“Dieci piccoli indiani” è uno dei tanti capolavori gialli di Agatha Christie. In una prefazione, di una delle tante edizioni del libro, ho apprezzato l’originale punto di vista applicato al misterioso signor Owen.
In una strana associazione per contrasto, pensando a “Dieci piccoli indiani” mi è tornata in mente la frase evangelica “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8,3). In realtà nel famosissimo giallo, nonché pièce teatrale di Agatha Christie, accade l’esatto contrario: nel gruppo riunito a Nigger Island nessuno è innocente.
A partire dagli invitati del misterioso signor Owen: Anthony Marston, John Macarthur, Emily Brent, Lawrence Wargrave, William Blore, Edward Armstrong, Philip Lombard e Vera Claythorne, sino ai due coniugi, Thomas ed Ethel Rogers, assunti come domestici.
Io sono tra coloro che leggono prefazioni e postfazioni, a volte mi sento un po’ sciocca, a perdermi in tanti lunghi discorsi attorno all’autore o all’opera che sto per leggere, ma lo considero quasi un rito, un rito di attesa che non riesco a tralasciare. Spesso, questo atteggiamento paga: si scoprono notizie interessanti e punti di vista curiosi che finiscono per assommarsi piacevolmente al ricordo del libro stesso. Leggendo “Dieci piccoli indiani” mi sono trovata in una di queste felici situazioni.
Nella prefazione di un’edizione di questo capolavoro della Christie – purtroppo, e me ne rammarico moltissimo, non ricordo chi ne fosse l’autore e neppure l’edizione del libro – ho trovato un’osservazione singolare sulla storia e in particolare, sul personaggio del misterioso ospite: il signor Owen. Secondo l’autore della prefazione, la Christie ci ha deliziato con gialli in cui gli assassini uccidono per moventi tradizionali: denaro, vendetta, gelosia; moventi concreti e gli assassini non sono mai dei seriali, anche se ne “La serie infernale”, almeno per un certo lasso di tempo, crediamo proprio di trovarci di fronte a un serial killer, ma in realtà, le cose prenderanno una piega ben diversa.
In “Dieci piccoli indiani”, secondo l’autore della prefazione, invece, siamo proprio alle prese con un serial killer. Secondo alcuni studi fatti sui seriali, si è stimato che alcuni di loro sceglievano delle professioni che consentivano loro di uccidere, in modo legale, alcuni diventavano boia, altri mercenari. Anche il personaggio di Agatha Christie, Lawrence Wargrave, ha scelto una professione che gli consentiva, legalmente, di commettere degli omicidi, per interposta persona, e in più le vittime non erano innocenti, bensì dei criminali. Il suo desiderio di uccidere era così sublimato dal ruolo che svolgeva per la comunità.
Scoperto di avere poco tempo da vivere e spinto da un desiderio più forte di uccidere, il giudice decide di passare dall’altra parte della barricata: sceglie dieci vittime, dieci persone colpevoli di aver commesso un omicidio e tutte sfuggite alle maglie della legge.
La uccisione sequenziale di questi soggetti inizia dopo il verdetto, emesso da una voce proveniente da un grammofono che inchioda ognuno di loro, anche i domestici, alla propria colpa, elencando date e nomi delle vittime dei loro omicidi.
Da quel momento in poi gli invitati sull’isola iniziano a morire, e se il giudice, non ha un modus operandi identico per ogni omicidio, come accade per solitamente per i serial killer, in quanto le cause di morte sono sempre diverse, si può però intravedere una firma: la famosa filastrocca profetica e le statuine dei negretti che scompaiono a una a una dal centrotavola della sala da pranzo.
Giacomo Casanova era un uomo colto e grande viaggiatore, in un’epoca, il Settecento, in cui la gente non viaggiava molto. Nella sua vita avventurosa finì varie volte in carcere e affrontò persino un duello.
Nel 1755, Giacomo Casanova fu arrestato a Venezia, i motivi del suo imprigionamento sono stati oggetto di varie discussioni. La sua non fu di certo una vita irreprensibile e indubbiamente non lo si poteva definire un uomo dalle specchiate virtù. Anzi, proprio a causa della sua vita spregiudicata, era controllato dagli inquisitori, come dimostrano molti rapporti delle spie al servizio dei suoi accusatori. In questi documenti sono riferiti in maniera puntuale tutti i suoi comportamenti, specialmente quelli immorali e disdicevoli. Le accuse che, in particolare, furono rivolte a Casanova, al tempo dell’imprigionamento ai Piombi, riguardavano il “libertinaggio”, attuato con donne sposate, il vilipendio della religione, i raggiri ai danni di alcuni nobili e un contegno pericoloso sia per il buon nome sia per la stabilità del regime aristocratico.
L’esistenza sregolata – anche se molto simile a quella che conducevano molti giovani eredi di grandi casate: giocava e barava, aveva idee non del tutto ortodosse in materia di religione e soprattutto faceva ogni cosa alla luce del sole – il fatto di essere un membro della Massoneria, la scandalosa relazione con una suora “M.M.”, di sicuro una nobile, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in Murano, non deponevano a suo favore e l’oligarchia veneziana non poteva accettare che un uomo di tale risma potesse restare in circolazione. Ma Casanova aveva dalla sua amicizie di un certo peso nell’aristocrazia, amicizie che gli garantirono una condanna lieve durante la reclusione e forse gli furono di aiuto anche per l’evasione.
Quando fu arrestato, Giacomo Casanova non si perse d’animo e si organizzò per fuggire. Il primo tentativo andò a vuoto a causa di uno spostamento di cella, ma il secondo, nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1756, andò a buon fine. Per evadere passò dalla cella alle soffitte, sfruttando un’apertura procurata da un suo compagno di prigione, il frate Marino Balbi, da qui uscirono sul tetto e poi scesero all’interno del palazzo attraverso un abbaino. Insieme al complice varcarono diverse stanze, finché non li vide un passante che li scambiò per visitatori rimasti chiusi all’interno. Prontamente avvisato un addetto del palazzo, fu aperto loro il portone e i due fuggitivi, guadagnata l’uscita, si involarono rapidamente con una gondola.
