Giornale de’ Letterati: tra le più antiche riviste della stampa italiana

Il “Giornale de’ Letterati”, una delle prime riviste pubblicate in Italia, fu la capostipite di una serie di periodici che portavano lo stesso nome e che aiutarono a vivacizzare discussioni di argomento culturale e scientifico a cavallo tra il Seicento e il Settecento.

La vera destinazione di una rivista è rendere noto lo spirito della sua epoca“, questo è ciò che sosteneva Walter Benjamin (1892 – 1940, filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco) nell’annuncio della rivista: “Angelus Novus“. In effetti, le riviste non servivano solo a comunicare notizie ai lettori contemporanei, ma erano anche luogo di discussioni e dibattiti su temi di vario genere: culturali, artistico-letterari, politici, sociali e persino scientifici e religiosi. Le pagine stampate consentivano una partecipazione più concreta, soprattutto perché prendevano in esame i vari fenomeni dall’interno.

Tra le prime riviste italiane che si occupò di diffondere argomenti culturali, ci fu il “Giornale de’ Letterati”, nome che non fu utilizzato da un’unica rivista: in realtà ce ne furono diverse che impiegarono lo stesso titolo e furono fondate in varie città italiane fra il XVII e il XVIII secolo. Comunque, la prima a fregiarsi di questo nome fu stampata a Roma e il suo fondatore fu l’abate Francesco Nazzari (1638 – 1714).

Il primo numero del “Giornale de’ Letterati” vide la luce il 28 gennaio 1668. Questo trimestrale è ritenuto una delle più antiche riviste della stampa italiana. Esso conteneva notizie ed estratti, sull’esempio del “Journal des Savants”, di opere prevalentemente scientifiche che si pubblicavano in Italia e all’estero e divenne un modello per varie e successive riviste letterarie.

Inizialmente, la rivista di Nazzari fu pubblicata con i caratteri tipografici dello stampatore Nicolò Angelo Tinassi. Per procurarsi materiale da stampare, il suo fondatore, incoraggiato dal futuro cardinale Michelangelo Ricci (1619 – 1682), diede vita a una società di letterati e di intellettuali, incaricati di fornire i riassunti delle opere in lingua straniera pubblicate in Europa. Dal canto suo, Nazzari curava le novità che giungevano dalla Francia.

Nel 1675, la rivista cambiò stampatore. I nuovi caratteri impiegati furono quelli di Giacomo Mascardi (1637-1722, nipote omonimo del fondatore della stamperia) e Benedetto Carrara ne divenne il finanziatore.

Tinassi, il precedente stampatore di Nazzari, proseguì con la pubblicazione di una rivista parallela che impiegò lo stesso nome, diretta da Giovanni Giustino Ciampini (1633 – 1698, storico, matematico, giornalista, archeologo e scienziato). Da quel momento, uscirono due periodici differenti, stampati nella stessa città e con lo stesso titolo: il trimestrale di Nazzari, che continuò ad essere stampato fino al 1679 e il mensile omonimo che proseguì la sua attività fino al 1683 (dal 1681, cambiò la direzione che da Giovanni Ciampini passò all’abate Filippo Maria Vettori).

Negli anni successivi, il titolo “Giornale de’ Letterati” fu usato per altre riviste stampate in altre città e in periodi diversi:

  • a Parma, dal 1686 al 1690;
  • a Ferrara, nel 1688;
  • a Modena, dal 1692 al 1698 (direttore, come quello di Parma, fu Benedetto Bacchini e finanziata anch’essa da Gaudenzio Roberti);
  • a Roma, stampata dai fratelli Pagliarini dal 1742 al 1759. Ebbe fra i principali ispiratori Giovanni Gaetano Bottari;
  • a Firenze, fondata da Ottaviano Buonaccorsi, pubblicata dall’aprile 1742 a tutto il 1753;
  • a Pisa, nel 1771, fondata da Angelo Fabroni e chiusa nel 1796 per l’invasione napoleonica. Lo stampatore fu il Pizzorno (l’ultimo volume fu stampato dal Landi).

Il cavaliere e la letteratura cavalleresca

Il termine “letteratura cavalleresca” comprende un insieme di poemi che narrano le gesta dei cavalieri medievali. Influenzato dai toni dell’epica, questo genere accoglie anche toni satirici, ospita interventi in prima persona dell’autore e descrive vari tipi di azione.

Le origini della poesia cavalleresca risiedono con grande probabilità nel rinnovamento dell’ordine sociale avvenuto in Francia nel periodo successivo alla rinascita carolingia, che gli storici fanno coincidere con la fioritura e il risveglio culturale nell’Europa occidentale negli anni in cui era al potere Carlo Magno (768-814).
In questa fase storica, assistiamo al sorgere di una nobiltà feudale dalle rovine di un impero e si viene a creare un rapporto diretto tra monarca e feudatario; inoltre, il cristianesimo si introduce nel contesto politico, mentre fiorisce l’amore cortese e ritualistico.

Il genere cavalleresco dominò tra i secoli XII-XIII e fu definito anche aulico o curiale o cortese.
La sua diffusione si spinse oltre le Alpi e i Pirenei, e in Germania.

In origine, questa poesia aveva come scopo principale quello di intrattenere e per questo può essere accomunata alla lirica nata presso le corti provenzali.
I primi esempi di poesia cavalleresca derivano dalla tradizione classica latina (“Roman de Thèbes” romanzo francese medievale, in versi, ispirato alla “Tebaide” di Stazio) o da quella greco-bizantina (“Cligès”, romanzo cortese del 1176 ca., dell’autore medievale francese Chrétien de Troyes).

