Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale fa parte dei miei ricordi scolastici. La musica delle sue parole mi aveva incantato e continua a incantarmi, ogni volta che alla mente mi sovvengono i suoi versi e mi ritrovo in solitudine a solfeggiarli.
Una poesia che immediatamente mi rimanda all’estate e ai lunghi e assolati pomeriggi della bella stagione è “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale. Poeta, scrittore, traduttore, giornalista e critico musicale, nato a Genova il 12 ottobre 1896 e morto a Milano, il 12 settembre del 1981, Montale è ritenuto uno tra i massimi poeti italiani del Novecento.
Visse in anni turbolenti, scossi da eventi storici tragici (vide succedersi ben due guerre mondiali), e già nella sua prima raccolta di poesie, “Ossi di seppia”, del 1925, diede voce alle inquietudini del suo tempo e al male di vivere.
Con le raccolte successive, “Occasioni” del 1939 e “La bufera e altro” del 1956, la sua poetica si approfondisce. Invece, nelle ultime raccolte, tra cui “Satura” del 1971 e “Quaderno di quattro anni” del 1977, tutte scritte dopo la morte della moglie, il poeta affronta nuove tematiche e sperimenta nuovi stili.
Meriggiare pallido e assorto fu scritta probabilmente nel 1916 ed è una tra le poesie più significative del primo Montale. I versi del poeta ci trasportano nella sua Liguria e ci ritroviamo immersi in un caldo pomeriggio estivo, assorti pigramente a osservare e ascoltare quanto accade tra un rovente muro d’orto e uno scorcio di mare lontano.
La scena è piena di vita e ha un suo ritmo speciale: quello dettato dai suoni aspri che fanno da pendant all’aridità del paesaggio. In questa sorta di singolare partitura, i merli “schioccano”, mentre le serpi “frusciano”, forse alla ricerca di un raggio di sole. A impegnarci visivamente poi, ci sono le formiche che si muovono indaffarate nelle fessure della terra e sulle piante, e noi ci ritroviamo a fissare incuriositi le loro fila che si compongono e si sfaldano alla sommità di piccoli cumuli di terra. Poi, mentre alle orecchie ci giunge il verso aspro delle cicale, ci rendiamo conto che il paesaggio in cui il poeta ci ha condotto è solo una metafora della vita umana, la cui insensatezza e l’impossibilità di sondarne il significato è rappresentato alla perfezione dall’alta muraglia che sulla cima è cosparsa di cocci aguzzi di bottiglia.
Meriggiare pallido e assorto
Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora si intrecciano a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Grande emozione per lo spettacolo di ieri sera, 22 giugno 2023, organizzato dalla Fondazione Regionale Arte nella danza al teatro Sperimentale di Ancona.
So che cosa significa stare alla sbarra e quanta fatica e sudore costa conquistare maggiore scioltezza e forza. Quanto impegno è richiesto per mantenere una posizione corretta e al contempo sembrare naturali e dare l’impressione a chi guarda che un passo o un movimento sia la cosa più semplice del mondo. Per questo voglio celebrare chi ieri sera mi ha emozionato con la sua fatica, con i sacrifici di ore di lavoro in sala e con tanti batticuori, finché il sipario non si alza e il pubblico diventa visibile dal palcoscenico.
In pratica, ieri sera ho fatto un tuffo nel passato, un tuffo in un mare conosciuto: quello della danza. Avevo ancora in mente un altro spettacolo organizzato dalla Fondazione Regionale Arte nella danza di Ancona, di diversi anni fa. Nella mia mente era ancora vivido il ricordo dei colori, della musica e dei costumi e soprattutto, ricordavo gli impeccabili passi di danza. Dopo lo spettacolo di ieri sera, posso dire che avrò altre preziose memorie da serbare.
Lo spettacolo, suddiviso in due parti, si è svolto in due ore, due ore di grandi emozioni, per chi come me ha assistito alle esibizioni di ieri sera. I danzatori hanno dato vita a una serie di performance coinvolgenti, dove tecnica e interpretazione si sono fuse magnificamente.
Ho apprezzato le scelte musicali e coreografiche, che hanno spaziato sia nel repertorio classico sia in quello moderno. Magico il gioco delle luci e azzeccatissime le scelte dei costumi, entrambe hanno contribuito favorevolmente a creare uno scenario perfetto in cui esibirsi.
L’unico mio rammarico è per coloro che non sono intervenuti allo spettacolo, perdendo così un’occasione per meravigliarsi.
Il Grand Tour in Italia tra bellezze artistiche e meraviglie naturali era un’usanza ottocentesca che ha spinto molti letterati aristocratici a viaggiare per attuare un percorso di formazione.
Da sempre meta di viaggiatori in cerca di storia e di bellezze artistiche, l’Italia ha attirato, in particolare, numerosi letterati stranieri nell’800, quando venire nel nostro Paese significava compiere un viaggio formativo, denominato Grand Tour.
Questo singolare viaggio era appannaggio dei rampolli dell’alta società, di solito inglesi. Gli stranieri consideravano il Grand Tour come parte dell’educazione culturale. E quale migliore formazione si poteva sperare, se non visitando la patria dell’arte.
Durante il viaggio, gli scrittori traducevano nei loro diari o epistolari le impressioni suscitate dal viaggio e successivamente, le trasponevano nei romanzi, dove finivano per costituire un implicito invito ai lettori a recarsi in Italia, il meraviglioso belpaese.
Tra gli scrittori che intrapresero felicemente il Grand Tour possiamo citare: Goethe (1749-1832), Dickens (1812-1870), Forster (1879-1970), George Eliot (1819-1880), Louisa May Alcott (1832-1888) e molti altri che come loro hanno riportato nei loro scritti momenti particolari di vita e impressioni varie, muovendosi dal nord al sud del Paese.
Intraprendere un simile viaggio nell’Ottocento non era impresa facile. Ci si spostava su scomode carrozze che si destreggiavano su strade sconnesse e persino rischiose. Si affrontavano arrampicate su valli alpine “perduti in contemplazione delle nere rocce, delle cime e dei burroni paurosi, degli spazi di neve fresca, formatisi nei crepacci e nelle vallette, e dei torrenti tumultuosi che rombavano giù, a precipizio, nell’abisso profondo“, ci informa Dickens con dovizia di particolari.