La fuga condusse i due ex galeotti verso nord. Ripararono per un po’ a Bolzano, poi si rifugiarono a Monaco di Baviera, da qui, Giacomo Casanova proseguì da solo verso Augusta prima e poi Strasburgo. Il 5 gennaio 1757, il nostro fuggitivo giunse a Parigi, dove trovò accoglienza e appoggio dal suo amico François-Joachim de Pierre de Bernis (1715-1794) che nel frattempo era diventato ministro. Sistematosi a dovere, riprese le sue normali attività, facendosi notare in società e frequentando la crème de la crème della capitale. Provvidenziale fu la conoscenza della marchesa d’Urfé, un’aristocratica ricchissima e stravagante. Con lei Casanova intrecciò una lunga e fruttuosa relazione: sperperò notevoli somme di denaro che la donna, conquistata dal suo fascino, gli elargiva.
Giacomo Casanova promosse anche una lotteria nazionale per rimettere in sesto le finanze dello Stato. Fu autorizzato ufficialmente e nominato “Ricevitore”. La sua idea fu così brillante che tuttora è ancora utilizzata. Nello stesso periodo, fu coinvolto in un’intricata e incresciosa vicenda da cui riuscì a salvarsi grazie alla sua proverbiale prontezza. Successivamente, abbandonò la lotteria e tentò di mettere in piedi un’attività imprenditoriale: una manifattura di tessuti che fu un totale fallimento, anche a causa della guerra in corso. Il fallimento e i debiti lo condussero di nuovo in carcere, ma la marchesa d’Urfé intervenne prontamente a soccorrerlo.
Successivamente, viaggiò per l’Europa, nei Paesi Bassi e poi in Svizzera, infine tornò in Italia, a Genova, poi a Firenze e infine, a Roma. Nel 1762 è di nuovo a Parigi, dove tornò a praticare rituali magici insieme alla marchesa d’Urfé, almeno finché la donna non fu consapevole di essere stata ingannata e raggirata da Casanova, a quel punto, la donna interruppe ogni rapporto e Casanova si trasferì a Londra, poi andò a Berlino e nel 1764, giunse in Russia, a San Pietroburgo, mentre l’anno successivo lo troviamo a Mosca.
Dovunque andasse, Giacomo Casanova era accolto da membri altolocati dell’aristocrazia, da imperatori e personaggi storici di notevole rilevanza. Sorprende di questa straordinaria vita non solo la quantità e la varietà di avvenimenti, ma anche questa facilità di poter incontrare persone a dir poco inaccessibili, o comunque avvicinabili solo da pochi e centellinati visitatori. È quasi certo fosse la fama che lo precedeva a spalancargli innanzi tutte queste porte e la curiosità che circondava la sua persona.
Inoltre, non guastava il fatto che, Casanova fosse un abile intrallazzatore: trovava agganci, si procurava lettere di presentazione e si muoveva con grande destrezza. Era anche largamente favorito dalla sua vasta cultura, dalla sua capacità di intessere conversazioni brillanti e si avvantaggiava del fascino del viaggiatore.
Nel 1766, un episodio spiacevole segnò il suo soggiorno in Polonia: il duello con il conte Branicki. Durante un litigio, il conte offese Casanova che non si ritirò in buon ordine di fronte a quell’uomo potente e pericoloso, come avrebbe fatto chiunque altro. Giacomo Casanova che era anche un uomo coraggioso: sfidò a duello Branicki e nonostante fosse ferito, riuscì a lasciare la Polonia; il conte, ferito gravemente, riconobbe la correttezza del suo avversario e impedì ai suoi di fermarlo.
Casanova si spostò poi a Vienna e da qui a Parigi, da dove fu espulso a causa di un provvedimento voluto dai parenti della marchesa d’Urfé. Lasciata la capitale francese si diresse in Spagna, dove finì di nuovo in prigione. La tappa successiva fu la Provenza e dopo una brutta malattia riprese a viaggiare: Roma, Napoli, Bologna, Trieste. Intanto, sperava di ottenere la grazia da Venezia che finalmente arrivò il 3 settembre 1774.
Tornato a Venezia, Giacomo Casanova si riavvicinò alle sue vecchie frequentazioni e amicizie. Essendo in ristrettezze si dedicò alla scrittura, sfruttando la sua ampia rete di relazioni per assicurarsi sottoscrittori per le sue opere letterarie, trovando molti consensi. Di questi anni è la relazione con Francesca Buschini, una ragazza semplice e incolta. Casanova rimase molto legato a questa donna, anche quando fu costretto ad allontanarsi da lei.
Negli anni a seguire, pubblicò altre opere, ma fu di nuovo vittima della sua indole passionale e impetuosa. Fece pubblicare un libello, per vendicarsi della famiglia Grimani che non aveva preso le sue parti in una discussione. Nello scritto rivelò di essere il vero figlio di Michele Grimani e dichiarò che un altro Grimani era nato da una relazione adulterina. La nobiltà si schierò contro di lui e Giacomo Casanova fu costretto all’esilio. Lasciò Venezia per sempre, nel gennaio 1783 e si recò dapprima a Vienna. Gli ultimi anni li passò in Boemia, dove finì i suoi giorni.
Da lontano, ascoltò gli echi della Rivoluzione francese, ricevette le notizie della caduta della Repubblica di Venezia e vide crollare a poco a poco il suo mondo. Unico conforto in tanta desolazione, oltre alla nutrita corrispondenza con i suoi amici veneziani, fu la stesura della “Histoire de ma vie”, l’opera autobiografica che impegnò le sue residue energie. Casanova si dedicò alla scrittura di questo testo con foga e tenacia, per scongiurare che la morte sopravvenisse prima che avesse concluso il suo lavoro.
La sua opera letteraria ebbe un destino opposto a quello che l’autore avrebbe desiderato. I testi di ordine filosofico, storico e matematico non ebbero mai il riconoscimento letterario e scientifico che lo scrittore aveva agognato, mentre le opere autobiografiche ebbero grande successo, soprattutto l’Histoire, ma dopo la sua morte, qui Casanova si rivela un moderno scrittore di costume.
In copertina: particolare del dipinto di Jean-Honoré Fragonard “I fortunati casi dell’altalena”
In “Codice 206”, il commissario Nick Raisi si troverà coinvolto in un cold case. A trascinarlo dentro le indagini saranno i misteriosi messaggi lasciati da “Ala”, un writer che ha fatto della sua arte un’arma al servizio della giustizia.
Dopo “Rime Mortali“, torna con “Codice 206”, il personaggio di Nick Raisi, un tipo davvero singolare a cominciare dalle sue passioni: l’hip hop e i dolci. Il commissario romano odia la neve e la montagna, ma a causa di un’indagine scabrosa si ritrova catapultato, suo malgrado, dalla sua amata Roma a Brunico, in Alto Adige. Il suo arrivo ha portato diversi cambiamenti in città, soprattutto nel modo di condurre le indagini.
“Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.” (Friedrich Nietzsche)
Nick Raisi è insolito, a volte divertente. Conduce le indagini con una patina d’ironia e riesce sempre a fiutare la pista giusta che conduce alla verità. Stavolta il commissario romano, trasferito a Brunico, deve indagare su un uomo scomparso anni prima, che i suoi concittadini credevano morto per un incidente in montagna. Ad aiutarlo ci sarà un misterioso writer che si firma “ALA” e che lo sfiderà a risolvere i suoi rebus tappezzati per la città. Raisi con l’aiuto della sua squadra e le felici intuizioni della sua ragazza, Larissa Meier, darà una luce completamente diversa al caso dell’uomo scomparso che dietro una impeccabile facciata nascondeva un terribile segreto. Il commissario dovrà muoversi tra omertà e coni d’ombra, fino a svelare la vera natura della vittima e l’identità del suo assassino.
Giacomo Casanova, il cui anniversario della nascita ricorre proprio oggi, 2 aprile, fu un uomo dai molti talenti. Grande viaggiatore, mente brillante passava dalla poesia all’alchimia e fu anche un notevole scrittore, soprattutto quando mise per iscritto le sue mirabolanti avventure.
Chi non conosce il termine “Casanova”? Immagino che tutti sappiano il significato acquisito di tale parola, cioè seduttore e donnaiolo, individuo che ha successo con le donne ed è sempre in cerca di avventure galanti. Scommetto che altrettanto nota sia la sua derivazione dal settecentesco scrittore e avventuriero veneziano, Giacomo Casanova.
Ma quanti conoscono la vita di questo singolare personaggio che era molto più di un raffinato seduttore?
Giacomo Girolamo Casanova (Venezia, 2 aprile 1725 – Duchov, 4 giugno 1798) oltre alle donne, aveva anche molti altri interessi, altrettanto impegnativi, quali l’esoterismo, l’alchimia, la filosofia e tra le tante professioni e mestieri che esercitò, un po’ per passione e un po’ per necessità, fu diplomatico, scienziato e persino agente segreto. Fu anche scrittore e autore di una considerevole produzione letteraria che abbracciava: trattati e testi saggistici di vari argomenti; opere letterarie in prosa e in versi.
A dargli fama e maggiore lustro e a fargli acquisire notorietà mondiale come conquistatore di cuori femminili, fu l’ “Histoire de ma vie” (Storia della mia vita). In questo testo, Casanova descrisse con una certa schiettezza le sue avventure, parlò dei suoi viaggi e narrò, in particolare, le sue relazioni amorose. L’autore scelse il francese per scrivere l’Histoire, questa decisione fu frutto di una ponderata valutazione: nel XVIII secolo, il francese era la lingua più nota ed era parlata dall’élite europea.
Casanova visse in una fase di svolta della storia e persino la sua opera letteraria precorreva i tempi, anche se lui non se ne rese conto. Come non si rese conto che i valori e i principi dell’ancien régime e della sua classe dominante: l’aristocrazia, su cui lui aveva modellato la sua esistenza, erano avviati irrimediabilmente al declino.
Giacomo Casanova nacque in Calle della Commedia (attualmente Calle Malipiero), vicino alla chiesa di San Samuele. Suo padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino, mentre sua madre, Zanetta Farussi, era un’attrice veneziana che riscosse nella sua vita un certo successo professionale – ricevette elogi anche da Carlo Goldoni. Già la nascita di questo singolare personaggio nasconde un segreto, neanche troppo nascosto, perché circolava tra il popolo e fu confermato dallo stesso Casanova in un libello. Inoltre, non si spiegherebbero certi fatti, se appunto non si nutrissero dubbi sulla vera identità di suo padre. Le voci popolari indicavano, come più probabile genitore, il nobile veneziano, Michele Grimani, che aveva avuto una relazione con la madre di Casanova. Anche una certa somiglianza tra padre e figlio non faceva che confermare tale possibilità e piuttosto rivelatore fu anche l’aiuto e la protezione che la famiglia Grimani concesse a Casanova in tutto l’arco della sua esistenza.
Fu la nonna materna, Marzia Baldissera in Farussi, a occuparsi principalmente di lui che era rimasto orfano del padre in tenera età ed era poco seguito dalla madre, costretta a viaggiare per lavoro. A nove anni Casanova si trasferì a Padova per studiare e qui frequentò anche l’università. Alla fine degli studi, fece i suoi primi viaggi e nel 1742, comparve di nuovo a Venezia. L’anno successivo si verificarono diversi fatti spiacevoli per il nostro libertino: morì sua nonna, alla quale era particolarmente legato; la madre lasciò la casa in Calle della Commedia e si sistemò con i figli in un’abitazione più modesta. Questi cambiamenti influirono molto nella vita di Casanova che, per la prima volta, finì in carcere, a causa del suo atteggiamento ribelle.
Uscito di prigione, dapprima fu in Calabria, poi si spostò a Napoli e a Roma. Fu al servizio di vari prelati, ma ben presto fu liquidato per la sua condotta imprudente e nel 1744, approdò, per la seconda volta ad Ancona, qui si innamorò di un castrato: Bellino che in realtà era una donna, il suo nome era Teresa, con lei Casanova ebbe una lunga relazione e persino un figlio.
Tornato a Venezia, visse per un po’ dei proventi guadagnati suonando il violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei Grimani. Nel 1746, per un caso fortuito, strinse un’amicizia che durò tutta la vita con il senatore veneziano Matteo Bragadin e inoltre, conobbe i due più cari amici del patrizio veneziano, Marco Barbaro e Marco Dandolo. Queste conoscenze gli furono utili in più occasioni. Qualche anno dopo, invece, conobbe Henriette, uno dei suoi più grandi amori. Si pensa si trattasse di un’aristocratica di Aix-en-Provence, forse, Adelaide de Gueidan.
Nelle sue memorie, Casanova cita personaggi reali, a volte ne vela l’identità, specie quando si trattava di donne sposate che spesso sono menzionate con le sole iniziali oppure con nomi inventati, ma in generale è semplice individuare chi siano i soggetti di cui parla l’autore e anche i fatti sono corretti e verificabili. Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che alcuni passaggi siano romanzati e inventati dall’autore, pur facendo riferimento a personaggi esistiti storicamente. In ogni caso, episodi veri o romanzati, la qualità delle Memorie non muta: lo scrittore riesce a creare un ritmo serrato e persino la tensione emotiva dei suoi personaggi è dotata di un sorprendente realismo. Non sarà tutto vero, forse, ma il testo funziona ed è efficace.
