Rocambole, l’eroe moderno: avventuriero e ladro gentiluomo

Rocambole, l’eroe moderno: avventuriero e ladro gentiluomo

Rocambole, avventuriero e ladro gentiluomo, è un singolare personaggio della letteratura ottocentesca. Un eroe dalle tinte fosche, che a un certo punto della sua vita decide di lasciare il “lato oscuro” per difendere i più deboli.

Rocambole, il cui nome originale era Joseph Fipart dit Rocambole, è un personaggio inventato, protagonista del romanzo a puntate, “Les Drames de Paris” (I drammi di Parigi), del 1857, dello scrittore francese Pierre Alexis Ponson du Terrail (Montmaur, 8 luglio 1829 – Bordeaux, 10 gennaio 1871; autore di romanzi popolari o roman-feuilleton).
Le vicende di questo singolare personaggio hanno avuto una grande influenza sullo sviluppo della narrativa d’avventura, precorrendo la narrativa eroica moderna.

Ponson du Terrail iniziò a scrivere il primo romanzo del ciclo “Les Drames de Paris”, cioè “L’Héritage Mysterieux” (L’eredità misteriosa) nel 1857, per il quotidiano “La Patrie”. La sua idea era quella di sfruttare il successo dei “Misteri di Parigi” di Eugène Sue (1804 – 1857; scrittore francese, noto soprattutto per i suoi romanzi d’appendice a carattere sociale), scritto circa quindici anni prima.

Il protagonista della saga, Rocambole, ottenne un enorme successo popolare che garantì al suo autore un’ottima e costante fonte di reddito.
Du Terrail scrisse in totale nove romanzi con protagonista Rocambole. I testi erano destinati a vari giornali dell’epoca e l’autore fu costretto a produrli in fretta, questo, purtroppo, andò a discapito della qualità della scrittura e dello stile che risulta stereotipato. Per questi motivi, probabilmente, l’interesse per Rocambole decadde quasi del tutto nei secoli successivi al suo periodo d’oro.

In ogni caso, Rocambole ha la sua importanza: per la prima volta con i suoi romanzi ci troviamo di fronte ad avventure di fantasia. Il suo personaggio segna il passaggio dagli eroi del romanzo gotico a quelli più moderni, intraprendenti e dotati di un carattere oscuro.

Quando scriveva le peripezie di Rocambole, Ponson du Terrail fu sottoposto a notevoli pressioni da parte dei suoi affezionati lettori. Tutti erano ansiosi di conoscere il seguito delle sue avventure. Queste pressioni spiegano gli sviluppi imprevisti della serie, come la cancellazione di alcuni personaggi e l’ascesa di altri, in particolare, quella del protagonista che dall’ottobre del 1858, diventò l’eroe principale con “Les Exploits de Rocambole” (Le imprese di Rocambole).

I romanzi di du Terrail oltre a portare qualcosa di nuovo, sono un ottimo spiraglio per conoscere la vita parigina. Lo stesso personaggio dell’avventuriero spericolato è una miscela ben riuscita di sfacciataggine parigina e fascino orgoglioso del bandito romantico.

Scendendo più nei dettagli, riguardo a Rocambole, l’autore ci informa che era orfano e già da bambino, viveva rubando. Poi, dopo un arresto e una fuga dalla colonia penale completerà la sua formazione criminale, grazie a due personaggi chiave della sua vita: la vedova Fipart e Sir Williams (vero nome Andréa Felipone).

La vita di Rocambole può essere divisa in due fasi principali. Nella prima, si industria a compiere ogni sorta di crimine: ricatti, furti e persino omicidi. Poi, dopo varie vicissitudini, finito di nuovo in prigione e successivamente evaso, ancora una volta, decide di cambiare vita e di dedicare le sue “arti” al bene.
In questa seconda fase della sua esistenza, Rocambole trova diversi alleati, ad esempio: pentiti come lui e persino alcuni che in passato erano stati suoi avversari. Con essi inizia una sorta di crociata, a favore di orfani defraudati delle loro eredità da persone malvage e di bambini rapiti e strappati ai loro genitori.

Viaggia anche molto, arrivando persino in India. Fa diverse tappe a Londra e continua a entrare e uscire di galera. Le sue evasioni, come le sue avventure sono in tutto e per tutto delle vere acrobazie.
Di romanzo in romanzo, lo vediamo coinvolto in situazioni sempre più complicate e pericolose, pronto ad affrontare mille pericoli e a gettarsi nella mischia, per vivere peripezie sempre più audaci e temerarie. Non per niente, il termine “rocambolesco”, mutuato dal nome del personaggio, è entrato nell’uso corrente, quando si vuole descrivere azioni particolarmente spericolate e azzardate.

Dopo Ponson du Terrail, altri scrittori hanno proseguito la saga di Rocambole e sull’avventuriero sprezzante del pericolo sono stati girati anche diversi film e serie televisive.

In copertina: a sinistra, “Rocambole: les drames de Paris”, copertina di Gino Starace per la ristampa della libreria Arthème Fayard del 1909; a destra, copertina del primo numero di una ristampa del ciclo di romanzi Rocambole, pubblicato in 219 numeri dalle Éditions Rouff (1908-1910). Illustrazione di Louis Bombled

“La lettrice” di Fragonard e il fascino della bellezza femminile

"La lettrice" di Fragonard e il fascino della bellezza femminile

“La lettrice” è un dipinto di Jean-Honoré Fragonard, risalente al 1776. Questo ritratto rappresenta una sorta di meditazione sulla bellezza e sugli effetti della lettura sull’animo femminile.

Jean-Honoré Fragonard (Grasse, 5 aprile 1732 – Parigi, 22 agosto 1806) è stato un pittore francese, un importante esponente del rococò e uno dei più importanti artisti francesi del Settecento.

Fragonard sapeva sfruttare al meglio le sue doti pittoriche. Faceva un uso particolare della luce e si avvaleva di una singolare rarefazione di specifiche parti, un valido artificio che gli consentiva di rappresentare con efficacia la leggerezza di alcuni elementi, come i panneggi o le bianche acconciature femminili.

Lavorò a Versailles fino alla rivoluzione, dopo la quale il suo stile fu rimpiazzato da quello neoclassico, caratterizzato da severità e tetraggine; l’opposto di quello di Fragonard che era assolutamente incapace di dipingere temi seri. Infatti, impossibilitato a gareggiare con i suoi pari aulici, aveva scelto di primeggiare tra i pittori di moda e i suoi dipinti più famosi raffigurano scene leggere e frivole, spesso erotiche.

Non disdegnò neppure i soggetti storici, i paesaggi e le opere di genere, ma la sua grande eleganza fu chiaramente impiegata nella pittura di carattere frivolo e malizioso.

Affascinato dalla bellezza femminile, Fragonard dipinse un nutrito gruppo di dipinti in cui sono raffigurate giovani donne in momenti di quieta solitudine.
Questi dipinti sono una specie di evocazione; le fanciulle che l’artista amava dipingere sono una sorta di personificazione della musica e della poesia.

Uno di questi dipinti “al femminile” è “La lettrice”. Nel quadro è raffigurata una ragazza con uno sgargiante vestito giallo; ha il capo inclinato ed è appoggiata a un grande cuscino rosa, piacevolmente assorta nella lettura di un libro che sorregge con delicatezza con la mano destra; l’altra mano è appoggiata a una poltrona.
Non sappiamo chi sia questa giovane concentrata a leggere, invece sappiamo, grazie ai raggi x, che sotto questo dipinto, l’artista aveva tracciato un disegno differente.
L’opera è datata 1776 ed è stata utilizzata in svariate edizioni del romanzo “Madame Bovary” di Gustave Flaubert.

Rispetto alle altre opere di Fragonard, questo dipinto è certamente più tranquillo. Si tratta di una scena di erudizione di una giovane donna e potrebbe essere definito un ritratto, anche se la donna non ci guarda. Da notare la postura delle mani e della schiena (molto dritta nonostante il grande cuscino) che denotano che la ragazza ha ricevuto un’educazione in materia di decoro ed etichetta.

La tecnica utilizzata da Fragonard è l’olio su tela. Notevole per la varietà dei tocchi, il dipinto è un buon esempio della pennellata rapida e vigorosa sviluppata dall’artista, e a volte definita “escrime” (scherma) dai suoi contemporanei.

Fragonard ha concepito questo dipinto, affinché fosse gradito agli occhi di chiunque, evitando gli interessi intellettuali e con l’intento di arrecare gioia e calore allo spettatore che l’artista coinvolge, inducendolo a porsi delle domande sulle conseguenze della lettura nel pensiero e nelle emozioni della fanciulla ritratta.
In questo modo, “La lettrice” diventa una meditazione sulla bellezza, ma anche sulle implicazioni della lettura nell’animo femminile.

Attualmente, “La lettrice” è conservata alla National Gallery of Art di Washington. Fu donata al museo nel 1961, dalla signora Mellon Bruce, in memoria di suo padre, Andrew W. Mellon. In precedenza, era appartenuta al dottor Tuffier.

In copertina: “La lettrice”, olio su tela (dimensioni 81,1×64,8 cm) di Jean-Honoré Fragonard, conservato alla National Gallery of Art, Washington

“Messa da Requiem” di Verdi: grido di fede nel terrore della morte

Messa da Requiem”di Verdi grido di fede nel terrore della morte

La “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi è una composizione sacra per coro, voci soliste e orchestra, che il compositore ha dedicato ad Alessandro Manzoni e che esprime tutta l’angoscia e lo smarrimento dell’uomo di fronte alla morte.

La genesi della “Messa da Requiem” (1874) di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901) si colloca in un periodo in cui il musicista ha deciso di abbandonare la composizione per il teatro d’opera. Successivamente, sarà convinto a tornare a comporre altre opere, ma nel 1871, reduce dai grandi consensi ottenuti da Aida, Verdi si prende una lunga pausa dalle scene teatrali, pur continuando a comporre musica.

