Conrad, “Cuore di tenebra”: viaggio nell’oscurità dell’animo umano

Conrad Cuore di tenebra viaggio nell’oscurità dell’animo umano

In Cuore di tenebra, Conrad ci conduce nell’Africa più profonda, in un viaggio avventuroso e oscuro, metafora di una discesa negli abissi insondabili dell’animo umano.

In “Heart of Darkness” (Cuore di tenebra), lo scrittore e navigatore polacco naturalizzato britannico, Joseph Conrad (Berdyčiv, 3 dicembre 1857 – Bishopsbourne, 3 agosto 1924), racconta la storia del viaggio compiuto da Charles Marlow, narratore del suo racconto, per risalire il fiume Congo, nel Libero Stato del Congo, al centro dell’Africa.

La storia è concepita da Conrad come il resoconto fatto da Marlow a un gruppo di amici di una sua singolare avventura, vissuta a bordo della sua imbarcazione, la Nellie, che al momento è all’ancora, a valle di Londra, in un’ansa del fiume Tamigi.

La particolare ambientazione scelta da Conrad serve da cornice narrativa, per raccontare un’ossessione, quella del narratore verso il commerciante di avorio Kurtz. Al contempo, gli permette anche di fare un parallelismo tra Londra e l’Africa, accomunate secondo lui dalla medesima oscurità. Inoltre, il suo racconto ci fa riflettere sul fatto che esiste ben poca differenza tra i popoli definiti civilizzati e quelli ritenuti selvaggi, e l’autore, tra le righe della sua storia, si prende anche la libertà di avanzare questioni polemiche sull’imperialismo e sul razzismo.

Inizialmente, la storia fu stampata in tre puntate e comparve nei numeri di febbraio, marzo e aprile del 1899, Vol. 165, della scozzese “Blackwood’s Magazine”, al fine di celebrare la millesima edizione della rivista. Nel 1902, invece, comparve in volume, nella raccolta “Youth, a Narrative and Two Other Stories” (Gioventù e altri due racconti).

Il racconto di Conrad prende il via di sera, quando i cinque membri dell’equipaggio della Nellie stanno aspettando la marea per dirigersi al largo. Uno di loro, Marlow, un maturo marinaio, prende la parola e inizia a raccontare di un viaggio fatto molti anni prima, inseguendo il fortissimo desiderio di conoscere l’Africa nera.

L’attrazione per questo continente ebbe inizio quando il narratore vide nella vetrina di un negozio una carta geografica. Osservandola, fu colpito dal percorso di un grande fiume “somigliante a un immenso serpente srotolato, con la testa nel mare […] la coda perduta nelle profondità del territorio”.
L’aspirazione di Marlow diverrà realtà e l’uomo affronterà proprio l’agognato viaggio lungo il fiume Congo, a bordo di uno sgangherato vaporetto.

Il suo itinerario dalla costa al centro, al luogo nel quale la coda del serpente si perde, sarà per Marlow una sorta di discesa in un’oscurità profonda, di certo più cupa e tenebrosa dell’oscurità che cinge il Tamigi, dove almeno le luci dei fanali consentono di vedere le altre navi transitare e anche il porto, pur se avvolto nella nebbia. La Nellie invece si addentrerà in un paesaggio del tutto sconosciuto.

Marlow giungerà in un primo tempo alla sede della Compagnia – in pratica un cumulo di baracche – per la quale sta lavorando, che è interessata al commercio di avorio.
Il luogo in cui il narratore e il suo equipaggio approdano è inospitale e male organizzato, oltretutto, è gestito da personaggi equivoci.

Nel racconto, il male, rappresentato da vari delitti, si manifesta lungo il percorso, nelle varie stazioni toccate dall’imbarcazione di Marlow e assume la forma di un mistero indecifrabile.
Su questo sfondo oscuro si staglia la figura enigmatica di Kurtz, uomo bianco invidiato da tutti, perché è il solo capace di procurare notevoli e costanti quantità di prezioso avorio.

Attorno alla mitica figura di Kurtz esistono molte leggende maligne che si intrecciano fra loro; all’ombra di questi foschi racconti, Marlow inizia il suo viaggio verso la sua vera destinazione, a bordo di un rattoppato battello a vapore, in compagnia di altri coloni e di indigeni cannibali. Il luogo verso cui sono diretti si trova all’interno dell’ingarbugliata e malsana foresta pluviale e si può raggiungere solo via fiume.

Durante la notte, accompagnato dal profilo delle rupi illuminate dalla Luna e dal misterioso suono cupo di tamburi, il battello risale con grande fatica il fiume. I lettori si ritrovano catapultati in una sorta di discesa agli Inferi, in un tempo e in uno spazio remoti.

Arrivato alla sua meta, il narratore scopre che la base di Kurtz è scena di atroci avvenimenti.
Innanzitutto, i membri dell’equipaggio si dovranno scontrare con l’ostilità primordiale degli indigeni che ritengono Kurtz una sorta di divinità. L’uomo bianco li ha soggiogati con il suo aspetto, con la sua determinazione feroce e, in particolare, con la sua voce che incute in loro venerazione, anche se Kurtz è molto malato e quasi in fin di vita.

Lo stesso Marlow resta affascinato da quest’uomo singolare, fascino di cui non sa darsi una spiegazione logica. Qualunque sentimento o idea il narratore nutra per Kurtz, in ogni caso, la sola decisione possibile per lui al momento è quella di catturarlo, il che sarà possibile, anche se con una certa difficoltà.
Durante il viaggio di ritorno, Kurtz muore. Prima di spirare pronuncia due parole: “L’Orrore! L’Orrore!”, e dà a Marlow un pacco che contiene delle lettere e la foto di una giovane donna.

Tornato a Bruxelles, il narratore va dalla vedova di Kurtz, che in realtà, è stata solo la sua fidanzata. L’uomo però, non se la sente di raccontare alla donna, che nutre un forte rimpianto per Kurtz, la vita malvagia che lui ha condotto in Africa, così le mente, e le dice che le ultime parole del suo amato sono state per lei.

In questo racconto si avverte con forza lo stile di Conrad e delle sue suggestioni.
Leggendo le sue parole, la giungla, custode di un oscuro mistero, sembra prendere vita, mentre la figura selvaggia di Kurtz rifulge di un potere quasi ipnotico e a tratti, pur nella sua crudeltà, ispira un senso di pietà.

Le storie narrate in Cuore di tenebra si ispirano a un viaggio fatto dall’autore nel 1890, a bordo del vaporetto “Roi des Belges”, lungo il fiume Congo. I personaggi, anche essi sono costruiti a partire da figure realmente esistite e incontrate durante tale viaggio.
È anche probabile che, Kurtz sia la raffigurazione letteraria di un agente della Compagnia di nome Klein, morto sul vaporetto. Per lui, Conrad ha fatto riferimento anche da altri avventurieri, incrociati sempre durante il medesimo viaggio.

In copertina: Henri Rousseau, “L’incantatrice di serpenti” (1907), Museo d’Orsay di Parigi

Opera al nero #6: Otello di Verdi, dramma della gelosia

Opera al nero 6 Otello di Verdi dramma della gelosia

L’Otello di Verdi rientra appieno nella definizione di opera al nero.
Inoltre, il dramma, sotteso alla musica, tratta un tema molto discusso attualmente: il femminicidio. Infatti, la vittima, Desdemona, moglie del protagonista, muore soffocata dal marito accecato dalla gelosia.

Otello, penultima opera di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901), fu musicata su libretto di Arrigo Boito (1842 – 1918; letterato, librettista e compositore) e fu eseguita per la prima volta a Milano, il 5 febbraio 1887, durante la stagione di Carnevale e Quaresima del Teatro alla Scala. La storia è tratta dall’omonima tragedia di William Shakespeare (1564 – 1616).

A livello di ambientazione, Verdi e Boito hanno strutturato l’Otello in modo da creare una sorta di crescente effetto claustrofobico. Lo spazio si restringe inesorabile: passiamo dalla prima scena, quella della tempesta, ad ambiti sempre più ristretti fino ad approdare nel quarto atto alla stanza di Desedmona, dove si consuma il dramma.

