Opera al nero #2. I Capuleti e Montecchi di Bellini: tragedie familiari

Opera al nero 2. I Capuleti e Montecchi di Bellini tragedie familiari

La vicenda di Romeo e Giulietta è stata origine di un proliferare di opere. Dalla letteratura alle scene, dalla pagina scritta alla pagina musicale, gli sfortunati amanti sono diventati una tra le coppie più famose e celebrate.
Vincenzo Bellini, compositore catanese, come molti altri, non ha resistito al fascino di questa famosissima e tragica storia d’amore.

Anche il travagliato amore tra Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti si presta alla definizione di opera al nero: anche qui l’atmosfera da tragedia non disattende le attese.

I due infelici innamorati sono stati celebrati in ogni salsa. Dalla letteratura al teatro, la loro storia è rimbalzata fino al mondo del balletto (“Romeo e Giulietta”, Op. 64 di Sergej Sergeevič Prokof’ev,1891 – 1953) e, ovviamente, è transitata anche per l’opera.

In effetti, è impossibile che una vicenda che tratti di un amore epocale, condito da un retroscena (neanche troppo) sanguinoso, potesse sfuggire al mondo della lirica che ha sempre cercato trame in grado di destare i sentimenti e far lievitare le emozioni sino al loro massimo livello. Inoltre, nella storia di Romeo e Giulietta non mancano neppure inganni e sotterfugi, fughe e cripte sotterranee, veleni e colpi di spada che sono ugualmente benedette da impresari, librettisti e musicisti.

Diversi autori hanno pensato bene di rivestire di musica questa tragedia, ricordiamo il famoso dramma “Giulietta e Romeo” del compositore Nicola Antonio Zingarelli (1752 -1837; compositore italiano, esponente della Scuola musicale napoletana) su libretto di Giuseppe Maria Foppa (1760 – 1845; librettista italiano, autore di oltre 80 libretti realizzati tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento), tratto non dalla tragedia shakespeariana, bensì dalla novella cinquecentesca con il medesimo titolo scritta da Luigi da Porto (1485 – 1529; scrittore e storiografo italiano). L’opera, ritenuta il capolavoro di Zingarelli, fu composta in pochissimo tempo e fu eseguita per la prima volta durante la stagione di Carnevale del Teatro alla Scala di Milano, il 30 gennaio 1796.

Altro compositore che si cimentò sulla vicenda degli sfortunati amanti è Nicola Vaccaj (1790 – 1848; compositore e insegnante italiano). Il libretto in questo caso è di Felice Romani (1788 – 1865; librettista, poeta e critico musicale, fra i più celebri e prolifici del suo tempo: scrisse circa un centinaio di libretti, per i massimi operisti italiani della prima metà dell’Ottocento).
Per la stesura, l’autore si basò su una tragedia di Luigi Scevola (1770 – 1818; drammaturgo italiano), tratta dall’omonimo lavoro di Shakespeare, e soprattutto, su un’ampia tradizione letteraria italiana, tra cui la “Novella IX” (La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti che l’un di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti), contenuta nel novelliere di Matteo Bandello (1485 – 1561; vescovo cattolico e scrittore italiano del Cinquecento), nonché su un balletto ispirato ai due amanti veronesi, “Le tombe di Verona”, messo in scena a Milano nel 1820. Il testo così concepito è piuttosto lontano dalla tragedia di Shakespeare.
Il melodramma di Vaccaj andò in scena, per la prima volta, il 31 ottobre del 1825, al Teatro alla Canobbiana di Milano.

In ordine cronologico, altra opera che riprende la tragedia amorosa è “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini (Catania, 3 novembre 1801 – Puteaux, 23 settembre 1835). Il libretto su cui lavorò il compositore era un adattamento di quello di Romani, già utilizzato da Nicola Vaccaj.

Per la sua “Roméo et Juliette”, Charles Gounod (1818 – 1893), dopo un tentativo fallito sul libretto di Felice Romani, nel 1841, utilizzò il libretto in francese di Jules Barbier (1825 – 1901; poeta, scrittore e librettista francese) e Michel Carré (1821 – 1872; librettista francese), tratto da “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare (1564 – 1616).
La sua opera vide la luce nel 1865, dopo solo pochi mesi di lavoro, ma per vederla allestita al Théâtre Lyrique Impérial du Châtelet di Parigi, dove ottenne un successo immediato e duraturo, il musicista dovette attendere fino al 27 aprile 1867.

Tornando a Bellini, la sua opera, divisa in due atti, apparve in prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo 1830 e fu un successo. Il libretto era di Felice Romani.
Il musicista compose “I Capuleti e i Montecchi” a tempo di record. Impiegò poco più di un mese, dalla fine di gennaio ai primi di marzo. Per accelerare i tempi, trasse molta della musica per il nuovo melodramma da un’opera da lui musicata l’anno precedente, che era stata un irrimediabile insuccesso: la “Zaira”. Inoltre, recuperò una romanza anche dalla sua opera d’esordio “Adelson e Salvini”.

Il materiale musicale “riciclato” fu comunque sottoposto da Bellini a un lavoro molto accurato di rielaborazione, affinché fosse adeguato ai personaggi mutati, così come ai versi e agli interpreti.
Anche in quest’opera, il compositore affidò le parti della coppia di protagonisti a due voci femminili.
Quindi, non stupitevi se andando a vedere quest’opera troverete un Romeo mezzosoprano “en travesti” (o “travesti”, personaggio che in un’opera teatrale o lirica è interpretato da un attore o cantante di sesso opposto). Questo tipo di soluzione era appropriata per la rappresentazione di un amore fra adolescenti.

Con “I Capuleti e i Montecchi” Bellini getta le basi da cui si evolverà la ricerca formale delle sue opere successive. Questo melodramma è andato spesso in scena, soprattutto perché la scrittura vocale non è particolarmente difficile e la drammaturgia è semplice, espressiva e fondata su una trama di sicuro interesse.
Per la notorietà, però, ci fu un prezzo da pagare. Per tutto il corso dell’Ottocento, l’opera subì ogni tipo di stravolgimento, a cominciare dalla “variazione” introdotta da Maria Malibran (1808 – 1836) che sostituì, in modo arbitrale, il duetto finale, che non consentiva una consona esibizione vocale, con il convenzionale finale dell’opera di Vaccaj.
Non mancarono stravolgimenti anche nel Novecento, in particolare con la scelta di affidare la parte di Romeo alla voce di un tenore.

Per quanto riguarda la genesi di quest’opera, dobbiamo tornare al 1829.
Bellini era a Venezia e stava seguendo alla Fenice la messa in scena del “Pirata”. Il teatro veneziano aveva in programma come terza opera della stagione un nuovo lavoro di Giovanni Pacini (1796 – 1867) che, sovraccarico di lavoro, alzò bandiera bianca, così il teatro si rivolse a Vincenzo, perché facesse le sue veci.
Il musicista accettò anche se era piuttosto dubbioso, a causa del poco tempo concesso per portare a termine il lavoro. Per accelerare il procedimento decise di usare lo stesso libretto di Romani, già impiegato da Vaccaj, ma operando qualche rimaneggiamento.

Fortunatamente, il libretto era perfetto per la compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione. Tra i cantanti ingaggiati spiccava il mezzosoprano Giuditta Grisi (1805 – 1840) alla quale il compositore diede la parte di Romeo.
Affidare il ruolo del giovane innamorato a una donna, in abiti maschili, era una consuetudine di lunga data e all’epoca di Bellini non costituiva una stranezza.
Romeo, affidato alla Grisi, faceva coppia con il soprano Rosalbina Carradori Allan (1800 – 1865) nei panni di Giulietta. Il tenore Lorenzo Bonfigli era Tebaldo, mentre il basso, Gaetano Antoldi, Capellio.
L’opera mandò in visibilio il pubblico veneziano. Il 26 dicembre dello stesso anno (1830) fu allestita al Teatro alla Scala di Milano con notevoli rimaneggiamenti, soprattutto per la nuova interprete nel ruolo di Giulietta, Amalia Schütz Oldosi (1803 – 1852), che era un mezzosoprano.

Diamo uno sguardo alla trama.
L’atto primo ci catapulta nella Verona del Duecento. La città è lacerata dalla faida tra la famiglia dei Capuleti, guelfi, e quella dei Montecchi, ghibellini. Il principale rappresentante dei Capuleti, Capellio (basso), padre di Giulietta, riunisce i suoi e li sprona a combattere gli avversari. Inoltre, comunica loro che i Montecchi, sostenuti da Ezzelino (Ezzelino III da Romano, 1194 – 1259, signore di Vicenza, Verona e Padova; ghibellino, sostenne l’imperatore Federico II), sono capitanati da Romeo, l’assassino di suo figlio, che vuole inviare un ambasciatore per proporre la pace. Lorenzo (basso), medico e familiare dei Capuleti, osteggiato dagli altri, suggerisce di ascoltare le parole del messaggero.