In Francia, il genere cavalleresco prese il via da due grandi filoni tematici: guerresco (ciclo carolingio) costituito dalle canzoni di gesta dei paladini di Carlo Magno, principale opera la “Chanson de Roland” (poema scritto nella seconda metà dell’XI secolo) e amoroso (ciclo bretone) più romanzesco e avventuroso, che celebra le imprese di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda.

Le canzoni di gesta francesi e i cantares de gestas spagnoli (XII secolo) rivisitano in chiave leggendaria eventi storici, ad esempio, le guerre di religione contro gli Arabi che avevano occupato la Spagna, allo scopo di celebrare la civiltà cristiana contro quella islamica.
L’epica germanica, invece, fuse gli ideali eroici di un popolo di guerrieri con elementi magici e favolistici, e miti religiosi nordici (Odino, Thor, le Valchirie).

Protagonista indiscusso della letteratura cavalleresca è il cavaliere: uomo forte e valoroso che rischia la morte pur di fare del bene.
Questo personaggio è collocato in un tempo astorico e in uno spazio mitico, e possiede una psicologia elementare: privo di incertezze, è mosso da passioni primordiali.
Destinato quasi sempre alla morte, è avvolto in un sacro alone di gloria e gli è riconosciuta una dimensione quasi sovrumana.
Il cavaliere modello di questi tempi è Rolando, nipote e paladino di Carlo Magno.

Questa figura senza macchia e senza paura avrà un suo periodo d’oro, ma già con il trascorrere dei secoli tale purezza originaria sarà contaminata e il cavaliere, da paladino dei deboli e degli indifesi, finirà per interessarsi più ai beni materiali che ai nobili valori originari. Nelle storie tale tendenza sfocerà nei poemi eroicomici, dove il cavaliere è beffato e ridicolizzato (“La secchia rapita” di Alessandro Tassoni, pubblicato nel 1622; il “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes Saavedra, pubblicato in due volumi nel 1605 e nel 1615).

Più vicino ai nostri tempi, troviamo ancora trattati argomenti a sfondo cavalleresco, ad esempio, nel romanzo fantastico “Il cavaliere inesistente” di Italo Calvino (1923-1985), scritto nel 1959. Se invece pensiamo a un genere comunque ispirato a certe tematiche, possiamo ritrovare personaggi analoghi e simili atmosfere nel fantasy.

Romanzo storico: genere romantico per eccellenza

Il romanzo storico, genere narrativo che si è diffuso in particolare nel secolo XIX, ha reso la storia un elemento di rilievo della narrazione.

Per romanzo storico si intende un’opera narrativa che si svolge nel passato. Per cui non solo la trama, ma anche gli usi e i costumi, i dialoghi e l’atmosfera generale ricalcano quelli dell’epoca scelta, così da consentire al lettore di calarsi in quel periodo.

È un genere tipicamente romantico e si è diffuso in particolare durante l’Ottocento, grazie a una serie di fattori, come ad esempio: l’affermazione del pensiero e del metodo scientifico che incentivò il rinnovamento degli studi storici; il consolidarsi nell’ambito filosofico dell’idea che le esistenze individuali siano condizionate dalla storia; i crescenti sentimenti nazionalisti che spingevano per un recupero sia delle grandezze passate dei popoli sia di figure esemplari da cui trarre ispirazione.

Un romanzo si può definire storico, quando l’autore del testo non era ancora in vita quando i fatti raccontati sono avvenuti o il libro è stato scritto almeno cinquanta anni dopo quello che è raccontato tra le sue pagine.
Si tratta di un genere in grado di abbracciare vari stili: ucronico (“ucronìa” deriva dal greco e significa “nessun tempo“. Il primo a utilizzare questo termine fu il filosofo francese Charles Renouvier (1815 – 1903) in un saggio, “Uchronie”, del 1857; identifica un genere di narrativa fantastica fondata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale); fanta-storico (il fantasy storico è un sottogenere del fantasy che, per alcuni aspetti, può essere avvicinato al romanzo storico); pseudo-storico (pseudostoria, ambito delle teorie o metodologie che pretendono di essere storiche ma che non rispettano regole e convenzioni del metodo storico. Le teorie pseudostoriche solitamente utilizzano come punto di partenza prove inedite, e/o controverse e/o non accettate dalla comunità scientifica/accademica); multitemporale (particolare versione del romanzo storico in cui si raccontano in parallelo o in successione accadimenti ambientati in epoche storiche diverse, ma collegate tra loro da un elemento: un oggetto, un legame di sangue o qualcosa di metafisico).

Chi si dedica alla scrittura del romanzo storico, un genere che si può definire ibrido, può fare riferimento alle vicende di personaggi realmente esistiti oppure può narrare eventi accaduti a personaggi di pura invenzione.

Le ambientazioni storiche non sono una prerogativa ottocentesca, infatti, già prima del XIX secolo, erano state adottate da William Shakespeare (1564 – 1616) in alcuni sui drammi e persino in Italia, nel Seicento, troviamo esempi simili.
Il XVIII secolo poi, ci ha regalato diversi grandi romanzi realistico sociali, purtroppo, gli autori di quel periodo avevano una certa difficoltà a rendere pienamente le ambientazioni passate. Oltretutto, nei generi che anticipano il romanticismo (in particolare il gotico e il picaresco) la storia non era un elemento essenziale della narrazione, piuttosto un elemento statico, uno scenario su cui proiettare l’azione e le gesta dei personaggi.
Nell’Ottocento, la situazione si ribalta: la storia diventa una vera e propria protagonista della narrazione e gli autori studiano e si documentano affinché i loro scritti risultino attendibili, il più possibile.