La prima scena del libretto di Boito vede il popolo raccolto sul piazzale esterno al castello del governatore dell’isola di Cipro. Si attende l’arrivo della nave di Otello, che al momento sta affrontando il mare in tempesta.
La gente prega perché il generale possa scendere a terra sano e salvo (“Dio, fulgor della bufera”).
La preghiera ha buon esito: Otello, compare sugli spalti del castello e proclama la sua vittoria contro i musulmani, cantando il famoso “Esultate!

Il condottiero è accolto dalla folla festante (“Fuoco di gioia”). Gli unici a non festeggiare il vincitore sono Roderigo, innamorato di Desdemona, e l’alfiere Jago, che odia Otello, e sta già tramando contro di lui e contro il suo favorito, Cassio.
La prima mossa di Jago è far ubriacare Cassio (“Innaffia l’ugola”). Il giovane, perduto il senno a causa dell’alcol, ferisce in duello Montano. Jago intanto scatena una rissa che sarà placata dall’intervento di Otello che degraderà Cassio e poi si allontanerà con la sua sposa, intrecciando un duetto amoroso (“Già nella notte densa”).

Nell’atto secondo, Jago passa alla fase successiva del suo piano malvagio. L’alfiere sollecita Cassio a rivolgersi a Desdemona per poter tornare nelle grazie di Otello. Poi, in un monologo (“Credo in un Dio crudel”) feroce riflette sul suo destino.
Successivamente, l’alfiere incontra Otello e inizia a instillare in lui il dubbio che la sua consorte non gli sia fedele, ma che abbia una relazione con Cassio, proprio mentre i due sono a colloquio, in un angolo del giardino, così, quando la donna intercede a favore del capitano da poco degradato, l’ira del Moro si acutizza.
Desdemona è sconvolta dalla reazione di Otello e lascia cadere un fazzoletto, non un fazzoletto qualunque, bensì il primo pegno d’amore donatole dal marito; Jago lo afferra dalle mani di sua moglie, Emilia, dama di compagnia di Desdemona, e progetta di usarlo per i suoi fini diabolici. La sua intenzione è quella di nasconderlo nella dimora di Cassio.

Desdemona chiede perdono ad Otello (“Dammi la dolce e lieta / parola del perdono”), mentre in lui si va consolidando l’idea che tutte le certezze in cui finora confidava si stanno sgretolando, travolte dal dubbio lacerante (“Ora è per sempre addio, sante memorie”). Jago intanto gli promette una prova inconfutabile del tradimento: il fazzoletto che lui ha donato a sua moglie in mano a Cassio. Inoltre, lo inganna ulteriormente, raccontandogli di aver udito il rivale che in sogno pronunciava frasi d’amore rivolte a Desdemona (“Era la notte, Cassio dormiva”); Otello risponde, giurando vendetta (“Sì pel ciel marmoreo giuro”).

Nell’atto terzo, che si svolge nel salone d’onore del castello, giunge un araldo che annuncia l’arrivo degli ambasciatori veneziani. Nel frattempo, Jago dice a Otello che presto porterà Cassio al suo cospetto. Arriva Desdemona che perora di nuovo la causa del giovane capitano (“Dio ti giocondi, o sposo dell’alma mia sovran”).
In risposta, Otello le chiede di mostrare il fazzoletto che lui le ha regalato, al diniego della donna reagisce con furia e Desdemona si allontana disperata e sconvolta.
Otello si sente ferito e sfoga in un monologo la sua amarezza (“Dio, mi potevi scagliare”), poi Jago lo fa nascondere per ascoltare, non veduto, il dialogo tra lui e Cassio. Il giovane ex capitano mostrerà, istigato dal malvagio alfiere, il fazzoletto che ha trovato in casa sua e che lui ritiene l’omaggio di una corteggiatrice anonima (“Questa è una ragna”).
Otello è ormai convinto dell’infedeltà della moglie, in quel momento, di sentono degli squilli di tromba, che annunciano l’arrivo delle navi veneziane; Cassio si allontana e il Moro confida a Jago la sua decisione: ucciderà i colpevoli.

Successivamente, sulla scena compaiono: Lodovico, Montano, Desdemona e i dignitari.
Mentre legge il messaggio del Doge che lo vuole a Venezia, Otello perde la ragione e insulta la moglie. Desdemona piange e viene consolata dai presenti (“A terra, … sì … nel livido / Fango … percossa … io giaccio”). Jago intanto suggerisce le prossime mosse a Otello e a Roderigo. Il Moro, sconvolto e distrutto, sviene.
Tutti si allontanano terribilmente scossi per la scena cui hanno assistito, Jago, invece, contempla il suo trionfo, mentre da fuori risuonano inni in onore di Otello.

Nell’atto quarto siamo trasportati nella camera di Desdemona.
La donna è triste quando congeda Emilia e dopo aver pregato (“Ave Maria”), si prepara per la notte, in attesa dell’arrivo di suo marito.
Otello entra nella stanza e senza troppi indugi la soffoca, nonostante la donna protesti disperata la sua innocenza. Emilia dà l’allarme, ma troppo tardi; arriva Cassio, che ha appena ucciso Roderigo che gli aveva teso un agguato, seguito da Lodovico, Montano e Jago che fugge, appena si rende conto che le sue malefatte sono state svelate.
A questo punto, Otello, dopo aver dato l’addio alla vita (“Niun mi tema”), estrae un pugnale e si trafigge. Mentre sta morendo intona: “Pria d’ucciderti … sposa … ti baciai“, poi appoggia le labbra su quelle della moglie e muore.

Giuseppe Verdi musicò l’Otello dopo una lunga assenza dalle scene, dopo l’Aida che era stata rappresentata nel 1871.
In questa nuova opera si rilevano diversi elementi innovativi. Innanzitutto, Verdi si affrancò ancora di più dalle forme chiuse che nell’Otello sono sempre meno individuabili, alla ricerca di un flusso musicale continuo che alcuni accostano all’esperienza wagneriana. In effetti, però, questa particolare tendenza era già evidente in altri operisti italiani di quel periodo.

Per quanto riguarda i pezzi chiusi o i rimandi alla tradizione, Verdi non li disdegna del tutto, ma il loro svolgimento diventa imprevedibile.
Tra i pezzi chiusi più significativi ci sono: il dialogo in forma di recitativo tra Jago e Roderigo; la cabaletta “Sì pel ciel marmoreo giuro” che conclude il secondo atto; il grande concertato del finale del terzo atto. E non sono gli unici.

Quello che risulta innovativo in Otello, rispetto alle opere precedenti, è il modo adottato dal musicista per collegare i singoli episodi. In pratica, il passaggio dall’uno all’altro non è determinato da interruzioni nette: il tessuto musicale è in continua evoluzione, grazie soprattutto all’uso sapiente dell’orchestra, che ha il ruolo di sfondo unificante.

Nella transizione tra le varie scene, poi, Verdi riprende i materiali tematici appena ascoltati, in questo modo crea delle transizioni perfette, come ad esempio, quella che conduce dalla scena del duello tra Cassio e Montano al duetto d’amore che conclude il primo atto.
Verdi trasforma anche dei brani che all’apparenza sembrano in forma chiusa in passaggi dialogici (il “Credo” di Jago; il monologo di Otello “Dio, mi potevi scagliar”).

Verdi mostra nell’Otello tutta la sua incredibile abilità a giocare a rimpiattino con le convenzioni: prima le evoca e poi le stravolge. Un esempio illuminante è il brano con cui il protagonista irrompe in scena, poco dopo l’inizio dell’opera: il famoso “Esultate!” che è gestito come una specie di minuscola cavatina, solo dodici battute.

Per il teatro verdiano, Otello rappresenta il punto di arrivo di un percorso personale che dallo sfoggio di idealismi risorgimentali e dalla rappresentazione di eroi romantici giunge a sondare, sempre più a fondo, gli abissi dell’animo umano, rivelandone anche gli aspetti più nascosti.
Otello è quindi un dramma psicologico inquietante, dove il motore dell’azione sono le passioni assolute e devastanti, che condurranno alla rovina dei personaggi.
Per poter tratteggiare i protagonisti della sua opera e per mostrarne i più intimi moti dell’animo, il compositore dovette creare uno stile vocale nuovo e adeguato alle sue esigenze, uno stile che oscilla senza posa tra recitativo, arioso e aperture cantabili di una certa ampiezza.