Nel 1750, Casanova torna a Venezia, ma pochi mesi dopo parte di nuovo alla volta di Parigi. In questo periodo aderisce alla Massoneria che gli consente non solo di incontrare personaggi di un certo rilievo, quali Mozart e Franklin, ma di ottenere non poche facilitazioni di varia natura.
È il 1755, quando lo troviamo di nuovo a Venezia, di rientro da viaggi in varie città: Dresda, Praga e Vienna. L’accoglienza non fu delle migliori: Casanova fu arrestato e imprigionato nei Piombi (antica prigione ubicata nel sottotetto del Palazzo Ducale di Venezia, nel sestiere di San Marco; il singolare nome deriva dal materiale con cui era fabbricato il loro tetto. Qui si era imprigionati per volontà del Consiglio dei Dieci, per crimini politici o perché si era in attesa di giudizio). Casanova però, restando fedele alla sua natura, sprezzante del pericolo e della possibile conseguente eliminazione da parte degli inquisitori, evade in maniera rocambolesca dalla prigione veneziana.
I motivi dell’arresto vedono fioccare molte ipotesi, ma ne parleremo in seguito, in un prossimo post…
In copertina: particolare di un presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo)
Il mistero attorno alla lingua e al contenuto del manoscritto Voynich non è stato ancora svelato, anche se c’è chi sostiene il contrario, ma i risultati a tutt’oggi ottenuti non hanno fornito testi di senso compiuto.
Sono stati davvero numerosi i tentativi volti a sciogliere il mistero di questo curioso manoscritto. Il primo a tentare la sorte fu il professore di filosofia medievale all’Università di Pennsylvania, William Newbold (1865 – 1926) che sostenne si trattasse di un latino “camuffato”, addirittura da Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292 ca.; filosofo, scienziato, teologo ed alchimista inglese).
Negli anni quaranta, furono due crittografi, Joseph Martin Feely e Leonell C. Strong, a tentare un nuovo approccio: applicarono al testo dei sistemi di decifratura sostitutiva, ma non approdarono a nulla. Con criteri simili operarono gli esperti di crittografia della marina statunitense, approdando a risultati altrettanto inconcludenti.
Nel 1945, un crittografo statunitense, William F. Friedman (1891 – 1969), pensò bene di dare vita a un gruppo di studiosi: il “First Voynich Manuscript Study Group” (FSG) per venire a capo della questione. Da queste nuove analisi, emerse solo una certa ripetitività del linguaggio del testo, ma a parte questo, anche tale tentativo fu solo un altro buco nell’acqua.
Nel 1978, fu la volta di un filologo dilettante, John Stojko, il quale avanzò l’ipotesi che la lingua del manoscritto Voynich fosse ucraino con delle vocali rimosse. Ahimè! La traduzione possedeva un vago senso, ma non aveva nulla a che fare con le raffigurazioni presenti nel testo.
Ci sono state altre ipotesi ancora, tutte accomunate dall’impossibilità di raggiungere un risultato concreto. Le uniche cose che si sono evidenziate nel corso degli anni e delle numerose analisi del manoscritto Voynich è che, nonostante l’alfabeto non sia ancora stato decifrato, esso è unico e sono state riconosciute 19-28 lettere che non mostrano alcun legane con gli alfabeti finora noti. C’è anche il sospetto che chi ha scritto il libro abbia impiegato due alfabeti complementari ma diversi; inoltre, si ritiene che il testo sia opera di più autori. Si è anche rilevata la totale mancanza di errori ortografici, esitazioni e persino cancellature.
L’ipotesi della lingua artificiale ebbe diversi sostenitori, soprattutto per la presenza nel testo di numerose ripetizioni di sillabe che sembrerebbero rimandare a una divisione degli enti in categorie. A ciascuna di tali categorie poi, è associata una sillaba o una lettera. Questa affascinante teoria riesce a spiegare la ripetizione delle sillabe, ma non dà alcuna risposta riguardo ai prefissi e ai suffissi presenti nel manoscritto Voynich.
Un’ulteriore ipotesi è del 2003, ed è quella di Gordon Rugg (1955; informatico e studioso di psicologia scozzese) che sostenne si trattasse di un falso rinascimentale, creato all’unico scopo di truffare studiosi o sovrani. Secondo la sua teoria, gli autori del libro avrebbero prodotto un testo, utilizzando metodi combinatori, già utilizzati all’epoca della stesura del Voynich, e in particolare, Rugg fece riferimento alla “griglia di Cardano”, opera di Girolamo Cardano (1501 – 1576; medico, filosofo, matematico, illusionista, astrologo e accademico italiano), nel 1550.
Il metodo ispirato a Cardano è particolarmente ingegnoso ed era impiegato per scrivere messaggi segreti. Si utilizzava un foglio di carta, nel quale erano state ritagliate delle apposite aperture, attraverso queste si tracciava il messaggio su un foglio sottostante. Una volta eliminata la griglia, si completavano le porzioni del messaggio e si terminava lo scritto, ponendo del testo di senso compiuto, fino a produrre un messaggio che sembrasse del tutto normale. Secondo Rugg, che è riuscito a individuare alcune regole base del linguaggio del manoscritto è da escludere l’idea di un testo falso, il Voynich non contiene nessun messaggio segreto codificato nel testo, in quanto, in questo specifico caso, la griglia non è stata creata per codificare, ma per comporre il testo.
Attorno al manoscritto Voynich sono state fatte moltissime altre ipotesi riguardo al perché fu scritto, da chi e quali fossero gli argomenti in esso trattati. Altrettante teorie girano attorno alla decodifica delle parole in esso contenute e dei simboli dell’alfabeto.
Stephen Bax (1960 – 2017), professore di linguistica all’Università del Bedfordshire, ad esempio, ha tentato un approccio applicato alle illustrazioni della parte erboristica e astronomica. Guardando il manoscritto da questo punto di vista, si sono individuati i possibili nomi di piante e costellazioni, ciò ha fatto dedurre che il testo non sia cifrato e neppure privo di senso, bensì un testo prodotto in un’area specifica e in una lingua o dialetto estinto, con un proprio alfabeto, anch’esso perduto.