Il compositore accarezza da tempo il progetto di realizzare una Messa da Requiem.
Nel 1869, l’aveva addirittura proposta in occasione della morte di Gioachino Rossini (Pesaro, 29 febbraio 1792 – Passy, 13 novembre 1868). La composizione avrebbe dovuto essere un collage realizzato da dodici musicisti. Per sé, Verdi aveva riservato la sezione conclusiva, il “Libera me”.
Purtroppo, questo interessante progetto, pensato per Bologna, fallì per motivi politico-economici, ma Verdi compose comunque il Libera me e successivamente, lo inserirà nella Messa da Requiem da lui composta nel 1874.

Fu la morte di Manzoni, il 22 maggio 1873, che spinse Giuseppe Verdi a rinnovare il suo proposito di una Messa per i morti, dopo il fallito progetto rossiniano.
La scomparsa dell’autore de “I promessi sposi” colpì profondamente il musicista che condivideva con Manzoni i valori risorgimentali, quali, libertà e giustizia, e come lui si era adoperato per l’Unità d’Italia.

Verdi si attivò per attuare il suo progetto già dal 3 giugno del 1873, rivolgendosi all’editore Ricordi: “vorrei dimostrare quanto affetto e venerazione ho portato e porto a quel grande che non è più e che Milano ha tanto degnamente onorato. Vorrei mettere in musica una Messa da morto da eseguirsi l’anno venturo per l’anniversario della sua morte. La Messa avrebbe proporzioni piuttosto vaste, ed oltre ad una grande orchestra ed un grande coro, ci vorrebbero anche […] quattro o cinque cantanti principali”.

Il Requiem fu offerto dal musicista alla città di Milano e la sua prima esecuzione si tenne nella Chiesa di San Marco, a Milano, il 22 maggio 1874. A dirigere la messa fu lo stesso Verdi, a interpretare le quattro parti solistiche furono: Teresa Stolz (soprano); Maria Waldmann (mezzosoprano); Giuseppe Capponi (tenore); Ormondo Maini (basso).
L’esecuzione ottenne un grandissimo successo e la fama della Messa superò rapidamente i confini nazionali.

La Messa era suddivisa in:
Requiem et Kyrie (quartetto solista, coro)
Dies Irae (coro)
Tuba Mirum (basso e coro)
Mors stupebit (basso e coro)
Liber Scriptus (mezzosoprano, coro)
Quid sum miser (soprano, mezzosoprano, tenore)
Rex tremendae (solisti, coro)
Recordare (soprano, mezzosoprano)
Ingemisco (tenore)
Confutatis (basso, coro)
Lacrymosa (solisti, coro)
Offertorium (solisti)
Sanctus (a doppio coro)
Agnus Dei (soprano, mezzosoprano, coro)
Lux Aeterna (mezzosoprano, tenore, basso)
Libera Me (soprano, coro)

L’organico, oltre ai quattro solisti e al coro misto, prevedeva: 3 flauti (3 anche ottavino); 2 oboi; 2 clarinetti; 4 fagotti; 4 corni; 4 trombe; 3 tromboni; basso tuba; timpani; grancassa; archi.

La Messa da Requiem di Verdi è ispirata ai temi fondamentali della spiritualità: dalla ricerca della fede alla paura della morte e di ciò che ci riserva l’aldilà.
Quando mette mano alla composizione il musicista sta attraversando una fase difficile della sua vita: si sente lontano dalla fede e i lutti che ha affrontato lo hanno spinto a porsi domande sulla morte e sul trascendente.

La Messa rispecchia nel suo insieme questa duplice condizione di ricerca della spiritualità e di scetticismo sulla questione della fede. Il risultato è un elevato messaggio espresso da una voce laica, perfettamente calata nel pensiero ottocentesco europeo, quella di un individuo che avverte la sua debolezza di fronte al mistero della morte. L’individuo che non ha le certezze della fede e neppure ancora il sostegno delle filosofie della vita e degli esistenzialismi.

Giuseppe Verdi con la sua Messa da Requiem afferma, tra i due estremi di coloro che credono e quelli che non credono o sono incerti e dubbiosi, la posizione dell’uomo lasciato a se stesso, privo della certezza della redenzione, solo di fronte al mondo vuoto della voce di Dio.
La grandezza di questa composizione è nel fatto che il musicista è riuscito a esprimere la posizione dell’individuo che terrorizzato dal nulla, cerca disperatamente una voce divina che lo rassicuri.
La Messa di Verdi rappresenta un interrogativo aperto sulle paure e sull’impossibilità di trovare un orientamento sicuro.

Verdi era un romantico e avvertiva sia il rischio della mancanza di fede sia il convenzionalismo cattolico.
Il suo rifiuto della fede è l’atteggiamento di chi non accetta il formalismo del falso credente, il rispetto pedissequo delle regole comportamentali e delle pratiche devote al fine di ottenere la salvezza.
Questo suo atteggiamento è un riflesso della decadenza morale, politica, strutturale che il musicista avvertiva attorno a sé.

Il desiderio di scrivere una Messa da Requiem in onore di Manzoni, nasceva in Verdi da una vicinanza verso lo scrittore milanese per il quale nutriva, sin dagli anni giovanili, una vera propria venerazione.
Verdi incontrò Manzoni il 21 maggio 1867 e attraverso il resoconto fatto da Giuseppina Strepponi (1815 – 1897; soprano, seconda moglie di Giuseppe Verdi) in una lettera di indirizzata a Clara Maffei (1814 – 1886; patriota e mecenate italiana) si avverte l’ammirazione che il musicista aveva per l’autore de “I promessi sposi”: “se poi andrai a Milano, ti presenterai a Manzoni. Egli t’aspetta, […] Pouff! Qui la bomba fu così forte ed inaspettata, che non seppi più se dovevo aprir gli sportelli della carrozza per dargli aria, o se dovessi chiuderli, temendo che nel parossismo della sorpresa e della gioia non mi saltasse fuori! È venuto rosso, smorto, sudato; si cavò il cappello, lo stropicciò in modo che per poco non lo ridusse in focaccia. Più (e ciò resti fra noi) il severissimo e fierissimo orso di Busseto n’ebbe pieni gli occhi di lagrime, e tutti e due commossi, convulsi, siamo rimasti dieci minuti in completo silenzio”.

Passando all’analisi musicale della Messa da Requiem di Verdi possiamo osservare, come prima cosa, che si tratta in sintesi di una riflessione sull’anima dopo la morte.
In tutta la composizione è tangibile il senso di umiltà dell’uomo che, angosciato dalla propria vita e dal dolore, si trova al cospetto di Dio.
L’intero Requiem è costellato di elementi ricorrenti e in generale, si può cogliere l’ambiguo oscillare tra un sentimento collettivo apocalittico e un ripiegamento intimistico.

Il Kyrie inizia sottovoce, simulando delle anime imploranti davanti a un giudice.
Il Dies irae è invece una sorta di esplosione musicale: l’orchestra esibisce un fortissimo, mentre il coro emette suoni strazianti e le grancasse sparano cannonate. Qui in particolare emergono il terribile giudizio e l’angoscia, e la potenza esibita da orchestra e coro, spinti al limite delle loro possibilità tecniche, servono a Verdi per illustrare musicalmente degli scenari apocalittici.

A queste sezioni si contrappone il lirismo del Recordare, un duetto tra soprano e mezzosoprano, una sorta di inno d’amore verso Gesù, e il Lux Aeterna, dove la luce emanata da Dio è espressa dal tremolo dei violini iniziale e dal canto del mezzosoprano, mentre basso, timpani e ottoni evocano l’idea che la punizione divina arriva per tutti.

In alcune sezioni, come il Kyrie eleison, il Recordare, l’Ingemisco e in alcuni versi del Lux Aeterna e del Libera me, Verdi dà voce al sentimento individuale, manifestato nella maniera più calorosa e di chiara derivazione operistica.

In altre parti della composizione, il musicista tiene vivo il sentimento musicale, lasciando però emergere una religiosità di sapore arcaico, prossima ai modelli della ritualità popolare, che si allontana temporaneamente sia dallo spirito prettamente operistico sia dalla rigida polifonia.
Alcuni esempi sono: il canto salmodiato (canto su una sola nota) del coro che apre l’introito; l’invocazione drammatica (libera me) del soprano; il canto monodico e austero dell’Agnus dei.

Nel Lacrimosa, invece, Verdi mette in risalto la disperazione, suggerita, sin dall’inizio, dagli archi che sembrano prodursi in un lamento.

L’unità costruita da Verdi nella Messa da Requiem è un sottile gioco di richiami delle medesime pulsioni.
Nell’arco dell’intera composizione si è sospinti e abbrancati dal primordiale; si oscilla tra il terrore del Dies Irae e il grido di fede del Libera me che fanno irruzione a più riprese nel tessuto musicale con una forza che resta invariata.

In copertina: particolare del ritratto di Alessandro Manzoni (lo scrittore al quale Verdi dedicò il Requiem) di Francesco Hayez (1841), Pinacoteca di Brera

Giallo: storia di un genere letterario di grande successo #2

Giallo storia di un genere letterario di grande successo 2

A inizio Novecento soffiano venti di cambiamento per il giallo. Tra gli anni venti e trenta, il genere prenderà le distanze dal modello instaurato dai gialli di Conan Doyle e si creeranno correnti diverse in Europa e in America.

Agli inizi del Novecento il genere giallo incontra sempre più consensi, innanzitutto da parte dei lettori, successivamente, anche da parte della critica.

Molti autori si dedicano alla scrittura di gialli e un certo numero di essi ha anche raggiunto una fama mondiale, tra questi: Raymond Chandler (1888-1959), Rex Stout (1886-1975) e Agatha Christie (1890-1976).

Compaiono anche dei tentativi di dare forma a un detective diverso, più umano, meno freddo, altrettanto si cerca di fare con le storie.