Tra i romanzi storici preromantici uno si distingue per aver posto il suo eroe in un quadro storico ben definito, sicuramente frutto di accurati studi su fonti e documenti storici. Si tratta di “Memorie di un cavaliere” (1720) di Daniel Defoe (1660 – 1731). Questo romanzo è una sorta di pietra miliare, in quanto ha dato il via in Inghilterra a un genere letterario nuovo e un secolo dopo, influenzò il lavoro di Walter Scott (1771 – 1832).

Giacomo Leopardi e le sue pillole di infinito

Per la matematica e la fisica, l’infinito è un concetto che fa riferimento a una quantità senza limite o fine. Ben diversa è la sua definizione se ci spostiamo nel campo della letteratura e della poesia.
Leopardi, ad esempio, ne ha dato una sua enunciazione che tuttora ci stupisce, ci emoziona e ci commuove, aprendoci scorci su una straordinaria interiorità.

La poesia “L’infinito”, fu composta nel 1819, e rappresenta un esempio della nuova poesia leopardiana che è concentrata sull’espressione delle emozioni interiori del poeta. Questa lirica è anche una delle testimonianze più elevate del contrasto tra reale e ideale, tipico dell’uomo romantico.

Nei ben noti versi leopardiani, una siepe impedisce al poeta di vedere il paesaggio che altrimenti si aprirebbe davanti ai suoi occhi. Proprio questo ostacolo serve a stimolare la sua immaginazione, consentendogli di spaziare nell’immensità e di conseguire una visione interiore dell’infinito spaziale, nel quale il suo animo si smarrisce, provando un senso di sgomento.

Nei versi successivi, l’improvvisa comparsa del vento tra le fronde degli alberi riconduce Leopardi alla realtà e lo spinge a confrontare l’infinito silenzio di un istante prima – che ha solo immaginato al di là della siepe – alla voce del vento. Questo paragone lo conduce all’idea dell’eternità, del tempo passato e dello scorrere inesorabile del tempo.

Alla conclusione della lirica, dopo aver sperimentato l’infinito spaziale e quello temporale, Leopardi si abbandona dolcemente in questa nuova dimensione evocata dalla poesia, cercando una forma di annullamento della propria identità.

L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Emily Dickinson: tra semplicità ed elaborate metafore

Emily Dickinson tra semplicità ed elaborate metafore

L’opera poetica di Emily Dickinson intensa e intima colpisce per la semplicità, per la singolare lettura degli elementi naturali attraverso i quali la poetessa riflette sul senso profondo della vita.

Emily Dickinson nacque nel 1830 ad Amherst (Massachusetts – USA).
La sua famiglia non era benestante, ma i suoi familiari erano persone in vista nella comunità locale: ebbero un ruolo fondamentale nella vita culturale, sociale e politica statunitense.
Sfogliando lettere e documenti comprendiamo che entrambi i genitori della poetessa erano molto severi, calati nel forte senso religioso e nelle rigide tradizioni puritane propugnate dai primi coloni inglesi che vissero proprio nella zona in cui la poetessa nacque e poi crebbe.

A quanto pare, Emily non soffrì particolarmente del clima rigido in cui visse e già in giovane età è evidente che è brillante e molto intelligente.
I suoi studi iniziali si svolgono all’Accademia di Amherst, poi in una delle scuole più importanti del New England: la Mount Holyoke Female Seminary. Ben presto, però, la Dickinson decise di proseguire gli studi da autodidatta: non sopportava il fatto di dover professare pubblicamente la religione cristiana. Infatti, già in questo periodo, la giovane poetessa aveva una visione piuttosto scettica della religione.
Questo però non escludeva un forte interesse per la sfera spirituale e proprio dal contrasto tra dubbio e ricerca della “verità” nasce e si evolve la particolare intensità della sua attività poetica.

Quando la Dickinson inizia a scrivere siamo intorno al 1850 e in quel periodo, nel New England, si stava profilando un’intensa attività letteraria.
La poesia era un genere molto popolare, anche se in quegli anni, per le donne era difficile intraprendere qualsiasi tipo di professione.

Per quanto riguarda la sua vita, la poetessa statunitense, a un certo punto, iniziò a evitare i contatti sociali e si rinchiuse nella sua camera, arrivando al punto di non uscirne neppure in occasione della morte degli amatissimi genitori.
La Dickinson mantenne contatti con l’esterno, ma solo attraverso una fitta corrispondenza con amici selezionati. Era particolarmente interessata agli eventi storici e alle tendenze culturali più importanti del suo tempo.

Scrisse moltissimo, ma sono davvero poche le poesie uscite dalla sua penna pubblicate quando lei era ancora in vita.
Curiosamente, la poetessa scriveva le sue poesie su dei foglietti che ripiegava con cura e cuciva tra loro con ago e filo e infine, li riponeva in un cassetto della sua stanza. Dopo la sua morte, il 15 maggio 1886, i suoi scritti furono rinvenuti da sua sorella Vinnie.
Nonostante la sua vita priva di eventi, nelle sue poesie la Dickinson mostra un’intensa e toccante immaginazione.

Il periodo più produttivo per la poetessa è quello degli anni della guerra civile americana (1861-1865). Probabilmente, perché molti dei suoi amici e corrispondenti più cari erano lontani.
Le sue poesie non furono comprese e apprezzate dagli editori della sua epoca e solo nel XX secolo, i critici rivalutarono la sua opera e la poetessa fu stimata, insieme con Walt Whitman, come una delle fondatrici della poesia americana.