Ci sono state molte altre ricerche e analisi sul manoscritto Voynich, ma le conclusioni a cui sono pervenute non sono né certe né tanto meno definitive, e forse, il fascino che avvolge questo manoscritto sta proprio nel suo mistero che nessuno è riuscito, nonostante gli innumerevoli tentativi, a intaccare.
Il manoscritto di Voynich non ha fatto solo lambiccare molte menti brillanti, ma ha anche ispirato molti scrittori, che ne hanno fatto uso in vari modi, ed è stato citato anche in alcune famose serie a fumetti.
Come vi muovete in città? Camminate senza guardarvi intorno, infilando un passo dietro l’altro? Per raggiungere la vostra meta percorrete solo le vie più brevi o quelle che conoscete meglio? O siete, invece, degli inguaribili “flâneur”?
Flâneur, come avrete già intuito, è un termine francese, a coniarlo e renderlo famoso fu il poeta simbolista Charles Baudelaire (1821-1867; oltre che poeta, critico letterario, critico d’arte, giornalista, filosofo, aforista, saggista e traduttore). Il termine flâneur indica il gentiluomo che vaga oziosamente per le vie della città, senza alcuna fretta. Il suo girovagare ha come unico scopo quello di sperimentare e provare emozioni, osservando il paesaggio. Se volessimo tradurre l’arte del flâneur in italiano, potremmo dire: “andare a zonzo“.
Baudelaire usò il termine flâneur per definire l’artista la cui mente è indipendente, imparziale e appassionata, “che il linguaggio può solo definire maldestramente“. “Per il perfetto flâneur, per l’osservatore appassionato, è un piacere immenso prendere la residenza nel numeroso, nell’ondulato, nel mobile, nel fugace e infinito. Essere lontano da casa, eppure sentirsi a casa ovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo, e rimanere nascosto al mondo“.
Sotto l’influenza di Georg Simme (1858-1918; sociologo e filosofo tedesco), Walter Benjamin (1892 – 1940; filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco, fu un pensatore eclettico che si occupò di estetica, sociologia e materialismo storico), che tradusse Baudelaire, sviluppò la nozione di flâneur e spesso nella sua opera ricorre tale termine. Molti altri pensatori, dopo di lui, ripresero il concetto di flâneur e lo collegarono alla modernità, alle metropoli, all’urbanismo e al cosmopolitismo. Con il passare del tempo, esso assunse un notevole peso sia in architettura sia urbanistica.
Negli anni intorno al 1850, Baudelaire teorizzava che la figura dell’artista a lui contemporaneo dovesse avere un atteggiamento diverso dal passato, un atteggiamento cioè in sintonia con le nuove dinamiche e le complicazioni introdotte dalla vita moderna che aveva subito parecchi cambiamenti sia a livello sociale sia a livello economico, principalmente legati al processo di industrializzazione.
Secondo il poeta, l’artista doveva immergersi nella città e trasformarsi in “un botanico del marciapiede“, in qualcuno che conoscesse a fondo il tessuto urbano. “Osservatore, flâneur, filosofo, chiamatelo come volete; ma sarete certamente portati, per caratterizzare questo artista, a gratificarlo di un epiteto che non potreste applicare al pittore di cose eterne, o almeno più durature, di cose eroiche o religiose. A volte è un poeta; più spesso è più vicino al romanziere o al moralista; è il pittore della circostanza e di tutto ciò che suggerisce dell’eternità“.
I termini flâneur e flânerie (bighellonare, passeggiare, vagare) furono creati da Baudelaire, pensando in particolare ai parigini; per lui, le città ideali in cui vagare erano Parigi e Napoli, in quanto idonee all’esplorazione condotta in tutta calma e senza pianificazioni. L’atteggiamento del flâneur è bene definito dalla frase: “uno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie di Parigi“, che definisce il suo vagare volutamente pigro e senza ombra di urgenza.
Il filosofo Benjamin afferrò il concetto di flâneur come mezzo di analisi e stile di vita. Lo stile di vita che derivava dalla vita moderna e dalla rivoluzione industriale. Il flâneur per Benjamin è un borghese dilettante e lui stesso ne vestì i panni: faceva lunghe passeggiate per le strade di Parigi e da queste escursioni urbane traeva osservazioni sociali ed estetiche.
In architettura e urbanistica contemporanea, la progettazione è per il flâneur una maniera per avvicinarsi ai risvolti psicologici della costruzione di edifici. Ad esempio, l’architetto americano, Jon Jerde (1940-2015), concepì il suo Horton Plaza a San Diego e l’Universal CityWalk di Los Angeles, in modo da sorprendere e distrarre potenziali passeggiatori.
Secondo Baudelaire, per il perfetto flâneur “è un piacere immenso prendere dimora nel numero, nell’ondulazione, nel movimento, nel fugace e nell’infinito. Essere lontano da casa, e tuttavia sentirsi a casa ovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo e rimanere nascosto al mondo, questi sono alcuni dei piaceri minimi di quegli spiriti indipendenti, appassionati, imparziali che il linguaggio può solo maldestramente definire. L’osservatore è un principe che si gode il suo incognito ovunque. […] Può anche essere paragonato a uno specchio immenso come questa folla; a un caleidoscopio dotato di coscienza che, con ciascuno dei suoi movimenti, rappresenta la vita multipla e la grazia mobile di tutti gli elementi della vita. È un sé insaziabile del non sé, che in ogni momento lo rende e lo esprime in immagini più vivide della vita stessa, che è sempre instabile e fugace”.
E voi, alla luce di queste parole, vi potete definire dei perfetti flâneur? Vivete la vostra città appieno oppure per voi le città sono solo luoghi nati per soddisfare bisogni pratici e urgenti necessità?
In copertina: Gustave Caillebotte, “Strada di Parigi in un giorno di pioggia” (Rue de Paris, temps de pluie) (1877), Art Institute of Chicago
Il manoscritto Voynich, custodito presso la Biblioteca Beinecke di manoscritti e libri rari dell’Università di Yale, è un codice illustrato, risalente al XV secolo. La sua datazione è stata precisata al radiocarbonio e colloca la sua stesura tra il 1404 e il 1438.