A capo della fazione guelfa c’è Tebaldo (tenore) che giura di uccidere Romeo, per vendicare la morte del figlio di Capellio che in cambio gli offre sua figlia in sposa. Le nozze saranno celebrate la sera stessa.
Lorenzo, però, sa che Giulietta è segretamente legata a Romeo e cerca di evitare il matrimonio, sostenendo che Giulietta è malata. Tebald, dal canto suo, non vuole far soffrire la promessa sposa. Si dice pronto a rinunciare alle nozze, ma il padre di Giulietta sostiene che la giovane sarà grata a chi vendicherà la morte del fratello.

Nel frattempo, sopraggiunge l’ambasciatore dei Montecchi a proporre la pace. Si tratta di Romeo che è tornato a Verona sotto mentite spoglie. Per ricomporre la faida tra le due famiglie, il giovane suggerisce di celebrare un matrimonio: tra Romeo e Giulietta. Capellio rifiuta, mentre Giulietta è disperata nella sua stanza per la sua sorte. Lorenzo le svela che Romeo è di nuovo in città, in incognito, e riesce a far incontrare i due giovani innamorati. Romeo esorta l’amata a fuggire con lui. All’inizio Giulietta rifiuta la proposta, poi si convince e si allontana con lui.

Nel frattempo, nel palazzo di Capellio si stanno preparando i festeggiamenti per le nozze tra Giulietta e Tebaldo.
Romeo si confonde tra gli invitati e avvisa Lorenzo che mille ghibellini armati sono giunti in città per sorprendere gli avversari. Lorenzo lo esorta a lasciare Verona e a rinunciare ai suoi piani.
Intanto, si sente un tumulto: i Montecchi hanno attaccato alcuni Capuleti.
I convitati scappano, Romeo si unisce ai suoi. Mentre il frastuono scema, giunge Giulietta vestita da sposa, in ansia per il combattimento. Romeo tenta ancora di farsi seguire da lei. Intanto, arrivano Tebaldo e Capellio, seguiti dai guelfi armati che scoprono Romeo, il quale riesce a fuggire grazie all’intervento dei suoi.

Nell’atto secondo, troviamo Giulietta da sola nella sua stanza. La battaglia prosegue, la ragazza è in ansia, poi scopre che Romeo è salvo. Purtroppo, però, il giorno successivo lei sarà condotta al castello di Tebaldo per convolare con lui a nozze.
Lorenzo le suggerisce uno stratagemma: ingerire un filtro che la farà sembrare morta; la ragazza beve, dopo alcuni istanti di esitazione. Subito dopo, giunge Capellio che obbliga la figlia a ritirarsi e a predisporsi all’imminente matrimonio. Successivamente, chiede a Tebaldo di sorvegliare Lorenzo, del quale non si fida più.

Romeo, ancora a Verona, sta cercando Lorenzo per avere notizie di Giulietta. Nel mentre, incontra Tebaldo che lo sfida a duello. I due sfidanti sono sul punto di battersi, quando giunge ai loro orecchi una musica funebre: è il corteo che conduce Giulietta alla tomba.
I due rivali sono presi da grande sconforto. Romeo si reca con i suoi nel luogo ove è sepolta Giulietta. Fa aprire la tomba e si rivolge all’amata. Fa allontanare i suoi e, invocando il nome di Giulietta, si avvelena. La giovane si risveglia e vede Romeo ai piedi del sepolcro, pensa l’abbia raggiunta, avvisato da Lorenzo della sua morte simulata. I due sfortunati amanti hanno appena il tempo di abbracciarsi un’ultima volta.
Romeo muore e Giulietta cade sopra di lui. Intanto, sopraggiungono i seguaci di Romeo, inseguiti dai Capuleti. Tutti si trovano davanti al sepolcro dove i due innamorati si sono tolti la vita. Di fronte a questa scena tragica, Capellio si sente responsabile per l’odio che ha diviso le due famiglie e che ha condotto alla morte dei due giovani.

In quest’opera Bellini fa ritorno al lirismo canoro, alle melodie morbide, romantiche e suadenti che si accordano alla perfezione con la storia messa in musica.
Ne “I Capuleti e i Montecchi” confluiscono espressività del canto, particolare cura per l’intonazione del testo poetico, equilibrio della strumentazione.

Degno di nota è il finale, in stile declamato, dove si assiste a un’alternanza tra recitativo accompagnato e arioso. Qui il compositore ha concentrato la sua attenzione, in particolare sui trapassi psicologici dei personaggi in scena, giungendo a esiti struggenti.
L’opera di Bellini fu accolta in modo controverso, in particolare, il finale rappresentava una novità per l’epoca e disorientò buona parte del pubblico. Inoltre, esso non rispondeva alle esigenze esibizionistiche di una prima donna. Infatti, già dalla rappresentazione di Firenze nel 1831, fu sostituito con quello più convenzionale di Vaccaj.

I Capuleti e i Montecchi fu una tra le opere più rappresentate durante l’Ottocento, nei teatri italiani ed europei.
A quest’opera di Bellini sono legati i nomi di alcuni dei più famosi cantanti dell’epoca: Maria Malibran, Giuditta Pasta, Fanny Tacchinardi Persiani, Giovanni Battista Rubini, Domenico Donzelli.
Nel Novecento, l’opera fu rappresentata dapprima a Catania (1935), per il centenario della morte di Bellini, poi in altri teatri a iniziare dagli anni Cinquanta.
Attualmente, essa occupa un posto fisso nel repertorio dei teatri lirici.

In copertina: particolare del dipinto “Romeo e Giulietta” di Frank Bernard Dicksee (1884)

“La liseuse”, l’assorta lettrice di Pierre-Auguste Renoir

“La liseuse”, l’assorta lettrice di Pierre-Auguste Renoir

Renoir è uno dei tanti artisti che ha raffigurato soggetti immersi nella nobile arte della lettura.
Nei suoi quadri, a leggere sono sia uomini sia donne, ma anche molti bambini e adolescenti, tutti accomunati dalla stessa “devota” concentrazione.
Una di queste attente figure è “La liseuse”, dipinta tra il 1875 e il 1876, in pieno periodo impressionista.

Il pittore Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 25 febbraio 1841 – Cagnes-sur-Mer, 3 dicembre 1919) è ritenuto uno tra i massimi esponenti dell’Impressionismo e uno degli interpreti più spontanei di questo particolare movimento.

L’artista francese ha lasciato una messe davvero nutrita di opere: ben cinquemila tele e un numero altrettanto elevato tra disegni e acquerelli. Si è anche distinto per la sua poliedricità, attraversando nella sua carriera artistica diversi periodi.

In un suo scritto disse che “l’opera d’arte deve afferrarti, avvolgerti, trasportarti”. Secondo me, queste parole, calzano perfettamente anche per l’arte della lettura.
In uno dei tanti soggetti che Renoir ha raffigurato intento a leggere, possiamo ravvisare quel rapimento che l’artista ritiene si debba provare davanti a un’opera d’arte. Sto parlando del dipinto “La liseuse” (La lettrice) realizzato tra il 1875 e il 1876.

Nel dipinto, come afferma il titolo stesso, è raffigurata una donna immersa nella lettura di un libro.
A fare da modella a Renoir fu Marguerite Legrand, detta Margot, una giovane graziosa di Montmartre che morì di febbre tifoidea nel febbraio del 1879.
L’artista, che rimase molto colpito dalla sua morte, di lei disse che “aveva una pelle che rifletteva la luce”, e in questo ritratto, in effetti, il pittore è riuscito a mettere in risalto l’incarnato della sua amica, grazie alla nuova tecnica pittorica impressionista.

Realizzata in studio, l’opera è caratterizzata da una freschezza e da una spontaneità del tratto tipica dei dipinti eseguiti di getto, en plein air.

Nel quadro sono presenti pochissimi dettagli e un solo oggetto: un libro; perché Renoir intendeva concentrare l’attenzione dello spettatore sull’intensità della lettura.
Lo sfondo è accennato, in quanto deve solo trasmettere l’idea della profondità, senza definire un ambiente preciso, mentre i colori, chiari e luminosi, sembrano ravvicinare il viso della giovane all’osservatore.
Inoltre, per accrescere la luminosità cromatica della tela, Renoir accosta larghe e disordinate pennellate di colore, seguendo la tecnica impressionista.

L’artista ha anche fissato sulla tela dei punti di colore, quali: le labbra di un rosso brillante, lo jabot rosa che la ragazza indossa come ornamento sopra una blusa scura.
Gli occhi della lettrice sono rivolti verso il basso: due semplici ed essenziali linee nere.
L’espressione del viso è serena e trasmette a chi guarda la concentrazione della “Liseuse”, nonché il piacere della lettura che la ragazza, con il libro aperto davanti a sé, sta provando.

Renoir insiste sui colori, non traccia un contorno; utilizza il chiaroscuro per ravvivare il volto della ragazza, mentre le tonalità sono alterate da effetti di luce. Per l’incarnato, l’artista ha aggiunto dei violenti tocchi di giallo, sicuramente ispirati dall’ambientazione – probabilmente l’interno del Caffè Guerbois o del Café de la Nouvelle Athènes, luoghi tra i più frequentati dagli Impressionisti – cioè dalle tonalità dorate della luce artificiale a gas.

