Sono rimasta colpita da un’affermazione sulle parole: “Da un punto di vista espressivo non esistono sinonimi in una lingua, ossia, non esistono due parole che si possono considerare identiche o equivalenti“.
Capite che questa affermazione – espressa da Giuseppe Pontiggia nel suo “Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere” – scatena in uno scrittore molti pensieri e fa riflettere sulle responsabilità che investono chiunque abbia fatto della scrittura un mestiere.
La mia formazione musicale, inoltre, mi impone di scegliere le parole anche in base alla loro capacità di generare una sensazione di piacevolezza all’orecchio, ma ovviamente, mi pongo anche il problema del loro significato.
Quanto conosciamo davvero il senso di un termine?
Alcune parole sembrano significare la medesima cosa, ma in realtà ci sono mille sfumature o addirittura un oceano a distanziarle.
Alcuni termini hanno assunto con il tempo delle connotazioni particolari, negative o positive, in base all’uso che ne è stato fatto negli anni, e non solo: ci sono parole che hanno una sottile caratterizzazione e solo chi ha di una data lingua una conoscenza davvero approfondita può conoscerla e apprezzarla.
Io, ad esempio, ho notato che studiando altre lingue si finisce per conoscere meglio la propria; si notano delle singolarità cui non si era prestata attenzione fino a quel momento.
Le parole sono per me fonte di stupore continuo, alcune, se si sonda la loro etimologia, danno vita a scoperte sorprendenti.
Sono convinta, fin qui, che non deluda mai comprendere le parole sempre meglio e usarle in modo sempre più corretto e appropriato.
Questo atteggiamento non solo aiuta a ottenere una scrittura più coinvolgente e adeguata, ma ci consente soprattutto di comunicare in modo più efficace e di farci capire dagli altri: essere accurati con le parole ci rende, sicuramente, delle persone migliori.
Autore: Anna
Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #13 boom di richieste
Lo sdoganamento della produzione dei libri dall’ambito ecclesiastico e le nuove tendenze dettate dai committenti borghesi portano a un boom di richieste e a un proliferare di nuovi argomenti per i libri.
Le botteghe degli scrivani che avevano iniziato a organizzarsi dalla fine del XII secolo, si trovano ad affrontare un numero di richieste sempre maggiore e la scelta degli argomenti si apre a molte new entry.
Trattati di: educazione, medicina, cucina e astronomia sono solo alcune delle commissioni cui gli scrivani devono far fronte.
Inoltre, iniziano a comparire i romanzi e molto gettonati sono i racconti d’amor cortese.
Per capirci, un best seller dell’epoca è La chanson de Roland.
I clienti potevano girare tra le tante botteghe e scegliere tra varie vesti grafiche e diversi stili di illustrazioni, per vedere realizzato il libro che desideravano.
I fruitori dei libri tra il XII e il XIII secolo subiscono un ulteriore ampliamento: si affiancano ai mercanti anche gli studenti.
Ovviamente, solo gli universitari più abbienti possono permettersi il lavoro di un professionista, tutti gli altri devono affittare i testi dove studiare.
In ogni caso, questa apertura a nuovi committenti, dovuta alla nascita di università laiche, è un’altra valida possibilità per i copisti di guadagnarsi la giornata.
La mole di lavoro sensibilmente aumentata comporta notevoli modifiche anche nell’organizzazione del lavoro stesso: gli artigiani si specializzano ulteriormente e si riuniscono in confraternite che conservano gelosamente i propri segreti e si battono per vedere tutelati i propri diritti.
Anche la formazione è rigorosa, proprio come avveniva in ambito religioso, gli apprendisti erano controllati e all’inizio, erano impiegati in mansioni semplici.
Per un addestramento completo occorrevano almeno sette anni e per ottenere la qualifica di scrivano bisognava produrre nell’ultimo anno di apprendistato un “capolavoro” che doveva essere valutato dal maestro artigiano e dai colleghi di lavoro.
Una volta diventati scrivani si poteva lavorare in modo indipendente, ma era necessario allontanarsi dalla bottega del maestro: niente concorrenza sleale.
Nel codice deontologico degli aspiranti scrivani c’erano anche alcuni eccessi da fuggire: il troppo vino e il troppo cibo, assidui rapporti con le donne e lavori pesanti.
