidi i clivi”); il polisindeto (su i gelsi e su gli olmi e su le viti / e su i pini … / e su il grano … / e su ‘l fieno … / e su gli olivi).

Quando compose La sera fiesolana, D’Annunzio viveva insieme alla compagna, Eleonora Duse (1858 – 1924), nella Villa della Capponcina a Settignano, vicino Firenze, dove si era trasferito nel 1898 e dove rimase fino al 1910.

In questo luogo, dove è facile immergersi nella natura e lasciarsi coinvolgere dalle intense sensazioni che essa provoca, il poeta descrive una serata di giugno nella campagna fiesolana, appunto, dopo la pioggia, nel momento in cui si avvicina il crepuscolo.
In questa oasi di pace, i sensi liberi viaggiano fra suoni e profumi, mentre l’oscurità della notte avanza. Udito, tatto e olfatto si acuiscono a mano a mano che la vista si affievolisce a causa del buio e si possono così percepire melodie, odori e tutto quello che in condizioni normali non si potrebbe avvertire.

Le immagini che ci presenta D’Annunzio ne La sera fiesolana sono fortemente evocative, di una bellezza impalpabile. La sensazione generale, leggendo questa poesia, è trovarsi in un sogno dalle sfumature mistiche. Il misticismo è in legato in particolare ai tre versi di laude posti a conclusione di ogni strofa.

Il tratto saliente di questa lirica resta comunque la sensualità, tipica di D’Annunzio che nei versi finge di colloquiare con una donna, la Sera dal “viso di perla”, dalle “vesti aulenti” e dai “grandi umidi occhi” o quando intravede nel profilo delle colline fiorentine, illuminate dalla luna, delle labbra, pronte a pronunciare delle parole, ma che per un misterioso motivo sono impedite a emettere voce.

Ne La sera fiesolana l’uomo e un tutt’uno con la natura; paesaggio e stato d’animo si riflettono l’uno nell’altro, in un crescendo di emozioni e sensazioni, scandite dal fruscio delle foglie, dal sorgere della luna e dall’apparizione delle stelle, e così via.
Attraverso questa commistione, D’Annunzio dà voce al pensiero decadente che secondo il poeta non è altro che quel processo che conduce la natura ad antropomorfizzarsi e l’uomo a naturalizzarsi.

La sera fiesolana di D’Annunzio

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.


Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.


Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!

Ann Radcliffe: la scrittura gotica al femminile

Ann Radcliffe: la scrittura gotica al femminile

Ann Radcliffe con i suoi romanzi ha aperto la strada alla letteratura dell’orrore, è stata un’antesignana del romanzo gotico e ha creato nuovi ruoli per le donne nella letteratura.

Ann Ward, nota come Ann Radcliffe (Holborn, 9 luglio 1764 – Holborn, 7 febbraio 1823), è stata una popolare scrittrice inglese, una vera pioniera della letteratura dell’orrore e soprattutto del romanzo gotico.
Anche quando raggiunse un notevole successo, la Radcliffe continuò a condurre una vita appartata: non frequentava né gli ambienti alla moda né le feste, e per questo, le notizie che la riguardano sono davvero scarse. C’era una tale penuria di fatti anche ai suoi tempi che, nel 1823, quando morì, “The Edinburgh Review” scrisse: “Non appariva mai in pubblico, né si mescolava nella società, ma si teneva defilata, come il soave usignolo che canta le sue note solitarie, celato e non visto”.

Ann Radcliffe nacque a Holborn (Londra); era l’unica figlia del merciaio William Ward e di Ann Oates, appassionata lettrice, iniziò la carriera come scrittrice scrivendo racconti per divertimento.
Nel 1789, pubblicò in forma anonima il romanzo “The Castles of Athlin and Dunbayne” (I castelli di Athlin e Dunbayne). Già in questa prima opera si respira l’atmosfera tipica dei suoi romanzi successivi e compaiono quelle che saranno le sue consuete protagoniste: giovani donne che solitamente vivono le loro tenebrose avventure in castelli lugubri e oscuri.

Le sue opere divennero molto popolari, in particolare tra le giovani lettrici. Tra i suoi romanzi più famosi ricordiamo: “A Sicilian Romance” (Romanzo siciliano, 1790), “The Romance of the Forest” (Il romanzo della foresta, 1791), “The Mysteries of Udolpho” (I misteri di Udolpho, 1794) e “The Italian” (L’Italiano, 1797).

Ann Radcliffe fu considerata l’esponente di maggior spicco del romanzo storico in chiave gotica, grazie al successo riscosso in particolare da “Il romanzo della foresta”.
I suoi libri successivi ottennero risultati entusiastici e diedero il via a un numeroso gruppo di imitatori. Inoltre, alcuni grandi scrittori, come Jane Austen (1775 – 1817), trassero ispirazione dall’atmosfera presente nelle opere della Radcliffe.

Come nelle sue opere, anche la vita della scrittrice inglese si tinse di qualche sfumatura fosca. Pochi anni prima della sua morte, si vociferava soffrisse di depressione e che fosse stata addirittura rinchiusa in un manicomio per infermità mentale.
In realtà erano solo chiacchiere senza fondamento, infatti, il marito e il dottore che la visitò negli ultimi giorni di vita negarono ogni cosa.
Ann Radcliffe morì il 7 febbraio 1823 a causa di problemi respiratori e fu sepolta in una chiesa di Bayswater (Londra).

Il primo romanzo della Radcliffe, “I castelli di Athlin e Dubnayne”, non incontrò molti consensi; fu criticato soprattutto per i suoi anacronismi e per le interpretazioni poco realistiche delle Highlands. Anche il “Romanzo siciliano” pubblicato l’anno successivo non riscosse grandi attenzioni.
Le cose però, presero finalmente una piega diversa nel 1791, quando la scrittrice diede alle stampe il suo terzo lavoro: “Il romanzo della foresta”.
Nella prima edizione la Radcliffe lo pubblicò in forma anonima; nella seconda edizione iniziò ad aggiungere il proprio nome al frontespizio perché i suoi libri iniziarono a incontrare il favore del pubblico.

Nel 1794, andò in stampa il romanzo “I misteri di Udolpho” e la scrittrice inglese iniziò a guadagnare cifre da capogiro. Per farsi un’idea è sufficiente sapere che, all’epoca, l’importo medio guadagnato da un autore per un manoscritto era di 10 sterline. Per questo quarto romanzo della Radcliffe, gli editori, G. G. e J. Robinson, acquistarono il copyright per 500 sterline e fu un successo incredibile.
Nel 1797, per “L’Italiano”, Cadell e Davies pagarono 800 sterline. La Radcliffe era la scrittrice professionista più pagata degli anni 1790.
Questo romanzo fu concepito come risposta a “The Monk” (Il monaco) di Matthew Gregory Lewis (1775 – 1818) perché la Radcliffe non gradiva la direzione in cui si stava indirizzando la letteratura gotica.
L’ultimo romanzo dato alle stampe dall’autrice inglese fu “Gaston de Blondeville”, pubblicato postumo nel 1826.

Nei libri della Radcliffe i personaggi femminili sono alla pari con quelli maschili. Le sue giovani eroine sono in grado di dominare e superare i cattivi e gli eroi maschi tipicamente potenti, dando vita a nuovi ruoli per le donne nella letteratura precedentemente non contemplati.
Inoltre, la scrittrice inglese includeva nelle sue trame avvenimenti soprannaturali che però, alla fine erano “smascherati”, nel senso che la Radcliffe forniva sempre ai lettori una spiegazione razionale e solitamente, lo faceva verso la fine dei suoi romanzi, per accrescere la suspense.

Alcuni critici, dei lettori e persino certi suoi colleghi scrittori non amavano particolarmente il fatto che la Radcliffe disilludesse le loro aspettative. La denuncia più eloquente in questo senso fu quella di Walter Scott (1771-1832) che, nelle sue “Vite dei romanzieri” (1821-1824), scrisse: “Un passo furtivo dietro l’arazzo può, senza dubbio, in alcune situazioni, e quando i nervi sono sintonizzati su un certo tono, avere una non piccola influenza sull’immaginazione; ma se l’ascoltatore cosciente scopre che si tratta solo del rumore prodotto dal gatto, la solennità del sentimento è svanita, e il visionario è subito arrabbiato con il suo senso di essere stato ingannato e con la sua ragione per aver acconsentito all’inganno”.

