In Francia, alcuni decenni prima dell’affermarsi dell’Illuminismo, viene fatto il primo valido studio scientifico sui caratteri tipografici, da cui avranno origine una serie di font con un luminoso futuro, tra questi il carattere Romain du Roi.
Mentre in Olanda, il libro continuava a incontrare grande successo; in Francia, il Re Sole (Luigi XIV di Borbone 1638 – 1715), forse infastidito da tanto trionfo, pensò fosse il caso di riformare la stampa francese. Saranno intrapresi studi sulle proporzioni dei font tipografici e nascerà anche un nuovo carattere.
Nel 1692, il ministro, Jean-Baptiste Colbert, incaricò la Commissione Bignon di compilare la “Description des Métiers”, in pratica, un compendio di arti e mestieri. Della commissione facevano parte quattro scienziati: Jean-Paul Bignon (1662 – 1743; capo della commissione), Padre Sébastien Truchet (1657 – 1729), Jacques Jaugeon (1690 – 1710) e Gilles Filleau des Billettes (1634 – 1720).
Uno dei primi compiti della commissione fu occuparsi della stampa e della tipografia. Jaugeon assistette padre Truchet nella creazione del primo sistema di punti tipografici e del “Romain du Roi” (Romano del Re). Essi fissarono la proporzione delle lettere di questo nuovo carattere, da cui è derivato il “Times New Roman”.
Il Re, in quello stesso periodo, aveva fatto costruire l’Ospedale Generale di Parigi (27 aprile 1656), per far imprigionare vagabondi, prostitute, pazzi e poveri; allo stesso modo, in una strana corrispondenza, le lettere, che sarebbero andate a costituire il nuovo alfabeto, furono collocate dietro a delle griglie e inserite in diagrammi. Ogni lettera era inscritta in un quadrato, suddiviso mediante un reticolo, composto da 44 caselle: archetipo della perfezione tipografica.
A questo carattere si ispirarono in molti: Pierre Simon Fournier (1712 – 1768), i Didot e Giovanni Battista Bodoni. Questa iniziativa francese rappresenta il primo studio scientifico di una certa valenza sui caratteri tipografici, ed è anche alla base del concetto di punto tipografico (la prima definizione è del tipografo francese, Pierre Simon Fournier, nel 1737).
Lo studio fatto sui font si rivelò utile anche durante l’Illuminismo. I lettori del Settecento sono cambiati, non desiderano più svagarsi con le letture, ma essere informati. Nasce in questo periodo, L’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert che utilizza tavole tecniche, per illustrare in modo più chiaro gli argomenti di cui tratta; lo stile impiegato è semplice, privo di inutili ghirigori. I caratteri, quindi, in linea con tale pensiero, devono essere altrettanto semplici e facilitare la lettura. A ciò pensano i fratelli Didot che realizzano un carattere, perfettamente, al passo con i tempi.
Il nuovo alfabeto fu disegnato e poi inciso nel 1755, rispettivamente da Francois-Ambroise Didot (1730 – 1804) e da Pierre-Louis Wafflard. I nuovi caratteri sono semplici, di una purezza esemplare. Una costruzione perfettamente bilanciata di pieni e di filetti puliti e taglienti, che faranno di questo carattere il “gioiello” della tipografia francese.
Nel 1716, in Inghilterra, William Caslon (1692/1693 – 1766) disegnò il carattere romano che sarà usato per la Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776. È però Giambattista Bodoni (1740 – 1813) l’imitatore più geniale. Questo ingegnoso italiano creò un carattere che porta il suo nome e si ispira ai “garamond”, che papa Sisto V (1521 – 1590) aveva fatto incidere a Claude Garamond (1480 – 1561) e Guillaume Le Bè (1524 – 1598). Questo carattere ebbe un grande successo. Diffuso in tutta Europa, sarà usato in Inghilterra per stampare i giornali fino alla metà del XX secolo.
La pandemia e il conseguente lockdown mi hanno lasciato una piacevole abitudine, seguire dei corsi online. Qualche mese fa, ho visto delle mini conferenze su “Feltrinelli Education”, la piattaforma digitale di servizi formativi.
Tra le tante esperienze e possibilità offerte, ho scelto di esplorare il “Breve corso sulla letteratura del ‘900” con Paolo Di Paolo, dedicato nello specifico a “Il grande romanzo del ‘900: Proust, Joyce, Woolf”. È stato un viaggio interessante ed emozionante al tempo stesso.
Sono rimasta particolarmente colpita dalla lezione dedicata a Proust e non poche riflessioni ho tratto dalla parte in cui si parla di un personaggio creato da Marcel Proust: Bergotte.