Non ci si deve dunque meravigliare se per portare a buon fine questi Grand Tour a volte ci si impiegava degli anni. Per fortuna, rispetto agli odierni viaggi, c’era il vantaggio, per gli avventurosi turisti della cultura, che il costo della vita in Italia era sicuramente meno dispendioso di quello di altri Paesi.
I visitatori, oltre a prendersi tutto il tempo necessario, sceglievano le mete più ambite: Firenze, Venezia, Roma e Napoli, ma non erano disdegnati neppure i laghi e altre città minori.
Certe città lasciavano il segno su alcuni, mentre non avevano alcun effetto su altri. Ad esempio, Dickens affermò che Milano, completamente occultata dalla nebbia – tanto da far sparire persino il Duomo – poteva essere tranquillamente scambiata per Bombay, mentre George Eliot rimane colpita dalla Galleria di Brera e dalla Biblioteca Ambrosiana.
A impressionare Oscar Wilde (1854-1900) è invece Firenze, con le sue bellezze artistiche e si rammaricherà molto di doversene andare. Però, a lasciarlo letteralmente di stucco fu Venezia, anche se le gondole nere che solcavano le acque della laguna gli richiamavano dei funesti carri funebri.
Non possiamo ovviamente tralasciare, Goethe, turista d’eccezione, che affrontò il suo Grand Tour in Italia tra il 1786 e il 1788. Il poeta e scrittore attraversò tutto il Paese, da nord a sud, soppesando a ogni sosta monumenti, chiese e ville, e ammirando al contempo i paesaggi e le bellezze naturali delle piccole città. Inoltre resterà affascinato anche dagli abitanti e dalle particolari usanze, come la raccolta delle olive. Attratto da Roma, resterà però particolarmente colpito dalla Sicilia, pur criticando la sporcizia e la polvere sulle strade.
I Grand Tour e i successivi resoconti dei viaggiatori fecero da cassa di risonanza e spinsero altri viaggiatori a coprire distanze anche considerevoli, per ammirare il Bel Paese, dando vita a quello che in epoche successive fu definito come turismo.
A intraprendere arditamente il Grand Tour non furono però solo gli uomini. Ci sono state diverse viaggiatrici che, sfidando le convezioni sociali, hanno affrontato gli incomodi del viaggio di formazione. Una donna che viaggiava, soprattutto da sola e in un paese sconosciuto, non era ben vista, quanto meno non doveva essere una donna troppo rispettabile. Nonostante ciò, una schiera di donne coraggiose ha comunque raggiunto l’Italia e goduto delle bellezze artistiche del nostro Paese. Hanno anche annotato, come i loro colleghi uomini, impressioni, valutazioni e critiche e soprattutto, hanno dimostrato un maggior senso pratico e spirito di adattamento.
Tra le avventurose viaggiatrici citiamo: Madame de Staël (1766-1817), George Eliot che si dimostrerà molto critica e che resterà colpita più dalle bellezze naturali che da quelle artistiche. Louisa May Alcott invece fece un secondo viaggio in Europa nel 1870, dopo il successo del suo libro “Piccole donne”. Insieme alla sorella e a un’amica giunse in Italia, passando per Milano. Nei suoi appunti di viaggio dirà che il Duomo era simile a un grande dolce di nozze, mentre a Roma, più che dalla città fu affascinata dalla campagna romana.
Il Grand Tour in Italia ha lasciato diversi segni. Nelle città, visitate da questi turisti speciali, sono presenti varie targhe marmoree che testimoniano questa sorta di pellegrinaggio culturale. Ma soprattutto, la memoria di questi viaggi è viva nelle pagine dei libri, dove, in vario modo, ogni scrittore o scrittrice che ha attraversato l’Italia, ha tradotto la propria esperienza di viaggio, descrivendo luoghi e usanze, e più di un personaggio ha visto la sua prima scintilla di vita in un piccolo villaggio o in una grande città del nostro meraviglioso Paese.
In copertina: James Tissot, “London Visitors” (1874 ca.), olio su tela (dimensioni: 160 x 114 cm), conservato presso il Museo d’arte di Toledo
Le vicissitudini di Ulisse sembrano non finire mai e ogni tappa del suo lungo viaggio ci mostra con più chiarezza la sua figura e le sue notevoli capacità.
Dopo il terribile ciclope, Ulisse approda sull’isola di Eolo, uomo benvoluto dagli dèi, che comanda i venti. L’eroe e i suoi compagni godono per un mese della sua ospitalità e Odisseo riceve in dono l’otre dei venti, con una raccomandazione: nessuno dovrà aprirlo. Purtroppo, quando sono ormai vicini a Itaca, i compagni di Odisseo, invidiosi del dono, mentre Ulisse dorme, infrangono la promessa e aprono l’otre, scatenando i venti che li riconducono al largo.
La quinta tappa del viaggio vede i nostri eroi giungere presso i Lestrigoni, giganti mostruosi, quasi quanto i ciclopi. Ulisse per colpa loro perderà alcuni compagni, inoltre, i giganti riusciranno ad affondare ben undici navi della flotta; solo quella di Ulisse riuscirà a mettersi in salvo.
Nella tappa successiva, Ulisse finisce sull’isola di Circe, dea seducente che trasforma i compagni di Odisseo in porci. Solo grazie all’aiuto di Ermes, che dà all’eroe una misteriosa erba, come antidoto alla maledizione, Ulisse riuscirà a evitare di finire come i suoi compagni e poi, costringerà la dea a far tornare alle originarie fattezze i suoi uomini.
Ulisse rimane per un anno sull’isola di Circe e poi, dietro sua indicazione, intraprenderà una nuova prova: un viaggio nell’Ade, il regno dei morti. Qui, incontrerà diverse figure: i compagni uccisi durante la guerra di Troia, sua madre e l’indovino Tiresia che gli preannuncerà un ritorno luttuoso e contrastato.
Tornato nel mondo dei vivi, Ulisse verrà istruito da Circe sulla rotta da seguire e su come affrontare sia le Sirene sia Scilla e Cariddi. Inoltre, lo invita a evitare di toccare le vacche del Sole iperionide.