Per quanto riguarda i paesaggi e le ambientazioni, la Radcliffe usava la narrazione a cornice, personificando la natura e spesso descriveva luoghi che non aveva mai visitato.
Si lasciò anche indubbiamente influenzare da diversi pittori, come: Claude Lorrain (1600 – 1682), Nicolas Poussin (1594 – 1665) e Salvator Rosa (1615 – 1673), per dare corpo agli elaborati paesaggi che facevano da sfondo alle sue storie.
In particolare, l’influenza di Lorrain emerge nelle descrizioni pittoresche e romantiche, ad esempio nel primo volume di “I misteri di Udolpho”; l’influenza di Rosa, invece, si fa sentire nei paesaggi oscuri e negli elementi del gotico.

La Radcliffe ebbe una notevole influenza su altri autori: ispirò la narrativa gotica ma anche molte parodie.
Nel Settecento, subirono il suo influsso scrittori come Matthew Lewis (1775-1818) e il Marchese de Sade (1740-1814), che lodarono il suo lavoro ma produssero narrativa più intensamente violenta.
È nota anche per aver generato numerosi imitatori minori, della “Radcliffe School”, come Harriet Lee (1757 – 1851) e Catherine Cuthbertson (1775 ca. – 1842).

All’inizio dell’Ottocento, anche Edgar Allan Poe (1809-1849) e Sir Walter Scott, che inframezzava il suo lavoro con poesie similmente alla Radcliffe, trassero ispirazione dai romanzi della scrittrice inglese.
Successivamente, Charlotte (1816 – 1855) ed Emily Brontë (1818 – 1848) continuarono la tradizione gotica della Radcliffe con i loro romanzi “Jane Eyre”, “Villette” e “Wuthering Heights” (Cime tempestose).

L’ammirazione per la Radcliffe è rinvenibile anche in famosi autori francesi, come Honoré de Balzac (1799-1850), Victor Hugo (1802-1885), Alexandre Dumas (1802-1870) e Charles Baudelaire (1821-1867).
Il romanzo soprannaturale di Honoré de Balzac “L’Héritière de Birague” (1822) segue la tradizione dello stile di Radcliffe e ne fa la parodia.

Spostandoci dalla Francia, scopriamo che anche lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821 – 1881) rimase profondamente colpito dalla Radcliffe, tanto che, in “Winter Notes on Summer Impressions” (Note invernali su impressioni estive, 1863) scrisse: “Passavo le lunghe ore invernali prima di andare a letto ascoltando (perché non sapevo ancora leggere), a bocca aperta per l’estasi e il terrore, mentre i miei genitori mi leggevano ad alta voce dai romanzi di Ann Radcliffe“.
Inoltre, vari studiosi hanno notato elementi di letteratura gotica fare capolino nei romanzi di Dostoevskij, e alcuni hanno cercato di mostrare l’influenza diretta del lavoro dell’autrice inglese sullo scrittore russo.

Se avete ancora dubbi riguardo alle capacità della Radcliffe, potete affidarvi al parere di un’autorità (Jane Austen) che nel suo romanzo “Northanger Abbey” (L’abbazia di Northanger) scrisse: “Ho letto tutte le opere della signora Radcliffe, e la maggior parte di esse con grande piacere. I Misteri di Udolpho, una volta iniziato, non riuscivo più a posarlo; ricordo di averlo finito in due giorni, con i capelli ritti in testa per tutto il tempo“.

Opera al nero #5. Turandot: la principessa sanguinaria di Puccini

Opera al nero 5. Turandot la principessa sanguinaria di Puccini

La Turandot di Puccini entra nella schiera delle opere al nero, grazie alla crudeltà della protagonista e alla scia di sangue che si lascia alle spalle.

Il soggetto dell’opera di Giacomo Puccini (Lucca, 22 dicembre 1858 – Bruxelles, 29 novembre 1924) ha origini difficili da individuare sia cronologicamente sia geograficamente.
Si è potuti risalire a una Turandot (pers. Tūrāndokht “fanciulla del Tūrān”), eroina di una novella iraniana che, almeno inizialmente, è anonima e compare nel poema “Heft Peiker” di Niẓāmī (sec. 13°).

Successivamente, la prima menzione della principessa sanguinaria nella letteratura europea è contenuta nella raccolta di materia narrativa orientale “Les Mille et un jours” (I mille e un giorno, 1710-12) di François Pétis de la Croix (1653-1713; orientalista francese), dove la storia è menzionata come di origine cinese, mentre studi filologici ci indirizzano verso una possibile origine turca.

Più avanti ancora, il soggetto fu divulgato in Italia attraverso la celebre fiaba teatrale, “Turandot”, (1762) di Carlo Gozzi (1720 – 1806; drammaturgo e scrittore italiano), verseggiata poi da Schiller (1802) e più volte musicata: Carl Maria von Weber (1786 – 1826; compositore, direttore d’orchestra e pianista tedesco) compose delle musiche di scena su questo tema nel 1809; Ferruccio Busoni (1866 – 1924; compositore e pianista italiano, considerato uno tra i più grande geni pianistici italiani) scrisse una suite orchestrale op. 41 (eseguita per la prima volta nel 1906 e poi trasformata in opera lirica, rappresentata nel 1917).

Il libretto della Turandot di Puccini, fra tutte le varie fonti si ispira, liberamente, alla traduzione di Andrea Maffei (1798 – 1885; poeta, librettista e traduttore italiano) dell’adattamento tedesco di Friedrich Schiller (1759 – 1805; poeta, filosofo, drammaturgo, medico e storico tedesco) del lavoro di Gozzi.

L’idea di scrivere un’opera sulla fiaba di Turandot venne a Puccini, dopo un incontro a Milano, nel marzo 1920, con i librettisti Giuseppe Adami (1878 – 1946; drammaturgo, librettista, giornalista, scrittore, biografo e critico musicale) e Renato Simoni (1875 – 1952; critico teatrale, giornalista, commediografo, poeta, librettista, regista e sceneggiatore).
In estate, quello stesso anno, Puccini che era a Bagni di Lucca ascoltò un carillon con temi musicali provenienti dalla Cina e alcuni di questi temi si trovano nella partitura, ad esempio, la canzone popolare “Mo Li Hua”.

La trama della Turandot e semplice da riassumere. In tutte le elaborazioni della sua storia, la crudele principessa propone degli enigmi ai suoi pretendenti e manda a morte quelli che non sanno scioglierli. Solo un pretendente, il principe Khalaf, sarà in grado di risolvere i quesiti e alla fine, otterrà l’amore di Turandot.

L’opera di Puccini è articolata in tre atti e cinque quadri. Il compositore la lasciò incompiuta e fu completata più avanti da Franco Alfano (1875 – 1954).

La prima rappresentazione della Turandot di Puccini, ebbe luogo alla Scala di Milano, il 25 aprile 1926, nell’ambito della stagione lirica del teatro.
Gli interpreti di quella serata furono: Rosa Raisa, Francesco Dominici, Miguel Fleta, Maria Zamboni, Giacomo Rimini, Giuseppe Nessi e Aristide Baracchi. A dirigere l’opera c’era Arturo Toscanini (1867 – 1957) che bloccò la rappresentazione a metà del terzo atto, alla morte di Liù, due battute dopo il verso “Dormi, oblia, Liù, poesia!”, in pratica dopo l’ultima pagina completata da Puccini.
Le sere successive la Turandot fu messa in scena con il finale rivisto di Alfano e diretta da Ettore Panizza (1875 – 1967).

L’incompletezza di Turandot ha fatto discutere gli studiosi. Il problema fondamentale di questo dramma che Puccini tentò inutilmente di risolvere era la mutazione della principessa che da algida e sanguinaria si trasforma in una donna innamorata.
Oltretutto, Puccini riteneva già la scena della morte di Liù un finale soddisfacente, poiché la considerava perfettamente in grado di suggerire al pubblico il resto della storia, appunto, il cambio di carattere di Turandot, dopo il sacrificio d’amore della sua ancella. Quindi, secondo questo punto di vista, l’opera di Puccini si può ritenere narrativamente completa anche se bruscamente interrotta.