Queste accortezze avrebbero aiutato i copisti a mantenere una mano sicura.
In copertina: Le otto fasi de La chanson de Roland in un unico quadro, illustrate da Simon Marmion
Scrittura e ispirazione: quando la Musa ci afferra le dita
“La chiave magica entra, tutti i bicchieri cadono di colpo e la porta si spalanca”.
Non è l’inizio di una favola per bambini e neppure l’ultimo fantasy di grido, bensì una frase di John Gardner da “Il mestiere dello scrittore“, e la frase serve a spiegare il magico processo – e lo è davvero – che avviene quando si cade in quella sorta di trance, quando la musa – in questo caso della scrittura (ma ci sono anche le altre) – ci afferra saldamente.
Le dita battono sui tasti come fossero guidate da una misteriosa entità, sanno quello che devono fare e non c’è bisogno di un intervento razionale, anzi, un tale intervento potrebbe arrestare, irreparabilmente, il viaggio che le parole fanno dal nostro inconscio al foglio bianco.
In questi momenti perfetti, tutto sembra diventare fluido e semplice, le parole sgorgano come acqua da una sorgente, e bisogna essere rapidi (oserei dire fulminei) per non perdersi soggetti, verbi, aggettivi che si incastrano perfettamente a grande velocità.
E quando esausti e felici ci si ferma, ci si accorge, rileggendo, che tutto funziona alla perfezione, a parte qualche refuso da imputare alla velocità della “trascrizione”.
Chi ha sperimentato questa magia, sa bene di cosa parlo.
In un prossimo post scopriremo come in realtà questa ispirazione non abbia nulla di soprannaturale…
Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #12 arriva Carlo Magno
In epoca carolingia, cambiano i caratteri usati dai copisti; la chiesa non detiene più lo scettro dell’insegnamento; si allargano il pubblico dei committenti e quello dei lettori.
Nei primi tempi, i monaci copisti usavano per i loro lavori di copiatura gli usuali caratteri normalmente impiegati sin dall’epoca dei romani: l’onciale (corsivo maiuscolo); il semionciale; la capitale (maiuscole quadrate); il rustico (maiuscolo più semplice).
L’onciale resisterà con le sue lettere tondeggianti nella scrittura a penna, questo finché non si passerà alla stampa.
Nel 768, in epoca carolingia, appare la carolina, simile alla minuscola romana, definita anche scrittura di cancelleria. Essa sostituì il particolarismo grafico tipico dei secoli VII e VIII e rappresenta una delle formalizzazioni delle scritture semicorsive.
La scrittura carolina è chiara e ben proporzionata, possiede una notevole bellezza formale e avrà larga e lunga diffusione nell’Europa occidentale del Medioevo.
Durante il regno di Carlo Magno si eseguirà anche un grande lavoro di emendamento dei testi.
I testi originali, in seguito ai vari passaggi di copia in copia, avevano subito sostanziali modifiche, alterazioni tali, nel corso del tempo, da modificare il senso stesso degli scritti.
Carlo Magno pensò di risolvere questo problema imponendo la creazione di nuove copie emendate dagli errori, in quanto realizzate con grande osservanza e scrupolo e soprattutto, basate su fonti più prossime possibile all’originale.
I manoscritti carolingi si fregiano della dicitura “ex authentico libro” che fungeva da garanzia di una copiatura perfetta.
Al termine del XII secolo, il dominio incontrastato della chiesa sull’insegnamento viene meno; gli scrivani laici iniziano a riunirsi in botteghe e corporazioni. I loro principali lavori sono per la nuova borghesia mercantile per cui eseguono documenti, ma si occupano anche di comporre libri.
In questo periodo non cambiano solo gli esecutori dei manoscritti, ma anche i destinatari di queste magnifiche opere. Fino a questo momento, i committenti erano i nobili e gli ecclesiastici; le opere realizzate erano manufatti di lusso – per i signori – o manuali di teologia e messali per il clero.
Ora il mercato si estende: trattati di filosofia, di matematica, di logica e di astronomia fioriscono, ampliando i consueti settori dell’editoria.
