Viaggio tra le emozioni: la paura

Viaggio tra le emozioni la paura

La paura è un’emozione che come esseri umani abbiamo provato tutti. Inoltre, da brava lettrice e scrittrice di gialli, ho pensato potesse essere interessante scoprire alcune cose che riguardano la paura, non solo per viverla e affrontarla nel futuro con maggiore consapevolezza, ma anche per capire un po’ come funziona e perché la proviamo.

La nuova versione del film “Dune”, uscito da poco nelle sale cinematografiche, mi ha riportato alla mente un brano sulla paura che mi aveva molto colpito, quando avevo affrontato la lettura del libro di Frank Herbert, cui la pellicola cinematografica si ispira.
Ero rimasta talmente affascinata da quella sorta di mantra pronunciato dal protagonista in un momento particolarmente angoscioso della sua storia da mandarlo persino a memoria, per portarlo sempre con me, come una sorta di talismano. Ve lo propongo di seguito.

Non devo avere paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale.
Guarderò in faccia la mia paura. Permetterò che mi calpesti e mi attraversi. E quando sarà passata, aprirò il mio occhio interiore e ne scruterò il percorso. Là dove andrà la paura non ci sarà più nulla. Soltanto io ci sarò
” (Frank P. Herbert, “Dune”).

Herbert secondo me fa centro definendo questa emozione come una “piccola morte” e dai concetti che solleva il suo testo sono passata a fare ricerche, per esaminare più a fondo l’emozione della paura, per capire quanto c’è di vero nelle sue parole, oltre alle mie sensazioni che aderiscono perfettamente a ogni considerazione che della paura fa il protagonista di Dune.

La paura è un’emozione primaria che non appartiene solo al genere umano ma, come possiamo facilmente constatare, anche al genere animale.
È un’emozione di difesa, una reazione a una situazione di pericolo: reale; possibile nel futuro; legata a un ricordo; immaginaria.
Spesso, questa emozione scatena anche reazioni organiche, in quanto il corpo si prepara ad affrontare la situazione di emergenza, adottando comunemente due tipi di atteggiamento: lotta e fuga.

La paura è governata dall’istinto e mira a farci sopravvivere a un possibile pericolo che può mettere a rischio la nostra vita. Avvertiamo fisicamente tale emozione, quando constatiamo un’accelerazione del battito cardiaco e delle funzioni fisiologiche difensive.
Essa produce una serie di spiacevoli sensazioni che tutti abbiamo provato almeno una volta, come: aumento dell’ansia; difficoltà di applicazione intellettiva; fuga; sudorazione; protezione del proprio corpo; calo della temperatura corporea; aumento dell’adrenalina.

La paura può anche causare modifiche del comportamento di tipo permanente, in tal caso si parla di sindromi ansiose. Questo avviene quando tale emozione non si origina più dalla percezione di un reale pericolo, ma dal timore che ci si possa trovare in situazioni, in apparenza normali, ma che invece l’individuo vive con profondo disagio. Quando si verificano tali situazioni, la paura non riveste più il suo ruolo di funzione primaria, volta a garantire la sopravvivenza, ma si tramuta in espressione di uno stato mentale.

È un’emozione che può anche essere appresa ad esempio, nei confronti di oggetti o contesti, in tal caso, negli animali, è definita: paura condizionata.

La paura possiede, in base a chi la prova, anche notevoli differenze di intensità. Il soggetto può spaziare dal timore all’ansietà, raggiungendo anche livelli emozionali molto intensi dal panico sino al terrore.
Il timore è la versione meno intensa della paura ed è causato solitamente da una situazione che promette di farci sperimentare piacere e al contempo dolore.
L’ansia, invece, vede il piacere contrapporsi a parimerito con la minaccia del dolore. Ciò provoca conflitto e tensione in chi la sperimenta, mentre si attende che dei nuovi accadimenti ci mostrino quale piega prenderanno gli eventi.
La paura è poi massima quando entriamo nel panico e contempliamo idee di morte. In questo particolare stato emozionale, il soggetto vive una grande tensione emotiva; è terrorizzato e non è capace di organizzare né il pensiero né l’azione.
Il terrore supera il panico in intensità e in tali situazioni si avverte fortemente l’impulso alla fuga, in questo caso attuata verso l’interno di sé.

Nei bambini la paura è un’emozione più frequente, ed è legata al fatto che il mondo è ancora un luogo in gran parte ignoto e spesso è dovuta all’incapacità dei bambini di distinguere le paure che vengono dall’esterno da quelle generate dalla loro interiorità.

Dopo questo breve excursus sulla paura, concludo dicendo che questa emozione non è forse tra le più apprezzate eppure ci sono moltissimi fruitori di film e libri che giocano sulla paura.
Direi che il numero di persone che affollano le sale dei cinema, per vedere un film horror e il significativo numero di lettori di thriller, dovrebbe far riflettere e spingere a conoscere meglio questa emozione che andrebbe approfondita e studiata con molta attenzione, per poterne valutare tutti gli aspetti e tutte le sfumature.

Codice 206: I casi del commissario Nick Raisi

In “Codice 206”, il commissario Nick Raisi si troverà coinvolto in un cold case. A trascinarlo dentro le indagini saranno i misteriosi messaggi lasciati da “Ala”, un writer che ha fatto della sua arte un’arma al servizio della giustizia.

Dopo “Rime Mortali“, torna con “Codice 206”, il personaggio di Nick Raisi, un tipo davvero singolare a cominciare dalle sue passioni: l’hip hop e i dolci. Il commissario romano odia la neve e la montagna, ma a causa di un’indagine scabrosa si ritrova catapultato, suo malgrado, dalla sua amata Roma a Brunico, in Alto Adige. Il suo arrivo ha portato diversi cambiamenti in città, soprattutto nel modo di condurre le indagini.

Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.” (Friedrich Nietzsche)

Nick Raisi è insolito, a volte divertente.
Conduce le indagini con una patina d’ironia e riesce sempre a fiutare la pista giusta che conduce alla verità.
Stavolta il commissario romano, trasferito a Brunico, deve indagare su un uomo scomparso anni prima, che i suoi concittadini credevano morto per un incidente in montagna.
Ad aiutarlo ci sarà un misterioso writer che si firma “ALA” e che lo sfiderà a risolvere i suoi rebus tappezzati per la città.
Raisi con l’aiuto della sua squadra e le felici intuizioni della sua ragazza, Larissa Meier, darà una luce completamente diversa al caso dell’uomo scomparso che dietro una impeccabile facciata nascondeva un terribile segreto.
Il commissario dovrà muoversi tra omertà e coni d’ombra, fino a svelare la vera natura della vittima e l’identità del suo assassino.

acquista l’ebook di Codice 206

Giacomo Casanova: la vita rocambolesca di un seduttore I

Giacomo Casanova la vita rocambolesca di un seduttore

Giacomo Casanova, il cui anniversario della nascita ricorre proprio oggi, 2 aprile, fu un uomo dai molti talenti. Grande viaggiatore, mente brillante passava dalla poesia all’alchimia e fu anche un notevole scrittore, soprattutto quando mise per iscritto le sue mirabolanti avventure.