Otello sta a una notevole distanza dalle opere che avevano garantito a Verdi una grande notorietà. Questa nuova opera è lontana dalle forme tradizionali del melodramma italiano e per questo da alcuni fu criticata: chi tacciò il compositore di aver smorzato la sua vena melodica; chi gli imputò un eccessivo intervento dell’orchestra. Per fortuna, sia la critica sia la parte colta del pubblico riconobbe l’eccezionalità di Otello e valutò che il suo distacco dallo stile corrente nell’opera italiana dell’epoca avesse condotto Verdi a nuovi esiti artistici.

In copertina: l’artista William Mulready ritrae l’attore americano Ira Aldridge nel ruolo di Otello – Walters Art Museum (particolare del dipinto)

Il Romanzo, un genere narrativo variegato e affascinante #1

Il Romanzo un genere narrativo variegato e affascinante 1

Il romanzo, un genere letterario che tutti conoscono, ma quanti conoscono la sua struttura o la sua lunga e fortunata storia?

Che cos’è che possiamo racchiudere nel termine romanzo?
Qual è la storia di questo genere letterario?

Il romanzo, innanzitutto, è una forma narrativa scritta che nasce nel Medio Evo.
Come genere si differenzia dagli altri per la maggiore ampiezza e per il carattere fantastico degli argomenti che tratta, distinguendosi così dalle biografie, autobiografie, racconti di viaggi, opere storiche.

Sin dai suoi albori, il romanzo si è distinto da altri generi, come ad esempio, la novella che, in epoca medievale, aveva un carattere realistico. Per rintracciare la netta distinzione che esisteva tra i due si può fare riferimento alla lingua inglese e al differente uso dei due vocaboli: “romance”, per indicare la narrazione fantastica e “novel”, per la narrazione realistica.
Questa distinzione la troviamo solo nella lingua inglese, in tutte le altre lingue non c’è alcuna differenza nell’impiego dei due termini.

Nel corso dei secoli, il romanzo ha sempre avuto una certa fortuna che lo ha condotto a essere una tra le forme narrative più diffuse. La sua notorietà è legata in particolare al fatto che offriva e offre ai lettori sia l’opportunità di evadere dal grigiore della vita quotidiana, vivendo le avventure dei personaggi e degli eroi delle storie, sia di vedere la loro realtà riflessa nelle pagine scritte e, attraverso questa, spingersi ad analizzare e interpretare la propria vita.

Il romanzo ebbe una diffusione maggiore a cominciare dal Settecento, trovando condizioni più favorevoli, quali: la scolarizzazione che comportò una maggiore diffusione della cultura; l’industrializzazione e il corrispondente miglioramento del tenore di vita, che consentiva di avere più tempo per leggere; lo sviluppo dell’editoria; il costo ridotto delle pubblicazioni.

Nel tempo, l’incremento del numero dei lettori condusse a un proficuo scambio tra loro e gli scrittori di romanzi, ciò portò a profondi cambiamenti sia nel contenuto sia nella struttura di questo genere narrativo.
Tali mutamenti sono particolarmente evidenti tra Ottocento e Novecento e hanno dato il via a una notevole attività critica che ha analizzato il romanzo in base a varie chiavi di lettura: sociologica, semiologico-strutturale, storicistica, stilistica, estetica, ecc.

L’opera d’arte e quindi, anche il romanzo, almeno secondo la semiotica (scienza che studia i vari sistemi di segni elaborati dagli uomini per comunicare tra loro), è una forma di messaggio indirizzato da un mittente, lo scrittore, a un destinatario, il lettore.

Il rapporto tra scrittore e lettore è fondato sulla condivisione di un discorso, di un intreccio, in cui sono indicati i motivi della storia, secondo l’ordine scelto dall’autore, che può essere impostato in base a una successione logico-cronologica personale, ad esempio: i fatti possono essere narrati a ritroso oppure muovendosi avanti e indietro nel tempo, sfruttando il cosiddetto flashback.

Per quanto riguarda la storia, solitamente, in un romanzo sono presenti più episodi; a quello principale si accostano altre vicende e lo scrittore può utilizzare varie tecniche per inserire nell’intreccio episodi secondari.
Ad esempio, può utilizzare la concatenazione. In questo caso, le storie sono narrate dai vari personaggi, in ordine di successione oppure, lo scrittore può avvalersi dell’alternanza. In questo secondo caso, due o più storie sono narrate contemporaneamente, interrompendo ora l’una ora l’altra.
Un’altra tecnica è quella dell’incastro: una storia è inserita all’interno di un’altra. Per concludere, c’è poi anche la schidionata o infilzamento, quando un protagonista compare in vari filoni del racconto o gli episodi si intrecciano con i casi accaduti ai personaggi principali.

“Salonmusik”, musica da salotto: genere prediletto dalla borghesia

Salonmusik musica da salotto genere prediletto dalla borghesia

Nell’Ottocento e fino a inizio Novecento si diffonde la cosiddetta musica da salotto.
Espressione musicale tipica della borghesia, consentiva ad abili dilettanti di divertirsi facendo musica insieme, e a un pubblico scelto di ascoltare eccellenti esecuzioni in ambiti domestici.

La musica in casa e la musica in salotto erano una piacevole abitudine ottocentesca.
Per i borghesi del tempo, la musica costituiva un’opportunità di affermazione sociale che si manifestava non solo attraverso le consuete esibizioni pubbliche, ma anche in quelle praticate nell’intimità delle case private.
Per assecondare questa particolare inclinazione musicale, nel corso del secolo, aumentarono i dilettanti esecutori e al contempo, il pianoforte divenne l’arredo indispensabile di un salotto borghese.

Parlando di “musica domestica” (Hausmusik) e “musica da salotto” (Salonmusik) ci troviamo di fronte a termini abbastanza simili, però, la prima espressione comprende un ambito più vasto, include cioè, sia la musica che era eseguita tra le pareti domestiche sia quella realizzata appositamente per essere suonata in casa.
I fruitori di questo specifico repertorio, nonché gli esecutori di tale musica erano i dilettanti o i familiari e gli amici che amavano suonare insieme.

Per quanto riguarda invece la seconda definizione (musica da salotto) siamo dinanzi a un termine con un senso più definito: si tratta della produzione musicale appositamente realizzata per essere eseguita nei salotti europei dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, più o meno sino alla prima guerra mondiale.

I due repertori, quello della Hausmusik e della Salonmusik, si differenziano anche per il carattere: il primo aveva, tendenzialmente, un carattere intimistico; il secondo, invece, era il più delle volte sentimentale e brillante.

La borghesia europea tra Settecento e Ottocento ambiva a diventare la classe sociale predominante e la musica si prestava agevolmente all’affermazione di tale ambizione.
Mentre il concerto pubblico si diffonde, in contrapposizione a quello privato di ascendenza aristocratica, si viene affermando anche l’uso di suonare in casa sia per divertimento sia a scopo formativo.

La musica da salotto si avvalse anche vantaggiosamente della pratica della trascrizione che consentì alla borghesia di esperire la letteratura musicale in toto, spaziando dalla musica sinfonica a quella operistica.
L’usanza di fare musica in salotto proseguì sino al primo Novecento, poi l’avvento del grammofono e della radio ne decreteranno la lenta estinzione.

Nel XVII secolo, la Hausmusik prima di rappresentare uno specifico costume musicale era un termine usato come titolo di raccolte di Lieder di matrice luterana, destinate all’esecuzione domestica.
Nel XVIII secolo, invece, il termine compare in pochissime occasioni, nonostante ci sia una grande quantità di musica pensata e realizzata proprio per i dilettanti.
Fu a cominciare dalla metà del XIX secolo che la musica domestica diventò piuttosto frequente, quando cioè aumentò la divergenza tra musica d’arte, destinata ai professionisti, e musica d’uso, composta per gli amatori.

Il problema della difficoltà, infatti, era legato alla possibilità o meno di tale musica di essere eseguita tra le pareti domestiche da dilettanti. Nel momento in cui la complessità di tali composizioni aumentò, quando cioè, iniziarono ad affermarsi brani come Lieder, quartetti e trii di genere più impegnativo, fu necessario possedere capacità interpretative di un livello superiore e quindi, ai semplici dilettanti subentrarono musicisti professionisti che si dedicarono a un’attività concertistica vera e propria.
A metà Ottocento, proprio in seguito all’affermazione di questo divario esecutivo, compositori ed editori iniziarono a specificare nei titoli delle opere la destinazione domestica di alcuni brani.