In questo dipinto, la luce gioca con il soggetto e i suoi riflessi creano dei richiami in vari punti della tela. Il pittore voleva dare la sensazione di un sole accecante che accende a tratti i capelli rossi della ragazza, illumina le pagine del libro aperto e poi si riflette dalla carta bianca sul viso della giovane.

Renoir ha applicato pennellate rapide, studiando con cura l’abbinamento di toni caldi e freddi, ad esempio: il rossore sfumato del volto di Margot si bilancia perfettamente con la zona blu-verde sul lato destro del dipinto.
Inoltre, le zone caratterizzate da colori freddi contrastano con i colori caldi riservati in particolare al volto e ai capelli del soggetto, e persino con i contorni della cornice della finestra che si profilano dietro la testa della ragazza.
Un tocco di luce compare leggero su una spalla e dona un accenno di volume alla figura.

In questo dipinto il disegno non detiene un ruolo speciale perché il soggetto è modellato dal colore.
I contorni sono labili e incerti. Successivamente, le opere di Renoir cambieranno registro riguardo all’importanza del disegno. Ma in questa fase, esso ha un ruolo subordinato, al contrario della tendenza della pittura accademica di quegli anni in cui occupava un posto preminente.

Gustave Caillebotte (1848 – 1894; pittore francese) acquistò “La liseuse” nel 1876; nel 1893, il dipinto entrò nelle collezioni statali francesi e successivamente, fu esposto al museo parigino du Luxembourg e al Louvre. Ora, si trova al museo d’Orsay.

In copertina: “La liseuse” (La lettrice) di Auguste Renoir, olio su tela, 47×38 cm (1876) conservato al Museée d’Orsay, Parigi

Opera al nero #1. Il trovatore di Verdi: vendetta tremenda vendetta

Opera al nero 1 Il trovatore di Verdi vendetta tremenda vendetta

Il trovatore di Verdi è un’opera dalle tinte fosche in cui sono disseminati eventi cruenti. Per questo fu criticata, ma a conti fatti, già alla prima assoluta a Roma, ottenne un grande successo.

Avete mai notato che numerosi libretti d’opera potrebbero far impallidire uno scrittore di noir?
Sono davvero molte le opere liriche, dove dietro i gorgheggi dei cantanti si nascondono azioni efferate, violenze di vario genere, omicidi, suicidi, rapimenti, duelli mortali, femminicidi, tentati stupri, ricatti, esecuzioni capitali, raptus di gelosia e morte.
Note in stile di cronaca nera non mancano di certo nelle storie più gettonate del teatro musicale. Basti pensare alla trama di alcune delle più famose, come: Capuleti e Montecchi, Rigoletto, Turandot, Madama Butterfly, Cavalleria rusticana, Pagliacci, Tosca, Carmen, e così via.
Tra i così via, rientra anche “Il trovatore”, opera musicata da Giuseppe Verdi (1813 – 1901; compositore e senatore italiano, considerato uno dei più grandi operisti di tutti i tempi), che fu criticata per la prevalente atmosfera cupa e per il numero dei morti, ma il compositore, in una lettera indirizzata a Clarina Maffei (Elena Chiara Maria Antonia Carrara Spinelli, 1814 – 1886; patriota e mecenate italiana), a sua discolpa osservò: “infine nella vita non è tutto morte?

Verdi si getta nell’impresa di questa nuova opera con grande entusiasmo, reduce dal successo strabiliante ottenuto da “Rigoletto”. Ed è proprio lui a proporre, in una lettera del 18 marzo 1851, indirizzata all’impresario di Bologna, Alessandro Lanari (1787 – 1852; fu uno dei più influenti impresari italiani dagli anni ’30 ai primi anni ’50 dell’Ottocento), la stesura di una nuova opera.
Il libretto, secondo i desideri del compositore, dovrà ispirarsi a “El Trovador” di Antonio García Gutiérrez (1813 – 1884), drammaturgo romantico spagnolo che seguiva le orme di Victor Hugo (1802 – 1885; scrittore, poeta, drammaturgo e politico, ritenuto il padre del Romanticismo in Francia).

L’opera di Gutiérrez non è di certo un capolavoro drammaturgico, piuttosto un melodramma tronfio e squinternato, dove si susseguono singolari incidenti e le unità aristoteliche sono spesso bellamente accantonate.

La vicenda spazia tra amore e vendetta e l’accento principale è posto sui due personaggi femminili: Leonora, gentildonna profondamente religiosa e con rigidi ideali, che per amore sprofonderà in un abisso morale e infine si suiciderà, e Azucena, una vecchia zingara, desiderosa di vendicare sua madre, che finirà per distruggere l’unico essere al mondo che ama.

Del dramma di Gutiérrez non è stata rinvenuta alcuna traduzione in italiano e ancora ci si chiede come abbia fatto Giuseppe Verdi a venirne a conoscenza.
In effetti, cantanti o compositori amici del musicista spesso gli inviavano nuovi drammi e probabilmente, anche questo testo potrebbe essere arrivato fra le sue mani in questo modo. A tradurlo, comunque, sembra abbia provveduto Giuseppina Strepponi (1815 – 1897; soprano italiano, seconda moglie di Giuseppe Verdi).

Il libretto dell’opera fu affidato a Salvadore Cammarano (1801 – 1852; librettista e drammaturgo per musica) che Verdi, attratto singolarmente dal valore della “parola scenica”, apprezzava molto, perché non temeva gli argomenti inconsueti ed era in grado di descrivere l’atmosfera di una scena mediante un nucleo verbale attentamente studiato.

Il testo che Verdi si apprestò a rivestire di musica fu strutturato in quattro parti e otto quadri.
Quando il libretto era pressoché completo, Verdi intravide delle modifiche da apportare in alcune parti del testo, ma Cammarano morì improvvisamente. Il musicista venne a sapere della sua morte da un giornale teatrale.
Addolorato per la perdita e al contempo preoccupato per le sorti della sua opera, si rivolse al suo amico Cesare De Sanctis (1824 – 1916; compositore, direttore d’orchestra e trattatista italiano) che gli suggerì quale sostituto di Cammarano, il poeta Leone Emanuele Bardare (1820 – dopo il 1874) che fu davvero onorato di poter lavorare con il grande compositore.

Finalmente, nel 1853, il 19 gennaio, Il trovatore, giunto a compimento, fu rappresentato in prima assoluta, al Teatro Apollo di Roma. Fu un grande successo: dal teatro romano, l’opera iniziò una vera marcia trionfale. Con Il trovatore, Verdi riuscì a toccare il cuore del suo pubblico e all’epoca, fu tra le sue opere quella sicuramente più amata.

Addentrandoci nelle pagine del libretto, scopriamo che la storia de Il trovatore assomiglia alla trama di una telenovela dalle tinte fosche. L’intreccio è complesso e dai risvolti cruenti.
La vicenda ruota attorno a Leonora, dama di compagnia della principessa d’Aragona, al conflitto tra i suoi due pretendenti (Manrico, il trovatore e il conte di Luna) e a una vendetta che affonda le sue radici nel passato.

La storia è ambientata in Biscaglia (provincia della comunità autonoma dei Paesi Baschi, nella Spagna settentrionale) e in Aragona (comunità autonoma e nazione storica del nord-est della Spagna), all’inizio del Quattrocento.

Nella parte prima, veniamo catapultati nel castello dell’Aljafería di Saragozza e veniamo a sapere che il conte di Luna è innamorato di Leonora che però, non lo ricambia. Mentre lui soffre per amore, Ferrando, il capitano delle sue guardie, racconta la tragica storia del fratello minore del conte. Ancora in fasce, fu rapito da una zingara che voleva vendicare sua madre, giustiziata dal precedente conte, perché si riteneva fosse una strega. La donna aveva gettato il bambino nello stesso rogo in cui era morta sua madre.

Intanto, Leonora confida alla sua ancella il suo amore per un misterioso trovatore di cui non conosce il nome, ma che ogni notte canta per lei una serenata col suo liuto. La giovane lo ha conosciuto a un torneo.
Il conte di Luna ha ascoltato di nascosto le parole di Leonora e poi sente il suo avversario cantare per la sua amata. La giovane esce e nell’oscurità confonde il conte di Luna con l’uomo che ama.
Il trovatore, sopraggiunto, li coglie abbracciati e si sente tradito, ma Leonora gli giura il suo amore, scatenando l’ira del conte che sfida a duello il suo avversario, costringendolo a rivelare la sua identità.
Il nome del trovatore è Manrico, seguace del ribelle conte di Urgel, nemico del conte di Luna. Mentre i due uomini si allontanano per sfidarsi a duello, Leonora sviene.

Nella parte seconda, siamo ai piedi di un monte, in un accampamento di zingari che cantano e ballano.
Azucena, madre di Manrico, si risveglia dal suo consueto incubo e racconta di quando vide morire sua madre sul rogo. La donna la implorava di vendicarla, così Azucena aveva rapito il figlio del conte e lo aveva gettato nel fuoco, ma sgomenta e confusa, di fronte alla orribile morte della madre, aveva per errore ucciso suo figlio invece che quello del conte.