Le poesie della Dickinson hanno come temi centrali: l’immobilità, la solitudine e il silenzio, e gli spazi a cui fa riferimento nelle sue poesie sono sempre interiori, quelli dell’animo umano, indagati con grande profondità, per rilevare la distanza che esite tra mondo interiore e mondo esterno.

La prima raccolta “Poems by Emily Dickinson” (Poesie di Emily Dickinson), composta da centoquattordici poesie, fu stampata dopo la sua morte, nel 1890. Poi, nel 1891 fu pubblicato “Poems: Second Series”, e nel 1895 “Poems: Third Series”.

Lo stile poetico della Dickinson, originale e lontano dal gusto e dagli eventi del suo tempo, è stato chiaramente influenzato dalle sue variegate letture: William Shakespeare, John Milton, i poeti metafisici, Emily Brontë e altri scrittori suoi contemporanei, il trascendentalismo di Emerson e persino la tradizione puritana del New England.

Le sue poesie sono brevi, composte da quartine con schema metrico: abab oppure abcb.
La Dickinson impiega spesso rime imperfette, utilizzando assonanze e allitterazioni. La sua tecnica poetica così particolare è stata assimilata a quella di un altro grande poeta visionario, William Blake.

Il linguaggio usato dalla poetessa statunitense è apparentemente semplice, mentre la sintassi è insolita. La Dickinson utilizza la punteggiatura in modo del tutto personale. Ad esempio, impiega i trattini al posto dei punti e delle virgole. Fa notevole uso di lettere maiuscole per conferire importanza a specifiche parole. Inoltre, utilizza paradossi e metafore insolite. L’insieme di tutte queste singolarità rende il senso delle poesie della Dickinson ambiguo e di non facile interpretazione.

Uno dei temi ricorrenti nelle poesie della Dickinson sono diversi: la natura, rappresentata in tutte le sue manifestazioni; la morte; la vita dopo la morte; l’eternità e Dio; l’amicizia; l’amore.

Pur trattando temi semplici e quotidiani, la sua poesia è investita da un’intensità e da una potenza suggestiva, che traggono vigore dalla sua profonda sensibilità e lasciano nel lettore un segno indelebile.

In copertina: Emily Dickinson fra il 1846 e il 1847

Crepuscolarismo: tra malinconia e poesie delle “piccole cose”

Crepuscolarismo tra malinconia e poesie delle piccole cose

Il crepuscolarismo è una corrente che nasce e si diffonde all’inizio del Novecento, e rappresenta un’ideale parabola della poesia italiana, che si spegne in un “mite e lunghissimo crepuscolo”.

La corrente letteraria del crepuscolarismo apparve e fiorì in Italia all’inizio del Novecento, grazie ad alcuni poeti tra i quali: Guido Gozzano (1883-1916), Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907), Antonia Pozzi (1912-1938) e Corrado Govoni (1884-1965).
Più che un movimento, si manifestò come una similitudine di stile e di intenti. In particolare, i poeti crepuscolari furono accomunati dal totale rifiuto di qualsiasi forma di poesia eroica o sublime.

Il termine “crepuscolarismo” deriva dal titolo di una recensione apparsa su “La Stampa”, il 1° settembre 1910, firmata da Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). Il critico utilizzò tale definizione per descrivere le poesie di Marino Moretti, Fausto Maria Martini (1886-1931) e Carlo Chiaves (1882-1919). Il termine passò poi a indicare una categoria letteraria.

L’adozione di questo particolare termine voleva sottolineare una situazione di spegnimento. Infatti, in queste poesie prevalgono i toni tenui e smorzati, e l’emozione preponderante è la malinconia, quella “di non aver nulla da dire e da fare“.

I crepuscolari restano fondamentalmente legati alla tradizione classica, pur essendo coscienti del suo decadimento. Rifiutano l’immagine dell’intellettuale protagonista della storia e svalutano la funzione del poeta. Riprendono Pascoli e le sue poesie “delle piccole cose” e il D’annunzio del “Poema paradisiaco”. Inoltre, nei loro versi si avverte l’influsso di Paul Verlaine (1844-1896) e di altri poeti decadenti francesi e fiamminghi.

I versi dei poeti crepuscolari, liberi da qualsiasi ornamento e privi del peso della tradizione, esprimono un costante bisogno di compianto e confessione.
Nelle liriche di questi autori si avverte la nostalgia per i valori tradizionali perduti e una perenne insoddisfazione che ha come unico obiettivo quello di scovare angoli conosciuti e tranquilli in cui trovare rifugio.

I temi tipici del crepuscolarismo sono facilmente rintracciabili in una dichiarazione epistolare del 1904 di Corrado Govoni, uno dei primi poeti di crepuscolari, indirizzata all’amico Gian Pietro Lucini (1867-1914).
Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie”.

Per quanto riguarda la scelta linguistica, i crepuscolari mostrano una piena coerenza con le tematiche trattate. Le loro poesie sono più vicine alla prosa che alla poesia e i versi, pur essendo animati da un ritmo poetico, spezzano il legame con la metrica tradizionale. Tale inclinazione, priva oltretutto di qualsiasi forma aulica e classicistica, apre la strada al verso libero.