Un esempio di tali iniziative si rilevano nei libri di Gilbert Keith Chesterton (1874 – 1936; scrittore e giornalista britannico, molto prolifico e versatile), creatore del prete detective, Padre Brown.

Il vero cambiamento, però si avrà solo verso la metà degli anni trenta, quando gli autori di questo genere inizieranno ad affrancarsi dagli schemi del giallo classico. Ed è proprio in questa fase che iniziano a definirsi due strade che, parallelamente, e in modo molto diverso, in Europa e in America, prenderanno le distanze dal modello creato da Conan Doyle (1859 – 1930) con “Sherlock Holmes”.

Negli anni venti e trenta, negli Stati Uniti si afferma un genere di giallo che sarà poi definito hard boiled. Le storie di questo tipo sono descritte con toni oscuri e negativi; lo stile è tagliente, il linguaggio crudo si spinge ai limiti del volgare.

Il delitto è uno degli elementi della narrazione, mentre le ambientazioni e la descrizione psicologica dei personaggi assurgono a parte di rilievo nella storia.

Gli scenari degradati delle metropoli americane fanno da sfondo a una società in cui contano solo potere e denaro, mentre i buoni e i deboli sono – ahimé – destinati a soccombere.

I detective di queste storie sono figli dell’America spietata e disincantata degli anni successivi alla terribile crisi del 1929. Sono dei solitari, avventurieri, dei duri, traditi dalla vita e per questo, spesso alcolizzati o comunque forti bevitori, che non hanno più nulla in cui credere.

In Europa, invece, dai primi anni trenta i cambiamenti nel genere giallo assumono toni meno duri di quelli usati dagli scrittori che vivono dall’altra parte dell’oceano.

In Italia, Augusto De Angelis (1888 – 1944; scrittore e giornalista, attivo in particolare durante gli anni del fascismo) diede vita al suo commissario De Vincenzi, una sorta di Maigret italiano che, purtroppo, non incontrò grande favore di pubblico. Forse, anche a causa della chiusura culturale dovuta al fascismo e anche per lo scarso apprezzamento del genere poliziesco da parte del regime.

Nel 1943, fu imposto il sequestro in Italia di “tutti i romanzi gialli in qualunque tempo stampati e ovunque esistenti in vendita“. Fu anche chiusa la famosa collana di gialli di Arnoldo Mondadori Editore.

Il regime fascista, per motivi propagandistici e di ordine pubblico, mirava a nascondere sotto il tappeto qualsiasi cosa potesse incrinare la facciata positiva e integra della società italiana, che era mostrata agli italiani e al mondo. Per questo motivo, il crimine fu fatto scomparire sia dalla cronaca sia dalla letteratura. I gialli, anche se trattavano di atti criminali immaginari, erano comunque visti con sospetto, come un mezzo per istigare e sovvertire l’ordine costituito.

In Europa, invece, il genere continuava la sua inarrestabile evoluzione.
A metà degli anni trenta, George Simenon (1903 – 1989) creò il personaggio di Maigret e sovvertì in maniera definitiva l’idea di indagine e persino il concetto di romanzo poliziesco. Grazie a lui, non mutò solo la figura del detective, ma anche gli ambienti, le situazioni e i personaggi in generale, diversissimi da quelli cui si era abituati a “frequentare” con il giallo classico.

Ora, sotto la lente dell’investigatore non c’è più il mondo aristocratico, ma l’uomo comune, il piccolo borghese, e le trame dei nuovi libri gialli tengono sempre più conto delle tematiche esistenziali, filosofiche e psicologiche.

Lasciando al passato le ambientazioni rarefatte e mondane, si scende nelle strade, ad affrontare le inquietudini della gente comune. Il romanzo poliziesco a questo punto non è più strettamente letteratura di genere, ma accresce il suo spessore sia a livello contenutistico sia stilistico e finisce per mescolarsi con una letteratura dotata di un più ampio respiro.

Simenon, a braccetto con il suo Maigret, ha fatto e tuttora fa “visitare” ai suoi lettori una Parigi fatta di brasserie e quartieri popolari, spingendosi fin nella provincia francese.

Il commissario di Simenon non è un eroe, è un uomo ordinario e vulnerabile, un poliziotto e un borghese, che però è dotato di una profonda umanità.

Le sue indagini, condotte in modo molto diverso da quelle dei suoi predecessori, danno quasi l’idea che non stia per niente indagando, e arrivano a rivelare il più delle volte una verità amara.

Anche gli assassini di Maigret non hanno niente a che vedere con i loro predecessori del genere: sono persone comuni che uccidono, perché un imprevisto ha sconvolto le loro vite e le ha costrette ad agire di conseguenza.

Nelle storie di Simenon, non c’è il gioco della deduzione, al fine di individuare l’assassino. Il colpevole, infatti, è spesso individuato o comunque sospettato abbastanza presto, ma quello che conta in questo percorso non è capire chi, piuttosto perché, cioè ricostruire la verità umana, arrivare al motivo che ha fatto scatenare il dramma e ovviamente, ottenere le prove per inchiodare il colpevole.

Quello che conta, insomma, per Maigret e per Simenon è la vicenda umana dietro al crimine che si è consumato.
(prosegue)

Opera al nero #2. I Capuleti e Montecchi di Bellini: tragedie familiari

Opera al nero 2. I Capuleti e Montecchi di Bellini tragedie familiari

La vicenda di Romeo e Giulietta è stata origine di un proliferare di opere. Dalla letteratura alle scene, dalla pagina scritta alla pagina musicale, gli sfortunati amanti sono diventati una tra le coppie più famose e celebrate.
Vincenzo Bellini, compositore catanese, come molti altri, non ha resistito al fascino di questa famosissima e tragica storia d’amore.

Anche il travagliato amore tra Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti si presta alla definizione di opera al nero: anche qui l’atmosfera da tragedia non disattende le attese.

I due infelici innamorati sono stati celebrati in ogni salsa. Dalla letteratura al teatro, la loro storia è rimbalzata fino al mondo del balletto (“Romeo e Giulietta”, Op. 64 di Sergej Sergeevič Prokof’ev,1891 – 1953) e, ovviamente, è transitata anche per l’opera.

In effetti, è impossibile che una vicenda che tratti di un amore epocale, condito da un retroscena (neanche troppo) sanguinoso, potesse sfuggire al mondo della lirica che ha sempre cercato trame in grado di destare i sentimenti e far lievitare le emozioni sino al loro massimo livello. Inoltre, nella storia di Romeo e Giulietta non mancano neppure inganni e sotterfugi, fughe e cripte sotterranee, veleni e colpi di spada che sono ugualmente benedette da impresari, librettisti e musicisti.

Diversi autori hanno pensato bene di rivestire di musica questa tragedia, ricordiamo il famoso dramma “Giulietta e Romeo” del compositore Nicola Antonio Zingarelli (1752 -1837; compositore italiano, esponente della Scuola musicale napoletana) su libretto di Giuseppe Maria Foppa (1760 – 1845; librettista italiano, autore di oltre 80 libretti realizzati tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento), tratto non dalla tragedia shakespeariana, bensì dalla novella cinquecentesca con il medesimo titolo scritta da Luigi da Porto (1485 – 1529; scrittore e storiografo italiano). L’opera, ritenuta il capolavoro di Zingarelli, fu composta in pochissimo tempo e fu eseguita per la prima volta durante la stagione di Carnevale del Teatro alla Scala di Milano, il 30 gennaio 1796.

Altro compositore che si cimentò sulla vicenda degli sfortunati amanti è Nicola Vaccaj (1790 – 1848; compositore e insegnante italiano). Il libretto in questo caso è di Felice Romani (1788 – 1865; librettista, poeta e critico musicale, fra i più celebri e prolifici del suo tempo: scrisse circa un centinaio di libretti, per i massimi operisti italiani della prima metà dell’Ottocento).
Per la stesura, l’autore si basò su una tragedia di Luigi Scevola (1770 – 1818; drammaturgo italiano), tratta dall’omonimo lavoro di Shakespeare, e soprattutto, su un’ampia tradizione letteraria italiana, tra cui la “Novella IX” (La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti che l’un di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti), contenuta nel novelliere di Matteo Bandello (1485 – 1561; vescovo cattolico e scrittore italiano del Cinquecento), nonché su un balletto ispirato ai due amanti veronesi, “Le tombe di Verona”, messo in scena a Milano nel 1820. Il testo così concepito è piuttosto lontano dalla tragedia di Shakespeare.
Il melodramma di Vaccaj andò in scena, per la prima volta, il 31 ottobre del 1825, al Teatro alla Canobbiana di Milano.

In ordine cronologico, altra opera che riprende la tragedia amorosa è “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini (Catania, 3 novembre 1801 – Puteaux, 23 settembre 1835). Il libretto su cui lavorò il compositore era un adattamento di quello di Romani, già utilizzato da Nicola Vaccaj.

Per la sua “Roméo et Juliette”, Charles Gounod (1818 – 1893), dopo un tentativo fallito sul libretto di Felice Romani, nel 1841, utilizzò il libretto in francese di Jules Barbier (1825 – 1901; poeta, scrittore e librettista francese) e Michel Carré (1821 – 1872; librettista francese), tratto da “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare (1564 – 1616).
La sua opera vide la luce nel 1865, dopo solo pochi mesi di lavoro, ma per vederla allestita al Théâtre Lyrique Impérial du Châtelet di Parigi, dove ottenne un successo immediato e duraturo, il musicista dovette attendere fino al 27 aprile 1867.

Tornando a Bellini, la sua opera, divisa in due atti, apparve in prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo 1830 e fu un successo. Il libretto era di Felice Romani.
Il musicista compose “I Capuleti e i Montecchi” a tempo di record. Impiegò poco più di un mese, dalla fine di gennaio ai primi di marzo. Per accelerare i tempi, trasse molta della musica per il nuovo melodramma da un’opera da lui musicata l’anno precedente, che era stata un irrimediabile insuccesso: la “Zaira”. Inoltre, recuperò una romanza anche dalla sua opera d’esordio “Adelson e Salvini”.

