Nel Rinascimento, alcune famiglie di tipografi hanno reso grande quest’arte, lasciando ai posteri un vero tesoro.
In Francia, durante il regno di Francesco I (1494-1547), re amante delle lettere, nasce una dinastia di creatori di caratteri: gli Estienne, una famiglia di tipografi, librai eruditi che hanno svolto la loro attività per ben 160 anni. Furono attivi a Parigi e a Ginevra e divennero famosi, soprattutto per delle edizioni di classici greci e latini di elevata qualità e per i loro lessici monumentali.
Dalla fine del XVI secolo, gli Estienne fanno di Ginevra una capitale dell’editoria europea. Questa famiglia portò avanti una professione che era in grado di superare le divisioni tra: traduzione di opere antiche, erudizione, creazione di caratteri e composizione di nuove opere.
In Olanda invece, Christophe Plantin (1520–1589) che fu nominato “arcitipografo” dal re di Spagna, Filippo II, era un tipografo fiammingo, di origine francese, il quale fece buon uso, nella sua bottega, delle sedici macchine tipografiche che aveva a disposizione e produsse in trentaquattro anni più di millecinquecento opere.
A Leida, ci sono gli Elzévir, un’altra famiglia di editori che operarono nei Paesi Bassi, dal 1580 al 1712. La loro fortunata attività editoriale era fondata soprattutto sulle edizioni dei classici. Le edizioni degli Elzévir erano stampate in caratteri stretti su una carta di Angoulême (comune francese, capoluogo del dipartimento della Charente, situato nella regione Nuova Aquitania) molto fine.
Questi sono gli ultimi grandi stampatori del Rinascimento, coloro che hanno preceduto la stampa industriale.
La stampa consentì una vera proliferazione di libri in tutto il mondo e contribuì ad allargare l’uso e la conoscenza delle lingue scritte. Novità e tradizione andavano a braccetto: gli stampatori crearono nuovi caratteri, ma imitando le scritture a mano.
Il primo libro stampato con caratteri mobili metallici vide la luce in Cina nel 1390. Da qui, la prodigiosa invenzione della macchina a stampa passò in Europa, dove dal 1462, conobbe una rapida diffusione: da Lione a Norimberga, da Venezia ad Anversa, da Parigi a Praga.
Nel Cinquecento, iniziano a formarsi dinastie di stampatori; nel termine “stampatore” erano racchiuse diverse professionalità: fonditore, incisore e tipografo.
I caratteri ispirati alla scrittura a mano, iniziano a comparire in Italia durante il Rinascimento. A Venezia, Aldo Manuzio (tra 1449 e 1452 – 1515, editore, grammatico e umanista) inventa la “lettera antiqua” nel tentativo di riprodurre in versione tipografica un’elegante calligrafia; questi caratteri saranno imitati da molti altri stampatori. Per riprodurre la scrittura a mano, invece, Manuzio assunse come modello la calligrafia di Petrarca e ideò il suo “italico” – un corsivo inclinato.
Un altro interessante studio dei caratteri, costruiti seguendo delle regole precise, lo dobbiamo a Luca Pacioli (1445 ca. – 1517, religioso, matematico ed economista) che incise il “De divina proportione”, un manuale contenente le lettere dell’alfabeto, regolate sulle proporzioni del corpo umano e collocate all’interno di una cornice geometrica.
Intanto, in Francia, si affermano esperienze analoghe: Geoffroy Tory (1480 ca. – 1533, editore-libraio, calligrafo e disegnatore, “imprimeur du Roi” dal 1530) crea lo stile “champfleury” e diventa il decoratore di Simone de Colines (1480 – 1546, uno dei primi stampatori del Rinascimento; attivo a Parigi tra il 1520 ed il 1546) che per comporre utilizza un carattere derivato dalla “lettera antiqua” e successivamente, disegnerà e poi inciderà un carattere greco.