Il manoscritto Voynich, deve la definizione di “libro più misterioso del mondo” e l’aura arcana che lo circonda a diversi aspetti che lo riguardano:
è stato scritto con un sistema di scrittura tuttora non decifrato
nel testo compaiono immagini di piante non raffrontabili con alcun vegetale conosciuto
l’idioma utilizzato non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico finora noto
Questo singolare volume deve il suo nome a Wilfrid Michael Voynich, in origine Michał Wojnicz (1865 – 1930), un antiquario e mercante di libri rari polacco, successivamente naturalizzato inglese. Il manoscritto finì nelle mani di Voynich grazie a padre Giuseppe Strickland (1864 – 1915), un religioso gesuita che, nel 1912, fece da tramite tra l’antiquario e il collegio gesuita di Villa Mondragone, vicino Frascati. L’ordine di cui Strickland faceva parte necessitava di fondi per restaurare la villa, li ottenne vendendo trenta volumi della sua biblioteca, tra questi era compreso il manoscritto Voynich.
Entrato in possesso del libro, Voynich rilevò nel testo delle annotazioni in greco antico e stimò che il libro appartenesse al XIII secolo. Inoltre, all’interno del volume, trovò una lettera di Jan Marek Marci (1595 – 1667), rettore dell’Università di Praga e medico reale di Rodolfo II di Boemia (1552 – 1612). Nella missiva era specificato che Marci lo inviava a Roma, all’amico poligrafo, Athanasius Kircher (1602 – 1680; gesuita, filosofo, storico e museologo tedesco del XVII secolo), affinché lo decifrasse.
Nella lettera, datata “Praga, 19 agosto 1665” (o 1666), Marci sosteneva di avere ereditato il manoscritto medievale da un amico, Georg Barches (1585 – 1662), un alchimista (si conobbe il suo nome solo successivamente, grazie a delle ricerche). Il proprietario antecedente del libro era stato l’imperatore Rodolfo II che lo aveva comprato per una cifra considerevole per l’epoca, ben 600 ducati, poiché credeva fosse stato scritto da Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292 ca.; filosofo, scienziato, teologo ed alchimista inglese). Infine, dalle mani di Voynich il manoscritto passò a quelle di Hans P. Kraus (1907 – 1988; antiquario e libraio austriaco naturalizzato statunitense) che ne fece dono all’Università di Yale.
Il manoscritto Voynich è redatto su pergamena di vitello; ha dimensioni ridotte: 16 cm di larghezza per 22 di altezza e 5 di spessore. Grazie alle due numerazioni, presenti sui margini delle pagine, si è dedotto che il libro fosse composto da 116 fogli, suddivisi in 20 fascicoli. Inoltre, nel volume sono presenti pagine più grandi che sono state ripiegate, mentre si è riscontrato che all’insieme mancano 14 fogli.
Il libro non contiene solo testo, ma è impreziosito da un certo numero di illustrazioni a colori che raffigurano molti soggetti diversi. La presenza delle immagini ha consentito di comprendere sia la natura del manoscritto di Voynich sia le sezioni in cui è suddiviso:
La sezione I (fogli 1-66), “botanica”, presenta 113 disegni di piante sconosciute.
La sezione II (fogli 67-73), “astronomica o astrologica”, ha 25 diagrammi che sembrano richiamare delle stelle e sono riconoscibili anche alcuni segni zodiacali. Nonostante ciò, non è possibile definire di cosa parli questa sezione.
La sezione III (fogli 75-86), “biologica”, in quanto presenta molte figure femminili nude, spesso immerse fino al ginocchio in un liquido scuro, in delle vasche intercomunicanti.
Dopo la sezione III è presente un foglio ripiegato sei volte, dove sono rappresentati nove medaglioni con figure di stelle, raggiere di petali e fasci di tubi.
La sezione IV (fogli 87-102), “farmacologica”, è definita così, perché vi sono raffigurate ampolle e fiale. Inoltre, in questa parte del manoscritto Voynich ci sono anche disegni di piccole piante e radici, forse, erbe medicinali.
L’ultima sezione (dal foglio 103 sino alla fine) presenta unicamente delle stelline, a sinistra delle righe. Si pensa possa trattarsi di una specie di indice.
La datazione, almeno fino all’inizio del 2011, è stata oggetto di varie ipotesi; tutte scartate nel febbraio 2011, grazie alla datazione del manoscritto Voynich effettuata con la tecnica del carbonio-14. La datazione precisa si è ottenuta prelevando dei piccoli campioni dai margini di alcune pagine e si è precisato che le pergamene che compongono il volume appartengono a un periodo compreso tra il 1404 e il 1438. Inoltre, recenti analisi dei pigmenti presenti nel manoscritto, hanno evidenziato affinità con quelli di altri manoscritti del Quattrocento e medievali in genere.
In un primo momento, si pensò si trattasse di un falso, realizzato nel Cinquecento, per ingannare Rodolfo II. L’autore dell’abile truffa fu individuato in Edward Kelley (1555 – 1597; alchimista, mago, astrologo, glottoteta e medium inglese. La glottopoiesi è l’arte di creare linguaggi artificiali sviluppandone la fonologia, il vocabolario e la grammatica), aiutato nella singolare malefatta da John Dee (1527 – 1608; filoso, matematico, geografo, alchimista, astrologo e astronomo inglese).
Altre interessanti teorie stimavano che il libro fosse databile agli inizi del Seicento, in seguito alla scoperta di una firma, grazie all’infrarosso, di Jacobi à Tepenecz, noto come Jacobus Horcicki (1575 – 1622), alchimista al servizio di Rodolfo II. Un’altra possibile datazione fu suggerita da una delle piante rappresentate nella sezione “botanica”, simile al comune girasole, questo pianta giunse in Europa solo dopo la scoperta dell’America, per cui si immaginò che il libro fosse stato scritto dopo il 1492.
I misteri attorno al manoscritto non hanno interessato solo la datazione, ora svelata grazie alla scienza, ma anche la sua decifrazione, ma di questo parliamo in un prossimo post…
L’8 febbraio del 1888 nasceva Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1° giugno 1970), poeta, scrittore, traduttore, giornalista e accademico italiano. Le sue poesie hanno lasciato un segno profondo nella letteratura italiana del XX secolo.
Ungaretti e in generale la poesia ermetica, che il famoso poeta ha anticipato, hanno sempre fatto risuonare in me delle profonde emozioni. Il primo incontro con le poesie di Ungaretti è stato di ordine scolastico ed è stato un colpo di fulmine. C’è stato anche un secondo incontro, altrettanto forte, musicale stavolta: quando con il coro abbiamo affrontato una versione musicale della sua poesia “La madre”.
I versi di Ungaretti hanno il potere di toccare l’anima e la loro bellezza risiede in ciò che riescono a suggerire e nella loro capacità di far vibrare corde segrete nell’animo di chi legge.