Lo strumento principe della musica da salotto era indubbiamente il pianoforte.
Per tutto il XIX secolo dilagò in Europa e in America, una vera e propria “mania” per questo strumento, accresciuta dall’idea che lo studio del pianoforte e l’insegnamento del canto fossero una irrinunciabile prassi da includere nell’educazione delle ragazze di buona famiglia.
Inoltre, la diffusione di questo particolare strumento fu incrementata dall’introduzione nel mercato di svariati modelli economici di pianoforte, perfetti per un uso domestico, come il “pianino” (attuale pianoforte verticale), introdotto nel 1811.

Fu proprio la duttilità del pianoforte a far sì che assumesse un ruolo predominante.
L’accompagnamento di questo strumento era utilizzato per sostenere diversi generi vocali e strumentali, ma spesso era impiegato anche come solista oppure per eseguire brani a quattro mani. Questo ultimo tipo di esecuzione favoriva la socialità, era un modo semplice di suonare insieme e per questo conservò un ruolo speciale nelle abitudini musicali della borghesia europea. Consentì anche di preservare la tradizione della Hausmusik, almeno fino ai primi decenni del XX secolo, quando già generi cameristici più impegnativi si erano già trasferiti nelle sale da concerto.

Oltre al pianoforte, altri strumenti prediletti della Hausmusik erano: la chitarra, l’arpa, il mandolino, il flauto, il violino e il violoncello.

In copertina: James Tissot, “Hush!” (Silenzio!) olio su tela (1875 ca. – dimensioni: 73.7 x 112.2 cm), conservato presso Manchester City Art Galleries (Manchester)

“Une Femme lisant” di Corot: un ritratto immerso nel paesaggio

Une Femme lisant di Corot un ritratto immerso nel paesaggio

Famoso per i suoi paesaggi, Corot ha anche realizzato diversi ritratti, la cui caratteristica principale è l’atmosfera di serenità e pace che circonda i soggetti; “Una donna che legge” è uno di questi.

“Una donna che legge” (Une Femme lisant, 1869 e 1870) è un olio su tela del pittore francese Jean-Baptiste-Camille Corot (Parigi, 16 luglio 1796 – Parigi, 22 febbraio 1875), attualmente conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York.

In questo dipinto, Corot ha raffigurato una donna in primo piano che legge un libro, mentre in lontananza, sulla sinistra del quadro, vediamo un uomo su una barca.
L’artista francese era piuttosto conosciuto come paesaggista, ma negli ultimi anni di vita dipinse molte immagini di donne solitarie e pensierose. Questo cambio di soggetto, probabilmente è legato al suo stato di salute: dal 1866 al 1870, ripetute crisi di gotta impedirono a Corot, che considerava la bellezza lontana dai personaggi e dai gesti eroici, di continuare a dedicarsi ai suoi viaggi di cacciatore di immagini nella campagna. Il pittore fu costretto a lavorare nel suo studio parigino, dove si dedico alla realizzazione di una serie di ritratti. Quelli che raffigurano delle donne, in particolare, iniziano a mostrare una certa serenità e pace, indipendentemente dalla natura del modello.

Nella donna che legge, il paesaggio crepuscolare è tranquillo, così come calma è la postura della donna. Inoltre la chiarezza e la lentezza della linea di contorno che separa la figura dallo sfondo esalta il senso di moderazione e una sorta di distacco, che si possono cogliere osservando l’espressione del viso della modella.

La donna che legge fu esposta dal pittore già settantaduenne al Salon del 1869; fu l’unico che Corot espose quando era ancora in vita.
Il quadro fu lodato da Théophile Gautier (1811 – 1872; scrittore, poeta, giornalista e critico letterario francese), che definiva Corot il La Fontaine (Jean de La Fontaine, 1621 – 1695; scrittore e poeta francese autore di celebri favole con animali come protagonisti) della pittura, per la sincera ingenuità e la tavolozza, ma fu critico nei confronti del disegno maldestro, secondo lui, dell’eroina e fece notare il fatto che nel dipinto erano presenti poche figure.
Dopo il Salon, Corot rimise mano alla tela, rimodellando il paesaggio, ma lasciò invariata la figura in primo piano.

Il dipinto fu donato al Metropolitan Museum of Art nel 1928, da Louise Senff Cameron, in memoria di suo zio, Charles H. Senff.

In copertina: “Une Femme lisant” (Una donna che legge, 1869) di Jean-Baptiste Camille Corot, olio su tela (dimensioni: 54,3 x 37,5 cm), conservato al Metropolitan Museum of Art di New York

Robin Hood: un fuorilegge che difendeva i poveri

Robin Hood un fuorilegge che difendeva i poveri

Robin Hood, l’abile arciere difensore dei poveri, è un personaggio che tra storia e leggenda ha attraversato i secoli, e dalla letteratura al cinema ha lasciato un segno indelebile.

Robin Hood (“Robyn Hode” in manoscritti più antichi), eroe popolare del Regno Unito, che oscilla tra storia e leggenda, ha ispirato alcune opere della letteratura britannica e nell’immaginario collettivo moderno è assurto al ruolo del generoso giustiziere che ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Si ritiene che Robin Hood sia realmente esistito e forse, era un bandito o un nobile sassone decaduto alla cui figura sono state associate preesistenti leggende di un dio della foresta.
Per quanto riguarda la sua zona d’azione, sappiamo che lui e la sua banda erano attivi nell’area della foresta di Sherwood e nella Contea di Nottingham.

Alcuni storici ritengono fosse originario di Loxlley nello Yorkshire, mentre altri sostengono fosse di Wakefield.
Discordanti sono anche le supposizioni sulle possibili date di nascita di Robin Hood: c’è chi propende per un intervallo compreso tra il 1285 e il 1295 e chi, invece, ritiene sia deceduto nel 1247 circa.

La versione più nota delle vicende di Robin Hood fa di lui un nobile, un abile arciere, devoto e fedele a Riccardo Cuor di Leone (1157 – 1199), il cui trono era stato usurpato dal fratello, Giovanni Senzaterra (1166 – 1216). A causa della sua fedeltà al legittimo sovrano d’Inghilterra, Robin Hood fu privato del titolo di cavaliere e anche dei possedimenti che gli spettavano di diritto, così decise di ritirarsi in una foresta e, insieme a una banda di fuorilegge, compiva azioni di guerriglia contro l’autorità e depredava i ricchi, per favorire i poveri, fino a quando non riuscì a spodestare Giovanni Senzaterra.

Non sono del tutto chiare le origini della leggenda di Robin Hood e le testimonianze storiche sono confuse. Ad esempio, è stata rinvenuta una pergamena del 1225, della Corte d’Assise dello Yorkshire, che parla di un “Robin Hood fuggitivo (fuorilegge)“, mentre al 1248, risale un testamento che fa riferimento a “Il Conte Robin di Huntingdon“, purtroppo nessuno di questi documenti fornisce un’identificazione storica certa di Robin Hood.

La prima testimonianza dell’esistenza di un eroe del popolo risale al 1377, è un poema dal titolo “Piers Plowman”, nel quale il chierico londinese William Langland scrive: “Non conosco bene le Preghiere di Nostro Signore, ma conosco le ballate di Robin Hood”, questo ci fa capire che la figura del brigante era già piuttosto nota all’epoca.

Trent’anni dopo troviamo un’altra citazione, in un manoscritto del 1410, custodito nella cattedrale di Lincoln. In tale nota si dice: “Robin Hood in Sherwood stood” (Robin Hood si trovava a Sherwood), un modo di dire piuttosto diffuso a quel tempo, per indicare qualcosa di ovvio.

Per avere un resoconto completo della leggenda del difensore dei poveri, dobbiamo attendere fino al 1510, quando compare il racconto: “Le gesta di Robin Hood”.
Nei secoli la storia dell’eroe di Sherwood si è notevolmente modificata, prendendo sempre più le distanze dalla verità storica e avvicinandosi maggiormente alla leggenda, quella di un eroe che è innanzitutto un patriota, perché sosteneva il legittimo sovrano; era un difensore dei più deboli e meno abbienti; era un non violento perché non usava mai le maniere forti quando rapinava i potenti.