In seguito a tale racconto, Manrico nutre dubbi sulla sua vera identità, ma Azucena lo rassicura e gli ricorda che lei lo ha sempre protetto e curato, anche quando il giovane è tornato all’accampamento ferito, in seguito al duello con il conte. A questo proposito, Manrico racconta alla madre che avrebbe potuto uccidere il conte, ma una voce dal cielo gli ha fermato la mano. La zingara lo spinge a portare a compimento la vendetta, uccidendo il suo rivale.
Intanto, il conte ha diffuso la voce che Manrico è morto, certo di conquistare Leonora, ma la giovane invece, decide di prendere i voti. Il conte contrariato irrompe alla cerimonia di ordinazione e tenta di rapire Leonora, a quel punto, però, giunge Manrico che porta in salvo la sua amata.

Parte terza, il castello è in mano agli uomini di Urgel, i soldati del conte di Luna sono nei paraggi, in attesa di riconquistare il castello.
Ferrando cattura una zingara e dopo averla condotta davanti al conte di Luna, la riconosce; la donna confessa di essere colei che ha rapito e ucciso il fratello del conte, e afferma di essere la madre di Manrico. Il conte gioisce, finalmente avrà una doppia vendetta: per il fratello e anche su Manrico che gli ha sottratto Leonora.
Nel frattempo, nel castello, Manrico e Leonora stanno per sposarsi in segreto, ma la cerimonia è interrotta dall’annuncio che Azucena è stata catturata e a breve sarà bruciata viva. Manrico molla tutto e parte in soccorso della madre.

Nella quarta e ultima parte, il trovatore è imprigionato nel castello dell’Aljafería. Lui e sua madre saranno giustiziati all’alba.
Leonora va alla torre dove i due sono prigionieri e supplica il conte di lasciare libero Manrico, in cambio lei lo sposerà. In realtà, la giovane non intende mantenere fede alla sua promessa: medita invece di avvelenarsi prima di concedersi.
Il conte accetta la proposta e Leonora chiede di poter dare all’amato la notizia della sua liberazione, ma prima di entrare nella torre, beve il veleno. Intanto, Manrico cerca di confortare sua madre che alla fine, stremata si addormenta. Giunge Leonora che dice al trovatore di mettersi in salvo, ma quando il giovane capisce che lei non andrà con lui, decide di non fuggire. L’uomo crede che per concedere a lui la libertà la ragazza l’abbia tradito, ma Leonora, prima di morire, gli confessa di essersi avvelenata, proprio per non farlo.

Il conte assiste di nascosto alla confessione di Leonora e, furioso per ciò che ha scoperto, ordina di giustiziare il trovatore. Quando la zingara si risveglia, il conte gli indica suo figlio morente. La donna disperata gli rivela che Manrico era in realtà suo fratello; il conte è sconvolto, a quel punto, Azucena si pugnala a morte e grida: “Sei vendicata, o madre!”

In copertina: manifesto “Il trovatore”, incisione a colori

Appuntamento con la musica classica: 3 Sonate per piano e violino

Appuntamento con la musica classica 3 Sonate per piano e violino

Il 22 settembre all’Auditorium “Marini” di Falconara Marittima si terrà un concerto di musica classica.
Sonate di Mozart, Beethoven e Saint-Saëns per violino e pianoforte saranno eseguite da due interpreti d’eccezione: Davide Alogna e Martina Giordani.

Il 22 settembre Davide Alogna al violino e Martina Giordani al pianoforte ci intratterranno con delle sonate brillanti e tecnicamente molto impegnative.
Grazie a loro, passeremo dalla leggerezza arguta e raffinata delle note di Mozart, all’energia delle costruzioni razionali e appassionate di Beethoven, fino ad approdare alla levigatezza e alle fantastiche elaborazioni tematiche di Saint-Saëns.

Il programma della serata prevede l’esecuzione di tre brani:

In attesa del concerto esploriamo le composizioni che verranno eseguite, spaziando dalla loro realizzazione a qualche cenno sulla loro struttura.

Sonata n. 18 in Sol maggiore K 301

Il primo brano a essere eseguito è la “Sonata n. 18 in Sol maggiore K 301” di Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791), composta nel marzo del 1778, a Mannheim (Germania) e denominata “Palatina”, come le altre quattro dell’Opus 1, dedicate a Elisabetta Maria Aloisia Augusta (1721 – 1794), moglie dell’elettore del Palatinato, Carlo Teodoro di Wittelsbach (1724 – 1799).

Nell’agosto del 1777, Mozart era partito con sua madre da Salisburgo, alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Dapprima fu ad Augusta, poi a Mannheim, a Parigi e infine a Monaco di Baviera.
A Mannheim, il musicista fu ispirato dal clima fecondo della città e compose cinque sonate per violino. La sua musica trasse notevoli vantaggi da questo soggiorno, ma purtroppo, non riuscì nel suo intento di trovare un impiego in città, così il 14 marzo 1778 partì alla volta di Parigi.

La Sonata n. 18 K 301 vide la luce poco prima della partenza per la capitale francese, dove fu poi stampata. Essa è suddivisa in due soli movimenti (Allegro con Spirito e Allegro). Tale scelta si rifà a una tradizione antecedente che considerava questo tipo di composizioni dei duetti stringati e sobri fra pianoforte e violino (in certi casi sostituito dal flauto).

Nelle composizioni mozartiane per pianoforte e violino degli anni 1763-64 il pianista (o cembalista) aveva un ruolo preminente, mentre al violino era assegnato un ruolo secondario. Queste “sonate con accompagnamento d’un violino” erano molto diffuse in tutta Europa e rispondevano alle richieste sempre più considerevoli dei dilettanti. A coltivarle, in particolare, erano musicisti come: Johann Schobert (c. 1720, 1735 or 1740 – 1767), Johann Christian Bach (1735 – 1782) e Muzio Clementi (1752 – 1832).

La Sonata K 301 è diversa dalle sue antecedenti, essa appartiene a una nuova fase della parabola compositiva di Mozart sia per il ruolo paritario che il musicista conferisce a entrambi gli strumenti sia per l’abile contrappunto che disciplina le sovrapposizioni delle loro voci.

Il primo Allegro della Sonata K 301 ha un impianto classico tripartito. Ai due tempi principali (tonica e dominante) sono affiancati degli spunti secondari. Lo sviluppo tematico è vivacizzato da cromatismi e inversioni.
In questo primo movimento è il violino a detenere il ruolo principale, mentre il pianoforte si farà sentire solo più avanti, svolgendo il tema principale e dando vita a un dialogo vivace con varie iniziative melodiche.
La varietà in questo movimento proviene dall’abbondanza dell’inventiva di Mozart nel creare temi e dalla sua capacità di suddividere equamente l’interesse melodico tra i due esecutori che si alternano nel proporre il tema o nel ruolo di accompagnatori.

Il secondo movimento, un Allegro in 3/8, ha la forma di rondò variato, dal sapore francese, caratterizzato da una grande naturalezza di idee che sgorgano spontanee, richiamando lo stile di Franz Joseph Haydn (1732 – 1809).
Mozart ha impiegato motivi vivaci e popolari che fanno da cornice alla parte centrale che, per creare una varietà, si muove in una tonalità minore.

La scelta del violino, quale comprimario in una sonata, per Mozart fu quasi una scelta obbligata, infatti, il musicista, oltre al pianoforte e all’organo, suonava anche il violino. Inoltre, il suo incarico di Konzertmeister a Salisburgo comprendeva, oltre alla direzione d’orchestra, anche il ruolo di primo violino.

Per quanto riguarda invece lo stile delle sonate, sappiamo che, nell’autunno del 1777, a Monaco, Mozart conobbe i duetti per clavicembalo e violino di Joseph Schuster (1748 – 1812) e al padre scrisse: “Non sono cattivi se mi fermerò, ne scriverò io stesso nel medesimo stile, dato che essi sono molto popolari quaggiù“.
Ed è proprio quello che fece, creando qualcosa di diverso.

Sonata per pianoforte e violino in La maggiore n. 9, op. 47

Il secondo brano in programma è la “Sonata per pianoforte e violino in La maggiore n. 9, op. 47” di Ludwig van Beethoven (1770 – 1827), più conosciuta come “Sonata a Kreutzer”.
Fu composta tra il 1802 e il 1803 e pubblicata nel 1805, con una dedica al violinista e compositore francese Rodolphe Kreutzer (1766 – 1831).

Questa Sonata ha una durata di circa 40 minuti; è la più lunga e difficile fra le composizioni realizzate da Beethoven per violino e fu scritta piuttosto in fretta.
Lo stile utilizzato dal compositore è concertante, ai due strumenti è dato identico peso e l’obiettivo del musicista era quello di introdurre elementi di conflitto dinamico, in quello che era il genere più prettamente da salotto.
Le novità presenti in quest’opera sono tali da infrangere le regole delle sonate per pianoforte e violino. Questo brano, dallo stile brillante e quasi da concerto, rappresenta l’inizio di un nuovo percorso per Beethoven.