Alla settima tappa, Ulisse deve vedersela con le insidiose sirene. Come gli ha consigliato Circe, tappa le orecchie dei suoi compagni, mentre lui si fa legare all’albero maestro della nave, per poter udire il loro canto, senza però dover morire come tutti coloro che imprudentemente lo hanno ascoltano. Superato lo scoglio delle sirene, Ulisse procede verso lo stretto di Messina.
Ora, Odisseo deve affrontare Scilla e Cariddi. Purtroppo, l’infausto incontro porta ad altre perdite e sciagure: Scilla mangia diversi uomini, mentre Cariddi risucchia le acque.
Dopo aver affrontato i due mostri, i superstiti approdano sull’isola di Trinacria e Odisseo, pur tentando, non riesce a evitare che i suoi compagni banchettino con le invitanti mucche di Elio. Per questo, dovranno affrontare nove giorni in mare, in mezzo a terribili tempeste scatenate da Giove.
Ulisse riesce a salvarsi anche da questa prova e giunge sull’isola di Ogigia, qui incontra Calipso, una ninfa molto bella e immortale. La giovane si innamora perdutamente di lui e cerca di trattenerlo presso di sé. Dopo sette anni di permanenza presso la ninfa, Ulisse riesce finalmente a ripartire, ma a un passo da Itaca, Poseidone lo fermerà. Odisseo avrà però l’aiuto della dea marina Ino e approderà sull’isola dei Feaci.
Di nuovo naufrago, Ulisse incontra ancora una giovane donna, Nausicaa, figlia del re Alcìnoo, che gli fornirà dei vestiti e gli indicherà come raggiungere la reggia del re dei Feaci. In presenza del re, narrerà tutte le sue peripezie e otterrà una nave per tornare a casa. Il giorno successivo al naufragio, il nostro eroe riparte di nuovo, facendo vela verso Itaca.
Finalmente, Ulisse riesce a mettere piede sulla sua isola. Da qui in poi, sarà Atena a guidare i suoi passi verso una piena riconquista dei suoi poteri e della sua carica.
Inizialmente, l’eroe, sotto le mentite spoglie di un mendicante, si farà ospitare da Eumeo. Poi si rivelerà a questi e a suo figlio Telemaco, prima di recarsi alla reggia, sempre nelle vesti di mendicante.
Quando giunge a destinazione, è in preparazione una gara di arco, voluta da Penelope che ha promesso di diventare sposa di chiunque riesca a scoccare una freccia dall’arco del marito, facendola passare per le fessure di dodici scuri allineate.
I Proci, pretendenti al trono, tentano la sorte, ma nessuno di loro riesce anche solo a tendere l’arco. Il mendicante, schernito dai Proci, chiede a sua volta di fare un tentativo e riesce nell’impresa di tendere l’arco e scoccare la freccia.
A questo punto, aiutato da Eumeo, Filezio e il figlio compie la sua vendetta. I Proci sono disarmati e lui li uccide. Nonostante le affermazioni del figlio e di Euriclea, Penelope però non è convinta che suo marito sia davvero tornato, così mette alla prova lo sconosciuto: gli chiede di spostare il loro talamo nuziale. Si tratta di un tranello che Ulisse aggira facilmente. È stato lui a intagliare in un ulivo ancora in vita il letto nuziale e quindi, sa che non può essere spostato dalla stanza in cui si trova. Penelope finalmente riconosce il marito e lo stringe forte, piangendo.
Per un eroe che ha compiuto così tante imprese ipotizzare una sola morte sembra a dir poco riduttivo e infatti, diversi scrittori si sono cimentati in questo compito: letteratura e miti ci forniscono addirittura cinque versioni diverse del tragico evento.
C’è chi lo vuole morto in battaglia, chi in mare dopo terribili naufragi, chi compiendo una profezia per poter morire in pace, chi di semplice vecchiaia.
Il mito di Ulisse ha interessato in vario modo cinema e televisione. La prima trasposizione cinematografica delle sue esperienze avventurose risale al 1911, per opera di Giuseppe de Liguoro.
Nel 1955, l’eroe approda al grande schermo, interpretato da Kirk Douglas. Nel 1968, l’Odissea diventa uno sceneggiato televisivo Rai, con la regia di Franco Rossi. Questa trasposizione televisiva del poema, a parte poche eccezioni, riassume in modo completo e fedele la storia raccontata da Omero. Negli anni successivi furono realizzate altre trasposizioni di vario genere, tra cui varie parodie.
La fama di Ulisse, del suo nome e delle sue mitiche gesta sono giunte persino alle stelle: un cratere di 445 km di diametro su Teti è stato denominato Odisseo.
In copertina: Arnold Böcklin, “Ulisse e Calipso” (1882), olio su mogano, dimensioni 149,8 x 103,5 cm, conservato presso il Kunstmuseum Basel
Ulisse è un eroe dalla mente pronta e ingegnosa, grazie alla quale, dopo tante peripezie riesce a tornare in Patria, nella sua casa, ai suoi affetti familiari.
Per quanto riguarda le vicende legate al cavallo di Troia ci sono parecchie versioni discordanti che vede Ulisse come artefice del progetto, mentre in altre appare come un usurpatore della felice idea di qualcun altro. Diverse sono anche le ipotesi riguardo al cavallo stesso: in un caso, considerato una macchina bellica al servizio dei Greci per distruggere le mura della città; in un altro, ritenuto dai Troiani un dono di Atena.
Nell’Odissea, Ulisse è il protagonista incontrastato della storia, anche se molte figure, a dir poco singolari, compaiono nella vicenda. Il tema conduttore invece, è il tanto sospirato ritorno a casa dell’eroe che in tutto il suo lungo vagare ha un unico desiderio: tornare agli affetti familiari e alla sua Itaca, dopo ben dieci anni passati a Troia a causa della guerra.
A impedire il ritorno a casa di Ulisse è Poseidone, così, se per tornare a casa devi affrontare il mare, avere contro le ire di chi gestisce il regno delle acque non può portare a nulla di buono. Infatti, il nostro Odisseo si troverà coinvolto in un’infinità di incidenti e incredibili peripezie e solo dopo altri dieci anni, e grazie all’aiuto della dea Atena, potrà di nuovo toccare il suolo natio.