Nel 1540-41, i lavori di De Colines serviranno alla realizzazione del “greco del re”, che Claude Garamond (1480 – 1561, tipografo francese) inciderà, seguendo i modelli del calligrafo cretese Angelo Vergezio. I punzoni per la stampa furono commissionati da Francesco I di Francia (1494 – 1547, figlio di Carlo di Valois-Angoulême e di Luisa di Savoia, fu re di Francia dal 1515 fino alla morte). Nel 1946, i punzoni insieme alle relative matrici furono classificati come monumenti storici e, attualmente, sono conservati presso l’Imprimerie Nationale (stamperia nazionale; stabilimento tipografico della Repubblica francese, con sede a Parigi).
Garamond realizzò anche dei caratteri romani, ispirati a quelli di Geoffroy Tory che sono considerati, secondo la formula del “champfleury” (trattato di estetica del 1529, importante per la storia della lingua francese e della riforma scrittoria rinascimentale di Geoffroy Tory), un alfabeto che possiede: “l’arte e la scienza della giusta e vera proporzione delle lettere”.
In copertina: Ritratto di Luca Pacioli (1495), attribuito a Jacopo de’ Barbari, museo nazionale di Capodimonte
In questo periodo, in cui i musei sono chiusi e non è possibile spostarsi per ammirare le meraviglie che ci circondano, credo sia d’obbligo una rapida riflessione sulla bellezza, concetto su cui si discute spesso, ma che ancora è ampiamente sottovalutato o peggio ignorato, nonostante tutte le chiacchiere e le frasi fatte.
In Italia, abbiamo infiniti esempi di bellezza, naturale e paesaggistica, ma anche architettonica. Inoltre, custodiamo, nella miriade di contenitori privilegiati, quali sono i musei delle nostre città, un’incredibile serie di meravigliosi capolavori, tutti da scoprire.
Se non possiamo visitare i musei di persona, possiamo però sostenerli e godere, comunque, delle meraviglie in essi contenute, approfittando delle numerose iniziative a disposizione su internet.
Sono davvero tanti gli eventi a cui partecipare virtualmente, assaporando la bellezza di molte opere d’arte e reperti di ogni genere e in più, apprendendo nozioni utili, a volte curiose, sicuramente importanti, che oltretutto servono anche a farci trascorrere piacevolmente il tempo che siamo costretti a passare in casa.
Il 23 marzo ho assistito online a una spiegazione del quadro “La Primavera” di Botticelli (1444 o 1445-1510). Ho trovato la lezione a distanza davvero coinvolgente, inoltre, ho avuto un’ulteriore occasione di ammirare da vicino la bellezza straordinaria di questo dipinto, scoprendo al contempo una complessa rete di riferimenti storici e letterari relativi alla genesi di questo capolavoro.
Il video mi ha anche rinfrescato una recente memoria: una visita che ho fatto agli Uffizi nel 2018. Era da tempo che volevo recarmi in questo museo e tuttora, mi trovo a ripercorrere nel ricordo le magnifiche ore passate in quell’oasi di bellezza. Due dipinti mi sono rimasti nel cuore: l’Annunciazione di Leonardo e laPrimavera di Botticelli.
Gli Uffizi sono assolutamente da visitare anche solo per la struttura che ospita il museo e poi per “perdersi” nelle tantissime sale, dove cose meravigliose sono solo in attesa di stupire l’osservatore.
Tornando alla Primavera di Botticelli, posso dire che sono rimasta impressionata dalla sua bellezza che nessuna riproduzione può eguagliare; inoltre, dal vero, ho potuto cogliere sfumature che neppure le più elaborate macchine fotografiche sono in grado di riprodurre, così come non è possibile provare le stesse emozioni, se non si ha il dipinto di fronte agli occhi.
Sono stata profondamente colpita dal contrasto cromatico tra la parte antistante della rappresentazione, dove sono posti i personaggi e il boschetto che fa loro da sfondo. L’incredibile uso del colore di Botticelli fornisce alla sua Primavera un singolare senso prospettico e una profondità nella quale sembra di perdersi.