Chi non conosce il termine “Casanova”?
Immagino che tutti sappiano il significato acquisito di tale parola, cioè seduttore e donnaiolo, individuo che ha successo con le donne ed è sempre in cerca di avventure galanti. Scommetto che altrettanto nota sia la sua derivazione dal settecentesco scrittore e avventuriero veneziano, Giacomo Casanova.

Ma quanti conoscono la vita di questo singolare personaggio che era molto più di un raffinato seduttore?

Giacomo Girolamo Casanova (Venezia, 2 aprile 1725 – Duchov, 4 giugno 1798) oltre alle donne, aveva anche molti altri interessi, altrettanto impegnativi, quali l’esoterismo, l’alchimia, la filosofia e tra le tante professioni e mestieri che esercitò, un po’ per passione e un po’ per necessità, fu diplomatico, scienziato e persino agente segreto. Fu anche scrittore e autore di una considerevole produzione letteraria che abbracciava: trattati e testi saggistici di vari argomenti; opere letterarie in prosa e in versi.

A dargli fama e maggiore lustro e a fargli acquisire notorietà mondiale come conquistatore di cuori femminili, fu l’ “Histoire de ma vie” (Storia della mia vita). In questo testo, Casanova descrisse con una certa schiettezza le sue avventure, parlò dei suoi viaggi e narrò, in particolare, le sue relazioni amorose.
L’autore scelse il francese per scrivere l’Histoire, questa decisione fu frutto di una ponderata valutazione: nel XVIII secolo, il francese era la lingua più nota ed era parlata dall’élite europea.

Casanova visse in una fase di svolta della storia e persino la sua opera letteraria precorreva i tempi, anche se lui non se ne rese conto. Come non si rese conto che i valori e i principi dell’ancien régime e della sua classe dominante: l’aristocrazia, su cui lui aveva modellato la sua esistenza, erano avviati irrimediabilmente al declino.

Giacomo Casanova nacque in Calle della Commedia (attualmente Calle Malipiero), vicino alla chiesa di San Samuele. Suo padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino, mentre sua madre, Zanetta Farussi, era un’attrice veneziana che riscosse nella sua vita un certo successo professionale – ricevette elogi anche da Carlo Goldoni.
Già la nascita di questo singolare personaggio nasconde un segreto, neanche troppo nascosto, perché circolava tra il popolo e fu confermato dallo stesso Casanova in un libello. Inoltre, non si spiegherebbero certi fatti, se appunto non si nutrissero dubbi sulla vera identità di suo padre. Le voci popolari indicavano, come più probabile genitore, il nobile veneziano, Michele Grimani, che aveva avuto una relazione con la madre di Casanova. Anche una certa somiglianza tra padre e figlio non faceva che confermare tale possibilità e piuttosto rivelatore fu anche l’aiuto e la protezione che la famiglia Grimani concesse a Casanova in tutto l’arco della sua esistenza.

Fu la nonna materna, Marzia Baldissera in Farussi, a occuparsi principalmente di lui che era rimasto orfano del padre in tenera età ed era poco seguito dalla madre, costretta a viaggiare per lavoro.
A nove anni Casanova si trasferì a Padova per studiare e qui frequentò anche l’università. Alla fine degli studi, fece i suoi primi viaggi e nel 1742, comparve di nuovo a Venezia. L’anno successivo si verificarono diversi fatti spiacevoli per il nostro libertino: morì sua nonna, alla quale era particolarmente legato; la madre lasciò la casa in Calle della Commedia e si sistemò con i figli in un’abitazione più modesta. Questi cambiamenti influirono molto nella vita di Casanova che, per la prima volta, finì in carcere, a causa del suo atteggiamento ribelle.

Uscito di prigione, dapprima fu in Calabria, poi si spostò a Napoli e a Roma. Fu al servizio di vari prelati, ma ben presto fu liquidato per la sua condotta imprudente e nel 1744, approdò, per la seconda volta ad Ancona, qui si innamorò di un castrato: Bellino che in realtà era una donna, il suo nome era Teresa, con lei Casanova ebbe una lunga relazione e persino un figlio.

Tornato a Venezia, visse per un po’ dei proventi guadagnati suonando il violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei Grimani. Nel 1746, per un caso fortuito, strinse un’amicizia che durò tutta la vita con il senatore veneziano Matteo Bragadin e inoltre, conobbe i due più cari amici del patrizio veneziano, Marco Barbaro e Marco Dandolo. Queste conoscenze gli furono utili in più occasioni.
Qualche anno dopo, invece, conobbe Henriette, uno dei suoi più grandi amori. Si pensa si trattasse di un’aristocratica di Aix-en-Provence, forse, Adelaide de Gueidan.

Nelle sue memorie, Casanova cita personaggi reali, a volte ne vela l’identità, specie quando si trattava di donne sposate che spesso sono menzionate con le sole iniziali oppure con nomi inventati, ma in generale è semplice individuare chi siano i soggetti di cui parla l’autore e anche i fatti sono corretti e verificabili.
Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che alcuni passaggi siano romanzati e inventati dall’autore, pur facendo riferimento a personaggi esistiti storicamente. In ogni caso, episodi veri o romanzati, la qualità delle Memorie non muta: lo scrittore riesce a creare un ritmo serrato e persino la tensione emotiva dei suoi personaggi è dotata di un sorprendente realismo. Non sarà tutto vero, forse, ma il testo funziona ed è efficace.

Nel 1750, Casanova torna a Venezia, ma pochi mesi dopo parte di nuovo alla volta di Parigi. In questo periodo aderisce alla Massoneria che gli consente non solo di incontrare personaggi di un certo rilievo, quali Mozart e Franklin, ma di ottenere non poche facilitazioni di varia natura.

È il 1755, quando lo troviamo di nuovo a Venezia, di rientro da viaggi in varie città: Dresda, Praga e Vienna. L’accoglienza non fu delle migliori: Casanova fu arrestato e imprigionato nei Piombi (antica prigione ubicata nel sottotetto del Palazzo Ducale di Venezia, nel sestiere di San Marco; il singolare nome deriva dal materiale con cui era fabbricato il loro tetto. Qui si era imprigionati per volontà del Consiglio dei Dieci, per crimini politici o perché si era in attesa di giudizio).
Casanova però, restando fedele alla sua natura, sprezzante del pericolo e della possibile conseguente eliminazione da parte degli inquisitori, evade in maniera rocambolesca dalla prigione veneziana.

I motivi dell’arresto vedono fioccare molte ipotesi, ma ne parleremo in seguito, in un prossimo post

In copertina: particolare di un presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo)

Manoscritto Voynich: “il libro più misterioso del mondo” #2

Manoscritto Voynich il libro più misterioso del mondo 2

Il mistero attorno alla lingua e al contenuto del manoscritto Voynich non è stato ancora svelato, anche se c’è chi sostiene il contrario, ma i risultati a tutt’oggi ottenuti non hanno fornito testi di senso compiuto.

Sono stati davvero numerosi i tentativi volti a sciogliere il mistero di questo curioso manoscritto.
Il primo a tentare la sorte fu il professore di filosofia medievale all’Università di Pennsylvania, William Newbold (1865 – 1926) che sostenne si trattasse di un latino “camuffato”, addirittura da Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292 ca.; filosofo, scienziato, teologo ed alchimista inglese).