In copertina: particolare della locandina di Turandot del 1926

“Roman-feuilleton”: beniamino dei lettori del XIX secolo

Roman-feuilleton beniamino dei lettori del XIX secolo

Il romanzo d’appendice è un genere di romanzo che iniziò a circolare diffusamente a partire dai primi decenni del XIX secolo e che ebbe un grande successo.

Conosciuto anche con il termine francese: “feuilleton”, il romanzo detto d’appendice, comparve sulla stampa popolare in Francia e in Inghilterra ed era pubblicato su quotidiani o riviste, a episodi di poche pagine, solitamente nell’edizione domenicale.

Si tratta di una categoria di romanzo che si definisce per la sua forma e non per il suo contenuto. Infatti, i romanzi d’appendice spaziano tra argomenti molto diversi: dall’amore all’avventura, dal mistero all’erotismo.

Questo genere di letture era chiaramente indirizzato a un pubblico di massa e lo scopo di chi le pubblicava era quello di vendere più copie e per più settimane del giornale dove tali storie apparivano. Questo lato dichiaratamente commerciale di tale letteratura, spinse i detrattori del genere a ritenere questi romanzi un sottogenere, piuttosto che un genere letterario a sé stante.

Il termine feuilleton era un diminutivo di “feuillet” (foglio, pagina di un libro) e in Francia designava la parte bassa della pagina di un giornale, definita anche “rez-de-chaussée” (piè di pagina).
Il primo feuilleton fu di natura “drammatica”, cioè una cronaca del teatro, inaugurato da Julien Louis Geoffroy (Rennes 17 agosto 1743 – Parigi 27 febbraio 1814; giornalista e critico teatrale e letterario francese) nel primo decennio del XIX secolo. I primi autori (feuilletonistes) che si occuparono di queste note a piè di pagina furono: Dussault e Feletz (“Journal des débats”), Michaud e Châteaubriand (“Mercure de France”) e, sotto pseudonimo, lo stesso Primo Console (“Moniteur universel”).

Tra il 1836 e il 1840-41 si ebbe un notevole sviluppo dei “feuilletons-nouvelles”, prima di arrivare al “feuilleton-roman”, che è il risultato di un costante allungamento delle opere pubblicate e della loro suddivisione in un numero sempre maggiore di episodi.

Questa modalità di pubblicazione piacque al pubblico e ciò si notò in particolare a partire dal 1841-42 con “Les Mystères de Paris”, primo vero trionfo del genere feuilleton.
In questa prima fase, la scrittura di romanzi non ha ancora subìto l’influsso di questa particolare modalità di pubblicazione, che era ancora una semplice presentazione dell’opera al pubblico a puntate, prima dell’uscita in volume. Ma già si stava avviando verso una radicale trasformazione che farà del romanzo d’appendice una vera e propria tecnica letteraria: la democratizzazione della stampa.

Per l’affermarsi del genere fu necessaria una contemporanea evoluzione nel campo della stampa.
All’epoca i giornali avevano un costo di produzione piuttosto alto e una tiratura bassa, fu così che Émile de Girardin (pseudonimo di Émile Delamothe, Parigi, 22 giugno 1802 – Parigi, 27 aprile 1881; giornalista, editore, commediografo e uomo politico francese) decise di mettere in commercio un quotidiano meno costoso che fosse alla portata di un maggior numero di persone.

Affinché il tutto funzionasse e i giornali potessero reggersi a costi inferiori, era necessario attirare nuovi inserzionisti, considerato che il canone di abbonamento era al momento appena sufficiente a coprire i costi di produzione.
Si doveva quindi rinfoltire il pubblico di lettori fedeli e per ottenere ciò era necessario pubblicare romanzi completi”. È ciò che Alfred François Nettement (Parigi, 21 agosto 1805 – Parigi, 14 novembre 1869; scrittore francese) chiamò: “la nascita della stampa a 40 franchi”, inseparabile dalla storia del feuilleton-roman come genere letterario.

Il 1° luglio 1836, Émile de Girardin e Armand Dutacq (Rugles, 19 giugno 1810 – Parigi, 11 luglio 1856; proprietario ed editore di giornali francese) pubblicarono “Le Siècle” e “La Presse”.
Ne “La Presse”, Girardin pubblicò romanzi a puntate di vari autori famosi, tra i quali: “La comtesse de Salisbury” (dal 15 luglio all’11 settembre 1836) di Alexandre Dumas padre (Villers-Cotterêts, 24 luglio 1802 – Neuville-lès-Dieppe, 5 dicembre 1870) e “La signorina Cormon” (La Vieille fille, dal 23 ottobre al 30 novembre 1836) di Honoré de Balzac.
Successivamente, nel “Journal des débats” pubblicò le “Mémoires du diable” (da settembre a dicembre 1837) di Frédéric Soulié (Foix, 23 dicembre 1800 – Bièvres, 23 settembre 1847).

La novità di tali pubblicazioni, dal punto di vista letterario, è che la pubblicazione “in forma seriale” precede la stesura delle opere dei feuilletonistes. Non si trattava di suddividere nel miglior modo possibile romanzi scritti in precedenza, bensì di scrivere romanzi di cui era già prevista la pubblicazione a puntate.

A questo punto si può parlare di “romanzo d’appendice” come di un genere a sé stante. Gli editori ritenevano queste pubblicazioni delle efficaci operazioni pubblicitarie e ingaggiavano team di autori per scrivere romanzi che rispondessero ai gusti del pubblico. Alcuni di questi team hanno anche lavorato insieme, scrivendo romanzi a più mani.

Dedicare lo spazio che gli altri giornali riservavano alla critica letteraria a racconti inediti a puntate fu un cambiamento di grande successo per i giornali: ci fu un aumento esponenziale dei lettori e anche di abbonati.

La definizione “romanzo d’appendice” deriva dal fatto che queste storie a puntate erano pubblicate in ultima o penultima pagina, in appendice, appunto. Solo successivamente, le storie erano stampate sotto forma di libro. Una delle più importanti case editrici del settore fu la fiorentina Salani che si adeguò rapidamente all’evolversi del mercato editoriale iniziato verso la metà dell’Ottocento, proprio in concomitanza con la rivoluzione industriale, in Inghilterra e in Francia.

Al genere feuilleton appartengono delle vere pietre miliari della letteratura, come: “I miserabili” di Victor Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885); “I misteri di Parigi” di Eugène Sue (Parigi, 26 gennaio 1804 – Annecy, 3 agosto 1857); “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas padre.

Le storie di questo tipo funzionavano un po’ come il detto sulle ciliegie: una tira l’altra. Ad esempio, Ponson du Terrail, ispirato dal romanzo di Sue, pubblicò la prima opera del ciclo dei “Drames de Paris”, “L’Héritage mystérieux”, sul giornale La Patrie nel 1857 e diede vita a un singolare eroe, Rocambole che ottenne un tale successo da ispirare a sua volta l’aggettivo “rocambolesco”, tuttora impiegato per descrivere eventi o avventure incredibili.

Aggiungo in calce una segnalazione del Sig. Vittorio Sarti che, molto gentilmente, mi ha fatto notare una clamorosa mancanza nel mio testo. Riporto in modo integrale le sue parole.
Ancora una volta si ignora Emilio Salgàri, il nostro maggiore scrittore di avventure che come tale prese abbrivio su quotidiani di fine 800.
– “La favorita del Mahdi” 124 puntate su “La Nuova Arena” di Verona da 31 marzo al 7 agosto 1884
– “I misteri della Jungla Nera” su “Il Telefono” di Livorno, con il titolo “Gli strangolatori del Gange” dal 10 gennaio al 15 aprile del 1887. Ripubblicato su “La Provincia” di Vicenza, con il titolo “L’amore di un selvaggio” in 191 puntate dal 21 agosto del 1893 al 13 novembre 1894.
– Le Tigri di Mompracem” su “La Nuova Arena” di Verona con il titolo “La Tigre della Malesia” in 150 puntate dal 16 ottobre 1883 al 13 marzo 1884. Ripubblicato su “Il Telefono” di Livorno nel 1886 dal 21/3 al 31/8, sempre a puntate con lo stesso titolo. In seguito 1890/1891 su “La Gazzetta” di Treviso” (Cfr. “Nuova Bibliografia Salgariana” Pignatone, Torino 1994)
“.