Concludo, ringraziando tutti coloro che lavorano nei musei, per il loro impegno quotidiano a mantenere vivi i luoghi della conoscenza, nonostante le obbligatorie chiusure, e anche per la gioia che ci regalano, con le loro pillole di cultura che ci aiutano ad accrescere e coltivare il senso della bellezza.
Non so se la bellezza ci salverà ma di sicuro ci aiuterà ad affrontare con un certo grado di positività i terribili tempi dettati da questa pandemia.
La scrittura finora è stata legata alle capacità di abili artigiani che per svolgere il loro difficile compito impiegavano anni, chini sulla carta a tracciare segni. Ora, con la rivoluzionaria invenzione della stampa, le cose cambiano profondamente.
Inizialmente, la stampa non fu percepita come un cambiamento determinante, come invece sarà chiaro in tempi successivi, anche perché si cercò di mantenere una continuità con le opere manoscritte: le prime opere a stampa cercavano di emulare il lavoro degli scrivani.
Le pagine stampate prevedevano degli spazi vuoti che sarebbero stati riempiti da un miniatore e la parola d’ordine era: proseguire con la tradizione. A questo scopo, si studiavano delle lettere maiuscole molto elaborate; si usavano gruppi di caratteri legati fra loro per simulare le legature tipiche della scrittura a mano. La Bibbia latina stampata da Gutenberg nel 1450 è molto vicina agli esempi manoscritti del suo tempo.
In ogni caso, la stampa non fu una conquista semplice e immediata, bensì fu il risultato di molte invenzioni tecniche. I cinesi conoscevano i caratteri mobili già dall’XI secolo; era già noto anche il torchio a vite che era usato ancor prima di Gutenberg, per stampare sui tessuti e lisciare e lucidare la carta.
Nel XV secolo si imprimevano lettere e immagini in precedenza incise sul legno; la stampa si otteneva sfregando il verso di un foglio sistemato su legno. La novità introdotta da Gutenberg, rispetto a tale procedimento, fu quella di meccanizzare il processo di stampa.
Il tipografo tedesco, Peter Schöffer o Petrus Schoeffer, (1425 ca.-1503) amico e collaboratore di Gutenberg, trovò il sistema per fondere i caratteri con l’aiuto di una lega di antimonio e piombo. Gutenberg, invece, intuì le possibilità di un materiale già utilizzato in Cina: la carta.
I cinesi impiegarono diversi materiali prima di pervenire a quello più idoneo per produrre la carta, cioè la fibra di lino che diede i risultati più soddisfacenti. Il procedimento prevedeva la decomposizione della fibra vegetale mediante macerazione, poi seguivano il lavaggio e la pressatura. La fibra forniva una polpa a cui si aggiungevano acqua e amido e si otteneva così la pasta della carta.
I cinesi non rivelarono il processo usato per ottenere la carta, almeno fino all’VIII secolo, quando lo comunicarono ai vincitori mongoli; da loro poi, passò ai persiani di Samarcanda, successivamente, ne furono informati i commercianti arabi che introdussero la carta in Sicilia e in Spagna.
Nel Duecento, in Europa esistevano già diverse fabbriche di carta che avevano migliorato il procedimento cinese, ma in sostanza, il processo restava quello da loro ideato. A questo punto, la storia della scrittura si intreccia a doppio nodo con quella della tipografia.
Con l’evoluzione dell’editoria manoscritta si assiste nello stesso periodo a un evolversi della materia prima della scrittura: i caratteri.
Dai precedenti caratteri utilizzati, di tipologia carolina, i copisti passano alla scrittura gotica di origine tedesca. Questo passaggio di consegne è dovuto sia a motivazioni culturali sia a esigenze pratiche: i caratteri gotici erano più stretti di quelli finora impiegati e consentivano un notevole risparmio di spazio.
Per scrivere i caratteri gotici i copisti dovettero attrezzarsi. In concreto, fu necessario modificare gli strumenti di lavoro. Le penne subirono qualche sostanziale cambiamento, furono tagliate obliquamente e i copisti furono costretti a modificare anche il modo tradizionale con cui impugnavano i loro strumenti: non più di piatto, bensì di lato.