Negli anni quaranta, furono due crittografi, Joseph Martin Feely e Leonell C. Strong, a tentare un nuovo approccio: applicarono al testo dei sistemi di decifratura sostitutiva, ma non approdarono a nulla.
Con criteri simili operarono gli esperti di crittografia della marina statunitense, approdando a risultati altrettanto inconcludenti.

Nel 1945, un crittografo statunitense, William F. Friedman (1891 – 1969), pensò bene di dare vita a un gruppo di studiosi: il “First Voynich Manuscript Study Group” (FSG) per venire a capo della questione. Da queste nuove analisi, emerse solo una certa ripetitività del linguaggio del testo, ma a parte questo, anche tale tentativo fu solo un altro buco nell’acqua.

Nel 1978, fu la volta di un filologo dilettante, John Stojko, il quale avanzò l’ipotesi che la lingua del manoscritto Voynich fosse ucraino con delle vocali rimosse. Ahimè! La traduzione possedeva un vago senso, ma non aveva nulla a che fare con le raffigurazioni presenti nel testo.

Ci sono state altre ipotesi ancora, tutte accomunate dall’impossibilità di raggiungere un risultato concreto.
Le uniche cose che si sono evidenziate nel corso degli anni e delle numerose analisi del manoscritto Voynich è che, nonostante l’alfabeto non sia ancora stato decifrato, esso è unico e sono state riconosciute 19-28 lettere che non mostrano alcun legane con gli alfabeti finora noti.
C’è anche il sospetto che chi ha scritto il libro abbia impiegato due alfabeti complementari ma diversi; inoltre, si ritiene che il testo sia opera di più autori. Si è anche rilevata la totale mancanza di errori ortografici, esitazioni e persino cancellature.

L’ipotesi della lingua artificiale ebbe diversi sostenitori, soprattutto per la presenza nel testo di numerose ripetizioni di sillabe che sembrerebbero rimandare a una divisione degli enti in categorie. A ciascuna di tali categorie poi, è associata una sillaba o una lettera.
Questa affascinante teoria riesce a spiegare la ripetizione delle sillabe, ma non dà alcuna risposta riguardo ai prefissi e ai suffissi presenti nel manoscritto Voynich.

Un’ulteriore ipotesi è del 2003, ed è quella di Gordon Rugg (1955; informatico e studioso di psicologia scozzese) che sostenne si trattasse di un falso rinascimentale, creato all’unico scopo di truffare studiosi o sovrani.
Secondo la sua teoria, gli autori del libro avrebbero prodotto un testo, utilizzando metodi combinatori, già utilizzati all’epoca della stesura del Voynich, e in particolare, Rugg fece riferimento alla “griglia di Cardano”, opera di Girolamo Cardano (1501 – 1576; medico, filosofo, matematico, illusionista, astrologo e accademico italiano), nel 1550.

Il metodo ispirato a Cardano è particolarmente ingegnoso ed era impiegato per scrivere messaggi segreti. Si utilizzava un foglio di carta, nel quale erano state ritagliate delle apposite aperture, attraverso queste si tracciava il messaggio su un foglio sottostante. Una volta eliminata la griglia, si completavano le porzioni del messaggio e si terminava lo scritto, ponendo del testo di senso compiuto, fino a produrre un messaggio che sembrasse del tutto normale.
Secondo Rugg, che è riuscito a individuare alcune regole base del linguaggio del manoscritto è da escludere l’idea di un testo falso, il Voynich non contiene nessun messaggio segreto codificato nel testo, in quanto, in questo specifico caso, la griglia non è stata creata per codificare, ma per comporre il testo.

Attorno al manoscritto Voynich sono state fatte moltissime altre ipotesi riguardo al perché fu scritto, da chi e quali fossero gli argomenti in esso trattati. Altrettante teorie girano attorno alla decodifica delle parole in esso contenute e dei simboli dell’alfabeto.

Stephen Bax (1960 – 2017), professore di linguistica all’Università del Bedfordshire, ad esempio, ha tentato un approccio applicato alle illustrazioni della parte erboristica e astronomica. Guardando il manoscritto da questo punto di vista, si sono individuati i possibili nomi di piante e costellazioni, ciò ha fatto dedurre che il testo non sia cifrato e neppure privo di senso, bensì un testo prodotto in un’area specifica e in una lingua o dialetto estinto, con un proprio alfabeto, anch’esso perduto.

Ci sono state molte altre ricerche e analisi sul manoscritto Voynich, ma le conclusioni a cui sono pervenute non sono né certe né tanto meno definitive, e forse, il fascino che avvolge questo manoscritto sta proprio nel suo mistero che nessuno è riuscito, nonostante gli innumerevoli tentativi, a intaccare.

Il manoscritto di Voynich non ha fatto solo lambiccare molte menti brillanti, ma ha anche ispirato molti scrittori, che ne hanno fatto uso in vari modi, ed è stato citato anche in alcune famose serie a fumetti.

Vedi prima parte del post

“La Primavera”: un dipinto che riunisce bellezza, armonia e mistero

La Primavera un dipinto che riunisce bellezza armonia e mistero

Botticelli è riuscito con il suo dipinto “La Primavera” a mostrare tutta la bellezza che ogni anno rifiorisce nella stagione della rinascita.

Come tutti gli anni, la primavera climatologica inizia il 1° marzo, mentre quella astronomica è il 20 marzo, cioè il giorno in cui cade l’equinozio di primavera.
L’arrivo della stagione della rinascita si coglie già: dai primi rami fioriti lungo le strade; dalle gemme in attesa del benefico calore del sole; dal cielo azzurro pieno di promesse.

La primavera si avverte anche nell’aria: nel canto degli uccelli, nel ronzio festante delle api. Ma qualcuno diversi secoli fa, ha immaginato alla perfezione questa stagione e le ha fornito le sembianze di una donna con indosso uno splendido abito fiorito che sparge fiori a terra, cogliendoli dal suo grembo.
Stiamo parlando de “La Primavera” di Sandro Botticelli (1445 – 1510) che il pittore realizzò intorno al 1478. Dopo tanti secoli, questo dipinto continua a stupirci e a riempirci di meraviglia, non solo per la sua bellezza, ma anche per la grazia insita nelle pose e nelle figure racchiuse in un boschetto ombroso, e per l’aura di mistero che avvolge il dipinto, il cui significato più profondo è ancora in gran parte da svelare.

Il dipinto è una tempera grassa su tavola. Botticelli la realizzò per la villa medicea di Castello; attualmente, il quadro si trova nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
La Primavera è considerato il capolavoro di Botticelli ed è al contempo una delle opere più celebri del Rinascimento italiano.
Il titolo fa riferimento a una nota del Vasari: “Venere che le Grazie fioriscono, dinotando Primavera”, dalla quale si è partiti per dipanare la complessa trama allegorica del quadro.

Botticelli realizzò questo dipinto per Lorenzo di Piefrancesco de’ Medici (1463-1503), cugino di secondo grado di Lorenzo il Magnifico.
In origine, “La Primavera” si trovava nel Palazzo di via Larga, poi fu trasferita nella Villa di Castello, dove Giorgio Vasari (1511 – 1574) la vide, nel 1550, accanto alla “Nascita di Venere”.
Nel 1815, l’opera era collocata nel Guardaroba mediceo; nel 1853 passa alla Galleria dell’Accademia e infine, nel 1919, approda agli Uffizi.