Comprendere quanto ci sia di vero e quanto di inventato su Robin Hood non è semplice, perché la sua storia è stata ampliata e arricchita negli anni, non solo di dettagli, ma anche di personaggi.
Inoltre, a complicare le cose, nel corso del XX secolo, il cinema ha continuato ad aggiungere personaggi alla saga e persino nuove situazioni, proprio come era avvenuto in precedenza, quando la storia era tramandata oralmente e anche successivamente, quando si diffuse grazie alle versioni stampate.

Le vicende di Robin Hood si collocano tra la morte di re Enrico II (1133 – 1189) e l’inizio del regno di re Edoardo III (1312 – 1377). La saga, invece, si svolge tra i secoli XII e XIII, durante il regno di re Giovanni d’Inghilterra, cioè tra il 1199 ed il 1216. In questo periodo ci furono conflitti senza fine che erano finanziati con tasse esorbitanti, al punto che i baroni si ribellarono al re e lo costrinsero a firmare la “Magna Charta Libertatum”, per limitare i suoi poteri e aumentare i loro.
Alcuni storici credono di ravvisare nei baroni ribelli lo stesso Robin Hood e i suoi adepti.

Un ulteriore ostacolo nella ricerca del personaggio reale cui fa riferimento la saga è legato al nome: “Robert” (da cui deriva “Robin”) è sempre stato un nome popolare, mentre il cognome “Hood” e le sue varianti erano anch’essi piuttosto utilizzati all’epoca.
Inoltre, le prime ballate che sono arrivate fino a noi non forniscono alcuna informazione sulle origini del personaggio e neppure cenni sul contesto storico. Da esse traiamo solo la misera conclusione che era un furfante, attivo tra Sherwood e Barnsdale. E sappiamo anche della notevole fortuna incontrata tra il XII ed il XIV secolo dalla saga che lo riguarda: molti briganti si facevano chiamare “Robin Hood”.

Il brigantaggio fu una conseguenza delle tasse esorbitanti che Giovanni senzaterra impose ai suoi sudditi, molti dei quali furono ridotti in povertà e costretti per sopravvivere a darsi alla ruberia e al brigantaggio. Inoltre, peggiorando ancora di più la situazione, il sovrano emanò anche l’impopolare “Legge della Foresta” che consentiva solo alla corte reale di accedere alle vaste distese di territori di caccia e di legname da ardere, e le punizioni per chi trasgrediva erano spietate.

Tornando alle incongruenze tra storia e fantasia popolare, anche l’ambientazione della saga non coincide con la realtà. Infatti, con una buona dose di certezza si può sfatare l’idea che l’eroe e la sua banda si nascondessero nella Foresta di Sherwood, in quanto, anche se nel Medioevo l’estensione boschiva era maggiore di quella attuale, di certo non avrebbe consentito a dei ribelli di scampare a eventuali ricerche da parte delle autorità e, cosa ancora più certa, la quercia nota come “Major Oak”, non offriva a Robin Hood e ai suoi seguaci di radunarsi sotto le sue fronde, dal momento che l’albero ha solo otto secoli, per cui, quando il nostro eroe imperversava in quei luoghi, sarebbe stato solo un esile fuscello.

Un altro mistero è legato alla morte di Robin Hood.
La leggenda più popolare afferma che morì presso l’antica canonica di Kirklees, in seguito a un agguato delle autorità, favorito dal tradimento di un membro della banda. Robin moribondo, passò le consegne a Little John e gli chiese di seppellirlo nel luogo in cui si sarebbe conficcata nel terreno l’ultima freccia scoccata dal suo arco.

A 550 metri dalla finestra della sua presunta camera mortuaria c’è in effetti un’antica tomba e sulla lapide c’è inciso che essa si trova nel punto esatto in cui la freccia aveva raggiunto il terreno. Secondo l’iscrizione la data presunta della morte di Robin Hood sarebbe il 21 dicembre 1247. La tomba però è della seconda metà del Settecento ed è solo un cenotafio, cioè non sono stati rinvenuti resti umani ivi sepolti.

Sono stati fatti molti paralleli tra il personaggio leggendario e personaggi realmente esistiti.
Prendendo come riferimento sia l’epoca in cui pare sia vissuto Robin Hood sia le somiglianze con il suo nome, sono stati individuati diversi personaggi: Sir Robert Fitz Ooth, conte di Huntingdon (1160 – 1247); Robert de Kyme (1210 – 1285), condannato come fuorilegge e poi amnistiato); Robert Hood (1290 – 1347); Robert Foliot (1110 – 1165); Robert Hod, grassatore sulla cui testa, nel 1226, c’era una cospicua taglia.

Ci sono anche degli studiosi che affermano che la figura di Robin Hood derivi da miti celtici. Secondo tale interpretazione l’eroe sarebbe ricollegabile a un nume dei boschi, venerato nella festa di Calendimaggio e il cui culto risalirebbe alla Preistoria.
Altri ancora, lo identificano con Robin Goodfellow, una divinità dei boschi, successivamente tradotta in semplice folletto e resa famosa, a distanza di secoli, da William Shakespeare (1564 – 1616) nel “Sogno di una notte di mezza estate”.

In ambito letterario, la prima apparizione di Robin Hood la troviamo nel “Piers Plowman”, un manoscritto di William Langland (1332 – 1386) del 1377.
Nel 1420 circa, invece, compare nella “Scottish Chronicle” di Wynton.
Per avere poi delle versioni stampate delle ballate a lui dedicate dobbiamo attendere il Cinquecento e in esse lo troviamo rappresentato come un mercante o un contadino. Solo più avanti sarà descritto come un nobiluomo: Earl di Huntington, Robert di Loksley o Robert Fitz Ooth.
Anche il suo amore per Lady Marian (o Marion) risale a questo periodo e probabilmente si può collegare al dramma pastorale francese del 1280: “Jeu de Robin et Marion”.

Drammi, canzoni, giochi e a seguire romanzi, musical, film e serie televisive hanno ripreso la storia di Robin Hood che, nonostante le numerose manipolazioni, anche di natura ideologica, ha conservato intatto tutto il suo fascino.

La sera fiesolana di D’Annunzio: perfetta fusione tra uomo e natura

La sera fiesolana di D’Annunzio perfetta fusione tra uomo e natura

Nella poesia “La sera fiesolana” Gabriele d’Annunzio inneggia alla sensualità della natura che si tramuta in donna, mentre il poeta si inebria di suoni e profumi al calare della notte.

“La sera fiesolana” di Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938) fu scritta e pubblicata sulla rivista “Nuova Antologia” nel 1899. Essa apre la raccolta “Alcyone” (1903) ed è ritenuta uno dei vertici della vasta produzione poetica di D’Annunzio.

Questa poesia è incentrata sul rapporto di reciproca e costante fusione tra uomo e natura, tema caro a D’Annunzio che con questa lirica tocca la sua massima espressione artistica e mostra una piena maturità umana e creativa, maturità che ha raggiunto negli anni a cavallo fra i due secoli. In questa fase si allontana dai temi politici e patriottici e si rifugia in una poesia più intima.

La sera fiesolana è composta da tre strofe di quattordici versi di varia lunghezza. Al termine di ogni strofa il poeta ha introdotto una laudazione di tre versi.
Ogni strofa include tre, o due, o quattro endecasillabi iniziali e un quinario finale, che rima con il primo verso successivo. L’ottavo verso, all’inizio della seconda parte della strofa, è sempre endecasillabo.
Il terzetto a fine strofa, concepito in forma di antifona, richiama il “Cantico delle creature di san Francesco” ed è formato da un endecasillabo, dal trisillabo “o Sera” associato a un dodecasillabo, e da un quinario.

Questa poesia dannunziana è un esempio di musicalità che discende da un uso accorto delle rime e delle allitterazioni, ed è esaltata dall’impiego di numerose figure retoriche. Ad esempio: la sinestesia con cui inizia la lirica (“Fresche le mie parole”) che affianca la sensazione uditiva delle parole a quella tattile della freschezza; le similitudini (“come labbra”, “come il fruscio”, ecc.); le metafore (“rosei diti”, “vesti aulenti”, ecc.); l’apostrofe (“O sera“); l’anastrofe (“che fan di santità pallidi i clivi”); il polisindeto (su i gelsi e su gli olmi e su le viti / e su i pini … / e su il grano … / e su ‘l fieno … / e su gli olivi).