Come le fatiche di Ercole, anche le tappe che tengono impegnato il nostro eroe sono dodici. Questo numero è ritenuto il più sacro tra i numeri, insieme al tre e al sette. Esso indica la ricomposizione della totalità originaria, cioè la discesa in terra di un modello cosmico di pienezza e di armonia. Il suo significato indica la conclusione di un ciclo compiuto, inoltre, è il simbolo della prova iniziatica fondamentale, prova che consente di passare da un piano ordinario a un piano superiore, sacro. Esso ha un significato esoterico molto forte, in quanto collegato alle prove fisiche e mistiche che deve compire l’iniziato.
Nei “dodici episodi” in cui si struttura la sua avventura, Ulisse incappa in situazioni di ogni genere, accomunate però da due fattori. Ci sono tappe che possono essere raggruppate tra quelle in cui l’insidia è manifesta (mostruosità, aggressione, morte); altre in cui invece l’insidia è solo latente (un’ospitalità che cela un pericolo, un divieto che non si deve infrangere).
Inoltre, il nostro povero Ulisse – ci sarà un motivo per cui di fronte a ostacoli continui e insormontabili sosteniamo che “si è trattato di un’odissea” – non può coronare il suo sogno di raggiungere Itaca, perché Poseidone gli sferra contro venti furiosi; lo costringe a continui naufragi; lo spinge verso approdi perigliosi.
Vediamo in sintesi le dodici tappe affrontate dal nostro impavido eroe. Appena partito da Troia, si ferma a Ismaro, terra dei Ciconi. Per fare bottino li attacca, ma risparmia Marone, sacerdote di Apollo, che in cambio gli dà del vino forte e dolcissimo, cruciale per la sortita nella grotta di Polifemo.
La seconda tappa vede Ulisse e i suoi uomini approdare nella terra dei Lotofagi (mangiatori di loto). Essi accolgono benevolmente i nuovi arrivati, ma si rivelano degli ospiti insidiosi: offrono infatti ai compagni di Ulisse il loto, un frutto che fa dimenticare il ritorno. Il nostro eroe, per ricondurli alla ragione, si trova costretto a legarli e a trascinarli di peso sulle navi.
La terza tappa ci conduce dritti dritti nella grotta del ciclope Polifemo. Ulisse, giunto su un’isola abitata dalle ninfe, decide di spostarsi su un’isola vicina, così prende una nave e là si reca con alcuni compagni. Qui finiscono nella grotta di Polifemo che è fuori a pascolare il suo gregge. Nella grotta ci sono graticci pieni di formaggi enormi e latte appena munto. I compagni di Odisseo suggeriscono di prendere i formaggi e fuggire, ma Ulisse vuole ricevere i doni dell’ospitalità. Quando Polifemo torna alla grotta, l’eroe e i suoi compagni scoprono che il loro ospite è davvero orrendo: un gigante che possiede un unico occhio in mezzo alla fronte. Quando si accorge della loro presenza, sta preparando la cena, così prende due compagni di Ulisse e li divora. Poi va a dormire, mentre il nostro eroe studia come tirarsi fuori da questo rognoso impiccio.
All’inizio, pensa di ucciderlo con la spada, ma poi capisce che lui e i suoi compagni resterebbero imprigionati all’interno della grotta, e per loro morire sarebbe solo una questione di tempo, in quanto, pur compiendo sforzi sovrumani, non sarebbero in grado di spostare l’enorme macigno che chiude l’accesso alla grotta. Allora, Ulisse nota un ramo d’ulivo, gigantesco; ordina ai compagni di tagliarne un pezzo, mentre lui lo appuntisce. La sera successiva. l’eroe offre al ciclope il vino donatogli da Marone. Polifemo è contento del dono e chiede a Ulisse il suo nome; l’eroe gli dice di chiamarsi “Nessuno” (in greco la parola ha assonanza con il nome di Odisseo). Il ciclope si addormenta, ubriaco; Ulisse e i suoi compagni afferrano l’opportunità: prendono il ramo, rendono la sua punta incandescente e poi, accecano Polifemo. Il gigante urla di dolore; in suo aiuto accorrono i suoi due fratelli, ma ritornano indietro quando il ciclope dice: “Nessuno, amici, mi uccide con l’inganno e non con la forza“. Il giorno successivo, Polifemo fa uscire a pascolare le pecore. Per far sì che Ulisse e i suoi uomini non scappino, il gigante stende le mani e tocca il vello delle pecore, ma il nostro eroe e i suoi compagni si legano sotto dei montoni e riescono a uscire dalla grotta illesi.
(prosegue)
In copertina: Giovanni Domenico Tiepolo “Processione del cavallo di Troia” (1760 ca.) dimensioni 67×39 cm (National Gallery)
Le gesta di Ulisse che tenta disperatamente e attraverso mille peripezie di tornare alla sua amata Itaca fanno ormai parte del nostro immaginario e tuttora, restiamo affascinanti dalla sua astuzia e commossi dalla sua perseveranza.
Ulisse oppure Odisseo, figlio di Anticlea e Laerte, e Re di Itaca, è un personaggio della mitologia greca, un eroe acheo, sposo di Penelope e padre di Telemaco, descritto da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, in quest’ultimo poema compare come protagonista.
Del nome Odisseo sono state ipotizzate varie etimologie. La più comune è “iroso”, che però, non rispecchia in alcun modo il carattere del personaggio, almeno per quello che ne sappiamo leggendo il poema di Omero. In ogni caso, il nome gli fu imposto dal nonno materno, Autolico, che secondo la sua personale interpretazione significava: “odiato dai nemici“, nemici che si sarebbe fatto per le capacità della sua mente. Un’altra interpretazione del nome di Odisseo è “il piccolo”, quest’ultima definizione aderisce con l’affermazione fatta dall’autore riguardo alla statura di Odisseo: non altissima.
Il nome Ulisse, invece, gli fu dato dai Romani. Il nostro eroe mitologico è la “personificazione” dell’ingegno, del coraggio, della curiosità e dell’abilità manuale. Passando in rassegna le sue origini, scopriamo che era pronipote di Ermes, mentre già sappiamo che era il marito di Penelope e il padre di Telemaco. Se prestiamo orecchio a un’altra tradizione, dovremmo valutare l’ipotesi che il vero padre di Ulisse fosse Sisifo, che lo ebbe da Anticlea, prima che lei diventasse la moglie di Laerte. Dal canto suo, Ulisse sosteneva di discendere per via paterna addirittura dal re degli dèi olimpi, Giove, in quanto il padre di Laerte, Arcesio, sarebbe stato figlio di Giove.