La sonata è suddivisa in tre movimenti:

  • Adagio sostenuto – Presto – Adagio – Tempo I
  • Andante con variazioni I-IV
  • Finale. Presto

Inizialmente, questa Sonata aveva una dedica diversa. Beethoven voleva farne omaggio al suo amico, nonché virtuoso di violino, George Augustus Polgreen Bridgetower (1779 – 1860), che eseguì insieme al compositore, per la prima volta in assoluto la Sonata, il 24 Maggio 1803, a Vienna, nella sala da concerti dell’Augarten (un caffè del Prater).

Beethoven compose la Sonata op. 47 tra il 1802 e il 1803 e come prima cosa scrisse il finale, mentre i primi due tempi furono realizzati nel 1803.
Il carattere “brillante” o “molto concertante” di questa composizione sembra dipendere proprio da Bridgetower. Il violinista aveva un padre nero (un lacchè del principe Esterhàzy) e madre tedesca; aveva studiato composizione con Haydn e poi era andato in Inghilterra, dove era diventato violinista del principe di Galles.

Nel 1802, Bridgetower si esibì a Dresda e poi giunse a Vienna. Era un esecutore che si faceva notare. Le sue esibizioni erano ardite e stravaganti, e sicuramente, Beethoven rimase colpito dal suo modo di suonare.
A titolo di curiosità, sappiamo che il violinista non ebbe il tempo di studiare le variazioni dell’op. 47, perché il compositore le finì solo alla vigilia del concerto, quindi, Bridgetower dovette arrangiarsi a leggere la parte del violino sul manoscritto e, durante la prova, improvvisò due cadenze virtuosistiche che spinsero Beethoven ad abbracciarlo.

Bridgetower, quindi, si era meritato sotto tutti i punti di vista la dedica della Sonata. Ma quando Beethoven la pubblicò, il dedicatario divenne Kreutzer che il compositore conobbe nel 1798, all’ambasciata francese di Vienna, e che ammirava per “la sua semplicità e naturalezza”.
Diversi anni più tardi, Bridgetower sostenne che questo mutamento di intenti da parte di Beethoven fosse dovuta a una controversia amorosa sorta tra loro: entrambi si erano innamorati di una donna che però aveva scelto Bridgetower. Questa dichiarazione fu riportata dal direttore del “Musical World”, J. W. Thirlwall, nel suo giornale, il 4 dicembre 1888, ma il violinista era morto nel 1860, per cui la singolare rivelazione, non confermata da altre fonti, potrebbe essere solo un’abile trovata giornalistica.
Quello che è certo è che Rodolphe Kreutzer non suonò mai la Sonata op. 47, perché la riteneva “outrageusemente inintelligible” (scandalosamente incomprensibile), e altrettanto fecero altri violinisti, per lo meno in pubblico – delle esecuzioni private si sa ben poco.

Anche uno dei più autorevoli periodici del XIX secolo, l’ “Allgemeine musikalische Zeitung” (Giornale musicale generale) sostenne che, il compositore avesse “spinto la ricerca dell’originalità fino al grottesco” e definiva Beethoven addirittura come “l’adepto di un terrorismo artistico”.

La Sonata ottenne una meritata popolarità dalla seconda metà del secolo, dopo che fu eseguita da Joseph Joachim (1831 – 1907; violinista, direttore d’orchestra, compositore e insegnante ungherese) e Clara Schumann (1819 – 1896; pianista e compositrice tedesca).
L’ultimo passo verso la notorietà per la composizione di Beethoven fu compiuto grazie alla letteratura. Nel 1889, Lev Nikolàevič Tolstòj (1828 – 1910) pubblicò il romanzo breve, “Sonata a Kreutzer”; lo scrittore russo pare apprezzasse solo il primo tempo della composizione, perché fa affermare al suo protagonista che, il secondo tempo è “bello ma comune e non nuovo, con ignobili variazioni”, mentre il terzo è “assolutamente debole”.

Beethoven creò la Sonata op. 47 in un periodo in cui si stava dedicando in modo particolare alla sperimentazione, soprattutto delle forme; non uscì dagli schemi della tradizione, ma ne dilatò le dimensioni architettoniche. Basti pensare al primo tempo che è composto da ben 601 battute (776 con il ritornello dell’esposizione), un numero davvero elevato per quei tempi e per i suoi contemporanei.
Oltre alle nuove dimensioni, nella sonata Beethoven utilizza per la prima volta un’introduzione in movimento lento che aveva già adottato nelle Sonate per pianoforte e per pianoforte e violoncello, ma non ancora nelle Sonate per pianoforte e violino.

Inoltre, questa Sonata detiene un posto particolare rispetto alle altre Sonate non solo per le proporzioni, ma anche per il rapporto esistente fra i due strumenti e per le ambizioni espressive.
Già nelle prime Sonate violinistiche, Beethoven, seguendo Mozart, aveva conferito al violino un ruolo alla pari con il pianoforte, ed entrambi gli strumenti sono concepiti come entità contrapposte, con un’evidente individualità. Il contenuto espressivo, però, era ancora “disimpegnato” e volto all’intrattenimento. Diversa è la situazione della Sonata op. 47, dove il compositore mette in atto nuove ambizioni.

Introduzione e Rondò Capriccioso op. 28

Il terzo brano della serata è una composizione del 1863 di Camille Saint-Saëns (1835 – 1921), “Introduzione e Rondò Capriccioso op. 28”. La sua prima esecuzione avvenne a Parigi, al Théâtre des Champs-Élysées il 4 aprile 1867.
Inizialmente, il compositore la concepì come un movimento conclusivo, da introdurre in un’opera più ampia e solo successivamente diventò un brano autonomo.
Saint-Saëns fu un protagonista del secondo romanticismo francese, eppure guardò sempre con diffidenza all’estetica romantica, mentre la sua ammirazione andava alle regole classiche di costruzione e difatti, le sue opere in generale sono dotate di chiarezza e ordine, pur essendo profondamente innovative nel panorama della musica francese.

L’opera 28, però, è un’eccezione, in quanto si rifà al filone più brillante ed estroverso dell’età romantica.
Primo esecutore e dedicatario del brano fu il violinista Pablo de Sarasate (1844 – 1908) che all’epoca era agli inizi della sua carriera. Fu il talento di Saraste a ispirare a Saint-Saëns la sua composizione che infatti, presenta chiare allusioni stilistiche spagnoleggianti, in particolar modo nel rondò.

Il brano fu stampato nel 1875, nella sua versione originale per violino concertante e orchestra da Durand (Marie-August Durand, 1830 – 1909; editore e critico musicale, e organista), mentre già nel 1870, Georges Bizet (1838 – 1875) si era occupato di tradurlo per violino e pianoforte; questa versione nel tempo divenne molto popolare. Anche Claude Debussy (1862 – 1918) fu conquistato dal brano di Saint-Saëns, tanto da studiarne una trascrizione per due pianoforti, tra il 1889 e il 1890.

L’opera 28 si compone di due movimenti: Andante malinconico, l’Introduzione; Allegro ma non troppo, il Rondò.
L’Introduzione ha un umore riflessivo; il violino espone una melodia malinconica e cantabile e il movimento si chiude con una breve cadenza brillante.
Il Rondò propone il tema principale caratterizzato da un motivo in tempo di habanera, scattante e brillante, vivacizzato da abbellimenti e spostamenti di accento.
Il ricorso al folklore spagnolo diventò di moda e fu assunto come uno degli elementi base del violinismo della seconda metà del secolo. Questo motivo brillante si alterna a episodi diversificati che spaziano dal lirismo a raffinati espedienti tecnici. Entrambi gli strumenti assumono a turno il ruolo di guida melodica o di accompagnamento. La conclusione è affidata a una brillante e trascinante coda.

Albert Anker: quando la lettura diventa arte

Albert Anker: quando la lettura diventa arte

Il pittore svizzero Anker ha realizzato molti dipinti che raffigurano lettori e lettrici, mostrando quanto fosse importante la lettura nell’Ottocento e rimarcandone la diffusione, e il ruolo da protagonista da essa assunto nella vita delle persone.

Albert Samuel Anker (1° aprile 1831 a Ins, Canton Berna, Svizzera – 16 luglio 1910 ibid), pittore e grafico, è famoso per aver ritratto scene di vita quotidiana con grande vivacità.
Dipinse anche paesaggi rurali, ritratti di bambini, nature morte, scene con personaggi religiosi e storici.
L’artista ha anche dedicato numerose opere al tema della lettura e al piacere di leggere.
Del resto, Anker era un uomo colto, che scriveva e leggeva in ben sei lingue.