Arsenio Lupin: il popolare ladro trasformista dalle buone maniere

Arsenio Lupin il popolare ladro trasformista dalle buone maniere

Arsenio Lupin è un altro singolare eroe uscito dalle pagine della letteratura. Tra giallo e avventura, Leblanc, il suo autore, ci racconta le gesta di un ladro gentiluomo che commette furti con raffinatezza ed eleganza.

Arsenio Lupin (Arsène Lupin), personaggio immaginario, scaturito dalla fantasia di Maurice Marie Émile Leblanc (Rouen, 11 dicembre 1864 – Perpignano, 6 novembre 1941; scrittore francese), fa parte della schiera dei criminali che godono del favore del pubblico.
Vero artista del furto e ladro gentiluomo possiede uno straordinario talento per i travestimenti che gli consentono di camuffarsi e assumere molteplici identità, per commettere i suoi crimini, ma anche per venire a capo di enigmi criminali.

Lupin è uno sportivo, nonché un combattente esperto. Abile e astuto è anche dotato di una natura infantile, affascinante e a volte beffarda. È avvolto da un alone di mistero e possiede un carattere tormentato, tutte caratteristiche che hanno contribuito a renderlo molto popolare.

Nelle pagine di Leblanc emergono con chiarezza anche altre caratteristiche del personaggio, come le sue idee politiche che coincidono con quelle del suo autore e mutano con il passare degli anni: simpatie anarchiche nei primi romanzi e deciso patriottismo durante la Grande Guerra.

Arsenio Lupin appare per la prima volta nel racconto “L’Arrestation d’Arsène Lupin”, pubblicato nel luglio 1905 nella rivista “Je sais tout”. Maurice Leblanc incluse questo racconto nella raccolta “Arsène Lupin, ladro gentiluomo”, che fu pubblicata lo stesso anno.

Il notevole successo riscosso dal personaggio presso i lettori garantì un lavoro continuativo al suo autore dalla prima uscita nel 1905 sino al 1941, anno in cui Leblanc morì.
Le avventure dell’affascinante ladro sono racchiuse in ben diciotto romanzi, trentanove racconti e cinque opere teatrali.
La crescente notorietà di Lupin anche all’estero vide le sue avventure finire, in America, sul grande schermo; in Giappone, sulle strisce di famosi manga.

La popolarità raggiunta dal raffinato ladro francese ha visto persino nascere un neologismo a lui dedicato: “lupinologia”, termine che designa lo studio delle avventure di Lupin da parte degli ammiratori dei romanzi di Maurice Leblanc, sull’esempio della “holmesologia”, termine che in questo caso fa riferimento all’altrettanto famoso personaggio uscito dalla penna dello scrittore e drammaturgo scozzese Arthur Conan Doyle (Edimburgo, 22 maggio 1859 – Crowborough, 7 luglio 1930).

Gran parte delle storie che compongono il ciclo di “Lupin” costituiscono un insieme coerente, dove emergono date ed eventi relativi alla vita del protagonista, che consentono di tracciare dei riferimenti con altre storie, ma nelle opere di Leblanc esistono contraddizioni che portano a concludere che anche le cronologie più complete si discostano su vari punti, perciò non è possibile fissare una cronologia rigorosa e definitiva.

Se la cronologia è incerta, abbiamo almeno delle indicazioni sulla genealogia di Arsenio Lupin. Il suo primo antenato noto è il suo bisnonno: un generale dell’Impero, che prese parte alla battaglia di Montmirail (11 febbraio 1814), dove le armate di Napoleone I vinsero contro le truppe russe del generale Osten-Sacken e i prussiani del generale Johann Yorck.

Arsenio Lupin nacque nel 1874, probabilmente nel Pays de Caux (regione naturale della Normandia appartenente al bacino parigino; è un altopiano delimitato a sud dalla Senna, a ovest e a nord dalle falesie della Côte d’Albâtre e a est dalle alture che dominano le valli dei fiumi Varenne e Austreberthe. Il suo territorio occupa l’intera parte occidentale del dipartimento Seine-Maritime), da Henriette d’Andrésy e Théophraste Lupin.
Il matrimonio tra i due non fu ben accolto dalla famiglia aristocratica di lei, perché Théophraste era un uomo comune, privo di un patrimonio, che di professione faceva l’insegnante di ginnastica, scherma e pugilato.

A causa delle sue particolari origini, Arsenio Lupin visse sempre in una sorta di curiosa ambivalenza: uomo del popolo, per parte di padre; aristocratico per lato materno. Tale ambivalenza è un leitmotiv di tutte le sue avventure.

L’idillio fra Henriette e Théophraste comunque non durò a lungo: la donna ripudiò il marito, appena scoprì che era un truffatore. L’uomo sarà poi imprigionato negli Stati Uniti, dove sembra sia anche deceduto.

Nel 1880, Arsenio vive con sua madre a Parigi. La donna, rifiutata dai genitori, indignati per il suo matrimonio, fu accolta in casa di un lontano cugino, il duca di Dreux-Soubise, come serva di sua moglie.
All’età di soli sei anni, Lupin commette proprio in questa casa il suo primo furto: sottrae la preziosa collana della regina di Dreux-Soubise. A essere sospettata del furto è però sua madre, per questo entrambi saranno cacciati di casa e costretti a rifugiarsi in Normandia; sei anni dopo, Henriette morirà, lasciando suo figlio orfano a soli 12 anni.

Per André-François Ruaud (1963; scrittore, saggista, antologista ed editore francese), Théophraste, il padre di Arsenio non è morto, vive ancora in Francia e controlla suo figlio. Sarebbe lui la mente del furto della collana della regina, e successivamente, sarà lui a consentire al figlio di studiare.

In effetti, Arsenio studierà parecchio. La sua preparazione copre vari rami dello scibile: studi classici, poi medicina e legge, e infine, una formazione alle Beaux-Arts. Fu anche attore e insegnante di lotta giapponese; si interessò alla prestidigitazione e per sei mesi lavorò anche con un illusionista.

Attività furfantesca e relazioni amorose si intrecciano nel suo percorso esistenziale, mentre, con il passare degli anni, la sua fama di abile scassinatore lo farà conoscere al grande pubblico che segue le sue imprese sui giornali.
Nel corso delle sue avventure, assistiamo anche a una graduale trasformazione: Lupin lascia la professione di ladro e scassinatore per dedicarsi a quella di investigatore, pur commettendo qualche furto di passaggio.

Smesso del tutto di pensare ai furti, Lupin finirà per imborghesirsi: si ritirerà in campagna con sua moglie, a coltivare tranquillamente i suoi fiori e a godersi la sua ricchezza.
Tornerà sul campo solo per fermare le azioni di un usurpatore che firma i suoi crimini con il suo nome e poi, per aiutare giovani in difficoltà.

Lupin vive le sue mirabolanti avventure in generale in Francia, durante la Belle Époque e i ruggenti anni Venti. Il mondo in cui si muove è quello della borghesia dell’inizio del Novecento, in una fase in cui è di norma, per chi può permetterselo, la seconda casa, i viaggi in automobile e la società è sempre più orientata a ciò che pubblicizzano i media e avviata al consumismo.

Lupin ha una doppia vita: mondana e rispettabile di giorno, fatta di attività illecite di notte.
Tendenzialmente, lo si può descrivere come un ladro dalle buone maniere, galante e rispettoso delle donne; un non violento che ripudia l’omicidio. Si può dire che i suoi crimini rispecchiano la sua posizione sociale, sono cioè attuati con eleganza e raffinatezza.

Il personaggio di Leblanc si contraddistingue per una profonda moralità. Infatti, i suoi furti spesso colpiscono individui che si sono arricchiti in modo illegale o immorale. Ama compiere furti dalla spiccata teatralità, con il desiderio narcisista di “impressionare la galleria” e sfida apertamente polizia e investigatori. Gli unici avversari che riescono a tenergli testa sono curiosamente sempre donne.

La fama di Lupin è concentrata in particolare sulla sua abilità nel travestirsi e sulla sua capacità di rubare le identità. È presentato come “l’uomo dai mille travestimenti” e per una buona ragione: è in grado di usare tutti i criteri fisici e sociali per trasformarsi, come età, classe sociale, professione, nazionalità.
Prestidigitazione e illusionismo sono arti che conosce bene, cui ha associato lo studio della dermatologia all’ospedale Saint-Louis, che gli è risultato utile per modificare l’aspetto del suo viso, anche se, essendo stato anche uomo di teatro, preferisce di gran lunga impiegare accurati make-up.