Nell’Iliade, il personaggio di Ulisse era, a detta di Omero, già piuttosto noto ai lettori e il poeta sembra avere contezza di altre favole sull’eroe dell’Odissea, oltre a quelle da lui narrate, al punto che non può togliere il personaggio dal racconto, nonostante Ulisse non abbia nell’Iliade quella parte essenziale che invece hanno personaggi come Agamennone, Menelao e Achille. Si ipotizza che Ulisse sia una figura mitica anteriore addirittura alla colonizzazione greca oltre l’Egeo, anche se, più verosimile è l’idea che in origine si trattasse di un dio, un dio solare che scende nell’Ade come il sole che va al tramonto, ma che alla fine riesce a liberarsi, grazie all’astuzia, dai mostri del mondo sotterraneo per risorgere al mattino.
Ulisse è ritratto con grande coerenza nei due poemi di Omero. È un guerriero sagace e robusto, ardito in battaglia, oltre che scaltro e abile d’ingegno. È un uomo che affronta con grande temerarietà e costanza pericoli e vicissitudini, ed è dotato di una notevole presenza di spirito, che lo spinge a cercare per sé e per gli altri possibili vie di salvezza. Omero lo rappresenta come un uomo che ama profondamente la patria e la famiglia, e di entrambe avverte un’acuta nostalgia, mentre si dibatte tra mille difficoltà. È chiaramente un uomo giusto: non mostra crudeltà nei confronti dei nemici ed è fedele verso gli amici. Inoltre, è paterno verso i suoi sudditi di Itaca e mostra amorevolezza nei confronti dei servi fedeli, mentre è inflessibile verso chi tradisce la sua fiducia.
Non tutti forse sanno che Ulisse usò la sua arguzia anche prima di allestire la trappola del cavallo di Troia, e lo fece per evitare di tenere fede al giuramento di andare a Troia. Il nostro eroe aveva i suoi buoni motivi per essere recalcitrante alle richieste di Agamennone, accompagnato da Menelao e Palamede, che si erano recati da lui per convocarlo. Il motivo della sua ritrosia era semplice: un oracolo gli aveva preannunciato che se fosse andato a Troia, avrebbe fatto ritorno in patria solo dopo vent’anni e in condizioni di miseria. Ulisse allora pensò bene di mostrarsi pazzo per evitare l’infausta partenza. Si fece trovare dai tre venuti a convocarlo con un cappello da contadino in testa, mentre arava un campo con un asino e un bue aggiogati insieme, e lanciando sale alle sue spalle. Purtroppo per lui, Palamede lo superò in astuzia. Per accertarsi del suo vero stato mentale, tolse Telemaco dalle braccia della madre e lo mise a terra, davanti alle zampe delle bestie aggiogate all’aratro. Ulisse arretrò all’istante, tirando le redini e così, la sua follia pretestuosa fu subito smascherata e l’eroe fu costretto ad arruolarsi nella spedizione.
In copertina: Giuseppe Bottani, particolare del dipinto “Atena rivela Itaca a Ulisse” (1775) Pavia (Pinacoteca Malaspina)
L’Otello di Verdi rientra appieno nella definizione di opera al nero. Inoltre, il dramma, sotteso alla musica, tratta un tema molto discusso attualmente: il femminicidio. Infatti, la vittima, Desdemona, moglie del protagonista, muore soffocata dal marito accecato dalla gelosia.
Otello, penultima opera di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901), fu musicata su libretto di Arrigo Boito (1842 – 1918; letterato, librettista e compositore) e fu eseguita per la prima volta a Milano, il 5 febbraio 1887, durante la stagione di Carnevale e Quaresima del Teatro alla Scala. La storia è tratta dall’omonima tragedia di William Shakespeare (1564 – 1616).
A livello di ambientazione, Verdi e Boito hanno strutturato l’Otello in modo da creare una sorta di crescente effetto claustrofobico. Lo spazio si restringe inesorabile: passiamo dalla prima scena, quella della tempesta, ad ambiti sempre più ristretti fino ad approdare nel quarto atto alla stanza di Desedmona, dove si consuma il dramma.
La prima scena del libretto di Boito vede il popolo raccolto sul piazzale esterno al castello del governatore dell’isola di Cipro. Si attende l’arrivo della nave di Otello,che al momento sta affrontando il mare in tempesta. La gente prega perché il generale possa scendere a terra sano e salvo (“Dio, fulgor della bufera”). La preghiera ha buon esito: Otello, compare sugli spalti del castello e proclama la sua vittoria contro i musulmani, cantando il famoso “Esultate!”
Il condottiero è accolto dalla folla festante (“Fuoco di gioia”). Gli unici a non festeggiare il vincitore sono Roderigo, innamorato di Desdemona, e l’alfiere Jago, che odia Otello, e sta già tramando contro di lui e contro il suo favorito, Cassio. La prima mossa di Jago è far ubriacare Cassio (“Innaffia l’ugola”). Il giovane, perduto il senno a causa dell’alcol, ferisce in duello Montano. Jago intanto scatena una rissa che sarà placata dall’intervento di Otello che degraderà Cassio e poi si allontanerà con la sua sposa, intrecciando un duetto amoroso (“Già nella notte densa”).
Nell’atto secondo, Jago passa alla fase successiva del suo piano malvagio. L’alfiere sollecita Cassio a rivolgersi a Desdemona per poter tornare nelle grazie di Otello. Poi, in un monologo (“Credo in un Dio crudel”) feroce riflette sul suo destino. Successivamente, l’alfiere incontra Otello e inizia a instillare in lui il dubbio che la sua consorte non gli sia fedele, ma che abbia una relazione con Cassio, proprio mentre i due sono a colloquio, in un angolo del giardino, così, quando la donna intercede a favore del capitano da poco degradato, l’ira del Moro si acutizza. Desdemona è sconvolta dalla reazione di Otello e lascia cadere un fazzoletto, non un fazzoletto qualunque, bensì il primo pegno d’amore donatole dal marito; Jago lo afferra dalle mani di sua moglie, Emilia, dama di compagnia di Desdemona, e progetta di usarlo per i suoi fini diabolici. La sua intenzione è quella di nasconderlo nella dimora di Cassio.