I primi testi del crepuscolarismo compaiono tra il 1899 e il 1904, dall’attività di un gruppo romano, operante attorno a Tito Marrone (1882-1967), Corrado Govoni e Sergio Corazzini, e contemporaneamente, di un gruppo torinese che ha come esponente principale Guido Gozzano.
Accanto a questi due gruppi principali ci sono anche alcuni autori, come Fausto Maria Martini, Marino Moretti e solo per un certo periodo, Aldo Palazzeschi (1885-1974).

L’estate in poesia: “Meriggiare pallido e assorto” di Montale

L’estate in poesia Meriggiare pallido e assorto di Montale

Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale fa parte dei miei ricordi scolastici.
La musica delle sue parole mi aveva incantato e continua a incantarmi, ogni volta che alla mente mi sovvengono i suoi versi e mi ritrovo in solitudine a solfeggiarli.

Una poesia che immediatamente mi rimanda all’estate e ai lunghi e assolati pomeriggi della bella stagione è “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale.
Poeta, scrittore, traduttore, giornalista e critico musicale, nato a Genova il 12 ottobre 1896 e morto a Milano, il 12 settembre del 1981, Montale è ritenuto uno tra i massimi poeti italiani del Novecento.

Visse in anni turbolenti, scossi da eventi storici tragici (vide succedersi ben due guerre mondiali), e già nella sua prima raccolta di poesie, “Ossi di seppia”, del 1925, diede voce alle inquietudini del suo tempo e al male di vivere.

Con le raccolte successive, “Occasioni” del 1939 e “La bufera e altro” del 1956, la sua poetica si approfondisce. Invece, nelle ultime raccolte, tra cui “Satura” del 1971 e “Quaderno di quattro anni” del 1977, tutte scritte dopo la morte della moglie, il poeta affronta nuove tematiche e sperimenta nuovi stili.

Meriggiare pallido e assorto fu scritta probabilmente nel 1916 ed è una tra le poesie più significative del primo Montale. I versi del poeta ci trasportano nella sua Liguria e ci ritroviamo immersi in un caldo pomeriggio estivo, assorti pigramente a osservare e ascoltare quanto accade tra un rovente muro d’orto e uno scorcio di mare lontano.

La scena è piena di vita e ha un suo ritmo speciale: quello dettato dai suoni aspri che fanno da pendant all’aridità del paesaggio.
In questa sorta di singolare partitura, i merli “schioccano”, mentre le serpi “frusciano”, forse alla ricerca di un raggio di sole. A impegnarci visivamente poi, ci sono le formiche che si muovono indaffarate nelle fessure della terra e sulle piante, e noi ci ritroviamo a fissare incuriositi le loro fila che si compongono e si sfaldano alla sommità di piccoli cumuli di terra.
Poi, mentre alle orecchie ci giunge il verso aspro delle cicale, ci rendiamo conto che il paesaggio in cui il poeta ci ha condotto è solo una metafora della vita umana, la cui insensatezza e l’impossibilità di sondarne il significato è rappresentato alla perfezione dall’alta muraglia che sulla cima è cosparsa di cocci aguzzi di bottiglia.

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora si intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Grand Tour in Italia: fenomeno di costume per i letterati dell’800

Il Grand Tour in Italia tra bellezze artistiche e meraviglie naturali era un’usanza ottocentesca che ha spinto molti letterati aristocratici a viaggiare per attuare un percorso di formazione.

Da sempre meta di viaggiatori in cerca di storia e di bellezze artistiche, l’Italia ha attirato, in particolare, numerosi letterati stranieri nell’800, quando venire nel nostro Paese significava compiere un viaggio formativo, denominato Grand Tour.

Questo singolare viaggio era appannaggio dei rampolli dell’alta società, di solito inglesi. Gli stranieri consideravano il Grand Tour come parte dell’educazione culturale. E quale migliore formazione si poteva sperare, se non visitando la patria dell’arte.

Durante il viaggio, gli scrittori traducevano nei loro diari o epistolari le impressioni suscitate dal viaggio e successivamente, le trasponevano nei romanzi, dove finivano per costituire un implicito invito ai lettori a recarsi in Italia, il meraviglioso belpaese.

Tra gli scrittori che intrapresero felicemente il Grand Tour possiamo citare: Goethe (1749-1832), Dickens (1812-1870), Forster (1879-1970), George Eliot (1819-1880), Louisa May Alcott (1832-1888) e molti altri che come loro hanno riportato nei loro scritti momenti particolari di vita e impressioni varie, muovendosi dal nord al sud del Paese.

Intraprendere un simile viaggio nell’Ottocento non era impresa facile.
Ci si spostava su scomode carrozze che si destreggiavano su strade sconnesse e persino rischiose. Si affrontavano arrampicate su valli alpine “perduti in contemplazione delle nere rocce, delle cime e dei burroni paurosi, degli spazi di neve fresca, formatisi nei crepacci e nelle vallette, e dei torrenti tumultuosi che rombavano giù, a precipizio, nell’abisso profondo“, ci informa Dickens con dovizia di particolari.

Non ci si deve dunque meravigliare se per portare a buon fine questi Grand Tour a volte ci si impiegava degli anni. Per fortuna, rispetto agli odierni viaggi, c’era il vantaggio, per gli avventurosi turisti della cultura, che il costo della vita in Italia era sicuramente meno dispendioso di quello di altri Paesi.

I visitatori, oltre a prendersi tutto il tempo necessario, sceglievano le mete più ambite: Firenze, Venezia, Roma e Napoli, ma non erano disdegnati neppure i laghi e altre città minori.