Bergotte è uno scrittore e appartiene alla schiera dei personaggi minori descritti e fatti agire da Proust nella sua À la recherche du temps perdu (“Alla ricerca del tempo perduto”). Nel V volume, intitolato “La prigioniera”, veniamo a sapere che Bergotte sta per morire, ma che non vuole andarsene da questo mondo senza aver rivisto, almeno per una volta, un quadro di Jan Vermeer (1632-1675; pittore olandese), la Veduta di Delft.
È davvero singolare questo desiderio del personaggio proustiano e ci spinge a chiederci: che cosa può contenere di così affascinante questo dipinto, tale da scatenare un desiderio così intenso? E al contempo, che cosa porteremmo via con noi, come ultima cosa da questo mondo, se fossimo al suo posto?
Bergotte ha fatto la sua scelta: porterà con sé un assaggio di bellezza, quell’assaggio è contenuto nel quadro di Vermeer. Non lo interessa l’intero dipinto, bensì un piccolo dettaglio che lo spinge a indugiare, ancora una volta, davanti alla Veduta di Delft.
Proust ci dice che Bergotte muore a causa di una crisi di uremia (stadio terminale dell’insufficienza renale), abbastanza leggera, ma lo scrittore aveva trascurato le prescrizioni del medico che gli aveva consigliato di riposare. Ma Bergotte non può riposare, perché ha letto una recensione di un critico sul quadro di Vermeer, che lui amava particolarmente, ed era convinto di conoscerlo a fondo.
Nella recensione c’è segnalato che “una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa”.
Così, Bergotte, mangia un po’ di patate, esce di casa e si dirige dritto filato alla mostra, dove è esposto il Vermeer. Già nel fare questi primi passi, si sente mancare. Entrato nelle sale della mostra, scorre rapidamente davanti agli altri dipinti, ricavandone un’impressione di inutilità e aridità; finché non giunge davanti al dipinto che è venuto a rivedere.
Ora, seguendo le indicazioni del critico, Bergotte nota altri particolari, nella Veduta di Delft, cui non aveva prestato attenzione in precedenza, e infine, si sofferma sulla “preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo”. Nonostante i suoi disturbi aumentino in modo preoccupante, lo scrittore è troppo preso dalla meravigliosa vista e insiste a fissare quel piccolo dettaglio, quel minuscolo barlume di giallo, come volesse afferrarlo e portarlo via con sé.
Quella minuta meraviglia dipinta, lo costringe anche a un parallelo con la sua scrittura e gli fa pronunciare: “È così che avrei dovuto scrivere […]. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo”.
Siamo alle ultime battute, Bergotte si rende conto, dall’aumentare dei suoi capogiri, che sta per morire e pensa che “in una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ala di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda”.
Pochi istanti dopo questi pensieri, Bergotte precipita su un divano e da qui finisce a terra. Morto. “Lo seppellirono, ma tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate e sembravano per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione”.
Con queste parole, Proust mette un suggello: è l’arte a renderci immortali. Per cui, Bergotte è morto, ma è più vivo che mai, almeno finché ci saranno lettori che continueranno a stupirsi, leggendo di lui e del suo speciale legame con il dipinto di Vermeer.
Le citazioni sono tratte da Marcel Proust, La prigioniera, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, edizione integrale a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso, condotta sul testo critico stabilito da Jean-Yves Tadié, Newton Compton editori, Roma 2010
La Controriforma mette dei paletti alla diffusione della cultura, per fortuna, stampatori, editori e tipografi trovano un’isola felice dove continuare a svolgere il loro lavoro: l’Olanda. Inoltre, prende campo la riduzione di formato del libro che diventa a tutti gli effetti un tascabile, consentendo una più rapida diffusione della cultura.
Alla fine del ’500, l’Olanda protestante accolse stampatori e tipografi, e rappresentò un rifugio per il libro, di fronte all’avanzata delle tendenze repressive della Controriforma e dell’Inquisizione. Intanto dal 1550, gli eruditi passano dal latino – utilizzato fino a quel momento per stampare i classici greci e latini – alle lingue nazionali.
Gli stampatori erano consapevoli di cosa significasse andare contro gli inquisitori. Avevano ancora ben presente il martirio di Étienne Dolet (1509 – 1546) umanista, poeta ed editore che, accusato di ateismo, perché aveva osato pubblicare Rabelais, Marot e soprattutto, l’ “Enchiridion militis christiani” di Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469 – 1536), fu impiccato e bruciato sul rogo, il 3 agosto del 1546, a Parigi. L’Olanda diventa quindi la patria della letteratura che era proibita in altri luoghi.