In parallelo alla nascita di testi per un pubblico più ampio, gli autori, come Dante, iniziano a scrivere in volgare, ciò consente di avvicinare alla lettura molte più persone che sono istruite ma non conoscono il latino.
Queste due rivoluzioni in parallelo comportano un allargamento della cultura: finalmente, la borghesia si accosta ai libri e alla letteratura.
In copertina: a sinistra, ritratto immaginario di Carlo Magno, di Albrecht Dürer; a destra, pagina in minuscola carolina (escluse le prime tre righe, in onciale)
Osservare: un’azione indispensabile per diventare un bravo scrittore
Leggere ad alcuni (sicuramente a me) fa l’effetto delle ciliegie: una tira l’altra.
Sono arrivata a John Gardner, al suo “Il mestiere dello scrittore”, attraverso molte ciliegie: consigli e suggerimenti giunti da altre proficue letture.
Mi interrogo da anni su argomenti inerenti la scrittura e mi immergo fra le righe dei libri, a ripescare perle preziose: nuovi ferri del mestiere o validi strumenti per affinare quelli che già possiedo.
A lungo ho riflettuto su un argomento che mi sta molto a cuore: l’osservazione, ovviamente rapportata alla scrittura.
Secondo Gardner, “il buon scrittore vede le cose in modo netto, vivido, preciso e selettivo (vale a dire che sceglie ciò che è importante) non necessariamente perché la sua capacità di osservazione sia per natura più acuta di quella delle altre persone (benché con la pratica diventi tale), ma perché si preoccupa di vedere le cose in modo chiaro e di metterle per iscritto in maniera convincente”.
La scena narrativa trae la sua forza e la sua concretezza dalla capacità di chi scrive di associare il gesto alle affermazioni dei personaggi. Se lo scrittore non conosce a fondo che cosa farebbero i suoi personaggi in una data situazione, il risultato potrebbe essere poco convincente e il lettore avvertirebbe la sensazione che i personaggi di quel dato libro siano “stati manipolati, costretti a fare cose che nella realtà non farebbero”.
Per costruire una scena credibile bisogna partire da un’osservazione attenta e approfondita dei personaggi, avere una loro visione mentale precisa; è necessario saper cogliere gli spunti emozionali che servono all’evoluzione successiva dell’azione. Per fare questo è utile fermarsi (sollevare la penna o le dita dai tasti) e “capire esattamente come si presenta un certo oggetto o gesto e trovare le parole giuste per descriverlo”.
Inserire i dettagli giusti è fondamentale: il lettore ben indirizzato da una scrittura precisa, potrà costruire nella sua testa le scene che a mano a mano va leggendo e più lo scrittore sarà stato accurato nell’esame delle azioni dei personaggi e avrà utilizzato termini esatti, più le immagini saranno vivide nella mente dei lettori che aggiungeranno addirittura alla scena connotazioni che l’autore ha lasciato semplicemente sottintese: “scegliendo il dettaglio giusto, lo scrittore, abilmente, ne fa venire in mente altri; il dettaglio significativo suggerisce più di quanto non dica”.
Uno scrittore eccellente “è preciso sia nei dettagli letterali che nelle corrispondenze metaforiche”. La metafora ha un grande potere visivo: “spesso un gesto importante o un insieme di gesti non può essere afferrato con pari efficacia da nessun altro mezzo”.
Per evocare scene efficaci e veritiere, dettagli e metafore, oltre a essere correttamente utilizzati, devono essere tratti dalla vita vissuta. Nella visione dei grandi romanzieri “non c’è nulla di seconda mano”.
Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #11 Copisti e Scriptorium
Dal IX-X secolo, l’arte della scrittura ha un luogo dove esprimersi: lo scriptorium.
In gran parte, questo sancta sanctorum dei copisti, era collocato, nei monasteri e nelle abbazie, vicino alla biblioteca.
In questo luogo, i manoscritti si copiavano, si decoravano e si rilegavano.
Lo scriptorium poteva essere una sala speciale (l’unica a essere riscaldata) o una serie di celle individuali.
Solitamente, i copisti avevano a disposizione un sedile con braccioli e spalliera molto alta e un leggio con un doppio piano inclinato.
Per scrivere utilizzavano una penna d’oca, tagliata a seconda delle esigenze della grafia.