In ogni caso, lo scopo di Lupin è essere irriconoscibile in ogni circostanza.
Lo stesso Leblanc ammette la sua difficoltà ad attribuirgli un volto preciso: “Venti volte ho visto Arsène Lupin, e venti volte mi è apparso un essere diverso… o meglio, lo stesso essere di cui venti specchi mi avrebbero restituito altrettante immagini distorte, ognuna con i suoi occhi particolari, la sua forma particolare di figura, il suo gesto, la sua silhouette e il suo carattere“.

Va anche ricordato che, il nome di Lupin è legato in particolare alla cittadina francese di Étretat, in Normandia, al centro di diverse sue avventure, tra cui “L’ago cavo” che ha contribuito al mito che circonda il luogo.

Gerrit Dou: un approccio realistico alla lettura

Gerrit Dou Donna anziana che legge approccio realistico alla lettura

Gerrit Dou ritrae in modo eccezionalmente realistico la figura di una donna anziana che sta leggendo e in tale ritratto mostra tutto il suo talento e la sua straordinaria capacità tecnica.

“Donna anziana che legge” o “Donna anziana che legge la Bibbia” è un dipinto a olio del pittore olandese Gerrit Dou o Gerard Dou (Leida, 7 aprile 1613 – Leida, 9 febbraio 1675). Eseguito dall’artista nel 1631-1632 circa, dal novembre 1912, è entrato nella collezione del Rijksmuseum di Amsterdam.
In passato fu ritenuta un’opera di Rembrandt; niente di strano, dato che nel 1628, il quattordicenne Dou fu il primo allievo di Rembrandt (Leida, 15 luglio 1606 – Amsterdam, 4 ottobre 1669) che era più grande di lui di soli sette anni.

Nel 1626, Rembrandt condivideva la sua bottega a Leida con un altro artista Jan Lievens (Leida, 24 ottobre 1607 – Amsterdam, 8 giugno 1674) e in quel periodo dipingeva con uno stile raffinato, impiegando forti contrasti tra luce e ombra. Questa tecnica, chiaramente espressa in “Donna anziana che legge”, fu successivamente abbandonata da Rembrandt che respinse tale raffinatezza, mentre il suo allievo si concentrò sul suo perfezionamento.

Quando nel 1632, il suo maestro si trasferì ad Amsterdam, Dou divenne il fondatore dei Fijnschilder (termine utilizzato per quei pittori olandesi che, in particolare tra il 1630 e il 1710, si adoperarono per una rappresentazione della realtà il più fedele possibile. Questo tipo di tecnica è stata portata a grandi altezze a Leida, specialmente da Gerrit Dou; si tratta di una tecnica estremamente raffinata e meticolosa, applicata principalmente nei cosiddetti dipinti di genere che ritraevano scene di attività quotidiane di piccolo formato) di Leida.

In “Donna anziana che legge”, Dou mostra tutto il suo talento e un grande abilità tecnica, nonostante la sua giovane età. La donna e i suoi abiti sono dipinti con estrema precisione, ma anche il testo biblico del lezionario e la stampa che lo accompagna sono altrettanto dettagliati e ben visibili.

Chi osserva il quadro vede chiaramente ciò che la donna sta leggendo: l’inizio del diciannovesimo capitolo del “Vangelo di Luca”, dove si afferma che chi desidera fare del bene dovrebbe dare il massimo dei suoi beni terreni ai poveri. Il messaggio stride con gli abiti costosi della donna anziana, che all’apparenza è ancora aggrappata ai suoi beni.

Dou raffigura l’anziana con un approccio eccezionalmente realistico per l’epoca e rispetto agli standard pittorici del Nord Europa.
L’artista dà allo spettatore la sensazione di trovarsi vicino al soggetto, mentre la donna ritratta sembra ignara di essere osservata, raffigurata di profilo è chiaramente e totalmente presa dalla lettura.

L’impiego del chiaroscuro, che Dou aveva imparato da Rembrandt, è tipico ed evidenzia i dettagli più importanti del dipinto. Lo sfondo è liscio, sobrio e non è fonte di distrazione.
A livello compositivo, l’artista crea una sorta di contrasto diagonale rilassante tra la parte superiore sinistra e quella inferiore destra.

Per lungo tempo, in pratica fino al 1900, quest’opera di Dou fu considerata il ritratto che Rembrandt fece di sua madre, Neeltgen Willemsdr van Zuijdtbroeck, da cui il titolo di “Madre di Rembrandt”. Questo fatto oltretutto si accordava con l’antica idea che Rembrandt avesse raffigurato molti dei suoi parenti nei suoi dipinti, per cui la sua paternità sembrava scontata.

Solo nel 1901, lo storico dell’arte Wilhelm Martin suggerì in un libro dedicato a Gerrit Dou che probabilmente “La donna anziana che legge” fosse di sua mano e non di quella del suo maestro.
A rinforzo di tale tesi, citava le caratteristiche stilistiche, evidenziando l’utilizzo del chiaroscuro e la struttura superficiale liscia tipica di Dou e il fatto che Dou e Rembrandt, così come Lievens, usassero spesso gli stessi modelli. In effetti, la stessa anziana signora compare nei dipinti di tutti e tre gli artisti e lo stesso Dou la dipinse più volte.

Dopo il 1900, fu anche chiaro che la designazione di alcuni modelli di Rembrandt come suoi parenti era del tutto infondata.
Quando nel novembre 1912, il dipinto fu offerto al Rijksmuseum dal lascito di A. H. Hoekwater, fu finalmente esposta come opera di Dou e con il suo attuale titolo.

In copertina: Gerrit Dou, “Lezende oude vrouw” (Donna anziana che legge) olio su tavola, 71,2 cm × 55,2 cm (1631-1632 ca.), conservato al Rijksmuseum, Amsterdam

“Primavera” di Monet: la lettura vista da un impressionista

Gli Impressionisti danno vita a un modo assolutamente innovativo di leggere e rappresentare il mondo. In un quadro di Monet, “Primavera”, troviamo già contenuti i tratti caratteristici di questo singolare movimento pittorico.

Claude-Oscar Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 5 dicembre 1926), pittore francese, è ritenuto uno dei fondatori dell’Impressionismo, nonché uno dei suoi più prolifici esponenti.
Artisticamente, Monet fu un rivoluzionario. Ai suoi tempi, la Francia era una nazione viva e moderna, nel pieno dello sviluppo economico e sociale.

Nelle arti figurative evoluzione e innovazione non erano ancora arrivate: gli artisti continuavano a seguire le regole tradizionali dell’arte accademica, chiamata, con intenti derisori, “art pompier”, con tale definizione si includeva tutta la pittura prodotta in Francia nella seconda metà dell’Ottocento che era sotto l’influsso delle Accademie di Belle Arti e mirava a un classicismo esasperato.
Questo tipo di arte era gradita al potere ed era eseguita con tecnica magistrale, ma da alcuni era considerata spesso falsa e vuota, fino al cattivo gusto.

Monet era lontano dall’interpretazione accademica dell’arte. Secondo lui la prassi consolidata costringeva a rappresentare la realtà in modo arido e antiquato, mentre lui voleva ritrarre il mondo in modo più vitale e vero. Partendo da questa semplice premessa, il pittore francese divenne l’artefice di un’innovazione in campo tecnico e tematico.

La poetica dell’Impressionismo si avvalse in particolare delle scoperte scientifiche che all’epoca rivelarono il modo cui percepiamo ciò che ci circonda. Emerse che luce e colori, opportunamente elaborati dal nostro cervello, ci consentono di intuire la forma degli oggetti e le loro coordinate spaziali.

Forte di tale rivelazione, Monet eliminò definitivamente la prospettiva geometrica dai suoi quadri e si basò unicamente sulla visione diretta delle cose. Egli riproduceva oggetti e paesaggi seguendo solo l’istinto della visione e ignorando rilievo e chiaroscuro. Con tale metodo pittorico, i suoi dipinti acquistarono in spontaneità e freschezza. Inoltre, la sua pittura, abbandonata l’ossessione per i dettagli tipica dello stile accademico, divenne vibrante, indefinita e tesa ad afferrare l’impressione pura.