Il materiale musicale “riciclato” fu comunque sottoposto da Bellini a un lavoro molto accurato di rielaborazione, affinché fosse adeguato ai personaggi mutati, così come ai versi e agli interpreti.
Anche in quest’opera, il compositore affidò le parti della coppia di protagonisti a due voci femminili.
Quindi, non stupitevi se andando a vedere quest’opera troverete un Romeo mezzosoprano “en travesti” (o “travesti”, personaggio che in un’opera teatrale o lirica è interpretato da un attore o cantante di sesso opposto). Questo tipo di soluzione era appropriata per la rappresentazione di un amore fra adolescenti.

Con “I Capuleti e i Montecchi” Bellini getta le basi da cui si evolverà la ricerca formale delle sue opere successive. Questo melodramma è andato spesso in scena, soprattutto perché la scrittura vocale non è particolarmente difficile e la drammaturgia è semplice, espressiva e fondata su una trama di sicuro interesse.
Per la notorietà, però, ci fu un prezzo da pagare. Per tutto il corso dell’Ottocento, l’opera subì ogni tipo di stravolgimento, a cominciare dalla “variazione” introdotta da Maria Malibran (1808 – 1836) che sostituì, in modo arbitrale, il duetto finale, che non consentiva una consona esibizione vocale, con il convenzionale finale dell’opera di Vaccaj.
Non mancarono stravolgimenti anche nel Novecento, in particolare con la scelta di affidare la parte di Romeo alla voce di un tenore.

Per quanto riguarda la genesi di quest’opera, dobbiamo tornare al 1829.
Bellini era a Venezia e stava seguendo alla Fenice la messa in scena del “Pirata”. Il teatro veneziano aveva in programma come terza opera della stagione un nuovo lavoro di Giovanni Pacini (1796 – 1867) che, sovraccarico di lavoro, alzò bandiera bianca, così il teatro si rivolse a Vincenzo, perché facesse le sue veci.
Il musicista accettò anche se era piuttosto dubbioso, a causa del poco tempo concesso per portare a termine il lavoro. Per accelerare il procedimento decise di usare lo stesso libretto di Romani, già impiegato da Vaccaj, ma operando qualche rimaneggiamento.

Fortunatamente, il libretto era perfetto per la compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione. Tra i cantanti ingaggiati spiccava il mezzosoprano Giuditta Grisi (1805 – 1840) alla quale il compositore diede la parte di Romeo.
Affidare il ruolo del giovane innamorato a una donna, in abiti maschili, era una consuetudine di lunga data e all’epoca di Bellini non costituiva una stranezza.
Romeo, affidato alla Grisi, faceva coppia con il soprano Rosalbina Carradori Allan (1800 – 1865) nei panni di Giulietta. Il tenore Lorenzo Bonfigli era Tebaldo, mentre il basso, Gaetano Antoldi, Capellio.
L’opera mandò in visibilio il pubblico veneziano. Il 26 dicembre dello stesso anno (1830) fu allestita al Teatro alla Scala di Milano con notevoli rimaneggiamenti, soprattutto per la nuova interprete nel ruolo di Giulietta, Amalia Schütz Oldosi (1803 – 1852), che era un mezzosoprano.

Diamo uno sguardo alla trama.
L’atto primo ci catapulta nella Verona del Duecento. La città è lacerata dalla faida tra la famiglia dei Capuleti, guelfi, e quella dei Montecchi, ghibellini. Il principale rappresentante dei Capuleti, Capellio (basso), padre di Giulietta, riunisce i suoi e li sprona a combattere gli avversari. Inoltre, comunica loro che i Montecchi, sostenuti da Ezzelino (Ezzelino III da Romano, 1194 – 1259, signore di Vicenza, Verona e Padova; ghibellino, sostenne l’imperatore Federico II), sono capitanati da Romeo, l’assassino di suo figlio, che vuole inviare un ambasciatore per proporre la pace. Lorenzo (basso), medico e familiare dei Capuleti, osteggiato dagli altri, suggerisce di ascoltare le parole del messaggero.

A capo della fazione guelfa c’è Tebaldo (tenore) che giura di uccidere Romeo, per vendicare la morte del figlio di Capellio che in cambio gli offre sua figlia in sposa. Le nozze saranno celebrate la sera stessa.
Lorenzo, però, sa che Giulietta è segretamente legata a Romeo e cerca di evitare il matrimonio, sostenendo che Giulietta è malata. Tebald, dal canto suo, non vuole far soffrire la promessa sposa. Si dice pronto a rinunciare alle nozze, ma il padre di Giulietta sostiene che la giovane sarà grata a chi vendicherà la morte del fratello.

Nel frattempo, sopraggiunge l’ambasciatore dei Montecchi a proporre la pace. Si tratta di Romeo che è tornato a Verona sotto mentite spoglie. Per ricomporre la faida tra le due famiglie, il giovane suggerisce di celebrare un matrimonio: tra Romeo e Giulietta. Capellio rifiuta, mentre Giulietta è disperata nella sua stanza per la sua sorte. Lorenzo le svela che Romeo è di nuovo in città, in incognito, e riesce a far incontrare i due giovani innamorati. Romeo esorta l’amata a fuggire con lui. All’inizio Giulietta rifiuta la proposta, poi si convince e si allontana con lui.

Nel frattempo, nel palazzo di Capellio si stanno preparando i festeggiamenti per le nozze tra Giulietta e Tebaldo.
Romeo si confonde tra gli invitati e avvisa Lorenzo che mille ghibellini armati sono giunti in città per sorprendere gli avversari. Lorenzo lo esorta a lasciare Verona e a rinunciare ai suoi piani.
Intanto, si sente un tumulto: i Montecchi hanno attaccato alcuni Capuleti.
I convitati scappano, Romeo si unisce ai suoi. Mentre il frastuono scema, giunge Giulietta vestita da sposa, in ansia per il combattimento. Romeo tenta ancora di farsi seguire da lei. Intanto, arrivano Tebaldo e Capellio, seguiti dai guelfi armati che scoprono Romeo, il quale riesce a fuggire grazie all’intervento dei suoi.

Nell’atto secondo, troviamo Giulietta da sola nella sua stanza. La battaglia prosegue, la ragazza è in ansia, poi scopre che Romeo è salvo. Purtroppo, però, il giorno successivo lei sarà condotta al castello di Tebaldo per convolare con lui a nozze.
Lorenzo le suggerisce uno stratagemma: ingerire un filtro che la farà sembrare morta; la ragazza beve, dopo alcuni istanti di esitazione. Subito dopo, giunge Capellio che obbliga la figlia a ritirarsi e a predisporsi all’imminente matrimonio. Successivamente, chiede a Tebaldo di sorvegliare Lorenzo, del quale non si fida più.

Romeo, ancora a Verona, sta cercando Lorenzo per avere notizie di Giulietta. Nel mentre, incontra Tebaldo che lo sfida a duello. I due sfidanti sono sul punto di battersi, quando giunge ai loro orecchi una musica funebre: è il corteo che conduce Giulietta alla tomba.
I due rivali sono presi da grande sconforto. Romeo si reca con i suoi nel luogo ove è sepolta Giulietta. Fa aprire la tomba e si rivolge all’amata. Fa allontanare i suoi e, invocando il nome di Giulietta, si avvelena. La giovane si risveglia e vede Romeo ai piedi del sepolcro, pensa l’abbia raggiunta, avvisato da Lorenzo della sua morte simulata. I due sfortunati amanti hanno appena il tempo di abbracciarsi un’ultima volta.
Romeo muore e Giulietta cade sopra di lui. Intanto, sopraggiungono i seguaci di Romeo, inseguiti dai Capuleti. Tutti si trovano davanti al sepolcro dove i due innamorati si sono tolti la vita. Di fronte a questa scena tragica, Capellio si sente responsabile per l’odio che ha diviso le due famiglie e che ha condotto alla morte dei due giovani.

In quest’opera Bellini fa ritorno al lirismo canoro, alle melodie morbide, romantiche e suadenti che si accordano alla perfezione con la storia messa in musica.
Ne “I Capuleti e i Montecchi” confluiscono espressività del canto, particolare cura per l’intonazione del testo poetico, equilibrio della strumentazione.

Degno di nota è il finale, in stile declamato, dove si assiste a un’alternanza tra recitativo accompagnato e arioso. Qui il compositore ha concentrato la sua attenzione, in particolare sui trapassi psicologici dei personaggi in scena, giungendo a esiti struggenti.
L’opera di Bellini fu accolta in modo controverso, in particolare, il finale rappresentava una novità per l’epoca e disorientò buona parte del pubblico. Inoltre, esso non rispondeva alle esigenze esibizionistiche di una prima donna. Infatti, già dalla rappresentazione di Firenze nel 1831, fu sostituito con quello più convenzionale di Vaccaj.

I Capuleti e i Montecchi fu una tra le opere più rappresentate durante l’Ottocento, nei teatri italiani ed europei.
A quest’opera di Bellini sono legati i nomi di alcuni dei più famosi cantanti dell’epoca: Maria Malibran, Giuditta Pasta, Fanny Tacchinardi Persiani, Giovanni Battista Rubini, Domenico Donzelli.
Nel Novecento, l’opera fu rappresentata dapprima a Catania (1935), per il centenario della morte di Bellini, poi in altri teatri a iniziare dagli anni Cinquanta.
Attualmente, essa occupa un posto fisso nel repertorio dei teatri lirici.