In media, un copista realizzava quattro fogli di pergamena di 35-50 cm di altezza e 25-30 cm di larghezza al giorno.
I copisti lavoravano sotto dettatura e spesso, su un identico manoscritto operavano più persone, a conferma di ciò, le grafie diverse rilevate nei documenti ritrovati.
Al lavoro di copiatura partecipavano a volte anche le monache: nel Medioevo erano aumentate le comunità miste.
Fare il copista era piuttosto faticoso: il lavoro era interrotto solo dalle preghiere quotidiane.
Il lavoro di copiatura prevedeva una suddivisione dei compiti che consentiva di rendere più scorrevole e funzionale il lavoro e che permetteva, al contempo, ai principianti di imparare il mestiere. Ad esempio, tracciare le righe sulle quali i copisti avrebbero poi scritto, era compito dei novizi che iniziavano così il loro apprendistato.
Nelle fasi successive, i principianti si dedicavano ai lavori comuni, più spediti e più semplici da eseguire. Questo tipo di testi era molto richiesto e costituiva la maggiore fonte di guadagno per le comunità monastiche.
I lavori più complessi e di maggior rilievo erano rimessi nelle mani dei copisti migliori. Queste speciali commesse venivano da dignitari della nobiltà o del clero.
Le decorazioni erano eseguite da miniaturisti e alluminatori. Questi artisti realizzavano capilettera in lamine d’oro e si sbizzarrivano, per i libri più preziosi, anche con disegni floreali, personaggi e paesaggi pieni di colori brillanti.
Il lavoro seguiva una prassi consolidata:
- il motivo era schizzato con un punteruolo
- i dettagli si ripassavano con la penna d’oca e l’inchiostro
- i contorni colorati si realizzavano a penna
- il disegno era completato con un pennello molto sottile
I monasteri che non disponevano di artisti sufficientemente abili a eseguire un dato lavoro, si rivolgevano a laici noti per le loro capacità; altrettanto facevano in caso servissero rilegatori che dovevano realizzare la copertina di cuoio e il fermaglio, spesso molto elaborati.
in copertina: Ritratto di Jean Miélot, segretario, copista e traduttore del duca Filippo III di Borgogna
Scrittori e investigatori: due professioni da accomunare
Scrittori e investigatori hanno in comune una cosa: non smettono mai di pensare.
La scrittura è un’indagine sempre aperta, una ricerca appassionata di elementi, un lavorio continuo per recuperare materiale. Tutto per produrre una storia, per lo scrittore; per impostare un caso se ci riferiamo all’investigatore.
Qualsiasi narrazione vede la luce dopo un lungo lavoro di accumulo: il nostro cervello non smette mai di immagazzinare informazioni, durante il giorno, ma anche nel corso della notte, attraverso i sogni.
Il lavoro cosciente dello scrittore si basa sulla ricerca di nozioni specifiche su un dato argomento o su spunti in generale, spesso, però, questo lavoro occupa una percentuale inferiore rispetto all’accumulo casuale di notizie e indicazioni che ci arrivano da ogni angolo della nostra vita quotidiana: un dialogo di un film, un articolo postato sui social, la frase di un libro, un concetto espresso da qualcuno.
Anche l’investigatore raccoglie materiali e informazioni e poi, entrambi, quando hanno elementi sufficienti, accostano i pezzi e formulano ipotesi; poi, lo scrittore plasmerà una storia, mentre l’investigatore giungerà alla soluzione del caso; da una parte ci sarà un libro, dall’altra, un colpevole assicurato alla giustizia.
Frasi lunghe frasi brevi: un falso dilemma per lo scrittore
Alle prese con la lettura dell’ennesimo giallo, cerco di capire come rendere il senso di ansietà che si crea in certe scene d’azione, dove chi legge si lancia sulle parole in volata, senza saltarne una (per carità) ma cercando di arrivare il più in fretta possibile ad afferrare quanto sta per accadere.
Insomma, mi chiedevo: come si fa a scrivere un testo trepidante che già nella forma esprima il contenuto?
In realtà, è semplice, se uno conosce a fondo i ferri del mestiere di scrittore.
Per ottenere frasi di questo tipo, è necessario essere: brevi, rapidi, incisivi, sfruttando ogni strumento teorico e pratico che siamo riusciti a immagazzinare.