Monet trasse conclusioni stilistiche anche dagli studi sulla cromatica che lo spinsero, ad esempio, a teorizzare l’esistenza delle “ombre colorate”, in quanto le tinte di un dipinto subiscono l’influsso di quelle vicine. Inoltre, l’artista fece sempre maggior uso dei colori puri, affinché il dipinto riflettesse meglio la luce.
E in effetti, nelle sue tele i colori sono dissolti in una luce molto intensa, quasi abbagliante.
Monet dipingeva sempre alla luce naturale, all’aperto, en plein air, appunto, immergendosi nell’ambiente che aveva deciso di ritrarre, invece di restare nel chiuso dei tradizionali atelier.

Questa pittura all’aria aperta obbligava ad essere rapidi nell’esecuzione, cose che rientrava perfettamente nelle convinzioni pittoriche degli impressionisti, pronti a cogliere in ogni situazione le impressioni fuggevoli e irripetibili.
Il modo di dipingere di Monet lo ispirò anche nella scelta dei soggetti, in particolare, amava gli specchi d’acqua che variavano notevolmente in base alle condizioni di luce e colore. In linea con tutte queste considerazioni, le sue pennellate erano rapide e sintetiche.

Nel dipinto “Primavera” o “La lettrice”, realizzato da Monet nel 1872, troviamo messe in pratica le scelte stilistiche dettate dalla nuova poetica impressionista.
Nel quadro è ritratta la sua prima moglie, Camille Doncieux, mentre è intenta a leggere sotto un baldacchino di lillà.
Attualmente, l’opera è custodita al Walters Art Museum (già Walters Art Gallery, principale museo di arti visive di Baltimora, Stati Uniti).

Claude e Camille si sposarono nel 1870, in precedenza erano stati amanti e lei era stata la sua modella per i dipinti figurativi che il pittore francese realizzò tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento.
Pare che Camille fosse davvero eccezionale come modella, tanto da essere utilizzata anche da altri pittori come, Auguste Renoir (1841 – 1919) ed Édouard Manet (1832 – 1883).

In una mostra, presso la galleria parigina di Durand Ruel, organizzata dagli Impressionisti dal 30 marzo al 30 aprile 1876, fu esposta anche la Primavera di Monet. L’artista aveva presentato diciotto opere e in sei di esse era ritratta Camille. In occasione di questa esposizione, al dipinto fu dato il titolo più generico di “Donna che legge”.

I quadri di Monet che raffigurano Camille sono le uniche immagini che ci restano di lei: Alice Hoschedé, la seconda moglie del pittore fece distruggere tutti i ricordi e le immagini della vita di Camille con l’artista.

In Primavera ci troviamo di fronte a un’incantevole scena di vita domestica.
Questo dipinto, come numerosi altri, fu realizzato nel giardino dell’abitazione di Monet ad Argenteuil, un piccolo villaggio a nord-ovest di Parigi, dove l’artista e la sua famiglia andarono a vivere dal 1871.
La scena è tipicamente impressionista e la presenza della donna serve ad arricchire la rappresentazione.

Camille è seduta, il suo ampio vestito rosa si allarga su un bellissimo prato punteggiato di fiori; è concentrata nella lettura e il suo volto e le sue forme sono ben delineati, cosa che non accade nelle raffigurazioni successive, dove la modella è più anziana e meno attraente.
La luce del sole emerge qua e là tra le fronde degli alberi e fa apparire chiazze di luce sul terreno e sul vestito di mussola.

In copertina: “Primavera” o “La lettrice” (1872) di Claude Monet (50 x 65,5 cm), conservato al The Walters Art Museum, Baltimora, Stati Uniti

Opera al nero #4. Rigoletto: tra innovazione e potenza drammatica

Opera al nero 4 Rigoletto tra innovazione e potenza drammatica

Il Rigoletto di Giuseppe Verdi rientra nella schiera delle opere al nero, grazie a diversi crimini perpetrati tra una nota e l’altra. In questo melodramma, in specifico, assistiamo a un rapimento e a un omicidio.

Rigoletto (1851), opera in tre atti di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901), è ricavata dal dramma di Victor Hugo (1802 – 1885) “Le Roi s’amuse” (Il re si diverte); l’autore del libretto è Francesco Maria Piave (1810 – 1876). Quest’opera insieme con “Il trovatore” (1853) e “La traviata” (1853) costituisce la cosiddetta “trilogia popolare” verdiana.

La scelta del testo di Hugo si deve a Verdi.
Il compositore leggeva moltissimo e si teneva informato sulle novità letterarie, sempre alla ricerca dell’intreccio drammaturgico ideale da mettere in musica e che fosse il più possibile vicino alle sue esigenze espressive. Purtroppo in varie occasioni, i testi da cui il musicista era attratto cozzavano contro la ferrea censura dell’epoca. A riprova di ciò, lo stesso Rigoletto fu inizialmente oggetto delle attenzioni della censura austriaca.

Anche il testo originale, quello di Hugo, “Le Roi s’amuse” (1832) fu bloccato dalla censura e solo 50 anni dopo la prima fu possibile riproporlo.
Il dramma dello scrittore francese non fu gradito al pubblico e neppure alla critica, principalmente perché nel testo sono descritte, senza tanti peli sulla lingua, le dissolutezze della corte francese e al centro della storia c’è addirittura il libertinaggio di Francesco I (1494 – 1547), re di Francia.
L’opera di Verdi subì ugualmente l’invadenza della censura. Le prime modifiche necessarie per superare il veto dei censori furono lo spostamento dell’azione dalla Francia alla corte di Mantova e mettere al posto del re un ben più modesto duca.

Il più delle volte, è grazie alla corrispondenza di Verdi con i suoi editori o con i librettisti che cogliamo dal vivo delle sue parole le vicissitudini in cui spesso incorrevano le sue opere.
A proposito di Rigoletto, il musicista scrisse a Piave: “il titolo deve essere necessariamente La maledizione di Vallier, ossia per essere più corto La maledizione. Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande, al sommo grande”.
Alla fine, per il titolo si optò per il nome del protagonista che dall’originale “Triboletto” (Triboulet per Hugo), divenne “Rigoletto” (dal francese “rigoler”, che significa scherzare).

Verdi aveva deciso di musicare il testo di Hugo perché aveva tutti i requisiti che un dramma dovrebbe possedere per essere tradotto in musica, almeno secondo lui: era un intenso dramma di passione, tradimento, amore filiale e vendetta. Questa amalgama di sentimenti ed emozioni era il materiale perfetto da tradurre in ricchezza melodica e potenza drammatica.

La tragica vicenda di Rigoletto si svolge nel XVI secolo a Mantova e dintorni.
Rigoletto, il protagonista della storia è un gobbo, buffone di corte presso il duca di Mantova. A causa delle sue beffe feroci si è guadagnato l’odio dei cortigiani che non aspettano altro che vendicarsi di lui.
Rigoletto ha una figlia, Gilda, la cui esistenza cerca di mantenere segreta. La ragazza si è invaghita di un povero studente che in realtà è il duca di Mantova, uomo superficiale e libertino.
Intanto, i cortigiani del duca scoprono l’esistenza di Gilda; la credono l’amante di Rigoletto e per vendicarsi di lui la rapiscono e la portano a palazzo ducale. Qui, la giovane, sedotta dal duca, si tormenta per la sua sorte, mentre Rigoletto giura di vendicare l’onta subita. Il buffone decide per una soluzione drastica e incarica un sicario, Sparafucile, di uccidere il duca, ma all’ultimo momento, sua figlia, ancora innamorata del suo seduttore, prende il suo posto e muore pugnalata.

L’opera inizia con un preludio cupo e disperato che preannuncia la tragedia che sta per consumarsi. Poi dalle note siamo sbalzati al centro di una festa che si tiene al palazzo ducale di Mantova. Tra lazzi e risate, con note rapide e allegre inizia l’opera vera e propria, e la sensazione è quella di essere stati catapultati dentro un’opera buffa.

Il contrasto tra il preludio e questa scena vivace e scanzonata è decisamente marcato e ha uno scopo preciso: la leggerezza di questo momento prepara gli spettatori “alla semina della tragedia“.
Nelle sale del palazzo ducale cavalieri e dame danzano. Verdi applica in questa scena una soluzione che Mozart aveva già impiegato nel primo atto del suo “Don Giovanni”: mescolare temi e melodie anche dal punto di vista narrativo. Così sentiamo provenire delle sonorità dall’orchestra in buca, cui si uniscono i suoni prodotti da una banda posizionata all’interno e quelli di un gruppo di archi che accompagnano le danze sul palcoscenico.