Guardando il dipinto ci ritroviamo immersi in un bosco. Le fronde degli alberi si flettono a formare una sorta di semi cupola da cui spuntano arance e fiori che trapuntano il verde come fosse un tessuto prezioso. Sullo sfondo si individua un cielo di un lieve azzurro. I personaggi sono nove e campeggiano in questo spazio in perfetta armonia, circondando il fulcro del quadro: la donna che sfoggia sopra l’abito chiaro, un drappo rosso e verde.

Il prato verde su cui i personaggi si muovono mostra una profusione di specie vegetali e sono visibili moltissimi fiori perfettamente riconoscibili: nontiscordardimé, viole, iris, ranuncoli, papaveri, fiordalisi, margherite, gelsomini, e altri ancora. Botticelli sfoggia le sue conoscenze botaniche, probabilmente coadiuvate da un’attenta osservazione di piante e fiori dal vivo e al contempo di numerosi erbari medievali. Nel dipinto sono state individuate ben centotrentotto specie di piante diverse.

Per quanto della scena generale non sia ancora del tutto chiaro il significato, i personaggi e l’iconografia del dipinto sono stati invece identificati, seguendo in particolare i suggerimenti del Vasari.
Ci troviamo in un boschetto di aranci che altro non è che il giardino delle Esperidi.
Il dipinto si legge da destra verso sinistra, per cui abbiamo: Zefiro, il vento di nord ovest e di primavera, che attrae con il suo soffio e rapisce la ninfa Clori; la mette incinta e lei rinasce trasformata in Flora, la personificazione della primavera che qui appare come una donna con un magnifico abito fiorito, che dissemina fiori, trattenuti in una piega del suo vestito.
Al centro della composizione c’è Venere che è l’emblema dell’amore più elevato. Sopra di lei c’è suo figlio, Cupido; alla sua sinistra sono ritratte le Grazie che si muovono leggiadre a passo di danza. Nell’estremità sinistra del quadro c’è Mercurio che armato di caduceo allontana le nubi.

Il quadro nasconde un complesso intreccio di significati. Non si tratta di una novità, bensì della logica tipica delle opere di questo periodo.
La lettura de “La Primavera” può essere operata in base a vari punti di vista: mitologico, riferito ai personaggi presenti nel quadro; filosofico, la filosofia dell’accademia neoplatonica e altre dottrine; storico-dinastico che si allaccia ad eventi contemporanei al dipinto e mira a onorare il committente e la sua famiglia.

Come si è già accennato, i misteri de “La Primavera” non sono ancora stati svelati del tutto e ci si muove per ipotesi, più o meno probabili.
Sembra che il dipinto sia l’allegoria del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici e Semiramide Appiani; Botticelli realizzò il dipinto in due fasi, perché il dipinto all’inizio era destinato a un altro committente, Giuliano de’ Medici, e l’occasione non era una cerimonia nuziale, bensì la nascita di un figlio.

I personaggi, tenendo fede alle due committenze, raffigurerebbero:

  • Venere, Fioretta Gorini (nella prima versione), poi l’Amore Universale
  • Mercurio, Lorenzo di Pierfrancesco
  • Le tre Grazie, l’Amore humanus (la Grazia al centro aveva le sembianze di Semiramide Appiani), cioè spirituale e puro
  • Zefiro-Cloris-Flora, l’Amore Ferinus, cioè l’amore carnale
    I fiori, invece, sottintendono significati matrimoniali: margherite, fiordalisi e nontiscordardimé fanno riferimento alla donna amata; i fiori d’arancio e la borrana sono simbolo di felicità matrimoniale.

In base alla lettura storica, “La Primavera” è un’allegoria dell’età medicea, interpretata come età dell’oro sotto la guida di Lorenzo di Pierfrancesco, da cui consegue che: Flora è Florentia; le tre Grazie sono Pisa, Napoli e Genova; Mercurio è Milano; Venere è Venezia; Cupido è Roma; Borea è Bolzano.

Se leggiamo il dipinto dal punto di vista filosofico è l’amore il protagonista della scena, l’amore nei suoi diversi gradi, che spinge l’uomo a distaccarsi dal mondo terreno per rivolgersi a quello spirituale.
Questa lettura è confortata dalla centralità della figura di Venere che in questo caso rappresenta l’amore spirituale.

Flâneur e l’arte di “andare a zonzo” per le vie della propria città

Flâneur l’arte di andare a zonzo per la propria città

Come vi muovete in città? Camminate senza guardarvi intorno, infilando un passo dietro l’altro? Per raggiungere la vostra meta percorrete solo le vie più brevi o quelle che conoscete meglio? O siete, invece, degli inguaribili “flâneur”?

Flâneur, come avrete già intuito, è un termine francese, a coniarlo e renderlo famoso fu il poeta simbolista Charles Baudelaire (1821-1867; oltre che poeta, critico letterario, critico d’arte, giornalista, filosofo, aforista, saggista e traduttore).
Il termine flâneur indica il gentiluomo che vaga oziosamente per le vie della città, senza alcuna fretta. Il suo girovagare ha come unico scopo quello di sperimentare e provare emozioni, osservando il paesaggio.
Se volessimo tradurre l’arte del flâneur in italiano, potremmo dire: “andare a zonzo“.

Baudelaire usò il termine flâneur per definire l’artista la cui mente è indipendente, imparziale e appassionata, “che il linguaggio può solo definire maldestramente“.
Per il perfetto flâneur, per l’osservatore appassionato, è un piacere immenso prendere la residenza nel numeroso, nell’ondulato, nel mobile, nel fugace e infinito. Essere lontano da casa, eppure sentirsi a casa ovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo, e rimanere nascosto al mondo“.

Sotto l’influenza di Georg Simme (1858-1918; sociologo e filosofo tedesco), Walter Benjamin (1892 – 1940; filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco, fu un pensatore eclettico che si occupò di estetica, sociologia e materialismo storico), che tradusse Baudelaire, sviluppò la nozione di flâneur e spesso nella sua opera ricorre tale termine.
Molti altri pensatori, dopo di lui, ripresero il concetto di flâneur e lo collegarono alla modernità, alle metropoli, all’urbanismo e al cosmopolitismo. Con il passare del tempo, esso assunse un notevole peso sia in architettura sia urbanistica.

Negli anni intorno al 1850, Baudelaire teorizzava che la figura dell’artista a lui contemporaneo dovesse avere un atteggiamento diverso dal passato, un atteggiamento cioè in sintonia con le nuove dinamiche e le complicazioni introdotte dalla vita moderna che aveva subito parecchi cambiamenti sia a livello sociale sia a livello economico, principalmente legati al processo di industrializzazione.

Secondo il poeta, l’artista doveva immergersi nella città e trasformarsi in “un botanico del marciapiede“, in qualcuno che conoscesse a fondo il tessuto urbano.
Osservatore, flâneur, filosofo, chiamatelo come volete; ma sarete certamente portati, per caratterizzare questo artista, a gratificarlo di un epiteto che non potreste applicare al pittore di cose eterne, o almeno più durature, di cose eroiche o religiose. A volte è un poeta; più spesso è più vicino al romanziere o al moralista; è il pittore della circostanza e di tutto ciò che suggerisce dell’eternità“.