In copertina: particolare del dipinto “Romeo e Giulietta” di Frank Bernard Dicksee (1884)

I supereroi della letteratura: “La Primula Rossa”

I supereroi della letteratura La Primula Rossa

La figura del supereroe ha calcato nel tempo le scene letterarie prima di passare al fumetto e al cinema. Sono diverse le figure di uomini audaci e coraggiosi, anche se privi di superpoteri, che hanno sfidato le autorità e il male in genere. Andando a ritroso, possiamo individuare queste caratteristiche ne “La Primula Rossa” che combatteva per tutelare i nobili ai tempi di Robespierre.

La letteratura ha sempre avuto i suoi supereroi, ben prima che comparissero le ormai consuete figure in calzamaglia, dotate di superpoteri che popolano da diversi anni le strisce dei moderni fumetti.
E anche questi supereroi ante litteram avevano un’identità segreta, portavano una maschera e combattevano per un bene supremo, per la giustizia, per la verità. Tentavano anche essi di proteggere le persone inermi, di difendere i buoni dai cattivi e di far trionfare il bene sul male.
Uno di questi supereroi dei secoli scorsi, che non si avvale di superpoteri, ma solo del suo coraggio e della sua determinazione, è “The Scarlet Pimpernel” (La Primula Rossa).

Le sue gesta sono raccontate in un ciclo di romanzi, scritti dalla baronessa Emma Orczy (1865 – 1947; scrittrice britannica di origine ungherese) e stampati in fascicoli, agli inizi del Novecento. Il primo romanzo in volume apparve nel 1905, con il titolo “La Primula Rossa”.

La Orczy ha ambientato le vicende del suo eroico personaggio all’epoca della rivoluzione francese, nel periodo in cui Maximilien de Robespierre (1758 – 1794; politico, avvocato e rivoluzionario francese) e i membri del Comitato di salute pubblica (Comité de salut public) seminavano il Terrore.
Mentre la ghigliottina faceva gli straordinari, giungeva in Francia il primo eroe con identità segreta nella storia della narrativa: La Primula Rossa, fantomatica figura a capo di una lega che lottava a favore dei nobili e si opponeva alla tirannia, diretta conseguenza della rivoluzione.

La Primula Rossa è ovviamente acclamata dai nobili decaduti e da quelli che in questo particolare momento storico sono considerati i nemici della repubblica, e il suo nome, così singolare, deriva dal fiore scarlatto (Anagallis arvensis) che lascia quale firma alle sue impavide imprese.

Dietro la maschera si celava il volto di un nobile inglese, sir Percy Blakeney, “damerino incipriato”, fedele amico del Principe di Galles. La Primula rappresenta il classico uomo coraggioso, raro esempio di eroe reazionario che lotta con fierezza contro le barbarie rivoluzionarie.

Le avventure del La Primula Rossa non si sono fermate alle pagine di un libro, ma grazie alla fortuna incontrata dal personaggio e dalle sue vicende, sono approdate anche al cinema, prima quello in bianco e nero e più recentemente, il coraggioso e avventuroso eroe è stato riproposto in un ciclo di film; l’attore che recita la sua parte è Richard E. Grant.

Nel mondo anglosassone, La Primula Rossa è ancora molto popolare, in Italia, invece, non ha avuto la stessa notorietà: l’ultima stampa integrale risale alla fine degli anni Sessanta.

Che cosa succede però se i supereroi abusano dei loro poteri, se sono cattivi, egoisti, ipocriti e bramosi di potere?
A questo interrogativo tenta di rispondere una serie televisiva statunitense del 2019, “The Boys”, ideata da Eric Kripke per conto di Amazon.
La serie si basa sull’omonimo fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson.
Alla luce di questa nuova generazione di super, ma al contempo antieroi, possiamo pensare di aver raggiunto una nuova frontiera di questo particolare genere, dove l’aggettivo “super” si addice più alla gente comune che ai classici eroi in calzamaglia.

“La liseuse”, l’assorta lettrice di Pierre-Auguste Renoir

“La liseuse”, l’assorta lettrice di Pierre-Auguste Renoir

Renoir è uno dei tanti artisti che ha raffigurato soggetti immersi nella nobile arte della lettura.
Nei suoi quadri, a leggere sono sia uomini sia donne, ma anche molti bambini e adolescenti, tutti accomunati dalla stessa “devota” concentrazione.
Una di queste attente figure è “La liseuse”, dipinta tra il 1875 e il 1876, in pieno periodo impressionista.

Il pittore Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 25 febbraio 1841 – Cagnes-sur-Mer, 3 dicembre 1919) è ritenuto uno tra i massimi esponenti dell’Impressionismo e uno degli interpreti più spontanei di questo particolare movimento.

L’artista francese ha lasciato una messe davvero nutrita di opere: ben cinquemila tele e un numero altrettanto elevato tra disegni e acquerelli. Si è anche distinto per la sua poliedricità, attraversando nella sua carriera artistica diversi periodi.

In un suo scritto disse che “l’opera d’arte deve afferrarti, avvolgerti, trasportarti”. Secondo me, queste parole, calzano perfettamente anche per l’arte della lettura.
In uno dei tanti soggetti che Renoir ha raffigurato intento a leggere, possiamo ravvisare quel rapimento che l’artista ritiene si debba provare davanti a un’opera d’arte. Sto parlando del dipinto “La liseuse” (La lettrice) realizzato tra il 1875 e il 1876.

Nel dipinto, come afferma il titolo stesso, è raffigurata una donna immersa nella lettura di un libro.
A fare da modella a Renoir fu Marguerite Legrand, detta Margot, una giovane graziosa di Montmartre che morì di febbre tifoidea nel febbraio del 1879.
L’artista, che rimase molto colpito dalla sua morte, di lei disse che “aveva una pelle che rifletteva la luce”, e in questo ritratto, in effetti, il pittore è riuscito a mettere in risalto l’incarnato della sua amica, grazie alla nuova tecnica pittorica impressionista.

Realizzata in studio, l’opera è caratterizzata da una freschezza e da una spontaneità del tratto tipica dei dipinti eseguiti di getto, en plein air.

Nel quadro sono presenti pochissimi dettagli e un solo oggetto: un libro; perché Renoir intendeva concentrare l’attenzione dello spettatore sull’intensità della lettura.
Lo sfondo è accennato, in quanto deve solo trasmettere l’idea della profondità, senza definire un ambiente preciso, mentre i colori, chiari e luminosi, sembrano ravvicinare il viso della giovane all’osservatore.
Inoltre, per accrescere la luminosità cromatica della tela, Renoir accosta larghe e disordinate pennellate di colore, seguendo la tecnica impressionista.

L’artista ha anche fissato sulla tela dei punti di colore, quali: le labbra di un rosso brillante, lo jabot rosa che la ragazza indossa come ornamento sopra una blusa scura.
Gli occhi della lettrice sono rivolti verso il basso: due semplici ed essenziali linee nere.
L’espressione del viso è serena e trasmette a chi guarda la concentrazione della “Liseuse”, nonché il piacere della lettura che la ragazza, con il libro aperto davanti a sé, sta provando.

Renoir insiste sui colori, non traccia un contorno; utilizza il chiaroscuro per ravvivare il volto della ragazza, mentre le tonalità sono alterate da effetti di luce. Per l’incarnato, l’artista ha aggiunto dei violenti tocchi di giallo, sicuramente ispirati dall’ambientazione – probabilmente l’interno del Caffè Guerbois o del Café de la Nouvelle Athènes, luoghi tra i più frequentati dagli Impressionisti – cioè dalle tonalità dorate della luce artificiale a gas.

In questo dipinto, la luce gioca con il soggetto e i suoi riflessi creano dei richiami in vari punti della tela. Il pittore voleva dare la sensazione di un sole accecante che accende a tratti i capelli rossi della ragazza, illumina le pagine del libro aperto e poi si riflette dalla carta bianca sul viso della giovane.

Renoir ha applicato pennellate rapide, studiando con cura l’abbinamento di toni caldi e freddi, ad esempio: il rossore sfumato del volto di Margot si bilancia perfettamente con la zona blu-verde sul lato destro del dipinto.
Inoltre, le zone caratterizzate da colori freddi contrastano con i colori caldi riservati in particolare al volto e ai capelli del soggetto, e persino con i contorni della cornice della finestra che si profilano dietro la testa della ragazza.
Un tocco di luce compare leggero su una spalla e dona un accenno di volume alla figura.

In questo dipinto il disegno non detiene un ruolo speciale perché il soggetto è modellato dal colore.
I contorni sono labili e incerti. Successivamente, le opere di Renoir cambieranno registro riguardo all’importanza del disegno. Ma in questa fase, esso ha un ruolo subordinato, al contrario della tendenza della pittura accademica di quegli anni in cui occupava un posto preminente.

Gustave Caillebotte (1848 – 1894; pittore francese) acquistò “La liseuse” nel 1876; nel 1893, il dipinto entrò nelle collezioni statali francesi e successivamente, fu esposto al museo parigino du Luxembourg e al Louvre. Ora, si trova al museo d’Orsay.

In copertina: “La liseuse” (La lettrice) di Auguste Renoir, olio su tela, 47×38 cm (1876) conservato al Museée d’Orsay, Parigi

Giallo: storia di un genere letterario di grande successo #1

Il genere letterario che va, almeno in Italia, sotto il nome di “giallo” ha avuto negli anni una grande fortuna. Negli anni ha visto mutare le ambientazioni, le figure degli investigatori, il suo contenuto e persino le sue finalità, ciò che è rimasto intatto è il fascino che ancora esercita sui lettori.

Il termine “giallo”, usato per definire un genere letterario, è valido solo nella lingua italiana e deriva dalla collana “I Libri Gialli”, concepita da Lorenzo Montano (pseudonimo di Danilo Lebrecht, 1893 – 1958; scrittore e poeta italiano) e pubblicata in Italia, dal 1929 in poi da Arnoldo Mondadori (1889 – 1971; editore italiano fondatore della omonima casa editrice).
Questa scelta editoriale ha influenzato il modo di riferirsi al genere poliziesco che, mentre nei paesi francofoni resta invariato (roman policier e polar), in Italia, mutuato dalle copertine gialle di Mondadori, sarà associato d’ora in poi a questo colore.