Certe città lasciavano il segno su alcuni, mentre non avevano alcun effetto su altri.
Ad esempio, Dickens affermò che Milano, completamente occultata dalla nebbia – tanto da far sparire persino il Duomo – poteva essere tranquillamente scambiata per Bombay, mentre George Eliot rimane colpita dalla Galleria di Brera e dalla Biblioteca Ambrosiana.

A impressionare Oscar Wilde (1854-1900) è invece Firenze, con le sue bellezze artistiche e si rammaricherà molto di doversene andare. Però, a lasciarlo letteralmente di stucco fu Venezia, anche se le gondole nere che solcavano le acque della laguna gli richiamavano dei funesti carri funebri.

Non possiamo ovviamente tralasciare, Goethe, turista d’eccezione, che affrontò il suo Grand Tour in Italia tra il 1786 e il 1788.
Il poeta e scrittore attraversò tutto il Paese, da nord a sud, soppesando a ogni sosta monumenti, chiese e ville, e ammirando al contempo i paesaggi e le bellezze naturali delle piccole città. Inoltre resterà affascinato anche dagli abitanti e dalle particolari usanze, come la raccolta delle olive.
Attratto da Roma, resterà però particolarmente colpito dalla Sicilia, pur criticando la sporcizia e la polvere sulle strade.

I Grand Tour e i successivi resoconti dei viaggiatori fecero da cassa di risonanza e spinsero altri viaggiatori a coprire distanze anche considerevoli, per ammirare il Bel Paese, dando vita a quello che in epoche successive fu definito come turismo.

A intraprendere arditamente il Grand Tour non furono però solo gli uomini. Ci sono state diverse viaggiatrici che, sfidando le convezioni sociali, hanno affrontato gli incomodi del viaggio di formazione.
Una donna che viaggiava, soprattutto da sola e in un paese sconosciuto, non era ben vista, quanto meno non doveva essere una donna troppo rispettabile. Nonostante ciò, una schiera di donne coraggiose ha comunque raggiunto l’Italia e goduto delle bellezze artistiche del nostro Paese. Hanno anche annotato, come i loro colleghi uomini, impressioni, valutazioni e critiche e soprattutto, hanno dimostrato un maggior senso pratico e spirito di adattamento.

Tra le avventurose viaggiatrici citiamo: Madame de Staël (1766-1817), George Eliot che si dimostrerà molto critica e che resterà colpita più dalle bellezze naturali che da quelle artistiche.
Louisa May Alcott invece fece un secondo viaggio in Europa nel 1870, dopo il successo del suo libro “Piccole donne”. Insieme alla sorella e a un’amica giunse in Italia, passando per Milano. Nei suoi appunti di viaggio dirà che il Duomo era simile a un grande dolce di nozze, mentre a Roma, più che dalla città fu affascinata dalla campagna romana.

Il Grand Tour in Italia ha lasciato diversi segni.
Nelle città, visitate da questi turisti speciali, sono presenti varie targhe marmoree che testimoniano questa sorta di pellegrinaggio culturale. Ma soprattutto, la memoria di questi viaggi è viva nelle pagine dei libri, dove, in vario modo, ogni scrittore o scrittrice che ha attraversato l’Italia, ha tradotto la propria esperienza di viaggio, descrivendo luoghi e usanze, e più di un personaggio ha visto la sua prima scintilla di vita in un piccolo villaggio o in una grande città del nostro meraviglioso Paese.

In copertina: James Tissot, “London Visitors” (1874 ca.), olio su tela (dimensioni: 160 x 114 cm), conservato presso il Museo d’arte di Toledo

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #3

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #3

Le vicissitudini di Ulisse sembrano non finire mai e ogni tappa del suo lungo viaggio ci mostra con più chiarezza la sua figura e le sue notevoli capacità.

Dopo il terribile ciclope, Ulisse approda sull’isola di Eolo, uomo benvoluto dagli dèi, che comanda i venti. L’eroe e i suoi compagni godono per un mese della sua ospitalità e Odisseo riceve in dono l’otre dei venti, con una raccomandazione: nessuno dovrà aprirlo. Purtroppo, quando sono ormai vicini a Itaca, i compagni di Odisseo, invidiosi del dono, mentre Ulisse dorme, infrangono la promessa e aprono l’otre, scatenando i venti che li riconducono al largo.

La quinta tappa del viaggio vede i nostri eroi giungere presso i Lestrigoni, giganti mostruosi, quasi quanto i ciclopi. Ulisse per colpa loro perderà alcuni compagni, inoltre, i giganti riusciranno ad affondare ben undici navi della flotta; solo quella di Ulisse riuscirà a mettersi in salvo.

Nella tappa successiva, Ulisse finisce sull’isola di Circe, dea seducente che trasforma i compagni di Odisseo in porci. Solo grazie all’aiuto di Ermes, che dà all’eroe una misteriosa erba, come antidoto alla maledizione, Ulisse riuscirà a evitare di finire come i suoi compagni e poi, costringerà la dea a far tornare alle originarie fattezze i suoi uomini.

Ulisse rimane per un anno sull’isola di Circe e poi, dietro sua indicazione, intraprenderà una nuova prova: un viaggio nell’Ade, il regno dei morti. Qui, incontrerà diverse figure: i compagni uccisi durante la guerra di Troia, sua madre e l’indovino Tiresia che gli preannuncerà un ritorno luttuoso e contrastato.

Tornato nel mondo dei vivi, Ulisse verrà istruito da Circe sulla rotta da seguire e su come affrontare sia le Sirene sia Scilla e Cariddi. Inoltre, lo invita a evitare di toccare le vacche del Sole iperionide.