La scrittura gotica, ovviamente, ha risentito dei cambiamenti culturali e artistici, in pratica, la sua nascita non è dovuta a un fenomeno isolato, ma è l’espressione di un’epoca che ha influenzato non solo la forma dei caratteri ma anche l’arte e l’architettura.
Gli archi a ogiva, le volte a crociera che si possono ammirare nelle chiese gotiche non sono altro che rappresentazioni in grande scala dei caratteri gotici usati nella scrittura. Essi, infatti, ripropongono, a modo loro, le stesse forme appuntite e spezzate con un’altrettanto forte componente di spinta verso l’alto.
Intorno al XIV e XV secolo, mentre il Rinascimento è alle porte, in Italia si profila un ulteriore cambiamento di “carattere”. Dalle forme gotiche “appuntite” e strette si passa a forme più rotonde, così ha inizio la scrittura denominata “umanistica”.
Questo nuovo tipo di scrittura prende campo velocemente e prolifera dovunque, proprio mentre accade un evento epocale: l’invenzione della tipografia che per la stampa si avvale di caratteri mobili.
Gli scrivani non erano dei semplici esecutori senza fantasia, tutt’altro. Il loro mestiere richiedeva una notevole creatività sia quando si trattava di copiare un testo sia quando si dovevano emendare gli errori.
Gli scrivani dovevano avere un’abilità camaleontica in fatto di scrittura. Essere in grado di destreggiarsi da uno stile a un altro, mantenendo una bella grafia a qualsiasi testo stessero lavorando.
Nonostante possedessero notevoli capacità, gli scrivani, anche i più dotati, potevano incorrere in errori. Per questo, le botteghe si premunivano, rivolgendosi a correttori che individuavano gli errori, li segnavano a margine e li corredavano delle correzioni necessarie.
Gli scrivani emendavano gli errori a seconda della gravità:
un errore semplice poteva essere risolto con una semplice grattatura della pergamena e poi con una riscrittura sopra la parte cancellata;
una parola mancante era inclusa a margine e un dito, opportunamente disegnato, indicava il punto del testo in cui andava posizionata;
righe intere o paragrafi mancanti richiedevano una certa malizia per essere integrati. Il testo omesso poteva essere collocato in fondo alla pagina e poi ci si affidava all’illustratore che poteva ad esempio, inserire un personaggio che simulava di risalire fino al punto richiesto.
Con il passare del tempo la formazione degli scrivani era sempre più minuziosa e rigida; alcuni di loro, grazie alla grande maestria che possedevano, riuscivano a produrre dei veri e propri capolavori.
Purtroppo, artigiani e artisti – e ahimè, ben poco è cambiato ai nostri tempi – non erano tenuti in alcuna considerazione sociale e guadagnavano così poco che quelli più abili si affidavano alla Chiesa: una volta entrati nel clero, potevano dedicarsi alla loro arte, liberi da qualsiasi preoccupazione materiale.
Liste, elenchi, cataloghi possono essere espedienti mnemonici della quotidianità o assurgere ad alte vette letterarie e musicali. Un esempio famoso: l’aria del catalogo di Mozart.
Se pensiamo alla parola “lista”, è facile associarla a quel prezioso foglietto che ci fa da bussola tra gli scaffali del supermercato. Ma le liste possono essere ben altro, specie se contenute in opere letterarie, come ad esempio in un libro di Sciascia che usa una lista piuttosto farcita, per descrivere l’arredamento di una casa e darci al contempo l’idea di un affastellamento di cose.
Un massiccio tavolo di rovere e quattro credenze, dello stesso legno, con dentro piatti, zuppiere, bicchieri e cuccume; ma anche vecchi giocattoli, carte, biancheria. […] Mozziconi di sigarette erano nei portacenere, e fondi di vino nei bicchieri, cinque, che erano stati portati in cucina certo con l’intenzione di sciacquarli. […] focolari a legna, forno, mattonelle valenziane murate intorno; pentole di rame e tegami appesi alle pareti (Leonardo Sciascia, “Una storia semplice”, Piccola biblioteca Adelphi).