Passando in rassegna i libri della sua biblioteca, conservati nella casa museo di Ins e prendendo in esame la sua corrispondenza, scopriamo che il pittore, oltre alle opere teologiche e filosofiche, leggeva anche gli autori greci e latini in originale, e la Bibbia in ebraico.
Non disdegnava neppure la storia, il genere biografico, le descrizioni di viaggi, la storia naturale e quella dell’arte. Tra i suoi scaffali c’era spazio anche per la letteratura francese, come Honoré de Balzac (1799 – 1850) ed Émile Zola (1840 – 1902), e per tutte le opere dello scrittore svizzero Albert Bitzius (pseudonimo di Jeremias Gotthelf, 1797 – 1854).

Oltre ai libri, Anker leggeva anche i giornali. Le sue testate preferite erano “Suisse libérale” e “Berner Volkszeitung”.
I quotidiani gli consentivano di assorbire il gusto e lo spirito dei suoi tempi, di aggiornarsi sui fatti del mondo e di sondare le problematiche sociali che lo interessavano in particolar modo.

I suoi dipinti rispecchiano le sue tendenze e quelle della società in cui viveva: in molti ritratti compaiono uomini, soprattutto contadini di Ins, che leggono giornali. Infatti, a partire dalla metà dell’Ottocento, in Svizzera, c’era una notevole diffusione di periodici, anche nel ceto popolare.

Nel 1860, esistevano ben 298 testate tra giornali e riviste, che dimostravano la volontà del ceto contadino di emanciparsi sia a livello culturale sia a livello politico.
Nei suoi quadri Anker afferma anche il suo orientamento politico, mettendo in mano ai suoi contadini il “Seeländer Bote”, un giornale di ispirazione liberale e conservatrice.

A leggere però non sono solo gli uomini, in molte opere del pittore svizzero, infatti, sono raffigurate giovani donne che si dedicano con fervore alla lettura.
Arken con i suoi dipinti ha immortalato i cambiamenti sociali in atto ai suoi tempi. Se nel Settecento e nel primo Ottocento la lettura era stata un mezzo per istruire le ragazze della borghesia, ora questa tendenza si estende alle donne del ceto popolare.

L’artista però, non ha raffigurato donne intente a leggere giornali: la politica era ancora un affare da uomini. Alle donne erano destinate letture come la Bibbia, la storia della Svizzera, i romanzi di Gotthelf, biografie, poesie, novelle.
All’epoca, procurarsi libri per letture individuali era semplice: c’erano molte biblioteche popolari un po’ ovunque nel Cantone di Berna. Nel 1866 erano attive ben 173 “Jugend- und Volks-bibliotheken” (biblioteche per la gioventù e per il popolo)

Oltre a uomini e donne, Anker ha raffigurato anche bambini e adolescenti, fissati sulla tela mentre ad esempio leggono ad alta voce a qualcuno.
I soggetti ritratti hanno atteggiamenti attenti e sono particolarmente concentrati nel loro compito; ad ascoltarli ci sono compagni, fratellini più piccoli, genitori che stanno svolgendo lavori domestici oppure vecchi nonni.

Nell’Ottocento, nel Cantone di Berna gran parte della popolazione sa leggere. E il gesto di qualcuno che legge per altri indica non solo l’intimità e la complicità che la lettura è in grado di creare tra le persone, ma anche il valore che riveste tale attività per la scuola bernese.
Inoltre, i dipinti che raffigurano soggetti che leggono ad alta voce mostrano un metodo di insegnamento che mirava a far apprendere giusto tono e ritmo, e ad esprimere le emozioni, affinché gli ascoltatori fossero affascinati e conquistati, e mantenessero desta la loro attenzione.

Arken era un intellettuale a trecentosessanta gradi e la sua pittura mostra tutta la ricchezza della sua conoscenza.
Nell’esplorare la lettura e il mondo dei libri, l’artista ha assunto anche il ruolo di illustratore: nel 1890, ha realizzato duecento disegni per i nove volumi di opere scelte di Gotthelf.

Il pittore svizzero nei suoi dipinti ha riassunto la funzione della lettura, passando attraverso varie generazioni e includendo una larga tipologia di supporti: dal libro al giornale, dal documento alla lettera.
Ha raffigurato vari tipi umani: scolari; ragazze intente a pettinarsi o a lavorare a maglia che intanto leggono; bambini che osservano incuriositi dei fogli stampati; segretari comunali che confrontano documenti ufficiali; anziani che leggono la Bibbia o il giornale.

Dalla Bibbia ai romanzi, dall’apprendimento al consumo, la lettura è analizzata in tutte le sue forme; valutata per gli umori e le differenti reazioni che suscita. Inoltre, il pittore rappresenta i suoi lettori in varie ambientazioni: en plein air; seduti in poltrona; a letto durante una convalescenza.

Inoltre, ci sono momenti e momenti. C’è la lettura domenicale della Bibbia con la famiglia o la lettura delle missive di coloro che sono in guerra; c’è la lettura del giornale che tiene aggiornati sulle questioni del mondo oppure la lettura d’evasione, tipicamente femminile.

In pratica, i dipinti di Arken mostrano in un’efficace carrellata le varie declinazioni dell’affascinante mondo della lettura, dei lettori e del leggere in generale, evidenziando come questa attività nell’Ottocento accompagnasse in sordina ogni istante della vita delle persone.

In copertina: Albert Anker, particolare del dipinto “Eine Gotthelf-Leserin” (una lettrice di Gotthelf) – olio su tela 59 × 42 cm1884

Vincent van Gogh: un artista e un lettore appassionato

Vincent van Gogh un artista e un lettore appassionato

Van Gogh era un lettore accanito. La lettura per il pittore olandese fu una consolazione, un rifugio, una compagnia, un’ispirazione e una passione profonda in tutto l’arco della sua vita.

Vincent van Gogh amava la lettura. In particolare, nel 1879, in un periodo oltremodo difficile per lui, leggeva senza sosta per tutto il giorno.

In questo periodo oscuro, l’artista interruppe anche la sua corrispondenza, con tutti, anche con il fratello Theo; leggere era il suo unico conforto, e in questa fase, quasi la sua unica ragione di vita: “Se non studio, se non cerco più, allora sono perduto”.

Al “Van Gogh Museum di Amsterdam” sono conservati solo tre i libri che per certo gli appartenevano. Due recano il nome Vincent sulla pagina dell’occhiello: “Chérie” di Edmond de Goncourt e “Histoire d’un paysan” di Èmile Erckmann e Alexandre Chatrian; il terzo, “Recueil de psaumes à l’usage des églises réformées” mostra tracce della sua inconfondibile scrittura. Se ne aggiunse un quarto, esposto l’ultima volta a Parigi nel 1972, poi andato disperso, “L’Amour” di Jules Michelet, un autore dall’artista molto amato, insieme a Dickens, Balzac, Zola, i fratelli Goncourt, Loti e vari critici d’arte come Charles Blanc o Sensier, Shakespeare.

È lo stesso Vincent a dichiarare il suo amore per la lettura: “Ho una passione pressoché irresistibile per i libri e sento continuamente il bisogno di istruirmi, così come ho bisogno di mangiare il pane”.

Van Gogh non è in ogni caso un collezionista di libri, non ha una biblioteca, perlomeno non fisica. Lui i libri li usa non li possiede e li fa suoi interiorizzandoli. Una volta che li aveva “digeriti”, li condivideva con gli amici, li regalava. La sua biblioteca era nella sua testa.

L’impossibilità di collezionare libri da parte dell’artista era dovuta anche alla sua vita errabonda: cambiò 37 indirizzi in 37 anni di vita e fu anche un uomo con poche risorse economiche. Questi due fattori non gli consentirono di accumulare molti volumi.

Conosciamo le sue preferenze in termini di lettura attraverso la sua corposa corrispondenza (ben 903 lettere!) e grazie a questa, sappiamo anche quali dei libri che l’artista ha letto nel corso della sua esistenza lo hanno maggiormente influenzato, quelli che hanno avuto un ruolo fondamentale nella sua arte e nella sua vita.

Per Vincent, leggere insegnava a vivere e a vedere, perché, secondo lui, letteratura, arte e vita erano intrecciate indissolubilmente.

L’artista olandese cercava nei libri la stessa libertà che cercava in pittura. E per lui, pittura e scrittura erano legate alla passione per i libri e per la natura. Inoltre, l’una completava l’altra e insieme facevano esistere il mondo.

La pittura poi, era per van Gogh una sorta di scrittura. Adoperare i colori giusti e tracciare una linea sulla tela per lui aveva la stessa valenza di uno scrittore che trova la parola giusta. Nelle sue lettere sono indicate centinaia di opere letterarie, di numerosi autori e in lingue diverse.

Van Gogh non aveva molti amici, la sua grande compagna era la sua arte pittorica, ma il suo genio artistico necessitava di ispirazione e sentiva anche il bisogno di staccare. Nei libri, l’artista trovava ciò che gli mancava, oltre a stimoli e suggerimenti per la sua creatività.

L’aspetto letterario fu fondamentale per la sua opera pittorica, basti pensare alle sue letture e ai temi che compaiono nei suoi quadri. Infatti, nelle sue opere, l’autore olandese mostra un particolare interesse per i poveri, i diseredati e le ingiustizie. Altresì, troviamo: la semplicità, il duro lavoro, l’umiltà, la terra, la natura, come pure, l’indagine dell’animo umano, la verità delle cose.