I termini flâneur e flânerie (bighellonare, passeggiare, vagare) furono creati da Baudelaire, pensando in particolare ai parigini; per lui, le città ideali in cui vagare erano Parigi e Napoli, in quanto idonee all’esplorazione condotta in tutta calma e senza pianificazioni.
L’atteggiamento del flâneur è bene definito dalla frase: “uno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie di Parigi“, che definisce il suo vagare volutamente pigro e senza ombra di urgenza.

Il filosofo Benjamin afferrò il concetto di flâneur come mezzo di analisi e stile di vita. Lo stile di vita che derivava dalla vita moderna e dalla rivoluzione industriale.
Il flâneur per Benjamin è un borghese dilettante e lui stesso ne vestì i panni: faceva lunghe passeggiate per le strade di Parigi e da queste escursioni urbane traeva osservazioni sociali ed estetiche.

In architettura e urbanistica contemporanea, la progettazione è per il flâneur una maniera per avvicinarsi ai risvolti psicologici della costruzione di edifici. Ad esempio, l’architetto americano, Jon Jerde (1940-2015), concepì il suo Horton Plaza a San Diego e l’Universal CityWalk di Los Angeles, in modo da sorprendere e distrarre potenziali passeggiatori.

Secondo Baudelaire, per il perfetto flâneur “è un piacere immenso prendere dimora nel numero, nell’ondulazione, nel movimento, nel fugace e nell’infinito. Essere lontano da casa, e tuttavia sentirsi a casa ovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo e rimanere nascosto al mondo, questi sono alcuni dei piaceri minimi di quegli spiriti indipendenti, appassionati, imparziali che il linguaggio può solo maldestramente definire. L’osservatore è un principe che si gode il suo incognito ovunque. […] Può anche essere paragonato a uno specchio immenso come questa folla; a un caleidoscopio dotato di coscienza che, con ciascuno dei suoi movimenti, rappresenta la vita multipla e la grazia mobile di tutti gli elementi della vita. È un sé insaziabile del non sé, che in ogni momento lo rende e lo esprime in immagini più vivide della vita stessa, che è sempre instabile e fugace”.

E voi, alla luce di queste parole, vi potete definire dei perfetti flâneur?
Vivete la vostra città appieno oppure per voi le città sono solo luoghi nati per soddisfare bisogni pratici e urgenti necessità?

In copertina: Gustave Caillebotte, “Strada di Parigi in un giorno di pioggia” (Rue de Paris, temps de pluie) (1877), Art Institute of Chicago

Alessandro Manzoni, “I promessi sposi” e il personaggio dell’Innominato

Alessandro Manzoni, "I promessi sposi" e il personaggio dell’Innominato

Il 7 marzo del 1795 nasceva Alessandro Manzoni, uno dei maggiori romanzieri italiani, noto soprattutto per “I promessi sposi”, opera che gettò le basi del romanzo moderno.
I personaggi manzoniani sono così reali che fanno pensare di poterli incontrarli nella quotidianità; uno di loro resta saldo nei miei ricordi: l’Innominato.

Ho letto “I promessi sposi” di Manzoni molti anni fa, fu una lettura scolastica, imposta dal programma. Ricordo a grandi linee la trama del romanzo e la simpatia/antipatia che ho nutrito per alcuni dei personaggi del libro. Uno, però, ha colpito la mia immaginazione, forse per il timore che incuteva e il mistero che lo circondava: l’Innominato.

Alessandro Manzoni, il cui nome completo era, Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – Milano, 22 maggio 1873), è stato non solo scrittore, ma anche poeta e drammaturgo.
L’autore de “I promessi sposi” fu anche un patrocinatore dell’unità linguistica italiana, anche lui seguiva la tendenza tutta illuminista della letteratura impegnata sia civilmente sia moralmente.
Nell’arco della sua vita, lo scrittore fu a contatto con la migliore cultura intellettuale francese (Johann Wolfgang von Goethe 1749-1832) e con grandi intellettuali (Antonio Rosmini 1797-1855), inoltre, era ben informato sulle novità britanniche (Walter Scott 1771-1832).

Per quanto riguarda la formazione culturale, come già si nota nelle poesie che Manzoni scrisse durante l’adolescenza, lo scrittore, all’epoca era particolarmente interessato alla mitologia e alla letteratura latina.
Prediligeva, soprattutto, Virgilio e Orazio, ma è forte nella sua scrittura anche l’impronta di Dante e quella di Petrarca. Tra i contemporanei, oltre a Vincenzo Monti (1754-1828), Manzoni subì l’influsso anche di Giuseppe Parini (1729-1799) e Vittorio Alfieri (1749-1803).

Le prime esperienze poetiche di Manzoni sono databili alla metà del 1801, insieme ad esse, lo scrittore ci ha lasciato delle traduzioni di alcune parti della “Eneide” e della “Satira terza” di Orazio.
Il periodo più creativo per lo scrittore, però, fu indubbiamente il quindicennio tra il 1812 e il 1827.
All’epoca, Manzoni si era già convertito al cattolicesimo e alle idee del romanticismo e in questo periodo scrisse le sue opere principali, passando dalla poesia – sacra e civile – ai saggi filosofico-religiosi, alle tragedie, fino ad arrivare alla realizzazione del primo grande romanzo della storia della letteratura italiana: “I promessi sposi”.

In queste opere si avverte già il desiderio di verosimiglianza e il crescente interesse per i sentimenti umani che saranno pienamente manifestati nel romanzo, alla cui stesura Manzoni iniziò a dedicarsi dall’autunno del 1821.
In un primo tempo il titolo dell’opera fu “Fermo e Lucia” e in questa prima stesura è evidente l’influenza esercitata dai romanzi europei, soprattutto quelli inglesi. Inoltre, per dare veridicità ai fatti che avrebbe descritto e per conoscere le ambientazioni e gli usi dell’epoca, Manzoni si dedicò anche a una minuziosa attività di ricerca storica.

Furono necessari molti altri impegnativi anni di lavoro, di rielaborazione strutturale e linguistica, per arrivare al romanzo che tutti conosciamo, il cui titolo fu mutato in “I promessi sposi”, e fu pubblicato nella versione definitiva tra il 1840 e il 1842.

Il romanzo è ambientato in Lombardia, nel periodo tra il 1628 e il 1630, durante il dominio spagnolo.
“I promessi sposi” sono il primo esempio di romanzo storico della letteratura italiana.
Manzoni si avvalse della sua approfondita ricerca storica per diversi episodi: le vicende della monaca di Monza (Marianna de Leyva y Marino); le vicissitudini legate alla Grande Peste (1629-1631). Sono tutti basati su documenti d’archivio e cronache dell’epoca.

Oltre a rappresentare un passaggio essenziale per la nascita della lingua italiana, il romanzo di Manzoni è anche il testo più significativo del romanticismo italiano, soprattutto per la profondità dei temi e perché, per la prima volta, un romanzo di successo ha come protagonisti, gli umili, invece dei potenti della storia.