Desdemona chiede perdono ad Otello (“Dammi la dolce e lieta / parola del perdono”), mentre in lui si va consolidando l’idea che tutte le certezze in cui finora confidava si stanno sgretolando, travolte dal dubbio lacerante (“Ora è per sempre addio, sante memorie”). Jago intanto gli promette una prova inconfutabile del tradimento: il fazzoletto che lui ha donato a sua moglie in mano a Cassio. Inoltre, lo inganna ulteriormente, raccontandogli di aver udito il rivale che in sogno pronunciava frasi d’amore rivolte a Desdemona (“Era la notte, Cassio dormiva”); Otello risponde, giurando vendetta (“Sì pel ciel marmoreo giuro”).
Nell’atto terzo, che si svolge nel salone d’onore del castello, giunge un araldo che annuncia l’arrivo degli ambasciatori veneziani. Nel frattempo, Jago dice a Otello che presto porterà Cassio al suo cospetto. Arriva Desdemona che perora di nuovo la causa del giovane capitano (“Dio ti giocondi, o sposo dell’alma mia sovran”). In risposta, Otello le chiede di mostrare il fazzoletto che lui le ha regalato, al diniego della donna reagisce con furia e Desdemona si allontana disperata e sconvolta. Otello si sente ferito e sfoga in un monologo la sua amarezza (“Dio, mi potevi scagliare”), poi Jago lo fa nascondere per ascoltare, non veduto, il dialogo tra lui e Cassio. Il giovane ex capitano mostrerà, istigato dal malvagio alfiere, il fazzoletto che ha trovato in casa sua e che lui ritiene l’omaggio di una corteggiatrice anonima (“Questa è una ragna”). Otello è ormai convinto dell’infedeltà della moglie, in quel momento, di sentono degli squilli di tromba, che annunciano l’arrivo delle navi veneziane; Cassio si allontana e il Moro confida a Jago la sua decisione: ucciderà i colpevoli.
Successivamente, sulla scena compaiono: Lodovico, Montano, Desdemona e i dignitari. Mentre legge il messaggio del Doge che lo vuole a Venezia, Otello perde la ragione e insulta la moglie. Desdemona piange e viene consolata dai presenti (“A terra, … sì … nel livido / Fango … percossa … io giaccio”). Jago intanto suggerisce le prossime mosse a Otello e a Roderigo. Il Moro, sconvolto e distrutto, sviene. Tutti si allontanano terribilmente scossi per la scena cui hanno assistito, Jago, invece, contempla il suo trionfo, mentre da fuori risuonano inni in onore di Otello.
Nell’atto quarto siamo trasportati nella camera di Desdemona. La donna è triste quando congeda Emilia e dopo aver pregato (“Ave Maria”), si prepara per la notte, in attesa dell’arrivo di suo marito. Otello entra nella stanza e senza troppi indugi la soffoca, nonostante la donna protesti disperata la sua innocenza. Emilia dà l’allarme, ma troppo tardi; arriva Cassio, che ha appena ucciso Roderigo che gli aveva teso un agguato, seguito da Lodovico, Montano e Jago che fugge, appena si rende conto che le sue malefatte sono state svelate. A questo punto, Otello, dopo aver dato l’addio alla vita (“Niun mi tema”), estrae un pugnale e si trafigge. Mentre sta morendo intona: “Pria d’ucciderti … sposa … ti baciai“, poi appoggia le labbra su quelle della moglie e muore.
Giuseppe Verdi musicò l’Otello dopo una lunga assenza dalle scene, dopo l’Aida che era stata rappresentata nel 1871. In questa nuova opera si rilevano diversi elementi innovativi. Innanzitutto, Verdi si affrancò ancora di più dalle forme chiuse che nell’Otello sono sempre meno individuabili, alla ricerca di un flusso musicale continuo che alcuni accostano all’esperienza wagneriana. In effetti, però, questa particolare tendenza era già evidente in altri operisti italiani di quel periodo.
Per quanto riguarda i pezzi chiusi o i rimandi alla tradizione, Verdi non li disdegna del tutto, ma il loro svolgimento diventa imprevedibile. Tra i pezzi chiusi più significativi ci sono: il dialogo in forma di recitativo tra Jago e Roderigo; la cabaletta “Sì pel ciel marmoreo giuro” che conclude il secondo atto; il grande concertato del finale del terzo atto. E non sono gli unici.
Quello che risulta innovativo in Otello, rispetto alle opere precedenti, è il modo adottato dal musicista per collegare i singoli episodi. In pratica, il passaggio dall’uno all’altro non è determinato da interruzioni nette: il tessuto musicale è in continua evoluzione, grazie soprattutto all’uso sapiente dell’orchestra, che ha il ruolo di sfondo unificante.
Nella transizione tra le varie scene, poi, Verdi riprende i materiali tematici appena ascoltati, in questo modo crea delle transizioni perfette, come ad esempio, quella che conduce dalla scena del duello tra Cassio e Montano al duetto d’amore che conclude il primo atto. Verdi trasforma anche dei brani che all’apparenza sembrano in forma chiusa in passaggi dialogici (il “Credo” di Jago; il monologo di Otello “Dio, mi potevi scagliar”).
Verdi mostra nell’Otello tutta la sua incredibile abilità a giocare a rimpiattino con le convenzioni: prima le evoca e poi le stravolge. Un esempio illuminante è il brano con cui il protagonista irrompe in scena, poco dopo l’inizio dell’opera: il famoso “Esultate!” che è gestito come una specie di minuscola cavatina, solo dodici battute.
Per il teatro verdiano, Otello rappresenta il punto di arrivo di un percorso personale che dallo sfoggio di idealismi risorgimentali e dalla rappresentazione di eroi romantici giunge a sondare, sempre più a fondo, gli abissi dell’animo umano, rivelandone anche gli aspetti più nascosti. Otello è quindi un dramma psicologico inquietante, dove il motore dell’azione sono le passioni assolute e devastanti, che condurranno alla rovina dei personaggi. Per poter tratteggiare i protagonisti della sua opera e per mostrarne i più intimi moti dell’animo, il compositore dovette creare uno stile vocale nuovo e adeguato alle sue esigenze, uno stile che oscilla senza posa tra recitativo, arioso e aperture cantabili di una certa ampiezza.