Van Gogh espresse il suo amore per i libri e la lettura in genere in venticinque opere pittoriche: cinque lavori su carta, diciotto dipinti, due schizzi sulle lettere. Tra queste, quella più affascinante ed enigmatica è la “Lettrice di romanzi”.

In questo dipinto l’artista ha raffigurato una donna che sta leggendo un libro. La figura ha colori scuri e netti ed è di profilo; le tinte sono marcate e definite. Il soggetto si staglia in primo piano, balzando dallo sfondo chiaro e luminoso.

Dal dipinto emerge la solitudine della donna, e la lettura cui è intenta è chiaramente un momento di evasione dalla realtà quotidiana.

In copertina: “La lettrice di romanzi” (1888) di Vincent Van Gogh

L’Amore va in scena: tra luci e ombre, e tra parole e suoni

L’amore è un sentimento complicato, fatto di luci e ombre, come ci hanno fatto comprendere chiaramente Cecilia Cozzi e Martina Giordani con le loro interpretazioni differenti, ma entrambe illuminanti.

Sono arrivata con un discreto anticipo all’appuntamento con Sapere d’estate: “Amore: una sinfonia di luci (e ombre)” che si è svolto ieri, 11 agosto, in piazza del Municipio a Falconara.
Ho potuto così assistere agli ultimi ritocchi prima di “andare in scena”, mentre una leggera brezza rendeva ancora più piacevole l’attesa.

Le due mattatrici dello spettacolo sono state: Cecilia Cozzi, in veste di relatrice e Martina Giordani, nel ruolo di pianista.
Entrambe sono riuscite nell’intento di incantare e intrattenere il pubblico attento e partecipe.
Piacevoli, interessanti e gestite con grande maestria le parole; superbe ed ispirate le esecuzioni di brani piuttosto impegnativi di Schubert, Liszt, Chopin, Rossini e Grieg.

L’amore è stato l’argomento principe della serata, come appunto, già annunciava il titolo dell’evento.
Amore che è stato analizzato in tutte le sue declinazioni, passando dagli aspetti più luminosi di questo universale sentimento a quelli più “ombrosi”.

L’analisi si è compiuta attraverso un originale excursus tra i testi degli antichi Greci.
Cecilia Cozzi ha letto e commentato versi, aggiungendo al già felice mix una buona dose di argute osservazioni che hanno evidenziato come gli atteggiamenti nei confronti dell’amore, dall’antichità fino a oggi, non abbiano subito sostanziali cambiamenti.
Nei versi dei poeti dell’antichità, anche se le espressioni e le parole sono spesso diverse dalle nostre, si è denotato lo stesso ventaglio di emozioni che anche noi oggi sperimentiamo quotidianamente: delusione e rabbia per un amore non corrisposto; gelosia; gioco e leggerezza; tenerezza, ecc.

Anche la musica ha dato la sua personale visione dell’amore, attraverso il percorso sonoro affrontato al pianoforte da Martina Giordani che ci ha consentito di esplorare altre recondite sfumature di questo meraviglio e complicato sentimento.

Le spiegazioni fornite per ogni brano, nonché la notevole bravura esecutiva e interpretativa della pianista sono state il completamento perfetto di una serata magnifica, certamente da ripetere.

Valentina Ciardelli e il contrabbasso, questo sconosciuto

Valentina Ciardelli e il contrabbasso, questo sconosciuto

Nella magnifica cornice della terrazza del museo archeologico di Ancona, ieri sera, 26 luglio, un pubblico attento e nutrito ha assistito a un bellissimo concerto per contrabbasso solo.

Volevo ascoltare questo concerto non appena ho visto la locandina che lo pubblicizzava.
Già l’immagine scelta per promuoverlo mi aveva colpito e al contempo, ero estremamente curiosa di assistere a un’esecuzione che abbinava uno strumento come il contrabbasso (che io ho trovato sempre intrigante) e un’esecutrice femminile.

Ero anche incuriosita dall’idea di ascoltare un concerto dall’inizio alla fine eseguito su uno strumento così particolare che, solitamente, non occupa un posto di primo piano, nonostante io abbia sempre ritenuto il contrabbasso uno strumento estremamente affascinante, sia nella musica classica sia nel jazz.

A volte, un po’ relegato in ruoli di secondo piano, immeritatamente, perché, la “voce” del contrabbasso è così particolare, e la sua stessa presenza fisica, a parer mio, ne fanno un personaggio di primo piano, un protagonista.

Per quanto riguarda la solista che si è esibita ieri sera ad Ancona, non sono di certo rimasta delusa. Valentina Ciardelli ha conquistato tutti con la sua bravura e la sua simpatia.
Certamente, decidere di affrontare un pubblico da sola con uno strumento come il contrabbasso è un atto coraggioso, perché non siamo abituati a isolare la sonorità di questo strumento da quella degli altri elementi di un’orchestra o magari di un gruppo jazz, tranne che per brevi momenti di assolo, inclusi però in una composizione più ampia, dove il contrabbasso è solo uno dei tanti personaggi di un brano musicale.

Coraggioso e anche difficile il ruolo che si è ritagliata Valentina Ciardelli che ha fatto centro anche sulla scelta dei brani: un percorso variegato, dove ha brillato non solo la sua capacità interpretativa, ma anche la sua abilità di trascrittrice.

Espressiva in ogni passaggio, non solo musicalmente: le espressioni del suo volto e i gesti mostravano un grande coinvolgimento che è arrivato dritto anche al pubblico presente.

Personalmente, ho apprezzato moltissimo il brano di Emil Tabakov “Motivy”, ma anche il resto del programma non era da meno.

Sono perfettamente d’accordo poi, con le parole della Ciardelli che ad apertura concerto ha affermato che la cultura va preservata, perché è una parte importante della nostra vita, un segno distintivo dell’essere umano e per questo, deve essere coltivata e ancor più divulgata senza sosta, se non vogliamo perdere una parte fondamentale della nostra umanità.

“Orfeo ed Euridice”: Gluck riforma l’opera seria

Orfeo ed Euridice Gluck riforma l’opera seria

2 luglio 1714 nasce Christoph Willibald Gluck, considerato una delle figure chiave della riforma dell’opera seria.
Le sue opere, in particolare l’ “Orfeo ed Euridice”, rappresentano una svolta radicale per questo genere musicale molto fortunato.

Christoph Willibald Gluck (Erasbach, 2 luglio 1714 – Vienna, 15 novembre 1787) era un compositore tedesco. Nella seconda metà del Settecento, fu uno dei principali iniziatori del Classicismo.
Quando il compositore mise in atto i suoi cambiamenti i tempi erano maturi per una sostanziale riforma dell’opera seria che era da tempo in declino. Già si avvertivano sentori di novità. C’era anche una certa stanchezza per delle consuetudini consolidate che riguardavano sia coloro che stavano sul palcoscenico sia gli spettatori che assistevano agli spettacoli.

Il modo di recitare e di rapportarsi con il pubblico degli attori mentre erano sulla scena, la struttura generale dell’opera, i testi e i brani musicali associati, la progettazione delle scenografie, l’inserimento dei balletti e l’uso del coro, in vario modo stavano già prendendo strade nuove, a seguito di un desiderio generale di rinnovamento.

Gluck si trovò a essere l’uomo giusto nel momento giusto. La sua idea di riforma condusse innanzitutto, a una semplificazione della trama delle opere e alla creazione di un equilibrio tra musica e canto. La riforma gluckiana ebbe successo e influì non poco sul lavoro di numerosi compositori, come: Sacchini, Salieri, Cherubini, Spontini, Berlioz e molti altri.

L’opera lirica di Gluck che ha sancito la sua riforma è sicuramente l’ “Orfeo ed Euridice”.
Come si evince già dal titolo, la storia ruota attorno al mito di Orfeo. Il libretto fu scritto da Ranieri Simone Francesco Maria de’ Calzabigi (1714-1795; poeta e librettista italiano).
Essendo un’opera concepita su un soggetto mitologico è inclusa nel genere dell’azione teatrale e per questo prevedeva l’inserimento di cori e danze.

La prima rappresentazione dell’opera fu a Vienna il 5 ottobre 1762.
L’Orfeo ed Euridice aprì la stagione della riforma di Gluck che proseguì con “Alceste” e “Paride ed Elena”.
Questo complesso di opere riformiste, nell’ottica del compositore, come del librettista e del direttore dei teatri, il conte Giacomo Durazzo (1717-1794; diplomatico al servizio della Repubblica di Genova e uomo di teatro italiano), dovevano: semplificare il più possibile l’azione drammatica; andare oltre le trame contorte e complicate dell’opera seria italiana; evitare gli eccessi vocali; ristabilire un rapporto più bilanciato tra parola e musica.
Anche Gasparo Angiolini (1731-1803; coreografo, ballerino e compositore italiano), che gestì le danze incluse nelle nuove opere riformiste, riteneva che il vento di rinnovamento dovesse investire anche il balletto che proprio in quel periodo vedeva la nascita del “ballet d’action”, una nuova forma coreutica.