Alla settima tappa, Ulisse deve vedersela con le insidiose sirene. Come gli ha consigliato Circe, tappa le orecchie dei suoi compagni, mentre lui si fa legare all’albero maestro della nave, per poter udire il loro canto, senza però dover morire come tutti coloro che imprudentemente lo hanno ascoltano. Superato lo scoglio delle sirene, Ulisse procede verso lo stretto di Messina.

Ora, Odisseo deve affrontare Scilla e Cariddi. Purtroppo, l’infausto incontro porta ad altre perdite e sciagure: Scilla mangia diversi uomini, mentre Cariddi risucchia le acque.

Dopo aver affrontato i due mostri, i superstiti approdano sull’isola di Trinacria e Odisseo, pur tentando, non riesce a evitare che i suoi compagni banchettino con le invitanti mucche di Elio. Per questo, dovranno affrontare nove giorni in mare, in mezzo a terribili tempeste scatenate da Giove.

Ulisse riesce a salvarsi anche da questa prova e giunge sull’isola di Ogigia, qui incontra Calipso, una ninfa molto bella e immortale. La giovane si innamora perdutamente di lui e cerca di trattenerlo presso di sé. Dopo sette anni di permanenza presso la ninfa, Ulisse riesce finalmente a ripartire, ma a un passo da Itaca, Poseidone lo fermerà. Odisseo avrà però l’aiuto della dea marina Ino e approderà sull’isola dei Feaci.

Di nuovo naufrago, Ulisse incontra ancora una giovane donna, Nausicaa, figlia del re Alcìnoo, che gli fornirà dei vestiti e gli indicherà come raggiungere la reggia del re dei Feaci. In presenza del re, narrerà tutte le sue peripezie e otterrà una nave per tornare a casa. Il giorno successivo al naufragio, il nostro eroe riparte di nuovo, facendo vela verso Itaca.

Finalmente, Ulisse riesce a mettere piede sulla sua isola. Da qui in poi, sarà Atena a guidare i suoi passi verso una piena riconquista dei suoi poteri e della sua carica.

Inizialmente, l’eroe, sotto le mentite spoglie di un mendicante, si farà ospitare da Eumeo. Poi si rivelerà a questi e a suo figlio Telemaco, prima di recarsi alla reggia, sempre nelle vesti di mendicante.

Quando giunge a destinazione, è in preparazione una gara di arco, voluta da Penelope che ha promesso di diventare sposa di chiunque riesca a scoccare una freccia dall’arco del marito, facendola passare per le fessure di dodici scuri allineate.

I Proci, pretendenti al trono, tentano la sorte, ma nessuno di loro riesce anche solo a tendere l’arco. Il mendicante, schernito dai Proci, chiede a sua volta di fare un tentativo e riesce nell’impresa di tendere l’arco e scoccare la freccia.

A questo punto, aiutato da Eumeo, Filezio e il figlio compie la sua vendetta. I Proci sono disarmati e lui li uccide. Nonostante le affermazioni del figlio e di Euriclea, Penelope però non è convinta che suo marito sia davvero tornato, così mette alla prova lo sconosciuto: gli chiede di spostare il loro talamo nuziale. Si tratta di un tranello che Ulisse aggira facilmente. È stato lui a intagliare in un ulivo ancora in vita il letto nuziale e quindi, sa che non può essere spostato dalla stanza in cui si trova. Penelope finalmente riconosce il marito e lo stringe forte, piangendo.

Per un eroe che ha compiuto così tante imprese ipotizzare una sola morte sembra a dir poco riduttivo e infatti, diversi scrittori si sono cimentati in questo compito: letteratura e miti ci forniscono addirittura cinque versioni diverse del tragico evento.

C’è chi lo vuole morto in battaglia, chi in mare dopo terribili naufragi, chi compiendo una profezia per poter morire in pace, chi di semplice vecchiaia.

Il mito di Ulisse ha interessato in vario modo cinema e televisione. La prima trasposizione cinematografica delle sue esperienze avventurose risale al 1911, per opera di Giuseppe de Liguoro.

Nel 1955, l’eroe approda al grande schermo, interpretato da Kirk Douglas.
Nel 1968, l’Odissea diventa uno sceneggiato televisivo Rai, con la regia di Franco Rossi. Questa trasposizione televisiva del poema, a parte poche eccezioni, riassume in modo completo e fedele la storia raccontata da Omero.
Negli anni successivi furono realizzate altre trasposizioni di vario genere, tra cui varie parodie.

La fama di Ulisse, del suo nome e delle sue mitiche gesta sono giunte persino alle stelle: un cratere di 445 km di diametro su Teti è stato denominato Odisseo.

In copertina: Arnold Böcklin, “Ulisse e Calipso” (1882), olio su mogano, dimensioni 149,8 x 103,5 cm, conservato presso il Kunstmuseum Basel

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #2

Ulisse eroe moderno dalle radici mitologiche 2

Ulisse è un eroe dalla mente pronta e ingegnosa, grazie alla quale, dopo tante peripezie riesce a tornare in Patria, nella sua casa, ai suoi affetti familiari.

Per quanto riguarda le vicende legate al cavallo di Troia ci sono parecchie versioni discordanti che vede Ulisse come artefice del progetto, mentre in altre appare come un usurpatore della felice idea di qualcun altro. Diverse sono anche le ipotesi riguardo al cavallo stesso: in un caso, considerato una macchina bellica al servizio dei Greci per distruggere le mura della città; in un altro, ritenuto dai Troiani un dono di Atena.