Le liste possono anche fornirci un valido aiuto, specie quando si tratta di mostrare carrellate di elementi, inoltre, certi esempi artistici contengono una buona dose di ironia e sono creati per divertire, con la loro tendenza all’esagerazione, all’eccesso e alla dismisura.
Tra le liste assurte a stereotipo, specie nell’ambito musicale, troviamo l’aria del catalogo: uno degli ingredienti più antichi dell’opera buffa, di cui abbiamo molti assaggi nella commedia dell’arte e più tardi nelle opere liriche. Una famosa aria del catalogo è quella per basso: Madamina, il catalogo è questo di Wolfgang Amadeus Mozart, su libretto di Lorenzo Da Ponte, tratta dall’opera buffa Don Giovanni.
Mentre il cantante, Leporello – servo di Don Giovanni – esegue l’aria, mostra anche fisicamente il catalogo a Donna Elvira – una delle tante donne sedotte e abbandonate dal suo padrone – sotto forma di libro o di lungo papiro. Il mezzo fisico era indispensabile, almeno per gli attori della commedia dell’arte che ne facevano largo uso, per aiutare la memoria.
Carlo Goldoni ha utilizzato in molte sue commedie l’espediente istrionico delle liste: L’Arcadia in Brenta (1749); l’aria-catalogo nel Viaggiatore ridicolo (1761), qui lo stereotipo delle elencazione diventa un efficace veicolo di comicità.
L’aria del Catalogo mozartiana consiste nell’elencazione e descrizione di tutte le conquiste di Don Giovanni, snocciolate da Leporello a una sconvolta Donna Elvira ed è collocata nel primo atto dell’opera, (scena V). Dopo una breve presentazione del “Catalogo”, Leporello si lancia in una serie sfrenata di liste:
In Italia seicentoquaranta; In Alemagna duecento e trentuna; Cento in Francia, in Turchia novantuna; Ma in Ispagna son già mille e tre.
Dal conteggio, associato ai luoghi delle conquiste, il servo di Don Giovanni si sposta all’estrazione sociale delle vittime:
V’han fra queste contadine, Cameriere, cittadine, V’han contesse, baronesse, Marchesane, principesse. E v’han donne d’ogni grado, D’ogni forma, d’ogni età.
Poi, Leporello si sofferma sulle caratteristiche fisiche e caratteriali delle donne del suo padrone, senza mai abbandonare l’espediente della lista:
Nella bionda egli ha l’usanza Di lodar la gentilezza, Nella bruna la costanza, Nella bianca la dolcezza.
Vuol d’inverno la grassotta, Vuol d’estate la magrotta; È la grande maestosa, La piccina è ognor vezzosa.
La scena del catalogo mozartiano non è una novità: era già presente in diverse versioni della storia dell’impenitente seduttore, come ad esempio: Il convitato di pietra di Andrea Cicognini; Don Giovanni, o sia Il convitato di pietra, di Giuseppe Gazzaniga (libretto di Giovanni Bertati).
Esistono molti altri esempi letterari/musicali di liste ben riuscite: Il campanello di Gaetano Donizetti; l’aria delle medaglie (Viaggio a Reims), di Gioachino Rossini (libretto di Luigi Balocchi); Udite, udite, o rustici dell’elisir d’amore (L’elisir d’amore) di Donizetti (libretto di Felice Romani).
Gli elementi delle liste differiscono, ma lo scopo è lo stesso: l’elenco deve stupire e divertire, anche se nel caso del Don Giovanni, la povera Donna Elvira ha ben poco di cui gioire, dopo aver ascoltato le frizzanti rime di Leporello.
Rileggere a distanza di tempo poesie studiate a scuola è un’esperienza che invito tutti a fare. Anche scoprire poesie non ancora lette di un poeta, sul quale l’insegnante di italiano insisteva, anni fa, a fare domande durante le interrogazioni – e noi a chiederci perché – può riservare gradite sorprese.