Leggendo “I promessi sposi”, ricordo che rimasi colpita da un personaggio, in particolare, che, pur non appartenendo alla schiera degli umili, si staglia all’interno della complessa vicenda, ed è l’Innominato. Credo che ne fui affascinata per il timore reverenziale da cui era circondato, grande nel male quanto poi nel bene, e dall’alone di mistero dal quale era avvolto, tanto da rendere impossibile farlo passare inosservato.

L’Innominato è un personaggio singolare anche perché, mentre gli altri personaggi maturano nel corso dei due anni in cui si svolgono gli eventi, subisce nell’arco di una sola notte – anche se il cambiamento era già in atto da più tempo – una mutazione profonda.
Manzoni di lui dice: “Di costui non possiamo dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo” (“I promessi sposi”, capitolo XIX, pp. 371-372)

L’innominato, che in “Fermo e Lucia” era denominato come, il Conte del Sagrato, è tra i personaggi più complessi e inquietanti di tutto il romanzo.
Fu identificato storicamente con Bernardino Visconti (1579-1647), un nobile che guerreggiava con gli spagnoli, potentissimo e sanguinario.
Quando Manzoni ce lo presenta, l’Innominato è vicino alla vecchiaia, è pieno di dubbi per la vita che ha condotto: tra omicidi e soprusi nei confronti dei più deboli.
Nella storia è chiamato ad agire da don Rodrigo che gli chiede di rapire Lucia dal monastero di Monza, dove si è rifugiata, sotto la protezione di Gertrude.
L’Innominato incarica il Nibbio, capo dei bravi al suo servizio, del delicato compito, questi, con l’aiuto di Egidio e la complicità di Gertrude, riesce a rapire Lucia e a condurla al castello del suo padrone.

Per delineare la figura di questo statuario cattivo, Manzoni si serve anche del paesaggio e nel delineare la valle, dove si trova il castello dell’Innominato, ci dice che: il territorio è aspro, arido, minaccioso e incutente paura, con il chiaro intento di riflettere la personalità e lo stile di vita del personaggio.

Al cospetto dell’Innominato, Lucia è terrorizzata; lo prega di lasciarla libera, esortandolo al contempo a redimersi: “Dio perdona molte cose per un atto di misericordia”.
L’uomo resta turbato dalla semplicità della ragazza, dalla sua vulnerabilità e dalle sue parole. Queste emozioni, unite alle sue crisi di coscienza già in atto, lo spingeranno verso la conversione.

Famosa è la notte al castello dell’Innominato, subito dopo il rapimento di Lucia.
Una notte terribile per entrambi i personaggi: Lucia sconvolta dalla paura pronuncia un voto, mentre l’Innominato è tormentato dai sensi di colpa che lo condurranno a un passo dal suicidio.
L’alba e il suono delle campane, che annunciano l’imminente visita del cardinale Federico Borromeo, distolgono l’Innominato dai suoi propositi di morte e lo spingono a incontrarsi con il prelato e infine, alla conversione.
Dopo questo cruciale cambiamento, l’Innominato, innanzitutto, libererà Lucia e poi comincerà a condurre una vita all’opposto della precedente: si dedicherà a opere di misericordia e, più avanti nel romanzo, ne abbiamo una chiara testimonianza, quando si offrirà di ospitare gli abitanti della zona nella sua fortezza, in occasione della temuta discesa dei lanzichenecchi.

Non solo l’Innominato, ma anche altri personaggi manzoniani analizzano costantemente le proprie dinamiche interiori, rispecchiando quel “guazzabuglio del cuore umano“, particolarmente caro all’autore. Questo emerge in particolare nella figura dell’Innominato, ma anche in quella di Renzo.
Tali analisi conducono a dei cambiamenti, dovuti anche all’accumulo delle nuove esperienze e al passare del tempo, e sono evidenti, anche se in modo più sottile, anche in altri personaggi, come fra Cristoforo e Lucia. La giovane, in particolare, sembra restare la stessa dall’inizio alla fine della storia, ma in realtà anche lei subisce una maturazione costante e progressiva che il Manzoni non mancherà di registrare.

In copertina: particolare de “l’Innominato” di Andrea Gastaldi (olio su tela, 1860)

Carlo Goldoni: l’autore che avvicinò il teatro al reale e alla quotidianità

Carlo Goldoni l’autore che avvicinò il teatro al reale e alla quotidianità

Oggi, 25 febbraio, ricorre l’anniversario della nascita di Carlo Goldoni. Il commediografo veneziano ha lasciato un’impronta tangibile nel mondo teatrale e per farlo, a sentire lui, non ha dovuto far altro che non scostarsi mai dalla natura.

Carlo Osvaldo Goldoni (Venezia, 25 febbraio 1707 – Parigi, 6 febbraio 1793), ritenuto uno dei padri della commedia moderna, è stato commediografo, appunto, scrittore, librettista e avvocato italiano.
Le sue origini sono borghesi.
Nato a Venezia, ancora giovane si trasferì con la famiglia a Perugia, dove studiò dapprima, con un precettore, poi in un collegio gesuitico. Trasferitosi ancora, stavolta a Rimini proseguì gli studi presso un istituto gestito dai domenicani.

Nel 1721, torna a Venezia con la madre e qui inizia il praticantato presso lo studio legale dello zio.
Nel 1723, è a Pavia, dove prosegue gli studi presso l’Università della città. Successivamente, andrà a Udine e poi a Vipacco, insieme al padre che esercita come medico presso il conte Francesco Antonio Lantieri.

Negli anni successivi, Goldoni continuò a spostarsi, riprendendo ancora gli studi continuamente interrotti.
Nel 1729, è a Feltre e già da qualche tempo ha iniziato a dedicarsi alla scrittura di opere teatrali: intermezzi comici per lo più, che già rivelano appieno la sua passione per il teatro.
Nel 1731, morì suo padre e Goldoni tornò a Venezia, qui, finalmente terminò i suoi studi a Padova e iniziò la sua carriera forense.

È del 1734 un incarico per il teatro San Samuele, Goldoni deve scrivere dei testi, così nascono le prime tragicommedie: “Belisario” (1734); “Don Giovanni Tenorio” (1735); “Giustino” (1738).
In questo stesso periodo, Goldoni si spostò a Genova, seguendo la compagnia teatrale per cui lavorava, e qui conobbe Nicoletta Conio che poi sposò e con lei tornò a Venezia.

La prima commedia di Goldoni è del 1738, il “Momolo cortesan” che presenta un’unica parte completamente scritta, quella del protagonista. Tra il 1742 e il 1743 scrisse invece la prima commedia con tutte le parti scritte: “La donna di garbo”.

Tra fughe per debiti, viaggi, esperienze teatrali e mestiere dell’avvocatura, Goldoni affronta diverse vicissitudini, prima di approdare di nuovo al teatro, con un’altra compagnia e un nuovo capocomico: Girolamo Medebach (1706-1790; attore teatrale).
La nuova compagnia recitava a Venezia al teatro Sant’Angelo.
Le commedie che l’autore veneziano scrive tra il 1748 e il 1753 si allontanano dai modelli della commedia dell’arte e iniziano a rivelare i principi di una “riforma” del teatro.
In questo periodo scrive: “L’uomo prudente”, “La vedova scaltra”, “La putta onorata”, e altro ancora.