Otello sta a una notevole distanza dalle opere che avevano garantito a Verdi una grande notorietà. Questa nuova opera è lontana dalle forme tradizionali del melodramma italiano e per questo da alcuni fu criticata: chi tacciò il compositore di aver smorzato la sua vena melodica; chi gli imputò un eccessivo intervento dell’orchestra. Per fortuna, sia la critica sia la parte colta del pubblico riconobbe l’eccezionalità di Otello e valutò che il suo distacco dallo stile corrente nell’opera italiana dell’epoca avesse condotto Verdi a nuovi esiti artistici.
In copertina: l’artista William Mulready ritrae l’attore americano Ira Aldridge nel ruolo di Otello – Walters Art Museum (particolare del dipinto)
Il romanzo, un genere letterario che tutti conoscono, ma quanti conoscono la sua struttura o la sua lunga e fortunata storia?
Che cos’è che possiamo racchiudere nel termine romanzo? Qual è la storia di questo genere letterario? Il romanzo, innanzitutto, è una forma narrativa scritta che nasce nel Medio Evo. Come genere si differenzia dagli altri per la maggiore ampiezza e per il carattere fantastico degli argomenti che tratta, distinguendosi così dalle biografie, autobiografie, racconti di viaggi, opere storiche.
Sin dai suoi albori, il romanzo si è distinto da altri generi, come ad esempio, la novella che, in epoca medievale, aveva un carattere realistico. Per rintracciare la netta distinzione che esisteva tra i due si può fare riferimento alla lingua inglese e al differente uso dei due vocaboli: “romance”, per indicare la narrazione fantastica e “novel”, per la narrazione realistica. Questa distinzione la troviamo solo nella lingua inglese, in tutte le altre lingue non c’è alcuna differenza nell’impiego dei due termini.
Nel corso dei secoli, il romanzo ha sempre avuto una certa fortuna che lo ha condotto a essere una tra le forme narrative più diffuse. La sua notorietà è legata in particolare al fatto che offriva e offre ai lettori sia l’opportunità di evadere dal grigiore della vita quotidiana, vivendo le avventure dei personaggi e degli eroi delle storie, sia di vedere la loro realtà riflessa nelle pagine scritte e, attraverso questa, spingersi ad analizzare e interpretare la propria vita.
Il romanzo ebbe una diffusione maggiore a cominciare dal Settecento, trovando condizioni più favorevoli, quali: la scolarizzazione che comportò una maggiore diffusione della cultura; l’industrializzazione e il corrispondente miglioramento del tenore di vita, che consentiva di avere più tempo per leggere; lo sviluppo dell’editoria; il costo ridotto delle pubblicazioni.
Nel tempo, l’incremento del numero dei lettori condusse a un proficuo scambio tra loro e gli scrittori di romanzi, ciò portò a profondi cambiamenti sia nel contenuto sia nella struttura di questo genere narrativo. Tali mutamenti sono particolarmente evidenti tra Ottocento e Novecento e hanno dato il via a una notevole attività critica che ha analizzato il romanzo in base a varie chiavi di lettura: sociologica, semiologico-strutturale, storicistica, stilistica, estetica, ecc.
L’opera d’arte e quindi, anche il romanzo, almeno secondo la semiotica (scienza che studia i vari sistemi di segni elaborati dagli uomini per comunicare tra loro), è una forma di messaggio indirizzato da un mittente, lo scrittore, a un destinatario, il lettore.
Il rapporto tra scrittore e lettore è fondato sulla condivisione di un discorso, di un intreccio, in cui sono indicati i motivi della storia, secondo l’ordine scelto dall’autore, che può essere impostato in base a una successione logico-cronologica personale, ad esempio: i fatti possono essere narrati a ritroso oppure muovendosi avanti e indietro nel tempo, sfruttando il cosiddetto flashback.
Per quanto riguarda la storia, solitamente, in un romanzo sono presenti più episodi; a quello principale si accostano altre vicende e lo scrittore può utilizzare varie tecniche per inserire nell’intreccio episodi secondari. Ad esempio, può utilizzare la concatenazione. In questo caso, le storie sono narrate dai vari personaggi, in ordine di successione oppure, lo scrittore può avvalersi dell’alternanza. In questo secondo caso, due o più storie sono narrate contemporaneamente, interrompendo ora l’una ora l’altra. Un’altra tecnica è quella dell’incastro: una storia è inserita all’interno di un’altra. Per concludere, c’è poi anche la schidionata o infilzamento, quando un protagonista compare in vari filoni del racconto o gli episodi si intrecciano con i casi accaduti ai personaggi principali.
Nell’Ottocento e fino a inizio Novecento si diffonde la cosiddetta musica da salotto. Espressione musicale tipica della borghesia, consentiva ad abili dilettanti di divertirsi facendo musica insieme, e a un pubblico scelto di ascoltare eccellenti esecuzioni in ambiti domestici.
La musica in casa e la musica in salotto erano una piacevole abitudine ottocentesca. Per i borghesi del tempo, la musica costituiva un’opportunità di affermazione sociale che si manifestava non solo attraverso le consuete esibizioni pubbliche, ma anche in quelle praticate nell’intimità delle case private. Per assecondare questa particolare inclinazione musicale, nel corso del secolo, aumentarono i dilettanti esecutori e al contempo, il pianoforte divenne l’arredo indispensabile di un salotto borghese.
Parlando di “musica domestica” (Hausmusik) e “musica da salotto” (Salonmusik) ci troviamo di fronte a termini abbastanza simili, però, la prima espressione comprende un ambito più vasto, include cioè, sia la musica che era eseguita tra le pareti domestiche sia quella realizzata appositamente per essere suonata in casa. I fruitori di questo specifico repertorio, nonché gli esecutori di tale musica erano i dilettanti o i familiari e gli amici che amavano suonare insieme.
Per quanto riguarda invece la seconda definizione (musica da salotto) siamo dinanzi a un termine con un senso più definito: si tratta della produzione musicale appositamente realizzata per essere eseguita nei salotti europei dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, più o meno sino alla prima guerra mondiale.
I due repertori, quello della Hausmusik e della Salonmusik, si differenziano anche per il carattere: il primo aveva, tendenzialmente, un carattere intimistico; il secondo, invece, era il più delle volte sentimentale e brillante.