Il famoso senno del poi nella letteratura ha un senso concreto. Le esperienze che abbiamo vissuto, i libri che abbiamo letto negli anni, i viaggi che abbiamo intrapreso hanno cambiato i nostri punti di vista, irrimediabilmente – e per fortuna – siamo persone diverse da quelle che hanno letto Pascoli, Leopardi, Dante, Foscolo, ecc. sui banchi di scuola.
Io ho fatto un tuffo nel passato proprio in questi giorni, grazie a un post da scrivere, e sono riemersa diversa. La poesia che ha suscitato il mio interesse e ha fatto scaturire queste riflessioni è una poesia di Giovanni Pascoli, dalla raccolta Myricae che – udite, udite – non avevo letto a scuola e chissà quante altre ce ne sono in attesa di una mia lettura, che possono suscitare emozioni analoghe.
La poesia è Il lampo e credo che, in assenza di un titolo, si sarebbe capito ugualmente di che cosa stesse parlando il poeta.
E cielo e terra si mostrò qual era: la terra ansante, livida, in sussulto; il cielo ingombro, tragico, disfatto: bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d’un tratto; come un occhio, che, largo, esterrefatto, s’aprì si chiuse, nella notte nera.
Leggendo questi pochi versi si può vedere in azione un lampo, il suo effetto sulle cose e lo sgomento improvviso che crea in chi assiste al suo repentino arrivo. Non serve concentrarsi troppo per sentire anche il tuono. E quell’occhio esterrefatto che si apre e si chiude in un baleno è l’incarnazione stessa dell’attimo in cui la luce del lampo rivela, come la luce di un enorme flash, il mondo e poi lo getta in un istante, di nuovo, nell’oscurità totale.
Durante una delle mie passeggiate, ho osservato sul ciglio della strada una lumaca che procedeva pervicacemente nella sua direzione e mentre la guardavo muoversi alla sua caratteristica comoda andatura, ho pensato al tempo, alla velocità e a quanto siano relativi questi concetti.
La lumaca da sempre incarna la lentezza, ma questa considerazione si basa sul nostro modo di vedere il mondo. Noi esseri umani, più passano gli anni, più aumentiamo la velocità delle nostre azioni e da questo nostro rapido punto di vista giudichiamo quello che ci circonda.
Partendo da questo presupposto, possiamo dedurre che, in realtà, la lumaca non è lenta, ma semplicemente mantiene la sua andatura, quella che la natura le ha conferito e che lei rispetta nei suoi gesti quotidiani, conducendo la sua vita alla stessa meditata e moderata velocità.
Solo noi umani viviamo spesso al di fuori di un ritmo naturale: affastelliamo mille cose nelle nostre giornate; impiliamo impegni su impegni in precario equilibrio; vogliamo arrivare dappertutto e nel minor tempo possibile.
Per cui, quando mangiamo ci ingozziamo e non assaporiamo più il cibo, respiriamo in modo affannoso, corriamo con l’auto per spostarci senza fare sforzi e il più rapidamente possibile, non riusciamo a vedere neppure le cose macroscopiche che ci circondano, non siamo capaci di goderci un istante di tranquillità.
Abbiamo perso completamente l’idea stessa di un ritmo naturale nel quale avvolgere la nostra vita.
Io credo che se riuscissimo almeno in parte a recuperare questo diverso senso del tempo e lo adattassimo al nostro carattere, alla nostra personalità, la nostra salute ci guadagnerebbe.
E non sempre la risposta che non possiamo perché dobbiamo fare tante cose in poco tempo è la risposta giusta…
A volte frenare ci fa acquistare tempo, ci consente di fare le cose molto meglio, e potremmo anche accorgerci che è possibile rallentare, che spesso siamo proprio noi che ci imponiamo questi ritmi infernali e insostenibili, e finiamo per ammalarci, perdendoci al contempo tante cose meravigliose che ci circondano.
In certe occasioni, concediamoci questo lusso: imitiamo la saggia lumaca… rallentiamo.
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