Quando compose La sera fiesolana, D’Annunzio viveva insieme alla compagna, Eleonora Duse (1858 – 1924), nella Villa della Capponcina a Settignano, vicino Firenze, dove si era trasferito nel 1898 e dove rimase fino al 1910.

In questo luogo, dove è facile immergersi nella natura e lasciarsi coinvolgere dalle intense sensazioni che essa provoca, il poeta descrive una serata di giugno nella campagna fiesolana, appunto, dopo la pioggia, nel momento in cui si avvicina il crepuscolo.
In questa oasi di pace, i sensi liberi viaggiano fra suoni e profumi, mentre l’oscurità della notte avanza. Udito, tatto e olfatto si acuiscono a mano a mano che la vista si affievolisce a causa del buio e si possono così percepire melodie, odori e tutto quello che in condizioni normali non si potrebbe avvertire.

Le immagini che ci presenta D’Annunzio ne La sera fiesolana sono fortemente evocative, di una bellezza impalpabile. La sensazione generale, leggendo questa poesia, è trovarsi in un sogno dalle sfumature mistiche. Il misticismo è in legato in particolare ai tre versi di laude posti a conclusione di ogni strofa.

Il tratto saliente di questa lirica resta comunque la sensualità, tipica di D’Annunzio che nei versi finge di colloquiare con una donna, la Sera dal “viso di perla”, dalle “vesti aulenti” e dai “grandi umidi occhi” o quando intravede nel profilo delle colline fiorentine, illuminate dalla luna, delle labbra, pronte a pronunciare delle parole, ma che per un misterioso motivo sono impedite a emettere voce.

Ne La sera fiesolana l’uomo e un tutt’uno con la natura; paesaggio e stato d’animo si riflettono l’uno nell’altro, in un crescendo di emozioni e sensazioni, scandite dal fruscio delle foglie, dal sorgere della luna e dall’apparizione delle stelle, e così via.
Attraverso questa commistione, D’Annunzio dà voce al pensiero decadente che secondo il poeta non è altro che quel processo che conduce la natura ad antropomorfizzarsi e l’uomo a naturalizzarsi.

La sera fiesolana di D’Annunzio

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.


Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.


Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!

Ann Radcliffe: la scrittura gotica al femminile

Ann Radcliffe: la scrittura gotica al femminile

Ann Radcliffe con i suoi romanzi ha aperto la strada alla letteratura dell’orrore, è stata un’antesignana del romanzo gotico e ha creato nuovi ruoli per le donne nella letteratura.

Ann Ward, nota come Ann Radcliffe (Holborn, 9 luglio 1764 – Holborn, 7 febbraio 1823), è stata una popolare scrittrice inglese, una vera pioniera della letteratura dell’orrore e soprattutto del romanzo gotico.
Anche quando raggiunse un notevole successo, la Radcliffe continuò a condurre una vita appartata: non frequentava né gli ambienti alla moda né le feste, e per questo, le notizie che la riguardano sono davvero scarse. C’era una tale penuria di fatti anche ai suoi tempi che, nel 1823, quando morì, “The Edinburgh Review” scrisse: “Non appariva mai in pubblico, né si mescolava nella società, ma si teneva defilata, come il soave usignolo che canta le sue note solitarie, celato e non visto”.

Ann Radcliffe nacque a Holborn (Londra); era l’unica figlia del merciaio William Ward e di Ann Oates, appassionata lettrice, iniziò la carriera come scrittrice scrivendo racconti per divertimento.
Nel 1789, pubblicò in forma anonima il romanzo “The Castles of Athlin and Dunbayne” (I castelli di Athlin e Dunbayne). Già in questa prima opera si respira l’atmosfera tipica dei suoi romanzi successivi e compaiono quelle che saranno le sue consuete protagoniste: giovani donne che solitamente vivono le loro tenebrose avventure in castelli lugubri e oscuri.

Le sue opere divennero molto popolari, in particolare tra le giovani lettrici. Tra i suoi romanzi più famosi ricordiamo: “A Sicilian Romance” (Romanzo siciliano, 1790), “The Romance of the Forest” (Il romanzo della foresta, 1791), “The Mysteries of Udolpho” (I misteri di Udolpho, 1794) e “The Italian” (L’Italiano, 1797).

Ann Radcliffe fu considerata l’esponente di maggior spicco del romanzo storico in chiave gotica, grazie al successo riscosso in particolare da “Il romanzo della foresta”.
I suoi libri successivi ottennero risultati entusiastici e diedero il via a un numeroso gruppo di imitatori. Inoltre, alcuni grandi scrittori, come Jane Austen (1775 – 1817), trassero ispirazione dall’atmosfera presente nelle opere della Radcliffe.

Come nelle sue opere, anche la vita della scrittrice inglese si tinse di qualche sfumatura fosca. Pochi anni prima della sua morte, si vociferava soffrisse di depressione e che fosse stata addirittura rinchiusa in un manicomio per infermità mentale.
In realtà erano solo chiacchiere senza fondamento, infatti, il marito e il dottore che la visitò negli ultimi giorni di vita negarono ogni cosa.
Ann Radcliffe morì il 7 febbraio 1823 a causa di problemi respiratori e fu sepolta in una chiesa di Bayswater (Londra).

Il primo romanzo della Radcliffe, “I castelli di Athlin e Dubnayne”, non incontrò molti consensi; fu criticato soprattutto per i suoi anacronismi e per le interpretazioni poco realistiche delle Highlands. Anche il “Romanzo siciliano” pubblicato l’anno successivo non riscosse grandi attenzioni.
Le cose però, presero finalmente una piega diversa nel 1791, quando la scrittrice diede alle stampe il suo terzo lavoro: “Il romanzo della foresta”.
Nella prima edizione la Radcliffe lo pubblicò in forma anonima; nella seconda edizione iniziò ad aggiungere il proprio nome al frontespizio perché i suoi libri iniziarono a incontrare il favore del pubblico.

Nel 1794, andò in stampa il romanzo “I misteri di Udolpho” e la scrittrice inglese iniziò a guadagnare cifre da capogiro. Per farsi un’idea è sufficiente sapere che, all’epoca, l’importo medio guadagnato da un autore per un manoscritto era di 10 sterline. Per questo quarto romanzo della Radcliffe, gli editori, G. G. e J. Robinson, acquistarono il copyright per 500 sterline e fu un successo incredibile.
Nel 1797, per “L’Italiano”, Cadell e Davies pagarono 800 sterline. La Radcliffe era la scrittrice professionista più pagata degli anni 1790.
Questo romanzo fu concepito come risposta a “The Monk” (Il monaco) di Matthew Gregory Lewis (1775 – 1818) perché la Radcliffe non gradiva la direzione in cui si stava indirizzando la letteratura gotica.
L’ultimo romanzo dato alle stampe dall’autrice inglese fu “Gaston de Blondeville”, pubblicato postumo nel 1826.

Nei libri della Radcliffe i personaggi femminili sono alla pari con quelli maschili. Le sue giovani eroine sono in grado di dominare e superare i cattivi e gli eroi maschi tipicamente potenti, dando vita a nuovi ruoli per le donne nella letteratura precedentemente non contemplati.
Inoltre, la scrittrice inglese includeva nelle sue trame avvenimenti soprannaturali che però, alla fine erano “smascherati”, nel senso che la Radcliffe forniva sempre ai lettori una spiegazione razionale e solitamente, lo faceva verso la fine dei suoi romanzi, per accrescere la suspense.

Alcuni critici, dei lettori e persino certi suoi colleghi scrittori non amavano particolarmente il fatto che la Radcliffe disilludesse le loro aspettative. La denuncia più eloquente in questo senso fu quella di Walter Scott (1771-1832) che, nelle sue “Vite dei romanzieri” (1821-1824), scrisse: “Un passo furtivo dietro l’arazzo può, senza dubbio, in alcune situazioni, e quando i nervi sono sintonizzati su un certo tono, avere una non piccola influenza sull’immaginazione; ma se l’ascoltatore cosciente scopre che si tratta solo del rumore prodotto dal gatto, la solennità del sentimento è svanita, e il visionario è subito arrabbiato con il suo senso di essere stato ingannato e con la sua ragione per aver acconsentito all’inganno”.