Nell’Odissea, Ulisse è il protagonista incontrastato della storia, anche se molte figure, a dir poco singolari, compaiono nella vicenda. Il tema conduttore invece, è il tanto sospirato ritorno a casa dell’eroe che in tutto il suo lungo vagare ha un unico desiderio: tornare agli affetti familiari e alla sua Itaca, dopo ben dieci anni passati a Troia a causa della guerra.

A impedire il ritorno a casa di Ulisse è Poseidone, così, se per tornare a casa devi affrontare il mare, avere contro le ire di chi gestisce il regno delle acque non può portare a nulla di buono.
Infatti, il nostro Odisseo si troverà coinvolto in un’infinità di incidenti e incredibili peripezie e solo dopo altri dieci anni, e grazie all’aiuto della dea Atena, potrà di nuovo toccare il suolo natio.

Come le fatiche di Ercole, anche le tappe che tengono impegnato il nostro eroe sono dodici.
Questo numero è ritenuto il più sacro tra i numeri, insieme al tre e al sette. Esso indica la ricomposizione della totalità originaria, cioè la discesa in terra di un modello cosmico di pienezza e di armonia. Il suo significato indica la conclusione di un ciclo compiuto, inoltre, è il simbolo della prova iniziatica fondamentale, prova che consente di passare da un piano ordinario a un piano superiore, sacro. Esso ha un significato esoterico molto forte, in quanto collegato alle prove fisiche e mistiche che deve compire l’iniziato.

Nei “dodici episodi” in cui si struttura la sua avventura, Ulisse incappa in situazioni di ogni genere, accomunate però da due fattori. Ci sono tappe che possono essere raggruppate tra quelle in cui l’insidia è manifesta (mostruosità, aggressione, morte); altre in cui invece l’insidia è solo latente (un’ospitalità che cela un pericolo, un divieto che non si deve infrangere).

Inoltre, il nostro povero Ulisse – ci sarà un motivo per cui di fronte a ostacoli continui e insormontabili sosteniamo che “si è trattato di un’odissea” – non può coronare il suo sogno di raggiungere Itaca, perché Poseidone gli sferra contro venti furiosi; lo costringe a continui naufragi; lo spinge verso approdi perigliosi.

Vediamo in sintesi le dodici tappe affrontate dal nostro impavido eroe.
Appena partito da Troia, si ferma a Ismaro, terra dei Ciconi. Per fare bottino li attacca, ma risparmia Marone, sacerdote di Apollo, che in cambio gli dà del vino forte e dolcissimo, cruciale per la sortita nella grotta di Polifemo.

La seconda tappa vede Ulisse e i suoi uomini approdare nella terra dei Lotofagi (mangiatori di loto). Essi accolgono benevolmente i nuovi arrivati, ma si rivelano degli ospiti insidiosi: offrono infatti ai compagni di Ulisse il loto, un frutto che fa dimenticare il ritorno. Il nostro eroe, per ricondurli alla ragione, si trova costretto a legarli e a trascinarli di peso sulle navi.

La terza tappa ci conduce dritti dritti nella grotta del ciclope Polifemo.
Ulisse, giunto su un’isola abitata dalle ninfe, decide di spostarsi su un’isola vicina, così prende una nave e là si reca con alcuni compagni. Qui finiscono nella grotta di Polifemo che è fuori a pascolare il suo gregge.
Nella grotta ci sono graticci pieni di formaggi enormi e latte appena munto. I compagni di Odisseo suggeriscono di prendere i formaggi e fuggire, ma Ulisse vuole ricevere i doni dell’ospitalità.
Quando Polifemo torna alla grotta, l’eroe e i suoi compagni scoprono che il loro ospite è davvero orrendo: un gigante che possiede un unico occhio in mezzo alla fronte. Quando si accorge della loro presenza, sta preparando la cena, così prende due compagni di Ulisse e li divora. Poi va a dormire, mentre il nostro eroe studia come tirarsi fuori da questo rognoso impiccio.

All’inizio, pensa di ucciderlo con la spada, ma poi capisce che lui e i suoi compagni resterebbero imprigionati all’interno della grotta, e per loro morire sarebbe solo una questione di tempo, in quanto, pur compiendo sforzi sovrumani, non sarebbero in grado di spostare l’enorme macigno che chiude l’accesso alla grotta.
Allora, Ulisse nota un ramo d’ulivo, gigantesco; ordina ai compagni di tagliarne un pezzo, mentre lui lo appuntisce.
La sera successiva. l’eroe offre al ciclope il vino donatogli da Marone. Polifemo è contento del dono e chiede a Ulisse il suo nome; l’eroe gli dice di chiamarsi “Nessuno” (in greco la parola ha assonanza con il nome di Odisseo). Il ciclope si addormenta, ubriaco; Ulisse e i suoi compagni afferrano l’opportunità: prendono il ramo, rendono la sua punta incandescente e poi, accecano Polifemo.
Il gigante urla di dolore; in suo aiuto accorrono i suoi due fratelli, ma ritornano indietro quando il ciclope dice: “Nessuno, amici, mi uccide con l’inganno e non con la forza“.
Il giorno successivo, Polifemo fa uscire a pascolare le pecore. Per far sì che Ulisse e i suoi uomini non scappino, il gigante stende le mani e tocca il vello delle pecore, ma il nostro eroe e i suoi compagni si legano sotto dei montoni e riescono a uscire dalla grotta illesi.

(prosegue)

In copertina: Giovanni Domenico Tiepolo “Processione del cavallo di Troia” (1760 ca.) dimensioni 67×39 cm (National Gallery)