I balli sfrenati e il variare costante delle melodie delineano il carattere libertino dei personaggi. Il culmine di tale spirito licenzioso è poi manifestato dalla prima aria, cantata dal duca di Mantova, “Questa o quella per me pari sono”: manifesto deliberato della volubilità del personaggio che con questo brano esprime a Borsa la propria indifferenza verso l’identità delle donne che corteggia e seduce.
Nel terzo atto, invece, cantando “La donna è mobile” dichiarerà l’opposto. Per giustificare il suo comportamento, sosterrà che è il genere femminile a essere volubile, probabilmente, perché è incapace di provare sentimenti veri e di conseguenza, è convinto che anche le donne con cui si intrattiene siano come lui: incapaci di amare.

Parole e musica ci presentano il Duca come un seduttore seriale, frivolo e superficiale che pianifica abilmente le proprie conquiste, ma non è un manipolatore e in buona parte dell’opera è ignaro di ciò che accade attorno a lui. Non è il motore degli eventi che accadranno, che invece si sviluppano per mano altrui.

Ad esempio, il Duca è all’oscuro del rapimento della figlia di Rigoletto, Gilda, da parte dei cortigiani e ignora le oscure macchinazioni ordite contro di lui dal buffone di corte con Sparafucile. Non saprà neppure di essere sfuggito a un attentato alla propria vita.
In effetti, il Duca non è il cattivo della storia. È solo un uomo che soddisfa i suoi istinti senza troppi scrupoli e la musica sostiene questa interpretazione del personaggio: le sue bellissime arie risultano semplicemente delle ballate orecchiabili.

Se il Duca pecca in leggerezza e vacuità, i cortigiani e lo stesso Rigoletto sono crudeli.
Gilda, invece, è un personaggio che matura nel corso dell’opera e se all’inizio è impegnata in melodie dallo stile datato, concepite allo scopo di mostrare la sua ingenuità, successivamente, sarà capace di ben altre linee musicali, sempre più elaborate, a mano a mano che prenderà coscienza delle ingiustizie del mondo.

Se per il Duca Verdi ha utilizzato melodie incantevoli ma disimpegnate, per il vero protagonista dell’opera, Rigoletto, ha intessuto fosche e tragiche sonorità.
A differenza del Duca, il buffone è un personaggio complesso che possiede mille sfaccettature. Nel corso dell’opera, lo vediamo preso dai sensi di colpa e dagli scrupoli; ossessionato, afferrato da un profondo amore paterno, folle nella ricerca di un’atroce vendetta.

Rigoletto è ambivalente: la sua personalità è divisa tra l’acre malignità e il cinismo, che non perde occasione di mostrare alla corte ducale, e l’affetto sincero e delicato che mostra per sua figlia, affetto nel quale si rivela la sua natura di uomo, opposta alla maschera del buffone.

Verdi amava il personaggio di Rigoletto, in un suo scritto dice di lui: “Io trovo […] bellissimo. Rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore”.
Il compositore è anche riuscito a rappresentare la dualità del suo adorato protagonista, mescolando sapientemente lo stile “alto”, tipico della tragedia, con quello “medio” e “basso”.

Rigoletto è ritenuto “una delle figure più tragiche della storia del melodramma”, forse anche per il contrasto tra la sua situazione drammatica e il suo ruolo di buffone, colui che per mestiere deve divertire e far ridere gli altri. In ogni caso, si tratta di un grande personaggio perché ospita in sé sia il comico che il tragico. Ed è anche causa dei suoi mali: per compiacere il Duca, fa infuriare il Conte di Ceprano e in generale il suo atteggiamento di irrisione e le nefandezze perpetrate nei confronti dei cortigiani scatenerà la loro vendetta che coinvolgerà, oltre a lui, anche sua figlia.

La tragedia di Rigoletto è una doppia tragedia: la sofferenza di un padre che vede morire la propria figlia e l’incapacità di un uomo, il Duca, di conoscere e comprendere quanto grande e profondo possa essere l’amore.

Con Rigoletto, Verdi aderisce completamente alle teorie romantiche francesi sull’arte che sostengono il concetto che il “vero” deve prevalere sul “bello” e la realtà deve essere raffigurata in tutti i suoi aspetti.
Infatti, andando contro i canoni estetici della tradizione classicistica, il compositore costruisce il dramma attorno a un personaggio difforme e grottesco, in accordo con la poetica che emerge anche nelle opere letterarie di Hugo. Ed è proprio il grottesco a incarnare l’elemento più incisivo del contrasto.

Verdi si rifà ad Hugo anche per un altro aspetto: conserva in toto l’effetto delle situazioni drammatiche, usando la sintesi. In pratica, individua le situazioni chiave e dà loro risalto con pochi tratti veloci. Conferisce ai personaggi il massimo rilievo, conduce il susseguirsi delle scene con un ritmo rapido e travolgente ed enfatizza le figure con grande potenza, insolita nel melodramma della sua epoca. In particolare, usa il canto, conducendo alla perfezione l’arte della melodia e le concede la facoltà di mostrare tutte le sfumature emotive e i possibili stati d’animo.
Magistrale è il contrasto che ha creato tra i due antagonisti dell’opera: il Duca si profonde in melodie compiute e a volte irriverenti, che ne illustrano i modi arroganti e cinici; Rigoletto utilizza prevalentemente il declamato e canta in forme rotte e spezzate.

Quest’opera di Verdi, rispetto alle precedenti, mostra un’evoluzione marcata, soprattutto per la capacità acquisita dal compositore di tratteggiare caratteri psicologicamente complicati.
Con Rigoletto, Verdi riesce a rappresentare in modo realistico la natura umana in tutta la sua mutevolezza e complessità.

Il musicista ha prestato particolare attenzione all’individuazione del soggetto drammatico e non ha trascurato neppure un dettaglio per garantire all’opera il massimo effetto teatrale.
Ha realizzato con grande attenzione la partitura, creando strutture a lunga campata. Ha anche utilizzato con notevole flessibilità il linguaggio e le convenzioni formali del melodramma italiano. Infatti, ha inserito nel Rigoletto: “numeri” singoli in blocchi scenici più vasti; ha fuso momenti prettamente di azione con altri di riflessione; ha tarato le scene sul tempo interiore dei personaggi.

Verdi aveva già mostrato molte delle novità presenti nel Rigoletto nelle sue opere precedenti, ma la differenza più netta che si rileva in questa opera è l’unità stilistica, realizzata grazie alla caratterizzazione musicale.
In tutta l’opera si vive in un’atmosfera di attesa di eventi che aleggiano minacciosi e si avverte anche l’opprimente sensazione di una sventura imminente, preannunciata dalla maledizione.
Il compositore è riuscito anche a dare vita a personaggi che, pur muovendosi entro le regole formali dell’opera italiana, maturano e crescono a mano a mano che il dramma procede.
L’insieme di queste novità, unite all’originalità del soggetto e alla capacità di ritrarre i caratteri dei personaggi con grande efficacia, consentono di affermare che Rigoletto mostra senza dubbio nuove prospettive al teatro musicale.

In copertina: Scenografia per l’atto “IV” (III come normalmente conteggiato) del Rigoletto di Giuseppe Verdi. (Per la produzione del Théâtre national de l’Opéra al Palais Garnier inaugurato il 27-02-1885)

“I tre moschettieri” di Dumas: “tutti per uno, uno per tutti”

I tre moschettieri di Dumas tutti per uno uno per tutti

“I tre moschettieri” è un’opera di Alexandre Dumas padre, che narra con “grande brio e spigliatezza” le avventure dell’esercito personale del re Luigi XIII, tra intrighi di palazzo e duelli mozzafiato.