Parlare di storia del giallo significa fare riferimento alla storia del genere poliziesco, in quanto la nascita e lo sviluppo di nuove ramificazioni del genere si è verificata solo più avanti, con una produzione variegata che comprende: thriller, spy-story e giallo psicologico.

La nascita del genere giallo si fa risalire al mese di aprile del 1841, quando sulla rivista “The Graham’s Magazine di Filadelfia” fu pubblicato “The Murders in the Rue Morgue” (I delitti della Rue Morgue), un racconto di Edgar Allan Poe (1809 – 1849; scrittore, poeta, critico letterario, giornalista, editore e saggista statunitense) in cui compare Auguste Dupin, investigatore che risolve i casi, senza neppure recarsi sulla scena del crimine, ma che trae indizi da resoconti giornalistici e sfruttando le sue incredibili capacità deduttive.

Sulla scia di Dupin, comparirà un altro infallibile detective, Sherlock Holmes dalla penna di Arthur Conan Doyle (1859 – 1930). La sua prima indagine sarà narrata nel romanzo “Uno studio in rosso”, del 1887.

Il panorama giallo italiano si anima dal 1852, con “Il mio cadavere”, di Francesco Mastriani (1819 – 1891; scrittore, drammaturgo, giornalista; autore di romanzi d’appendice di grande successo).
Il romanzo, inizialmente, apparve in appendice sul periodico napoletano di politica e cultura “L’Omnibus”. La prima puntata (‘’La famiglia dello stradiere’’) uscì in stampa il 13 dicembre 1851.
Nel 1888, Emilio De Marchi (1851 – 1901; scrittore, poeta e traduttore italiano; fra i più importanti narratori del secondo Ottocento italiano) pubblica “Il cappello del prete”, romanzo giallo fra i più interessanti dell’epoca.

In Italia, il genere giallo inizia a prendere campo nel dopo guerra e nelle pagine dei nuovi romanzi si inizia a sentire l’influenza dalla scuola americana “Hard boiled” della narrativa poliziesca.

A essere considerati, universalmente, come primi gialli sono comunque le avventure di Sherlock Holmes. Il personaggio creato da Conan Doyle ha proiettato una lunga ombra sul genere, che è giunta fino agli anni trenta del Novecento, e molti personaggi concepiti sotto questo ascendente da autori europei e americani derivano direttamente da Holmes.
Tra questi, appartenenti al periodo classico del giallo, citiamo i più famosi: Hercule Poirot e Miss Marple di Agatha Christie (1890 – 1976; scrittrice e drammaturga britannica); Philo Vance di S. S. Van Dine (pseudonimo di Willard Huntington Wright, 1887 – 1939; scrittore e critico d’arte statunitense); Lord Peter Wimsey di Dorothy L. Sayers (1893 – 1957; scrittrice, poetessa e drammaturga britannica) ed Ellery Queen, il più famoso degli pseudonimi di Frederick Dannay (1905 – 1982) e Manfred Bennington Lee (1905 – 1971), scrittori di letteratura poliziesca e inventori del detective che ha il nome del loro pseudonimo.

Questa messe di investigatori letterari non è, ovviamente, una pedissequa ripresa del modello, ma ogni detective citato presenta caratteristiche specifiche e ogni autore ha tentato a suo modo di proporre elementi nuovi, ad esempio, nello stile e nel contenuto.
Ma restano molti aspetti in comune con l’originale. Prima di tutto la capacità deduttiva, a seguire l’abilità di riconoscere l’importanza di indizi che agli altri sembrano trascurabili e infine, la dote di mettere insieme i pezzi e trovare la soluzione di casi intricati o quasi impossibili.

L’arma della deduzione che questi abili investigatori possiedono deriva dal positivismo ottocentesco. Questi personaggi hanno una fede incrollabile nei confronti della logica, della scienza e della ragione.
Ogni indagine conduce immancabilmente a una sola e unica soluzione che è possibile affermare grazie all’analisi delle tracce trovate sulla scena del crimine e attraverso tale analisi si può giungere alla verità, senza possibilità di errore.

Questo tipo di detective sono uniti anche perché appartengono a classi sociali assimilabili: spesso benestanti o di nobili origini e svolgono le loro indagini principalmente per vanità intellettuale oppure per curiosità o diletto, per il puro desidero di risolvere un mistero. Non rappresentano la legge e mirano essenzialmente a scoprire la verità.
Inoltre, gli ambienti in cui avvengono i crimini sono spesso altolocati ed eleganti, lontani dai luoghi quotidiani in cui avvengono di norma fatti criminali.

Gli investigatori del giallo classico sono sempre dilettanti. Il motivo è semplice: questi personaggi non sono vincolati da regole e possono indagare in piena libertà, mentre un poliziotto o un funzionario dello Stato devono attenersi ad esempio, alle norme e alle direttive dei superiori.

I gialli di questo periodo hanno una forte componente morale, anche se sono stati ritenuti per molto tempo una “letteratura di evasione”.
In queste storie, il colpevole, dopo essere stato individuato, subisce una punizione, la giustizia trionfa e torna l’ordine precostituito, che era stato sconvolto dalle azioni del criminale. Questo processo di ripristino delle regole rientrava nelle consuetudini sociali dell’epoca, ancora dipendente dalla visione moralistica di stampo vittoriano.
(prosegue)

Opera al nero #1. Il trovatore di Verdi: vendetta tremenda vendetta

Opera al nero 1 Il trovatore di Verdi vendetta tremenda vendetta

Il trovatore di Verdi è un’opera dalle tinte fosche in cui sono disseminati eventi cruenti. Per questo fu criticata, ma a conti fatti, già alla prima assoluta a Roma, ottenne un grande successo.

Avete mai notato che numerosi libretti d’opera potrebbero far impallidire uno scrittore di noir?
Sono davvero molte le opere liriche, dove dietro i gorgheggi dei cantanti si nascondono azioni efferate, violenze di vario genere, omicidi, suicidi, rapimenti, duelli mortali, femminicidi, tentati stupri, ricatti, esecuzioni capitali, raptus di gelosia e morte.
Note in stile di cronaca nera non mancano di certo nelle storie più gettonate del teatro musicale. Basti pensare alla trama di alcune delle più famose, come: Capuleti e Montecchi, Rigoletto, Turandot, Madama Butterfly, Cavalleria rusticana, Pagliacci, Tosca, Carmen, e così via.
Tra i così via, rientra anche “Il trovatore”, opera musicata da Giuseppe Verdi (1813 – 1901; compositore e senatore italiano, considerato uno dei più grandi operisti di tutti i tempi), che fu criticata per la prevalente atmosfera cupa e per il numero dei morti, ma il compositore, in una lettera indirizzata a Clarina Maffei (Elena Chiara Maria Antonia Carrara Spinelli, 1814 – 1886; patriota e mecenate italiana), a sua discolpa osservò: “infine nella vita non è tutto morte?

Verdi si getta nell’impresa di questa nuova opera con grande entusiasmo, reduce dal successo strabiliante ottenuto da “Rigoletto”. Ed è proprio lui a proporre, in una lettera del 18 marzo 1851, indirizzata all’impresario di Bologna, Alessandro Lanari (1787 – 1852; fu uno dei più influenti impresari italiani dagli anni ’30 ai primi anni ’50 dell’Ottocento), la stesura di una nuova opera.
Il libretto, secondo i desideri del compositore, dovrà ispirarsi a “El Trovador” di Antonio García Gutiérrez (1813 – 1884), drammaturgo romantico spagnolo che seguiva le orme di Victor Hugo (1802 – 1885; scrittore, poeta, drammaturgo e politico, ritenuto il padre del Romanticismo in Francia).

L’opera di Gutiérrez non è di certo un capolavoro drammaturgico, piuttosto un melodramma tronfio e squinternato, dove si susseguono singolari incidenti e le unità aristoteliche sono spesso bellamente accantonate.

La vicenda spazia tra amore e vendetta e l’accento principale è posto sui due personaggi femminili: Leonora, gentildonna profondamente religiosa e con rigidi ideali, che per amore sprofonderà in un abisso morale e infine si suiciderà, e Azucena, una vecchia zingara, desiderosa di vendicare sua madre, che finirà per distruggere l’unico essere al mondo che ama.

Del dramma di Gutiérrez non è stata rinvenuta alcuna traduzione in italiano e ancora ci si chiede come abbia fatto Giuseppe Verdi a venirne a conoscenza.
In effetti, cantanti o compositori amici del musicista spesso gli inviavano nuovi drammi e probabilmente, anche questo testo potrebbe essere arrivato fra le sue mani in questo modo. A tradurlo, comunque, sembra abbia provveduto Giuseppina Strepponi (1815 – 1897; soprano italiano, seconda moglie di Giuseppe Verdi).

Il libretto dell’opera fu affidato a Salvadore Cammarano (1801 – 1852; librettista e drammaturgo per musica) che Verdi, attratto singolarmente dal valore della “parola scenica”, apprezzava molto, perché non temeva gli argomenti inconsueti ed era in grado di descrivere l’atmosfera di una scena mediante un nucleo verbale attentamente studiato.

Il testo che Verdi si apprestò a rivestire di musica fu strutturato in quattro parti e otto quadri.
Quando il libretto era pressoché completo, Verdi intravide delle modifiche da apportare in alcune parti del testo, ma Cammarano morì improvvisamente. Il musicista venne a sapere della sua morte da un giornale teatrale.
Addolorato per la perdita e al contempo preoccupato per le sorti della sua opera, si rivolse al suo amico Cesare De Sanctis (1824 – 1916; compositore, direttore d’orchestra e trattatista italiano) che gli suggerì quale sostituto di Cammarano, il poeta Leone Emanuele Bardare (1820 – dopo il 1874) che fu davvero onorato di poter lavorare con il grande compositore.