In questo, a prima vista, scarno mondo poetico si avverte, sotto la superficie, un mondo di sentimenti e di emozioni espressi con poche essenziali parole, che però riescono a far percepire il tutto, anche e soprattutto, il non detto, perché ciò che sembra mancare è presente dentro di noi e si manifesta attraverso risonanze profonde. Le parole di Ungaretti sono una sorta di richiamo che ci consente, leggendo le sue poesie, di recuperare un mondo sommerso.
Giuseppe Ungaretti è stato una tra le voci più rilevanti nel panorama letterario italiano del XX secolo. Mosse i primi passi, seguendo il simbolismo francese e in un primo tempo, produsse componimenti poetici stringati, limitati a poche parole e animati da analogie originali. Successivamente, le sue poesie acquisirono una maggiore complessità, mentre i concetti si facevano più ardui.
La sua poetica subì un’importante evoluzione indotta in particolare dal dolore per la morte del figlio. Le poesie di questo periodo assumono una veste meditativa e sono concentrate su un’intensa riflessione sul destino umano. Negli ultimi anni di vita, nei versi di Ungaretti spiccano la saggezza raggiunta dal poeta ormai giunto a un’età avanzata e un senso di tristezza e distacco.
Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto, da genitori italiani. Il padre morì due anni dopo la nascita del poeta e fu la madre, gestendo un forno di proprietà, a garantire i migliori studi al figlio che poté frequentare le più prestigiose scuole. Proprio durante il periodo scolastico, il poeta iniziò ad avvicinarsi alla poesia, giovandosi degli stimoli che provenivano sia dalle antiche tradizioni sia dalle novità, garantite dalla multietnicità del suo luogo di nascita. Fu particolarmente vicino alla letteratura francese ma anche a quella italiana: lesse le opere di Rimbaud, Mallarmé, Baudelaire, ma anche di Leopardi e persino di Nietzsche.
Dopo una breve esperienza lavorativa nel settore commerciale, il poeta si trasferì a Parigi per frequentare l’università. In questi anni conoscerà diverse importanti personalità del panorama artistico, quali: Guillaume Apollinaire, Georges Braque, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Pablo Picasso, Giorgio de Chirico, Amedeo Modigliani; iniziò anche a collaborare alla rivista “Lacerba”, pubblicando alcuni suoi componimenti poetici e liriche.
Nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale e quando l’Italia entrò nel conflitto, il poeta decise di arruolarsi. Durante gli anni di guerra, Ungaretti teneva con sé un taccuino, su cui appuntava le sue poesie che furono stampate nel 1916, con il titolo: “Il porto sepolto”. Proprio di questi anni sono le sue poesie più famose: “Mattina” scritta il 26 gennaio del 1917 e “Soldati” nel mese di luglio del 1918.
Negli anni che seguirono la prima guerra mondiale e precedettero la seconda, il poeta rimase a Parigi e fu, dapprima, corrispondente del giornale “Il Popolo d’Italia”, poi fu impiegato dell’ufficio stampa all’ambasciata italiana.
Nel 1920, conobbe Jeanne Dupoix e la sposò; l’anno successivo si trasferì a Marino (Roma), dove collaborò all’ufficio stampa del Ministero degli Esteri, mentre si dedicava a una fitta attività letteraria su riviste e quotidiani francesi. Nello stesso periodo, viaggiò molto e ottenne parecchi riconoscimenti ufficiali.
Dal 1931, Ungaretti divenne inviato speciale de “La Gazzetta del Popolo” e per tale incarico fu in Egitto, in Corsica, nei Paesi Bassi e in Italia meridionale. Nel 1933, il poeta è all’apice della sua celebrità; dal 1936 al 1942 lo troviamo con la famiglia in Brasile, dove si era trasferito per ricoprire la cattedra di letteratura italiana, all’Università di San Paolo del Brasile.
Tornato in Italia, Ungaretti fu nominato Accademico d’Italia. Caduto il fascismo, nel luglio del 1944, il poeta fu sospeso dall’insegnamento e fu reintegrato solo nel febbraio del 1947; mantenne il ruolo di docente universitario fino al 1958 e fuori ruolo fino al 1965.
Dal 1942, Mondadori incominciò a pubblicare l’opera omnia del poeta, con il titolo “Vita di un uomo”. Inoltre, Ungaretti stesso, a partire dal secondo dopoguerra, mandò in stampa nuove raccolte poetiche e ricevette diversi premi. Nel 1958, il poeta perse sua moglie Jeanne che morì dopo una lunga malattia. Il 1° gennaio del 1970, Ungaretti scrisse la sua ultima poesia, “L’Impietrito e il Velluto” e nello stesso anno fece un viaggio a New York, dove ritirò il premio internazionale dall’Università dell’Oklahoma. Morì all’età di 82 anni, nella notte tra il 1° e il 2 giugno 1970, a Milano, di broncopolmonite; fu seppellito nel Cimitero del Verano, a Roma, accanto alla moglie Jeanne.
Per quanto riguarda la poetica di Ungaretti, una delle sue raccolte di poesie: “L’allegria” rappresenta un momento fondamentale per la storia della letteratura italiana. Le poesie, scritte in gran parte tra il 1914 e il 1919, manifestano i sentimenti del poeta nei confronti di ciò che ha vissuto durante la prima guerra mondiale: c’è il dolore, ma sono presenti anche valori quali umanità e fratellanza e il desiderio di riscoprire un’armonia con il cosmo, come appare chiaramente nella poesia “Mattina”. Nelle opere successive si delineerà sempre più, non solo una particolare cura della parola, ma anche l’idea che la poesia sia l’unico mezzo per l’uomo o uno dei pochi per salvarsi dall’ “universale naufragio”. Inoltre, emerge anche uno “slancio vitale”, rafforzato dalla precarietà della vita e dalla visione della morte legate all’esperienza della guerra.
Non tutti furono concordi nell’affermare la grandezza della poesia di Ungaretti, infatti, oltre agli estimatori, ci furono anche molti critici, una condizione normale per qualsiasi precursore e riformatore. Ad apprezzare in particolare i suoi versi furono i poeti dell’ermetismo che videro in lui un maestro e un iniziatore della poesia “pura”.
Sono quasi certa che molti bambini siano andati a dormire, almeno una volta, accompagnati dalle parole: “C’era una volta”. Ma forse non tutti sanno che, molte delle fiabe che seguivano queste parole le dobbiamo a due fratelli tedeschi: Jacob e Wilhelm Grimm.