La borghesia europea tra Settecento e Ottocento ambiva a diventare la classe sociale predominante e la musica si prestava agevolmente all’affermazione di tale ambizione. Mentre il concerto pubblico si diffonde, in contrapposizione a quello privato di ascendenza aristocratica, si viene affermando anche l’uso di suonare in casa sia per divertimento sia a scopo formativo.
La musica da salotto si avvalse anche vantaggiosamente della pratica della trascrizione che consentì alla borghesia di esperire la letteratura musicale in toto, spaziando dalla musica sinfonica a quella operistica. L’usanza di fare musica in salotto proseguì sino al primo Novecento, poi l’avvento del grammofono e della radio ne decreteranno la lenta estinzione.
Nel XVII secolo, la Hausmusik prima di rappresentare uno specifico costume musicale era un termine usato come titolo di raccolte di Lieder di matrice luterana, destinate all’esecuzione domestica. Nel XVIII secolo, invece, il termine compare in pochissime occasioni, nonostante ci sia una grande quantità di musica pensata e realizzata proprio per i dilettanti. Fu a cominciare dalla metà del XIX secolo che la musica domestica diventò piuttosto frequente, quando cioè aumentò la divergenza tra musica d’arte, destinata ai professionisti, e musica d’uso, composta per gli amatori.
Il problema della difficoltà, infatti, era legato alla possibilità o meno di tale musica di essere eseguita tra le pareti domestiche da dilettanti. Nel momento in cui la complessità di tali composizioni aumentò, quando cioè, iniziarono ad affermarsi brani come Lieder, quartetti e trii di genere più impegnativo, fu necessario possedere capacità interpretative di un livello superiore e quindi, ai semplici dilettanti subentrarono musicisti professionisti che si dedicarono a un’attività concertistica vera e propria. A metà Ottocento, proprio in seguito all’affermazione di questo divario esecutivo, compositori ed editori iniziarono a specificare nei titoli delle opere la destinazione domestica di alcuni brani.
Lo strumento principe della musica da salotto era indubbiamente il pianoforte. Per tutto il XIX secolo dilagò in Europa e in America, una vera e propria “mania” per questo strumento, accresciuta dall’idea che lo studio del pianoforte e l’insegnamento del canto fossero una irrinunciabile prassi da includere nell’educazione delle ragazze di buona famiglia. Inoltre, la diffusione di questo particolare strumento fu incrementata dall’introduzione nel mercato di svariati modelli economici di pianoforte, perfetti per un uso domestico, come il “pianino” (attuale pianoforte verticale), introdotto nel 1811.
Fu proprio la duttilità del pianoforte a far sì che assumesse un ruolo predominante. L’accompagnamento di questo strumento era utilizzato per sostenere diversi generi vocali e strumentali, ma spesso era impiegato anche come solista oppure per eseguire brani a quattro mani. Questo ultimo tipo di esecuzione favoriva la socialità, era un modo semplice di suonare insieme e per questo conservò un ruolo speciale nelle abitudini musicali della borghesia europea. Consentì anche di preservare la tradizione della Hausmusik, almeno fino ai primi decenni del XX secolo, quando già generi cameristici più impegnativi si erano già trasferiti nelle sale da concerto.
Oltre al pianoforte, altri strumenti prediletti della Hausmusik erano: la chitarra, l’arpa, il mandolino, il flauto, il violino e il violoncello.
In copertina: James Tissot, “Hush!” (Silenzio!) olio su tela (1875 ca. – dimensioni: 73.7 x 112.2 cm), conservato presso Manchester City Art Galleries (Manchester)
Famoso per i suoi paesaggi, Corot ha anche realizzato diversi ritratti, la cui caratteristica principale è l’atmosfera di serenità e pace che circonda i soggetti; “Una donna che legge” è uno di questi.
“Una donna che legge” (Une Femme lisant, 1869 e 1870) è un olio su tela del pittore francese Jean-Baptiste-Camille Corot (Parigi, 16 luglio 1796 – Parigi, 22 febbraio 1875), attualmente conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York.
In questo dipinto, Corot ha raffigurato una donna in primo piano che legge un libro, mentre in lontananza, sulla sinistra del quadro, vediamo un uomo su una barca. L’artista francese era piuttosto conosciuto come paesaggista, ma negli ultimi anni di vita dipinse molte immagini di donne solitarie e pensierose. Questo cambio di soggetto, probabilmente è legato al suo stato di salute: dal 1866 al 1870, ripetute crisi di gotta impedirono a Corot, che considerava la bellezza lontana dai personaggi e dai gesti eroici, di continuare a dedicarsi ai suoi viaggi di cacciatore di immagini nella campagna. Il pittore fu costretto a lavorare nel suo studio parigino, dove si dedico alla realizzazione di una serie di ritratti. Quelli che raffigurano delle donne, in particolare, iniziano a mostrare una certa serenità e pace, indipendentemente dalla natura del modello.
Nella donna che legge, il paesaggio crepuscolare è tranquillo, così come calma è la postura della donna. Inoltre la chiarezza e la lentezza della linea di contorno che separa la figura dallo sfondo esalta il senso di moderazione e una sorta di distacco, che si possono cogliere osservando l’espressione del viso della modella.
La donna che legge fu esposta dal pittore già settantaduenne al Salon del 1869; fu l’unico che Corot espose quando era ancora in vita. Il quadro fu lodato da Théophile Gautier (1811 – 1872; scrittore, poeta, giornalista e critico letterario francese), che definiva Corot il La Fontaine (Jean de La Fontaine, 1621 – 1695; scrittore e poeta francese autore di celebri favole con animali come protagonisti) della pittura, per la sincera ingenuità e la tavolozza, ma fu critico nei confronti del disegno maldestro, secondo lui, dell’eroina e fece notare il fatto che nel dipinto erano presenti poche figure. Dopo il Salon, Corot rimise mano alla tela, rimodellando il paesaggio, ma lasciò invariata la figura in primo piano.
Il dipinto fu donato al Metropolitan Museum of Art nel 1928, da Louise Senff Cameron, in memoria di suo zio, Charles H. Senff.
In copertina: “Une Femme lisant” (Una donna che legge, 1869) di Jean-Baptiste Camille Corot, olio su tela (dimensioni: 54,3 x 37,5 cm), conservato al Metropolitan Museum of Art di New York
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