Nel 1750 altro tour de force del nostro commediografo che riuscì a scrivere sedici commedie in un solo anno, tra queste ricordiamo: “Il teatro comico” (manifesto della sua riforma teatrale); “La bottega del caffè”, “Il bugiardo”, “Il poeta fanatico”, “La finta ammalata”, “I pettegolezzi delle donne”.
Sempre per la compagnia del Medebach, Goldoni produsse altri testi fino a giungere a “La locandiera” e a “Le donne curiose”.

Nel 1753, Goldoni ruppe i suoi rapporti con la compagnia del Medebach e firmò un nuovo contratto con il teatro San Luca.
Furono anni difficili per l’autore che dovette affrontare la sfida di un edificio teatrale molto più grande e attori che non conoscevano il suo stile, lontano dai modelli della commedia dell’arte.
In questo periodo fu particolarmente apprezzata la “Trilogia persiana” e diverse commedie, tra le quali primeggia il capolavoro “Il campiello”.

Nel 1761, il commediografo ricevette un invito per recarsi nella capitale francese a prendersi cura della Comédie Italienne.
Prima della partenza, Goldoni regalò al Teatro San Luca un’ultima vivace stagione, producendo diverse opere teatrali: “La trilogia della villeggiatura”, “Sior Todero brontolon”, “Le baruffe chiozzotte”, “Una delle ultime sere di carnovale”.

A Parigi dal 1762, Goldoni ebbe il suo daffare per far valere la Commedia Italiana e qui riprese la sua battaglia per la riforma del teatro.
Quando giunse, la rivoluzione francese sconvolse la sua vita e nel 1793, il 6 febbraio, morì in miseria alla soglia degli 86 anni.

Goldoni scrisse avendo sempre ben presente precise contingenze: occasioni specifiche; necessità degli attori, dei teatri e delle compagnie.
Tutta la sua opera è un’interrotta serie di situazioni; giocata su un parlare quotidiano e volta a rappresentare in modo attento il reale.
Inoltre, Goldoni passava sovente dall’italiano al veneziano e viceversa, lasciando spazio ai vari usi sociali del linguaggio, consentendogli così di aderire alle situazioni più svariate in cui erano calati i personaggi.
Il veneziano adottato dall’autore era quello del mondo borghese, e il dialetto, quando lo utilizzava, non era uno strumento di gioco, bensì un linguaggio concreto e indipendente che si differenziava in base alle diverse classi sociali dei personaggi che ne facevano uso.

Goldoni nella sua riforma pose come elemento fondamentale: il richiamo alla natura, in un confronto costante con la realtà quotidiana.
Il commediografo ostentava nella sua opera un illuminismo popolare che si opponeva a qualsiasi forma di ipocrisia e al contempo dava rilevanza alla classe sociale dei piccoli borghesi.
Goldoni mirava a rappresentare un mondo razionale pacifico, dove esistevano le gerarchie sociali e ognuno aveva un ruolo ben preciso: dalla nobiltà alla borghesia sino al popolo.

Il commediografo rivolse la sua attenzione ai vizi – per colpirli, aspirando al contempo a correggerli – contrapposti alle virtù.
Nelle sue opere c’era sempre una precisa morale e i caratteri avevano uno scopo pedagogico.
Il suo teatro faceva riferimento alla vita quotidiana e racchiudeva tutta la vita della Venezia e dell’Italia del suo tempo.
Facendo riferimento alle classi sociali, Goldoni diede ai borghesi il ruolo centrale, mentre i nobili si rivelavano senza valori. I servi, dal canto loro, facevano ancora riferimento alla commedia dell’arte, erano trattati con maggiore schematicità e risaltavano per la loro intelligenza. Negli ultimi anni a Venezia, l’autore garantì loro un maggiore respiro e attraverso essi avanzò critiche alla ragione borghese dei loro padroni.

Un elemento fondamentale del mondo per Goldoni era l’amore: un sentimento spesso affermato sulla scena dai giovani e costretto a sottostare alle regole sociali e familiari e che doveva anche tenere conto dell’onore e della reputazione.

Per riassumere nel complesso l’avventura teatrale di Goldoni e per definire lo scopo e il modo in cui fu attuata la sua riforma teatrale possiamo appoggiarci alle sue affermazioni: “Sebben non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali, come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro”.

In Copertina: Canaletto, “Piazza San Marco” (1723 ca., Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza)

Manoscritto Voynich: “il libro più misterioso del mondo” #1

Manoscritto Voynich il libro più misterioso del mondo 1

Il manoscritto Voynich, custodito presso la Biblioteca Beinecke di manoscritti e libri rari dell’Università di Yale, è un codice illustrato, risalente al XV secolo.
La sua datazione è stata precisata al radiocarbonio e colloca la sua stesura tra il 1404 e il 1438.

Il manoscritto Voynich, deve la definizione di “libro più misterioso del mondo” e l’aura arcana che lo circonda a diversi aspetti che lo riguardano:

  • è stato scritto con un sistema di scrittura tuttora non decifrato
  • nel testo compaiono immagini di piante non raffrontabili con alcun vegetale conosciuto
  • l’idioma utilizzato non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico finora noto

Questo singolare volume deve il suo nome a Wilfrid Michael Voynich, in origine Michał Wojnicz (1865 – 1930), un antiquario e mercante di libri rari polacco, successivamente naturalizzato inglese.
Il manoscritto finì nelle mani di Voynich grazie a padre Giuseppe Strickland (1864 – 1915), un religioso gesuita che, nel 1912, fece da tramite tra l’antiquario e il collegio gesuita di Villa Mondragone, vicino Frascati. L’ordine di cui Strickland faceva parte necessitava di fondi per restaurare la villa, li ottenne vendendo trenta volumi della sua biblioteca, tra questi era compreso il manoscritto Voynich.

Entrato in possesso del libro, Voynich rilevò nel testo delle annotazioni in greco antico e stimò che il libro appartenesse al XIII secolo. Inoltre, all’interno del volume, trovò una lettera di Jan Marek Marci (1595 – 1667), rettore dell’Università di Praga e medico reale di Rodolfo II di Boemia (1552 – 1612). Nella missiva era specificato che Marci lo inviava a Roma, all’amico poligrafo, Athanasius Kircher (1602 – 1680; gesuita, filosofo, storico e museologo tedesco del XVII secolo), affinché lo decifrasse.

Nella lettera, datata “Praga, 19 agosto 1665” (o 1666), Marci sosteneva di avere ereditato il manoscritto medievale da un amico, Georg Barches (1585 – 1662), un alchimista (si conobbe il suo nome solo successivamente, grazie a delle ricerche). Il proprietario antecedente del libro era stato l’imperatore Rodolfo II che lo aveva comprato per una cifra considerevole per l’epoca, ben 600 ducati, poiché credeva fosse stato scritto da Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292 ca.; filosofo, scienziato, teologo ed alchimista inglese).
Infine, dalle mani di Voynich il manoscritto passò a quelle di Hans P. Kraus (1907 – 1988; antiquario e libraio austriaco naturalizzato statunitense) che ne fece dono all’Università di Yale.