Le fiabe dei fratelli Grimm, note in tutto il mondo, non sono nate allo scopo di dilettare grandi e piccini, ma fanno parte di un’attenta e oculata operazione di recupero di una tradizione, quella tedesca.
L’idea della raccolta fu di Jacob (Hanau, 4 gennaio 1785 – Berlino, 20 settembre 1863) – filologo, linguista e scrittore, nonché professore di lettere e bibliotecario – fratello maggiore di Wilhelm (Hanau, 24 febbraio 1786 – Berlino, 16 dicembre 1859) e richiese ben tre anni di lavoro: dal 1812 al 1815. In questa prima fase del progetto, i due Grimm furono supportati da alcuni amici scrittori: Clemens Brentano (1778 – 1842) e Achim von Arnim (1781 – 1831).
Nella prima edizione, “Kinder und Hausmärchen” (Fiabe per bambini e famiglie), i Grimm pubblicarono anche fiabe francesi, successivamente, le eliminarono, mettendo al loro posto altre di origine germanica. Prima di questa operazione di recupero e trascrizione dei due fratelli tedeschi, le fiabe erano tramandate oralmente, per cui era difficile fornire loro un’attribuzione precisa e anche una datazione corretta.
I due fratelli dedicarono molto tempo ed energie a trascrivere miti e leggende dell’area germanica e questo intenso lavorio li spinse a interessarsi anche al ricco patrimonio favolistico del loro Paese. Le fiabe sono profondamente legate all’oralità, erano tramandate di generazione in generazione attraverso la memoria, ma con l’avvento della carta stampata, questa tradizione rischiava di perdersi. I Grimm sapevano che questo tesoro da preservare era conservato, ormai, esclusivamente nelle campagne, dove le persone anziane erano ancora analfabete e qui, iniziarono il loro lavoro di recupero.
I due fratelli seguirono il loro progetto con animi diversi: Jacob aveva un atteggiamento più scientifico, mentre Wilhelm aveva un approccio più poetico e fantastico. Quasi certamente fu il modo differente di porsi di fronte al progetto che condusse Jacob ad abbandonare l’impresa, subito dopo il deludente esito della prima edizione delle fiabe (1812-1815), invece, il fratello minore, Wilhelm continuò nell’opera, fino a pochi anni prima della morte: l’ultima edizione risale al 1857.
La prima edizione delle fiabe non era adatta ai bambini: le storie contenevano dettagli cruenti e particolarmente realistici. Con il tempo, però, le storie subirono un pesante processo di edulcorazione e depurazione dai particolari truculenti, ciò avvenne, in particolare, con la settima edizione (1857), quando furono tradotte in lingua inglese.
Le ambientazioni delle storie dei fratelli Grimm sono tenebrose e oscure. Si svolgono per la maggior parte in fitte foreste, popolate da creature orribili, come streghe, troll e goblin e, ovviamente, considerata l’atmosfera e i personaggi coinvolti, gli eventi di queste storie hanno come oggetto terribili fatti di sangue. Del resto, tutto questo rispondeva pienamente alla tradizione popolare tedesca.
I Grimm sono ricordati come gli “iniziatori” della germanistica e furono, prima di tutto, due linguisti e filologi. Fuori della Germania sono famosi appunto per la raccolta e la rielaborazione delle fiabe, tra le quali ricordiamo: Cenerentola, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, Hänsel e Gretel, per citare solo le più famose.
La decisione dei Grimm di dedicarsi alla trascrizione delle fiabe tedesche era legata al desiderio di far nascere una identità germanica: all’epoca, la Germania era suddivisa in tanti principati e piccole nazioni che avevano quale unico elemento unificatore la lingua.
Contemporaneamente alla raccolta delle fiabe, i due fratelli tedeschi lavorarono alla redazione di un dizionario, il “Deutsches Wörterbuch”. Composto da 33 volumi ha rappresentato un passo fondamentale per creare la lingua che oggi è il tedesco e tuttora, è ritenuto una delle fonti preminenti per l’etimologia dei vocaboli di questa lingua.
In Italia, le fiabe dei fratelli Grimm uscirono in prima edizione, nel 1897, con il titolo: “Cinquanta novelle”. La casa editrice era la Hoepli. Il libro ebbe un grande successo e fu ristampato diverse volte negli anni successivi: nel 1940, era giunto già alla decima edizione.
In copertina: Cappuccetto Rosso e il lupo in un dipinto di Carl Larsson (1881).
Quale migliore augurio di Natale per chi ama la letteratura di un cammeo tratto da un’opera di Leonardo Sciascia?
Natale è ormai alle porte, per celebrare questa festa ho scelto un brano tratto da “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia (1921-1989), autore di cui quest’anno si è celebrato il centenario della nascita. Nel testo, alcuni bambini raccontano come hanno trascorso le feste natalizie.
“Le parrocchie di Regalpetra” fu pubblicato nel 1956. Il punto di partenza di quest’opera letteraria è stato un capitolo: “Cronache scolastiche”, uscito autonomamente nel 1955, sul numero 12 della rivista “Nuovi Argomenti” e successivamente incluso nel testo stampato l’anno successivo. Il libro di Sciascia nel suo complesso narra la vita di un paese qualunque della Sicilia e, in particolare, parla della scuola; è suddiviso in parti che si differenziano per l’argomento trattato.
Regalpetra non esiste: è un paese di fantasia. È nato dalla fusione tra il nome Racalmuto (borgo nativo dello scrittore) e il libro di Nino Savarese, “Fatti di Petra”. Sciascia in questo libro racconta le condizioni delle classi povere e descrive le difficoltà che ogni giorno devono affrontare. Nel brano che segue ci troviamo sui banchi di scuola, le feste natalizie sono terminate e un maestro legge i diari che gli allievi hanno scritto come compito a casa.
– Il vento porta via le orecchie – dice il bidello. Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa. I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni. L’aula ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo. Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale: tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette e mezzo e ti-vitti (ti ho visto :un gioco che non consente la minima distrazione); sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo. Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente. In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca: “La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù”. Alcuni hanno scritto, senza consapevole amarezza, amarissime cose: “Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa”. Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre pagandogli il biglietto del cinema… Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato. “La mattina del Santo Natale – scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto”. La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre “per fare la spesa”. Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone. “E così ho passato il Santo Natale”. (tratto da “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia)
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