Nel, 1774, L’Orfeo ed Euridice sbarcò a Parigi, come Orphée et Euridice. Gluck rielaborò notevolmente l’opera per adattarla agli usi musicali francesi. Innanzitutto, il libretto fu tradotto in francese e fu anche arricchito da Pierre Louis Moline (1740 ca. – 1820; prolifico drammaturgo, poeta e librettista), mentre Gluck rinnovò l’orchestrazione adeguandola ai più ampi organici dell’Opéra, aggiungendo molta musica nuova, mutuando brani da opere precedenti e soprattutto, garantendo un ampio respiro alle danze.

L’Orfeo ed Euridice di Gluck è considerata la più nota tra le opere musicate dal compositore tedesco. Proposta in una delle diverse edizioni o addirittura presentata in versioni nuove anche piuttosto rivisitate, è stata una delle poche opere del Settecento a essere presente, fino a oggi, nei cartelloni delle stagioni dei più importanti teatri lirici del mondo.

Il fattore chiave della riforma attuata con l’Orfeo ed Euridice, anche secondo lo stesso Gluck, che lo confessò in una lettera al Mercure de France del 1775, è da ascriversi soprattutto al testo e al lavoro di Calzabigi. In effetti, l’ostacolo maggiore da superare, per dare continuità e maggior realismo all’azione drammatica, era l’antiquata forma del libretto metastasiano. La riforma dell’opera seria, cioè, doveva necessariamente passare attraverso una nuova forma di scrittura del testo.

Nell’Orfeo ed Euridice questa mutazione chiaramente investe la struttura dei brani musicali: le arie virtuosistiche con il da capo (ABA’) – concepite come pezzi chiusi e autonomi destinati a esprimere sentimenti e momenti specifici – e i recitativi secchi – deputati a portare avanti l’azione drammatica – sono sostituiti da brani di minor durata, legati fra loro a comporre strutture musicali più ampie. Inoltre, i recitativi da secchi mutano in accompagnati e sfociano naturalmente nelle arie. Inoltre, Calzabigi, per le arie utilizza sia la forma strofica sia quella del rondò.

La riforma nell’insieme, superando e infrangendo le convenzioni dell’opera seria italiana, mirava a dare slancio drammatico all’azione. Con la stessa logica, si semplifica la trama, eliminando i personaggi minori e i relativi intrecci secondari.
L’Orfeo ed Euridice includeva anche molti numeri di danze espressive e faceva un largo uso del coro, entrambe consuetudini della tragédie lyrique francese e in particolare, delle opere di Jean-Philippe Rameau (1683-1764; compositore, clavicembalista, organista e teorico della musica).

L’Orfeo ed Euridice di Gluck ha lasciato un profondo segno nella storia dell’opera: da Mozart a Wagner, passando per Weber tutti le sono, chi più chi meno, debitori.

In copertina: particolare del ritratto di Christoph Willibald Gluck, olio su tela di Joseph Duplessis (1775)

Frida Kahlo: una singolare artista dalla vita travagliata

Frida Kahlo una singolare artista dalla vita travagliata

Oggi 21 giugno, ricorre l’anniversario di un importante riconoscimento a una famosa artista, Frida Kahlo, prima donna latinoamericana raffigurata su un francobollo degli Stati Uniti.

Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio 1907 – Coyoacán, 13 luglio 1954), più nota come Frida Kahlo, è stata una pittrice messicana. Nacque a Coyoacán, un villaggio oltre la periferia di Città del Messico.

Suo padre, Guillermo Kahlo Kaufmann (1871 – 1941), era un fotografo tedesco; sua madre una benestante messicana, Matilde Calderón y González (1876 – 1932).
Frida ebbe una vita particolarmente tormentata e difficile, ma lei sin da adolescente mostrò una personalità forte e indipendente, e probabilmente fu proprio grazie a queste doti che riuscì ad affrontare le gravi vicissitudini della sua vita. Sicuramente, il suo talento artistico la aiutò a sopportare e metabolizzare sia il dolore fisico sia le sofferenze sentimentali.

L’evento che cambiò radicalmente la sua vita si verificò il 17 settembre del 1925. All’età di diciotto anni, Frida ebbe un terribile incidente: si trovava su un autobus che si scontrò con un tram; l’autobus fu schiacciato contro un muro; Frida Kahlo riportò ferite gravissime e subì ben trentadue operazioni chirurgiche. Quando uscì dall’ospedale, dovette restare a letto, col busto ingessato, per molto tempo.

Il riposo forzato fece da leva alla sua vena artistica; le sue prime produzioni furono degli autoritratti che riuscì a dipingere grazie ai suoi genitori che le regalarono dei colori e soprattutto, un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto. Finito il periodo di convalescenza Frida Kahlo riprese a camminare, sopportando forti dolori che purtroppo, restarono in qualità di sgraditi compagni per tutta la sua vita.

Intanto, con il passare del tempo, la sua arte metteva radici. La pittrice decise di mostrare le sue opere all’illustre artista Diego Rivera (1886 – 1957) per avere una sua opinione. Il pittore apprezzò lo stile moderno di Frida e da quel momento fu il suo mentore, introducendola nella scena culturale e politica messicana.

Oltre al rapporto professionale, Frida Kahlo e Diego Rivera ebbero anche una travagliata relazione sentimentale: nel 1929, si sposarono, nonostante Frida fosse consapevole che avrebbe dovuto convivere con i numerosi tradimenti del marito; nel 1939, divorziarono, a causa del tradimento di Rivera con Cristina Kahlo, la sorella di Frida; nel 1940 si sposarono di nuovo.

Durante questo tira e molla coniugale, anche Frida ebbe le sue avventure extraconiugali e alcuni suoi amanti, erano figure piuttosto note all’epoca, come: il rivoluzionario russo Lev Trockij (1879 – 1940) e il poeta André Breton.
Ma il più grande dispiacere di Frida, nell’arco della sua movimentata storia d’amore, fu quello di non avere avuto figli: a causa dei danni subiti dal suo fisico dopo l’incidente del 1925 e perché Rivera non voleva averne.

A livello artistico, Frida assorbì dal marito il suo stile naïf che la spinse a realizzare piccoli autoritratti ispirati all’arte popolare e alle tradizioni precolombiane. L’artista desiderava affermare la propria identità messicana utilizzando soggetti ripresi dalle civiltà native.

Nell’agosto del 1953, Frida Kahlo subì un’amputazione alla gamba destra a causa di una cancrena. Morì l’anno successivo a 47 anni, di embolia polmonare; le sue ceneri ora riposano nella sua Casa Azul, attuale sede del Museo Frida Kahlo.
Le ultime parole della famosa artista nel suo diario furono: “Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai più”.

Gli esordi artistici di Frida sono rappresentati dalla serie di autoritratti, realizzati durante il lungo periodo che la costrinse a letto. La pittrice nelle sue opere rappresentò spesso gli aspetti drammatici della sua vita, in particolare l’incidente del 1925.

Figura inoltre, anche il rapporto ossessivo che l’artista aveva con il suo corpo martoriato, tanto da diventare una caratteristica fondamentale della sua stessa arte. Inoltre, Frida era interessata anche a difendere il suo popolo, per questo un altro elemento presente nei suoi dipinti è il folclore messicano.

Altra peculiarità dei suoi quadri è l’uso di elementi fantastici, corredati da uno humor sfumato e affiancati a oggetti in apparenza contradditori. Ad esempio, quando ritrae se stessa con una colonna romana fratturata che intende richiamare la sua colonna vertebrale danneggiata.

L’attività artistica di Frida Kahlo aumenta sensibilmente dal 1938 in poi e nelle sue opere non si riscontrano più soltanto le esperienze biografiche traumatiche, ma iniziano a comparire accenni al suo stato interiore e al suo modo di sentire il pianeta. Inoltre, in gran parte dei suoi dipinti, tra i soggetti è rappresentato un bambino che è la sua personificazione.

La pittrice fu accolta in seno al surrealismo, dallo stesso poeta e teorico del movimento, André Breton (1896 – 1966) che la definì “una surrealista creatasi con le proprie mani”.
Frida Kahlo sfruttò l’opportunità che le offriva questa inclusione: di farsi conoscere e di essere apprezzata dai critici.
Ma in realtà, la visione della pittrice era lontana da quella surrealista: l’immaginazione per Frida era il prodotto della sua vita che lei tentava di rendere afferrabile mediante un simbolismo, mentre per i surrealisti, l’immaginazione serviva a uscire dalla logica e a entrare nel subconscio.

A distanza di molti anni dalla sua morte, Frida Kahlo è stata premiata con un importante riconoscimento: è stata la prima donna latinoamericana a essere raffigurata su un francobollo degli Stati Uniti, emesso il 21 giugno 2001. L’immagine utilizzata è un autoritratto dell’artista, realizzato nel 1933.

In copertina: particolare della foto di Frida Kahlo nel 1932 (Guillermo Kahlo – Sotheby’s)