Il manoscritto Voynich è redatto su pergamena di vitello; ha dimensioni ridotte: 16 cm di larghezza per 22 di altezza e 5 di spessore.
Grazie alle due numerazioni, presenti sui margini delle pagine, si è dedotto che il libro fosse composto da 116 fogli, suddivisi in 20 fascicoli. Inoltre, nel volume sono presenti pagine più grandi che sono state ripiegate, mentre si è riscontrato che all’insieme mancano 14 fogli.

Il libro non contiene solo testo, ma è impreziosito da un certo numero di illustrazioni a colori che raffigurano molti soggetti diversi. La presenza delle immagini ha consentito di comprendere sia la natura del manoscritto di Voynich sia le sezioni in cui è suddiviso:

  • La sezione I (fogli 1-66), “botanica”, presenta 113 disegni di piante sconosciute.
  • La sezione II (fogli 67-73), “astronomica o astrologica”, ha 25 diagrammi che sembrano richiamare delle stelle e sono riconoscibili anche alcuni segni zodiacali. Nonostante ciò, non è possibile definire di cosa parli questa sezione.
  • La sezione III (fogli 75-86), “biologica”, in quanto presenta molte figure femminili nude, spesso immerse fino al ginocchio in un liquido scuro, in delle vasche intercomunicanti.
  • Dopo la sezione III è presente un foglio ripiegato sei volte, dove sono rappresentati nove medaglioni con figure di stelle, raggiere di petali e fasci di tubi.
  • La sezione IV (fogli 87-102), “farmacologica”, è definita così, perché vi sono raffigurate ampolle e fiale. Inoltre, in questa parte del manoscritto Voynich ci sono anche disegni di piccole piante e radici, forse, erbe medicinali.
  • L’ultima sezione (dal foglio 103 sino alla fine) presenta unicamente delle stelline, a sinistra delle righe. Si pensa possa trattarsi di una specie di indice.

La datazione, almeno fino all’inizio del 2011, è stata oggetto di varie ipotesi; tutte scartate nel febbraio 2011, grazie alla datazione del manoscritto Voynich effettuata con la tecnica del carbonio-14.
La datazione precisa si è ottenuta prelevando dei piccoli campioni dai margini di alcune pagine e si è precisato che le pergamene che compongono il volume appartengono a un periodo compreso tra il 1404 e il 1438.
Inoltre, recenti analisi dei pigmenti presenti nel manoscritto, hanno evidenziato affinità con quelli di altri manoscritti del Quattrocento e medievali in genere.

In un primo momento, si pensò si trattasse di un falso, realizzato nel Cinquecento, per ingannare Rodolfo II. L’autore dell’abile truffa fu individuato in Edward Kelley (1555 – 1597; alchimista, mago, astrologo, glottoteta e medium inglese. La glottopoiesi è l’arte di creare linguaggi artificiali sviluppandone la fonologia, il vocabolario e la grammatica), aiutato nella singolare malefatta da John Dee (1527 – 1608; filoso, matematico, geografo, alchimista, astrologo e astronomo inglese).

Altre interessanti teorie stimavano che il libro fosse databile agli inizi del Seicento, in seguito alla scoperta di una firma, grazie all’infrarosso, di Jacobi à Tepenecz, noto come Jacobus Horcicki (1575 – 1622), alchimista al servizio di Rodolfo II. Un’altra possibile datazione fu suggerita da una delle piante rappresentate nella sezione “botanica”, simile al comune girasole, questo pianta giunse in Europa solo dopo la scoperta dell’America, per cui si immaginò che il libro fosse stato scritto dopo il 1492.

I misteri attorno al manoscritto non hanno interessato solo la datazione, ora svelata grazie alla scienza, ma anche la sua decifrazione, ma di questo parliamo in un prossimo post…

14 febbraio, San Valentino e le lettere d’amore

14 febbraio San Valentino e le lettere d’amore

Il 14 febbraio è San Valentino, da sempre la festa degli innamorati. Propongo di celebrare questo giorno con un piacevole ricordo: le lettere d’amore.

Oggi è San Valentino e il pensiero di questa festa mi ha fatto venire in mente un gesto che un tempo, lontani dai social, dalle chat e da mille modi virtuali di incontrare e comunicare con le persone, era naturale, quando si voleva esprimere a qualcuno il proprio amore o la propria vicinanza affettiva: prendere una penna e scrivere una lettera.

Ricordate quelle missive di carta e inchiostro che molti attendevano con ansia: per conoscere i sentimenti di una persona amata; per avere notizie di chi era lontano; per sapere se un amico o un’amica stavano bene o erano felici a chilometri di distanza da noi.

Un’infinità di messaggi ed emozioni viaggiava su fogli di carta vergata o sottile come velina, spostandosi magari per mare, per terra o via cielo.
Mi sembrava significativo ricordare questa bella usanza, con la speranza che qualcuno possa mettere a frutto queste parole, prendendo in mano una penna o una matita e mettendo nero su bianco le proprie sensazioni, le proprie trepidazioni o il fremere di un batticuore e poi, inviandole al destinatario, con l’anima colma di attesa.

La festa di San Valentino e la consuetudine di inviare lettere mi hanno anche ricordato un libro e in particolare una lettera d’amore in esso contenuta, che è il motore di una bellissima storia.
La lettera è davvero singolare e sono sicura che non mancherà di lasciare anche in voi un segno memorabile.

Cara Capra,
come ci si innamora? Si casca? Si inciampa, si perde l’equilibrio e si cade sul marciapiedi, sbucciandosi un ginocchio, sbucciandosi il cuore? Ci si schianta per terra, sui sassi? O è come rimanere sospesi oltre l’orlo di un precipizio, per sempre?

So che ti amo quando ti vedo, lo so quando ho voglia di vederti. Non un muscolo si è mosso. Nessuna brezza agita le foglie. L’aria è ferma. Ho cominciato ad amarti senza fare un solo passo. Senza neanche un battito di ciglia. Non so neppure quando è successo.
Sto bruciando. È troppo banale per te? No, e lo sai. Vedrai. È quello che capita, è quello che importa. Sto bruciando.
Non mangio più, mi dimentico di mangiare, mi sembra una cosa sciocca, che non c’entra. Se ci bado. Ma non bado a niente. I miei pensieri straripano furiosi, una casa piena di fratelli, legati dal sangue, che si dilaniano in una faida:
“Mi sto innamorando”.
“Tipica scelta stupida”.

“Eppure… L’amore mi tormenta come se fosse dolore”.
“Sì, continua così, manda a puttane la tua vita. È tutto sbagliato e lo sai. Svegliati. Guarda le cose in faccia”.
“C’è una faccia sola, l’unica che vedo, quando dormo e quando non dormo”.
Stanotte ho buttato il libro dalla finestra. Ho provato a dimenticare. Tu non vai bene per me, lo so, ma quello che penso non mi interessa più, a meno che non pensi a te. Quando sono accanto a te, davanti a te, sento i tuoi capelli che mi sfiorano la guancia anche se non è vero. Qualche volta guardo altrove. Poi ti guardo di nuovo.
Quando mi allaccio le scarpe, quando sbuccio un’arancia, quando guido la macchina, quando vado a dormire ogni notte senza di te, io resto,
come sempre,
Montone
” (tratto da “La lettera d’amore” di Cathleen Schine)

Buon San Valentino!