Finalmente, nel 1853, il 19 gennaio, Il trovatore, giunto a compimento, fu rappresentato in prima assoluta, al Teatro Apollo di Roma. Fu un grande successo: dal teatro romano, l’opera iniziò una vera marcia trionfale. Con Il trovatore, Verdi riuscì a toccare il cuore del suo pubblico e all’epoca, fu tra le sue opere quella sicuramente più amata.

Addentrandoci nelle pagine del libretto, scopriamo che la storia de Il trovatore assomiglia alla trama di una telenovela dalle tinte fosche. L’intreccio è complesso e dai risvolti cruenti.
La vicenda ruota attorno a Leonora, dama di compagnia della principessa d’Aragona, al conflitto tra i suoi due pretendenti (Manrico, il trovatore e il conte di Luna) e a una vendetta che affonda le sue radici nel passato.

La storia è ambientata in Biscaglia (provincia della comunità autonoma dei Paesi Baschi, nella Spagna settentrionale) e in Aragona (comunità autonoma e nazione storica del nord-est della Spagna), all’inizio del Quattrocento.

Nella parte prima, veniamo catapultati nel castello dell’Aljafería di Saragozza e veniamo a sapere che il conte di Luna è innamorato di Leonora che però, non lo ricambia. Mentre lui soffre per amore, Ferrando, il capitano delle sue guardie, racconta la tragica storia del fratello minore del conte. Ancora in fasce, fu rapito da una zingara che voleva vendicare sua madre, giustiziata dal precedente conte, perché si riteneva fosse una strega. La donna aveva gettato il bambino nello stesso rogo in cui era morta sua madre.

Intanto, Leonora confida alla sua ancella il suo amore per un misterioso trovatore di cui non conosce il nome, ma che ogni notte canta per lei una serenata col suo liuto. La giovane lo ha conosciuto a un torneo.
Il conte di Luna ha ascoltato di nascosto le parole di Leonora e poi sente il suo avversario cantare per la sua amata. La giovane esce e nell’oscurità confonde il conte di Luna con l’uomo che ama.
Il trovatore, sopraggiunto, li coglie abbracciati e si sente tradito, ma Leonora gli giura il suo amore, scatenando l’ira del conte che sfida a duello il suo avversario, costringendolo a rivelare la sua identità.
Il nome del trovatore è Manrico, seguace del ribelle conte di Urgel, nemico del conte di Luna. Mentre i due uomini si allontanano per sfidarsi a duello, Leonora sviene.

Nella parte seconda, siamo ai piedi di un monte, in un accampamento di zingari che cantano e ballano.
Azucena, madre di Manrico, si risveglia dal suo consueto incubo e racconta di quando vide morire sua madre sul rogo. La donna la implorava di vendicarla, così Azucena aveva rapito il figlio del conte e lo aveva gettato nel fuoco, ma sgomenta e confusa, di fronte alla orribile morte della madre, aveva per errore ucciso suo figlio invece che quello del conte.

In seguito a tale racconto, Manrico nutre dubbi sulla sua vera identità, ma Azucena lo rassicura e gli ricorda che lei lo ha sempre protetto e curato, anche quando il giovane è tornato all’accampamento ferito, in seguito al duello con il conte. A questo proposito, Manrico racconta alla madre che avrebbe potuto uccidere il conte, ma una voce dal cielo gli ha fermato la mano. La zingara lo spinge a portare a compimento la vendetta, uccidendo il suo rivale.
Intanto, il conte ha diffuso la voce che Manrico è morto, certo di conquistare Leonora, ma la giovane invece, decide di prendere i voti. Il conte contrariato irrompe alla cerimonia di ordinazione e tenta di rapire Leonora, a quel punto, però, giunge Manrico che porta in salvo la sua amata.

Parte terza, il castello è in mano agli uomini di Urgel, i soldati del conte di Luna sono nei paraggi, in attesa di riconquistare il castello.
Ferrando cattura una zingara e dopo averla condotta davanti al conte di Luna, la riconosce; la donna confessa di essere colei che ha rapito e ucciso il fratello del conte, e afferma di essere la madre di Manrico. Il conte gioisce, finalmente avrà una doppia vendetta: per il fratello e anche su Manrico che gli ha sottratto Leonora.
Nel frattempo, nel castello, Manrico e Leonora stanno per sposarsi in segreto, ma la cerimonia è interrotta dall’annuncio che Azucena è stata catturata e a breve sarà bruciata viva. Manrico molla tutto e parte in soccorso della madre.

Nella quarta e ultima parte, il trovatore è imprigionato nel castello dell’Aljafería. Lui e sua madre saranno giustiziati all’alba.
Leonora va alla torre dove i due sono prigionieri e supplica il conte di lasciare libero Manrico, in cambio lei lo sposerà. In realtà, la giovane non intende mantenere fede alla sua promessa: medita invece di avvelenarsi prima di concedersi.
Il conte accetta la proposta e Leonora chiede di poter dare all’amato la notizia della sua liberazione, ma prima di entrare nella torre, beve il veleno. Intanto, Manrico cerca di confortare sua madre che alla fine, stremata si addormenta. Giunge Leonora che dice al trovatore di mettersi in salvo, ma quando il giovane capisce che lei non andrà con lui, decide di non fuggire. L’uomo crede che per concedere a lui la libertà la ragazza l’abbia tradito, ma Leonora, prima di morire, gli confessa di essersi avvelenata, proprio per non farlo.

Il conte assiste di nascosto alla confessione di Leonora e, furioso per ciò che ha scoperto, ordina di giustiziare il trovatore. Quando la zingara si risveglia, il conte gli indica suo figlio morente. La donna disperata gli rivela che Manrico era in realtà suo fratello; il conte è sconvolto, a quel punto, Azucena si pugnala a morte e grida: “Sei vendicata, o madre!”

In copertina: manifesto “Il trovatore”, incisione a colori

Appuntamento con la musica classica: 3 Sonate per piano e violino

Appuntamento con la musica classica 3 Sonate per piano e violino

Il 22 settembre all’Auditorium “Marini” di Falconara Marittima si terrà un concerto di musica classica.
Sonate di Mozart, Beethoven e Saint-Saëns per violino e pianoforte saranno eseguite da due interpreti d’eccezione: Davide Alogna e Martina Giordani.

Il 22 settembre Davide Alogna al violino e Martina Giordani al pianoforte ci intratterranno con delle sonate brillanti e tecnicamente molto impegnative.
Grazie a loro, passeremo dalla leggerezza arguta e raffinata delle note di Mozart, all’energia delle costruzioni razionali e appassionate di Beethoven, fino ad approdare alla levigatezza e alle fantastiche elaborazioni tematiche di Saint-Saëns.

Il programma della serata prevede l’esecuzione di tre brani:

In attesa del concerto esploriamo le composizioni che verranno eseguite, spaziando dalla loro realizzazione a qualche cenno sulla loro struttura.

Sonata n. 18 in Sol maggiore K 301

Il primo brano a essere eseguito è la “Sonata n. 18 in Sol maggiore K 301” di Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791), composta nel marzo del 1778, a Mannheim (Germania) e denominata “Palatina”, come le altre quattro dell’Opus 1, dedicate a Elisabetta Maria Aloisia Augusta (1721 – 1794), moglie dell’elettore del Palatinato, Carlo Teodoro di Wittelsbach (1724 – 1799).

Nell’agosto del 1777, Mozart era partito con sua madre da Salisburgo, alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Dapprima fu ad Augusta, poi a Mannheim, a Parigi e infine a Monaco di Baviera.
A Mannheim, il musicista fu ispirato dal clima fecondo della città e compose cinque sonate per violino. La sua musica trasse notevoli vantaggi da questo soggiorno, ma purtroppo, non riuscì nel suo intento di trovare un impiego in città, così il 14 marzo 1778 partì alla volta di Parigi.

La Sonata n. 18 K 301 vide la luce poco prima della partenza per la capitale francese, dove fu poi stampata. Essa è suddivisa in due soli movimenti (Allegro con Spirito e Allegro). Tale scelta si rifà a una tradizione antecedente che considerava questo tipo di composizioni dei duetti stringati e sobri fra pianoforte e violino (in certi casi sostituito dal flauto).

Nelle composizioni mozartiane per pianoforte e violino degli anni 1763-64 il pianista (o cembalista) aveva un ruolo preminente, mentre al violino era assegnato un ruolo secondario. Queste “sonate con accompagnamento d’un violino” erano molto diffuse in tutta Europa e rispondevano alle richieste sempre più considerevoli dei dilettanti. A coltivarle, in particolare, erano musicisti come: Johann Schobert (c. 1720, 1735 or 1740 – 1767), Johann Christian Bach (1735 – 1782) e Muzio Clementi (1752 – 1832).

La Sonata K 301 è diversa dalle sue antecedenti, essa appartiene a una nuova fase della parabola compositiva di Mozart sia per il ruolo paritario che il musicista conferisce a entrambi gli strumenti sia per l’abile contrappunto che disciplina le sovrapposizioni delle loro voci.

Il primo Allegro della Sonata K 301 ha un impianto classico tripartito. Ai due tempi principali (tonica e dominante) sono affiancati degli spunti secondari. Lo sviluppo tematico è vivacizzato da cromatismi e inversioni.
In questo primo movimento è il violino a detenere il ruolo principale, mentre il pianoforte si farà sentire solo più avanti, svolgendo il tema principale e dando vita a un dialogo vivace con varie iniziative melodiche.
La varietà in questo movimento proviene dall’abbondanza dell’inventiva di Mozart nel creare temi e dalla sua capacità di suddividere equamente l’interesse melodico tra i due esecutori che si alternano nel proporre il tema o nel ruolo di accompagnatori.