Per quanto riguarda i paesaggi e le ambientazioni, la Radcliffe usava la narrazione a cornice, personificando la natura e spesso descriveva luoghi che non aveva mai visitato.
Si lasciò anche indubbiamente influenzare da diversi pittori, come: Claude Lorrain (1600 – 1682), Nicolas Poussin (1594 – 1665) e Salvator Rosa (1615 – 1673), per dare corpo agli elaborati paesaggi che facevano da sfondo alle sue storie.
In particolare, l’influenza di Lorrain emerge nelle descrizioni pittoresche e romantiche, ad esempio nel primo volume di “I misteri di Udolpho”; l’influenza di Rosa, invece, si fa sentire nei paesaggi oscuri e negli elementi del gotico.

La Radcliffe ebbe una notevole influenza su altri autori: ispirò la narrativa gotica ma anche molte parodie.
Nel Settecento, subirono il suo influsso scrittori come Matthew Lewis (1775-1818) e il Marchese de Sade (1740-1814), che lodarono il suo lavoro ma produssero narrativa più intensamente violenta.
È nota anche per aver generato numerosi imitatori minori, della “Radcliffe School”, come Harriet Lee (1757 – 1851) e Catherine Cuthbertson (1775 ca. – 1842).

All’inizio dell’Ottocento, anche Edgar Allan Poe (1809-1849) e Sir Walter Scott, che inframezzava il suo lavoro con poesie similmente alla Radcliffe, trassero ispirazione dai romanzi della scrittrice inglese.
Successivamente, Charlotte (1816 – 1855) ed Emily Brontë (1818 – 1848) continuarono la tradizione gotica della Radcliffe con i loro romanzi “Jane Eyre”, “Villette” e “Wuthering Heights” (Cime tempestose).

L’ammirazione per la Radcliffe è rinvenibile anche in famosi autori francesi, come Honoré de Balzac (1799-1850), Victor Hugo (1802-1885), Alexandre Dumas (1802-1870) e Charles Baudelaire (1821-1867).
Il romanzo soprannaturale di Honoré de Balzac “L’Héritière de Birague” (1822) segue la tradizione dello stile di Radcliffe e ne fa la parodia.

Spostandoci dalla Francia, scopriamo che anche lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821 – 1881) rimase profondamente colpito dalla Radcliffe, tanto che, in “Winter Notes on Summer Impressions” (Note invernali su impressioni estive, 1863) scrisse: “Passavo le lunghe ore invernali prima di andare a letto ascoltando (perché non sapevo ancora leggere), a bocca aperta per l’estasi e il terrore, mentre i miei genitori mi leggevano ad alta voce dai romanzi di Ann Radcliffe“.
Inoltre, vari studiosi hanno notato elementi di letteratura gotica fare capolino nei romanzi di Dostoevskij, e alcuni hanno cercato di mostrare l’influenza diretta del lavoro dell’autrice inglese sullo scrittore russo.

Se avete ancora dubbi riguardo alle capacità della Radcliffe, potete affidarvi al parere di un’autorità (Jane Austen) che nel suo romanzo “Northanger Abbey” (L’abbazia di Northanger) scrisse: “Ho letto tutte le opere della signora Radcliffe, e la maggior parte di esse con grande piacere. I Misteri di Udolpho, una volta iniziato, non riuscivo più a posarlo; ricordo di averlo finito in due giorni, con i capelli ritti in testa per tutto il tempo“.

Opera al nero #5. Turandot: la principessa sanguinaria di Puccini

Opera al nero 5. Turandot la principessa sanguinaria di Puccini

La Turandot di Puccini entra nella schiera delle opere al nero, grazie alla crudeltà della protagonista e alla scia di sangue che si lascia alle spalle.

Il soggetto dell’opera di Giacomo Puccini (Lucca, 22 dicembre 1858 – Bruxelles, 29 novembre 1924) ha origini difficili da individuare sia cronologicamente sia geograficamente.
Si è potuti risalire a una Turandot (pers. Tūrāndokht “fanciulla del Tūrān”), eroina di una novella iraniana che, almeno inizialmente, è anonima e compare nel poema “Heft Peiker” di Niẓāmī (sec. 13°).

Successivamente, la prima menzione della principessa sanguinaria nella letteratura europea è contenuta nella raccolta di materia narrativa orientale “Les Mille et un jours” (I mille e un giorno, 1710-12) di François Pétis de la Croix (1653-1713; orientalista francese), dove la storia è menzionata come di origine cinese, mentre studi filologici ci indirizzano verso una possibile origine turca.

Più avanti ancora, il soggetto fu divulgato in Italia attraverso la celebre fiaba teatrale, “Turandot”, (1762) di Carlo Gozzi (1720 – 1806; drammaturgo e scrittore italiano), verseggiata poi da Schiller (1802) e più volte musicata: Carl Maria von Weber (1786 – 1826; compositore, direttore d’orchestra e pianista tedesco) compose delle musiche di scena su questo tema nel 1809; Ferruccio Busoni (1866 – 1924; compositore e pianista italiano, considerato uno tra i più grande geni pianistici italiani) scrisse una suite orchestrale op. 41 (eseguita per la prima volta nel 1906 e poi trasformata in opera lirica, rappresentata nel 1917).

Il libretto della Turandot di Puccini, fra tutte le varie fonti si ispira, liberamente, alla traduzione di Andrea Maffei (1798 – 1885; poeta, librettista e traduttore italiano) dell’adattamento tedesco di Friedrich Schiller (1759 – 1805; poeta, filosofo, drammaturgo, medico e storico tedesco) del lavoro di Gozzi.

L’idea di scrivere un’opera sulla fiaba di Turandot venne a Puccini, dopo un incontro a Milano, nel marzo 1920, con i librettisti Giuseppe Adami (1878 – 1946; drammaturgo, librettista, giornalista, scrittore, biografo e critico musicale) e Renato Simoni (1875 – 1952; critico teatrale, giornalista, commediografo, poeta, librettista, regista e sceneggiatore).
In estate, quello stesso anno, Puccini che era a Bagni di Lucca ascoltò un carillon con temi musicali provenienti dalla Cina e alcuni di questi temi si trovano nella partitura, ad esempio, la canzone popolare “Mo Li Hua”.

La trama della Turandot e semplice da riassumere. In tutte le elaborazioni della sua storia, la crudele principessa propone degli enigmi ai suoi pretendenti e manda a morte quelli che non sanno scioglierli. Solo un pretendente, il principe Khalaf, sarà in grado di risolvere i quesiti e alla fine, otterrà l’amore di Turandot.

L’opera di Puccini è articolata in tre atti e cinque quadri. Il compositore la lasciò incompiuta e fu completata più avanti da Franco Alfano (1875 – 1954).

La prima rappresentazione della Turandot di Puccini, ebbe luogo alla Scala di Milano, il 25 aprile 1926, nell’ambito della stagione lirica del teatro.
Gli interpreti di quella serata furono: Rosa Raisa, Francesco Dominici, Miguel Fleta, Maria Zamboni, Giacomo Rimini, Giuseppe Nessi e Aristide Baracchi. A dirigere l’opera c’era Arturo Toscanini (1867 – 1957) che bloccò la rappresentazione a metà del terzo atto, alla morte di Liù, due battute dopo il verso “Dormi, oblia, Liù, poesia!”, in pratica dopo l’ultima pagina completata da Puccini.
Le sere successive la Turandot fu messa in scena con il finale rivisto di Alfano e diretta da Ettore Panizza (1875 – 1967).

L’incompletezza di Turandot ha fatto discutere gli studiosi. Il problema fondamentale di questo dramma che Puccini tentò inutilmente di risolvere era la mutazione della principessa che da algida e sanguinaria si trasforma in una donna innamorata.
Oltretutto, Puccini riteneva già la scena della morte di Liù un finale soddisfacente, poiché la considerava perfettamente in grado di suggerire al pubblico il resto della storia, appunto, il cambio di carattere di Turandot, dopo il sacrificio d’amore della sua ancella. Quindi, secondo questo punto di vista, l’opera di Puccini si può ritenere narrativamente completa anche se bruscamente interrotta.