Ad esempio: una punteggiatura incalzante, con molti punti; l’uso di parole che colpiscono; frasi nominali (senza verbo) e magari solo una frase iniziale con un verbo forte, possono essere un ottimo strumento per ottenere quel ritmo sollecito che vogliamo imprimere alla nostra scrittura e che poi sarà evidente ai nostri lettori.
Di tutt’altra pasta sono le frasi lunghe, a volte tortuose, che servono a farci riflettere, a condurci per mano al concetto finale, a regalarci un’immagine indelebile che ci resterà nella memoria a lungo, a volte per sempre.
Quindi, lunghe o brevi le frasi sono tutte importanti: servono a creare una data atmosfera, a conferire un certo ritmo alla narrazione, a rispondere a un dato genere. E molto spesso, la scelta tra l’una o l’altra forma costituisce il marchio di fabbrica di un autore.
25 aprile: parole in libertà
Chi dice che le parole non contano?
Le parole contano, eccome.
Le parole hanno potere, specie se arrivano alle orecchie giuste, se vengono comprese in tutta la loro multiforme complessità.
Le parole hanno un’anima, hanno un colore, bruciano e fanno male; a volte, sono un balsamo per il cuore.
Usiamole con parsimonia e preferiamo il silenzio a parole vuote o delle quali non siamo sicuri.
Impariamo a cercare le parole giuste: non accontentiamoci di falsi simulacri che non esprimono nulla, di parole dette da altri e con poca convinzione.
Sondiamo il nostro vocabolario e scoviamo quelle che si adattano ai nostri sentimenti e alle nostre emozioni come un guanto che calzi alla perfezione.
Ma soprattutto, amiamo le parole che ci permettono di entrare in comunicazione con gli altri, che ci fanno sentire più forti, più giusti, più umani.
Scegliamo con cura le nostre parole e creeremo un mondo migliore, più vero, più libero, dove ci sarà spazio per le parole di tutti.
Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #10 Arriva la pergamena
Per tutto il Medioevo la scrittura fu un’attività di appannaggio esclusivo dei monaci.
L’arte della calligrafia era praticata nelle scuole (scriptoria) annesse alle cattedrali o ai monasteri.
I monaci copisti medievali non creano né inventano: si limitano a scrivere, ma la loro scrittura elaborata diventa un’arte dal grande fascino.
Ogni lettera è tracciata interamente a mano e gli scritti sono ornati con stupende miniature.
Gli antichi scrivani utilizzavano come supporto rotoli di papiro (volumina), purtroppo, questo materiale aveva parecchi difetti: era costoso, fragile, utilizzabile solo da un lato, poco maneggevole, difficile da consultare.
Il supporto condizionava la scrittura e quando si passò dal papiro alla pergamena si assistette a una vera rivoluzione nell’arte di scrivere e di leggere.
Il termine “pergamena” si traduce dal greco come “pelle di Pergamo” e si pensa sia stata inventata in Asia Minore, appunto, a Pergamo.
La pergamena è frutto di una necessità pratica: secondo la tradizione riferita da Plinio il Vecchio, attorno al II secolo a.C., fu introdotta per sostituire il papiro.
Pergamo possedeva una biblioteca che rivaleggiava con quella di Alessandria; a causa della concorrenza culturale tra il sovrano egiziano (Tolomeo V Epifane) e il re di Pergamo (Eumene II), gli Egiziani decisero di non rifornire più di papiri i loro rivali, così, gli scribi asiatici furono costretti a organizzarsi e a trovare un altro materiale che facesse da supporto alla loro scrittura: la scelta cadde sul cuoio.
La pelle usata per produrre pergamene non era una novità: era già stata usata in passato; le pelli provenivano da molti animali diversi: montone, vitello, capra, struzzo, gazzella, antilope.
La pergamena aveva anche un’innegabile vantaggio rispetto al papiro: era utilizzabile da entrambi i lati.
Una pergamena particolarmente pregiata è il velino che si ottiene trattando la pelle di vitelli giovanissimi o abortiti. Il termine “velino” deriva dal francese veel che vuol dire vitello. Il suo maggior pregio è quello di non assorbire l’inchiostro o i colori e di conservare molto bene le tinte originali.