Il secondo movimento, un Allegro in 3/8, ha la forma di rondò variato, dal sapore francese, caratterizzato da una grande naturalezza di idee che sgorgano spontanee, richiamando lo stile di Franz Joseph Haydn (1732 – 1809).
Mozart ha impiegato motivi vivaci e popolari che fanno da cornice alla parte centrale che, per creare una varietà, si muove in una tonalità minore.

La scelta del violino, quale comprimario in una sonata, per Mozart fu quasi una scelta obbligata, infatti, il musicista, oltre al pianoforte e all’organo, suonava anche il violino. Inoltre, il suo incarico di Konzertmeister a Salisburgo comprendeva, oltre alla direzione d’orchestra, anche il ruolo di primo violino.

Per quanto riguarda invece lo stile delle sonate, sappiamo che, nell’autunno del 1777, a Monaco, Mozart conobbe i duetti per clavicembalo e violino di Joseph Schuster (1748 – 1812) e al padre scrisse: “Non sono cattivi se mi fermerò, ne scriverò io stesso nel medesimo stile, dato che essi sono molto popolari quaggiù“.
Ed è proprio quello che fece, creando qualcosa di diverso.

Sonata per pianoforte e violino in La maggiore n. 9, op. 47

Il secondo brano in programma è la “Sonata per pianoforte e violino in La maggiore n. 9, op. 47” di Ludwig van Beethoven (1770 – 1827), più conosciuta come “Sonata a Kreutzer”.
Fu composta tra il 1802 e il 1803 e pubblicata nel 1805, con una dedica al violinista e compositore francese Rodolphe Kreutzer (1766 – 1831).

Questa Sonata ha una durata di circa 40 minuti; è la più lunga e difficile fra le composizioni realizzate da Beethoven per violino e fu scritta piuttosto in fretta.
Lo stile utilizzato dal compositore è concertante, ai due strumenti è dato identico peso e l’obiettivo del musicista era quello di introdurre elementi di conflitto dinamico, in quello che era il genere più prettamente da salotto.
Le novità presenti in quest’opera sono tali da infrangere le regole delle sonate per pianoforte e violino. Questo brano, dallo stile brillante e quasi da concerto, rappresenta l’inizio di un nuovo percorso per Beethoven.

La sonata è suddivisa in tre movimenti:

  • Adagio sostenuto – Presto – Adagio – Tempo I
  • Andante con variazioni I-IV
  • Finale. Presto

Inizialmente, questa Sonata aveva una dedica diversa. Beethoven voleva farne omaggio al suo amico, nonché virtuoso di violino, George Augustus Polgreen Bridgetower (1779 – 1860), che eseguì insieme al compositore, per la prima volta in assoluto la Sonata, il 24 Maggio 1803, a Vienna, nella sala da concerti dell’Augarten (un caffè del Prater).

Beethoven compose la Sonata op. 47 tra il 1802 e il 1803 e come prima cosa scrisse il finale, mentre i primi due tempi furono realizzati nel 1803.
Il carattere “brillante” o “molto concertante” di questa composizione sembra dipendere proprio da Bridgetower. Il violinista aveva un padre nero (un lacchè del principe Esterhàzy) e madre tedesca; aveva studiato composizione con Haydn e poi era andato in Inghilterra, dove era diventato violinista del principe di Galles.

Nel 1802, Bridgetower si esibì a Dresda e poi giunse a Vienna. Era un esecutore che si faceva notare. Le sue esibizioni erano ardite e stravaganti, e sicuramente, Beethoven rimase colpito dal suo modo di suonare.
A titolo di curiosità, sappiamo che il violinista non ebbe il tempo di studiare le variazioni dell’op. 47, perché il compositore le finì solo alla vigilia del concerto, quindi, Bridgetower dovette arrangiarsi a leggere la parte del violino sul manoscritto e, durante la prova, improvvisò due cadenze virtuosistiche che spinsero Beethoven ad abbracciarlo.

Bridgetower, quindi, si era meritato sotto tutti i punti di vista la dedica della Sonata. Ma quando Beethoven la pubblicò, il dedicatario divenne Kreutzer che il compositore conobbe nel 1798, all’ambasciata francese di Vienna, e che ammirava per “la sua semplicità e naturalezza”.
Diversi anni più tardi, Bridgetower sostenne che questo mutamento di intenti da parte di Beethoven fosse dovuta a una controversia amorosa sorta tra loro: entrambi si erano innamorati di una donna che però aveva scelto Bridgetower. Questa dichiarazione fu riportata dal direttore del “Musical World”, J. W. Thirlwall, nel suo giornale, il 4 dicembre 1888, ma il violinista era morto nel 1860, per cui la singolare rivelazione, non confermata da altre fonti, potrebbe essere solo un’abile trovata giornalistica.
Quello che è certo è che Rodolphe Kreutzer non suonò mai la Sonata op. 47, perché la riteneva “outrageusemente inintelligible” (scandalosamente incomprensibile), e altrettanto fecero altri violinisti, per lo meno in pubblico – delle esecuzioni private si sa ben poco.

Anche uno dei più autorevoli periodici del XIX secolo, l’ “Allgemeine musikalische Zeitung” (Giornale musicale generale) sostenne che, il compositore avesse “spinto la ricerca dell’originalità fino al grottesco” e definiva Beethoven addirittura come “l’adepto di un terrorismo artistico”.

La Sonata ottenne una meritata popolarità dalla seconda metà del secolo, dopo che fu eseguita da Joseph Joachim (1831 – 1907; violinista, direttore d’orchestra, compositore e insegnante ungherese) e Clara Schumann (1819 – 1896; pianista e compositrice tedesca).
L’ultimo passo verso la notorietà per la composizione di Beethoven fu compiuto grazie alla letteratura. Nel 1889, Lev Nikolàevič Tolstòj (1828 – 1910) pubblicò il romanzo breve, “Sonata a Kreutzer”; lo scrittore russo pare apprezzasse solo il primo tempo della composizione, perché fa affermare al suo protagonista che, il secondo tempo è “bello ma comune e non nuovo, con ignobili variazioni”, mentre il terzo è “assolutamente debole”.

Beethoven creò la Sonata op. 47 in un periodo in cui si stava dedicando in modo particolare alla sperimentazione, soprattutto delle forme; non uscì dagli schemi della tradizione, ma ne dilatò le dimensioni architettoniche. Basti pensare al primo tempo che è composto da ben 601 battute (776 con il ritornello dell’esposizione), un numero davvero elevato per quei tempi e per i suoi contemporanei.
Oltre alle nuove dimensioni, nella sonata Beethoven utilizza per la prima volta un’introduzione in movimento lento che aveva già adottato nelle Sonate per pianoforte e per pianoforte e violoncello, ma non ancora nelle Sonate per pianoforte e violino.

Inoltre, questa Sonata detiene un posto particolare rispetto alle altre Sonate non solo per le proporzioni, ma anche per il rapporto esistente fra i due strumenti e per le ambizioni espressive.
Già nelle prime Sonate violinistiche, Beethoven, seguendo Mozart, aveva conferito al violino un ruolo alla pari con il pianoforte, ed entrambi gli strumenti sono concepiti come entità contrapposte, con un’evidente individualità. Il contenuto espressivo, però, era ancora “disimpegnato” e volto all’intrattenimento. Diversa è la situazione della Sonata op. 47, dove il compositore mette in atto nuove ambizioni.

Introduzione e Rondò Capriccioso op. 28

Il terzo brano della serata è una composizione del 1863 di Camille Saint-Saëns (1835 – 1921), “Introduzione e Rondò Capriccioso op. 28”. La sua prima esecuzione avvenne a Parigi, al Théâtre des Champs-Élysées il 4 aprile 1867.
Inizialmente, il compositore la concepì come un movimento conclusivo, da introdurre in un’opera più ampia e solo successivamente diventò un brano autonomo.
Saint-Saëns fu un protagonista del secondo romanticismo francese, eppure guardò sempre con diffidenza all’estetica romantica, mentre la sua ammirazione andava alle regole classiche di costruzione e difatti, le sue opere in generale sono dotate di chiarezza e ordine, pur essendo profondamente innovative nel panorama della musica francese.

L’opera 28, però, è un’eccezione, in quanto si rifà al filone più brillante ed estroverso dell’età romantica.
Primo esecutore e dedicatario del brano fu il violinista Pablo de Sarasate (1844 – 1908) che all’epoca era agli inizi della sua carriera. Fu il talento di Saraste a ispirare a Saint-Saëns la sua composizione che infatti, presenta chiare allusioni stilistiche spagnoleggianti, in particolar modo nel rondò.

Il brano fu stampato nel 1875, nella sua versione originale per violino concertante e orchestra da Durand (Marie-August Durand, 1830 – 1909; editore e critico musicale, e organista), mentre già nel 1870, Georges Bizet (1838 – 1875) si era occupato di tradurlo per violino e pianoforte; questa versione nel tempo divenne molto popolare. Anche Claude Debussy (1862 – 1918) fu conquistato dal brano di Saint-Saëns, tanto da studiarne una trascrizione per due pianoforti, tra il 1889 e il 1890.

L’opera 28 si compone di due movimenti: Andante malinconico, l’Introduzione; Allegro ma non troppo, il Rondò.
L’Introduzione ha un umore riflessivo; il violino espone una melodia malinconica e cantabile e il movimento si chiude con una breve cadenza brillante.
Il Rondò propone il tema principale caratterizzato da un motivo in tempo di habanera, scattante e brillante, vivacizzato da abbellimenti e spostamenti di accento.
Il ricorso al folklore spagnolo diventò di moda e fu assunto come uno degli elementi base del violinismo della seconda metà del secolo. Questo motivo brillante si alterna a episodi diversificati che spaziano dal lirismo a raffinati espedienti tecnici. Entrambi gli strumenti assumono a turno il ruolo di guida melodica o di accompagnamento. La conclusione è affidata a una brillante e trascinante coda.