Voi approvate ciò che D’Artagnan ha fatto?” “Perbacco se lo approvo” disse Athos “non solo approvo ciò che ha fatto, ma me ne congratulo con lui.” “E ora, signori” concluse D’Artagnan senza perder tempo a spiegare a Porthos il suo modo di agire “tutti per uno e uno per tutti, è questa la nostra divisa, non è vero?” “Però…” disse Porthos. “Stendi la mano e giura!” gridarono insieme Athos e Aramis. Vinto dall’esempio, ma brontolando piano, Porthos stese la mano, e i quattro amici ripeterono ad una voce la formula dettata da D’Artagnan: “Tutti per uno, uno per tutti”. (Alexandre Dumas)

Tutti per uno, uno per tutti”, un motto che ci rimanda istantaneamente alle impavide figure di tre soldati (più uno aggiunto), pronti a sguainare la spada quando la necessità lo richiede.
“I tre moschettieri” (Les trois mousquetaires) è un romanzo d’appendice di Alexandre Dumas padre (Villers-Cotterêts, 24 luglio 1802 – Neuville-lès-Dieppe, 5 dicembre 1870) e di Auguste Maquet (1813-1888; collaboratore di Dumas che lo aiutò a realizzare la prima stesura e fece le ricerche storiche sull’argomento). Come tutti i romanzi di questo genere, fu inizialmente pubblicato a puntate, nel 1844, sul giornale “Le Siècle”.

È uno dei romanzi più celebri e tradotti della letteratura francese ed è il primo di una trilogia. Gli altri due volumi sono: “Vent’anni dopo” (1845) e “Il visconte di Bragelonne” (1850).
Dumas ha ricavato il soggetto dalle “Memorie di D’Artagnan” (1700), ispirato alla vita del conte D’Artagnan, opera del romanziere francese Gatien de Courtilz de Sandras (1644 – 1712) che, nel 1688, dopo 18 anni nella compagnia dei Moschettieri, lasciò l’esercito francese e si trasferì nei Paesi Bassi, dove si dedicò unicamente alla scrittura.

I moschettieri di Dumas fanno riferimento alla compagnia militare di gentiluomini fondata nel 1622 dal re Luigi XIII (Luigi XIII di Borbone, detto il Giusto, 1601 – 1643) come suo esercito personale, cioè i “Moschettieri della Guardia”.
Essi prendevano il nome dal moschetto, il tipo di fucile che avevano in dotazione. Si trattava di un’arma piuttosto pesante e perciò ognuno di loro aveva un servitore che lo aiutava a trasportarla.
I moschettieri ebbero un ruolo fondamentale nei primi eserciti moderni, specie in Europa. In genere, servivano a piedi come fanteria, ma in certi casi anche a cavallo. Scomparvero quando furono adottati dei fucili più moderni. In Francia, questa figura compare e perdura tra Cinquecento e Ottocento.

Nel libro, la compagnia dei moschettieri si contrappone alle guardie del cardinale Richelieu (Armand-Jean du Plessis, duca di Richelieu, 1585 – 1642; cardinale, politico e vescovo cattolico francese; nominato primo ministro dal re Luigi XIII di Francia) e spesso i due gruppi si scontrano in duelli illegali.
Dumas utilizza per i suoi coraggiosi soldati dei soprannomi: Athos, Porthos e Aramis, cui si aggiungerà il quarto moschettiere, nonché protagonista del romanzo, D’Artagnan. Le loro vere identità, invece, sono rivelate solo in parte.

La vicenda raccontata da Dumas, ruota in gran parte attorno al quarto moschettiere, un giovane tra i 18 e i 20 anni, abile con la spada e molto coraggioso.
D’Artagnan ha un servo, Planchet di umili origini, coraggioso e molto legato al suo padrone.
In generale, il ruolo dei servitori in questo libro è molto importante. Sono spesso tirati in ballo e molte delle imprese dei loro padroni andranno a segno grazie al loro provvidenziale intervento.

Passando ad Athos (Olivier de Bragelonne de La Fère) scopriamo che è un uomo di animo nobile e distinto. È il moschettiere che D’Artagnan ammira di più. Tra i quattro è quasi sicuramente il più viziato, ma è anche il più intelligente, nonché un abile conoscitore della scherma e dell’arte del cavalcare.
Prima di entrare tra le guardie del re, Athos aveva sposato una giovane che si rivelò marchiata a fuoco con un giglio sulla spalla, segno che era stata condannata a morte. Successivamente, scopriremo che è la seducente e pericolosa Milady.
Il servo di Athos è Grimaud che parla poco e gesticola molto; affezionato al suo padrone, lo ammira in particolare per la sua intelligenza.

Aramis (Aramis d’Herblay) è un uomo distinto e delicato, sembra a vederlo e anche per come si comporta un uomo di chiesa mancato. Gli studi ecclesiastici che ha compiuto emergono dalla conoscenza che l’uomo ha delle arti, di filosofia e della lingua latina; spesso compone poesie. Successivamente, Aramis diventerà abate d’Herblay. Il personaggio di Dumas si ispira vagamente alla figura storica del moschettiere Henri d’Aramitz.
Bazin è il servo di Aramis; perfetto per un padrone che vestirà poi gli abiti ecclesiastici. Dolce e pacifico, nonché profondamente devoto al suo padrone, veste sempre di nero, come ci si aspetterebbe dal servo di un uomo di chiesa.

L’ultimo del gruppo è Porthos (Porthos du Vallon) il più “sanguigno” della compagnia e quello che tiene maggiormente al suo onore. Un po’ fanfarone, ama darsi delle arie e possiede un carattere vanitoso. Spesso gioca ai dadi e scommette qualsiasi cosa. La sua amante, la signora Coquenard, vecchia moglie di un procuratore, in varie occasioni lo aiuterà finanziariamente. Anche lui come gli altri usa un nome “di battaglia” invece del suo nome autentico: du Bracieux.
Il servo di Porthos è Mousqueton, un normanno, il cui vero nome è Boniface che si veste sempre in modo molto elegante e presta servizio al suo padrone senza molte pretese.

Altri personaggi del romanzo sono: Constance Bonacieux, guardarobiera e confidente della regina; Monsieur Bonacieux, merciaio, marito di Constance e padrone di casa di D’Artagnan; Monsieur de Tréville, comandante dei moschettieri; Milady de Winter, moglie di Athos e spia del Cardinale Richelieu; Lord de Winter, cognato di Milady; l’uomo di Meung (Conte di Rochefort, scudiero del Cardinale Richelieu) cui D’Artagnan dà la caccia; D’Artagnan padre; Ketty, serva di Milady; il Conte di Wardes, l’uomo di cui Milady è innamorata.

I tre moschettieri includono, oltre a personaggi fittizi, anche personaggi storici, come: il Cardinale Richelieu; Anna d’Austria; Luigi XIII; il Duca di Buckingham; John Felton (1595 – 1628), puritano irlandese, assassino del Duca di Buckingham, perché Dumas nel suo romanzo mescola realtà storica e finzione.

Lo stesso protagonista del romanzo, D’Artagnan, è ispirato a Charles de Batz de Castelmore d’Artagnan, realmente esistito e nato tra il 1611 e il 1615 a Lupiac in Guascogna.
L’originale del personaggio di Dumas entrò nel corpo dei Moschettieri nel 1644 e fece una straordinaria carriera militare, tanto da ricevere dal Cardinale Mazarino il titolo di “Capitano e custode degli uccelli della voliera delle Tuileries”.
Morì in battaglia a Maastricht, nel 1673. La sua morte è narrata da Dumas ne “Il visconte di Bragelonne”.
A differenza di D’Artagnan, gli altri tre moschettieri hanno in comune con i personaggi fittizi poco più del nome e sono: Armand de Sillegue d’Athos d’Auteville (Athos), Isaac de Portau (Porthos) e Henri d’Aramitz (Aramis).

Il romanzo di Dumas ha ottenuto un notevole successo letterario e ha ispirato diversi film, fumetti e serie tv e non si può dire che si tratti solo di una storia divertente e avventurosa, se Benedetto Croce (1866 – 1952; filosofo, storico, politico, critico letterario e scrittore italiano) ha speso per “I tre moschettieri” lodevoli parole.
Da parte mia, non provo il rossore di cui altri sentirebbe inondato il volto nel dire che mi piacciono e giudico condotti con grande brio e spigliatezza i Trois mousquetaires di Alessandro Dumas padre. Ancora molti li leggono e li godono senza nessun’offesa della poesia, ma nascondendo in seno il loro compiacimento come si fa per gli illeciti diletti, ed è bene incoraggiarli a deporre la loro falsa vergogna e il loro congiunto imbarazzo”.

In copertina: particolare de “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas (illustrazione dell’edizione di Calmann-Lévy, Parigi, 1894).