In copertina: particolare della locandina di Turandot del 1926

“Roman-feuilleton”: beniamino dei lettori del XIX secolo

Roman-feuilleton beniamino dei lettori del XIX secolo

Il romanzo d’appendice è un genere di romanzo che iniziò a circolare diffusamente a partire dai primi decenni del XIX secolo e che ebbe un grande successo.

Conosciuto anche con il termine francese: “feuilleton”, il romanzo detto d’appendice, comparve sulla stampa popolare in Francia e in Inghilterra ed era pubblicato su quotidiani o riviste, a episodi di poche pagine, solitamente nell’edizione domenicale.

Si tratta di una categoria di romanzo che si definisce per la sua forma e non per il suo contenuto. Infatti, i romanzi d’appendice spaziano tra argomenti molto diversi: dall’amore all’avventura, dal mistero all’erotismo.

Questo genere di letture era chiaramente indirizzato a un pubblico di massa e lo scopo di chi le pubblicava era quello di vendere più copie e per più settimane del giornale dove tali storie apparivano. Questo lato dichiaratamente commerciale di tale letteratura, spinse i detrattori del genere a ritenere questi romanzi un sottogenere, piuttosto che un genere letterario a sé stante.

Il termine feuilleton era un diminutivo di “feuillet” (foglio, pagina di un libro) e in Francia designava la parte bassa della pagina di un giornale, definita anche “rez-de-chaussée” (piè di pagina).
Il primo feuilleton fu di natura “drammatica”, cioè una cronaca del teatro, inaugurato da Julien Louis Geoffroy (Rennes 17 agosto 1743 – Parigi 27 febbraio 1814; giornalista e critico teatrale e letterario francese) nel primo decennio del XIX secolo. I primi autori (feuilletonistes) che si occuparono di queste note a piè di pagina furono: Dussault e Feletz (“Journal des débats”), Michaud e Châteaubriand (“Mercure de France”) e, sotto pseudonimo, lo stesso Primo Console (“Moniteur universel”).

Tra il 1836 e il 1840-41 si ebbe un notevole sviluppo dei “feuilletons-nouvelles”, prima di arrivare al “feuilleton-roman”, che è il risultato di un costante allungamento delle opere pubblicate e della loro suddivisione in un numero sempre maggiore di episodi.

Questa modalità di pubblicazione piacque al pubblico e ciò si notò in particolare a partire dal 1841-42 con “Les Mystères de Paris”, primo vero trionfo del genere feuilleton.
In questa prima fase, la scrittura di romanzi non ha ancora subìto l’influsso di questa particolare modalità di pubblicazione, che era ancora una semplice presentazione dell’opera al pubblico a puntate, prima dell’uscita in volume. Ma già si stava avviando verso una radicale trasformazione che farà del romanzo d’appendice una vera e propria tecnica letteraria: la democratizzazione della stampa.

Per l’affermarsi del genere fu necessaria una contemporanea evoluzione nel campo della stampa.
All’epoca i giornali avevano un costo di produzione piuttosto alto e una tiratura bassa, fu così che Émile de Girardin (pseudonimo di Émile Delamothe, Parigi, 22 giugno 1802 – Parigi, 27 aprile 1881; giornalista, editore, commediografo e uomo politico francese) decise di mettere in commercio un quotidiano meno costoso che fosse alla portata di un maggior numero di persone.

Affinché il tutto funzionasse e i giornali potessero reggersi a costi inferiori, era necessario attirare nuovi inserzionisti, considerato che il canone di abbonamento era al momento appena sufficiente a coprire i costi di produzione.
Si doveva quindi rinfoltire il pubblico di lettori fedeli e per ottenere ciò era necessario pubblicare romanzi completi”. È ciò che Alfred François Nettement (Parigi, 21 agosto 1805 – Parigi, 14 novembre 1869; scrittore francese) chiamò: “la nascita della stampa a 40 franchi”, inseparabile dalla storia del feuilleton-roman come genere letterario.

Il 1° luglio 1836, Émile de Girardin e Armand Dutacq (Rugles, 19 giugno 1810 – Parigi, 11 luglio 1856; proprietario ed editore di giornali francese) pubblicarono “Le Siècle” e “La Presse”.
Ne “La Presse”, Girardin pubblicò romanzi a puntate di vari autori famosi, tra i quali: “La comtesse de Salisbury” (dal 15 luglio all’11 settembre 1836) di Alexandre Dumas padre (Villers-Cotterêts, 24 luglio 1802 – Neuville-lès-Dieppe, 5 dicembre 1870) e “La signorina Cormon” (La Vieille fille, dal 23 ottobre al 30 novembre 1836) di Honoré de Balzac.
Successivamente, nel “Journal des débats” pubblicò le “Mémoires du diable” (da settembre a dicembre 1837) di Frédéric Soulié (Foix, 23 dicembre 1800 – Bièvres, 23 settembre 1847).

La novità di tali pubblicazioni, dal punto di vista letterario, è che la pubblicazione “in forma seriale” precede la stesura delle opere dei feuilletonistes. Non si trattava di suddividere nel miglior modo possibile romanzi scritti in precedenza, bensì di scrivere romanzi di cui era già prevista la pubblicazione a puntate.

A questo punto si può parlare di “romanzo d’appendice” come di un genere a sé stante. Gli editori ritenevano queste pubblicazioni delle efficaci operazioni pubblicitarie e ingaggiavano team di autori per scrivere romanzi che rispondessero ai gusti del pubblico. Alcuni di questi team hanno anche lavorato insieme, scrivendo romanzi a più mani.

Dedicare lo spazio che gli altri giornali riservavano alla critica letteraria a racconti inediti a puntate fu un cambiamento di grande successo per i giornali: ci fu un aumento esponenziale dei lettori e anche di abbonati.

La definizione “romanzo d’appendice” deriva dal fatto che queste storie a puntate erano pubblicate in ultima o penultima pagina, in appendice, appunto. Solo successivamente, le storie erano stampate sotto forma di libro. Una delle più importanti case editrici del settore fu la fiorentina Salani che si adeguò rapidamente all’evolversi del mercato editoriale iniziato verso la metà dell’Ottocento, proprio in concomitanza con la rivoluzione industriale, in Inghilterra e in Francia.

Al genere feuilleton appartengono delle vere pietre miliari della letteratura, come: “I miserabili” di Victor Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885); “I misteri di Parigi” di Eugène Sue (Parigi, 26 gennaio 1804 – Annecy, 3 agosto 1857); “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas padre.

Le storie di questo tipo funzionavano un po’ come il detto sulle ciliegie: una tira l’altra. Ad esempio, Ponson du Terrail, ispirato dal romanzo di Sue, pubblicò la prima opera del ciclo dei “Drames de Paris”, “L’Héritage mystérieux”, sul giornale La Patrie nel 1857 e diede vita a un singolare eroe, Rocambole che ottenne un tale successo da ispirare a sua volta l’aggettivo “rocambolesco”, tuttora impiegato per descrivere eventi o avventure incredibili.

Aggiungo in calce una segnalazione del Sig. Vittorio Sarti che, molto gentilmente, mi ha fatto notare una clamorosa mancanza nel mio testo. Riporto in modo integrale le sue parole.
Ancora una volta si ignora Emilio Salgàri, il nostro maggiore scrittore di avventure che come tale prese abbrivio su quotidiani di fine 800.
– “La favorita del Mahdi” 124 puntate su “La Nuova Arena” di Verona da 31 marzo al 7 agosto 1884
– “I misteri della Jungla Nera” su “Il Telefono” di Livorno, con il titolo “Gli strangolatori del Gange” dal 10 gennaio al 15 aprile del 1887. Ripubblicato su “La Provincia” di Vicenza, con il titolo “L’amore di un selvaggio” in 191 puntate dal 21 agosto del 1893 al 13 novembre 1894.
– Le Tigri di Mompracem” su “La Nuova Arena” di Verona con il titolo “La Tigre della Malesia” in 150 puntate dal 16 ottobre 1883 al 13 marzo 1884. Ripubblicato su “Il Telefono” di Livorno nel 1886 dal 21/3 al 31/8, sempre a puntate con lo stesso titolo. In seguito 1890/1891 su “La Gazzetta” di Treviso” (Cfr. “Nuova Bibliografia Salgariana” Pignatone, Torino 1994)
“.