In questo periodo prende campo il libro tascabile che consente una maggiore diffusione. L’idea partì da Venezia, con Aldo Manuzio (tra il 1449 e il 1452 – 1515) che già nel 1501 diede il via a una collana di libri (in formato ridotto, conosciuto come in-8° piccolo), nella quale, per la prima volta, fu usato lo stile corsivo che, essendo più compatto, consentì una riduzione del formato.
Manuzio stampò libri in ottavo (un singolo foglio di stampa è piegato in otto, corrisponde a sedici pagine), invece che nei soliti formati in folio (un singolo foglio piegato in due, quattro pagine) e in quarto (un singolo foglio piegato in quattro, otto pagine). Manuzio lo battezzò: enchiridion forma, dall’ “Encheiridion” (che sta in una mano) o Manuale di Epitteto (scritto di filosofia ed etica stoica, compilato dallo scrittore greco-romano, Arriano, discepolo del filosofo greco, Epitteto), uno dei primi libri a essere stampati con questo nuovo formato; leggeri, maneggevoli e facilmente trasportabili.
Questa soluzione rivoluzionaria fu subito adottata dagli Elzevier (celebre famiglia di tipografi, editori e librai), molto attivi in Olanda tra il 1583 e il 1713. Al loro nome è associata una serie di classici latini in piccolo formato, che aiutarono non poco la diffusione della cultura.
Hieronymus Bosch fu un artista immaginifico. Le sue visioni dipinte lasciano tuttora stupefatti gli spettatori. “Il Giardino delle delizie”, il suo capolavoro, è ancora un mistero a livello interpretativo, e forse anche questo contribuisce al singolare fascino che lo contraddistingue.
“… vi sono dei pannelli sui quali sono stati dipinti oggetti stravaganti. Rappresentano mari, cieli, foreste, prati, e molte altre cose, come individui che strisciano fuori da una conchiglia, altri che producono uccelli, uomini e donne, bianchi e neri mentre fanno ogni sorta di differente attività e gesto” (“Diario di viaggio” di Antonio de Beatis – descrizione del dipinto di Bosch).
Hieronymus Bosch, pseudonimo di Jeroen Anthoniszoon van Aken (‘s-Hertogenbosch, 2 ottobre 1453 – ‘s-Hertogenbosch, 9 agosto 1516), è stato un pittore olandese. Le sue opere sono il prodotto di una mente contraddistinta da una fervida creatività e hanno l’aspetto di visioni, al punto da richiamare la psicoanalisi, per poterne dare un’interpretazione.
Bosch, come avviene per tutti gli artisti, era un prodotto del suo tempo e del suo ambiente, e le sue opere furono realizzate seguendo le dottrine religiose e intellettuali dell’Europa centro-settentrionale, dottrine che negavano la supremazia dell’intelletto e sostenevano, invece, la trascendenza e l’irrazionalità.
Le opere di questo straordinario artista contengono un’infinità di particolari e situazioni, sono una sorta di teatro, popolato da una miriade di attori, immersi in un’esplosione di colori e concepiti seguendo simbolismi, ancora non del tutto decifrati.
Lungo il percorso artistico di Bosch, sono molti i dipinti che attirano l’attenzione, ma il capolavoro, e al tempo stesso l’opera più ambiziosa di questo geniale pittore, è considerato “Il Giardino delle delizie”, un trittico a olio su tavola, conservato al Museo del Prado (Madrid), datato, anche se con qualche incertezza, nel periodo che intercorre tra il 1480 il 1490 ca. Questo lavoro di Bosch, più di altri, è di grande complessità sia per i simboli presenti nell’opera sia per la creatività che qui, l’artista ha espresso all’ennesima potenza.
Analizzando la struttura del trittico, vediamo che è composto da un pannello centrale, cui sono affiancate due ali rettangolari, richiudibili su di esso. Completamente chiusa, l’opera mostra la raffigurazione della Terra durante la Creazione. Il pannello aperto, invece, mostra: nella parte a sinistra, Dio, fulcro dell’incontro tra Adamo ed Eva; nel pannello centrale, una veduta di fantasia con figure nude, animali veri e immaginari, frutti di tutte le dimensioni, strane costruzioni, alberi, laghi e corsi d’acqua, e uno sfumato profilo di montagne sul fondo; pannello di destra, una visione dell’Inferno e i tormenti inflitti ai dannati.
Questo capolavoro di Bosch ha avuto molte interpretazioni: c’è chi ha visto in queste tre scene un avvertimento indirizzato agli uomini, sui pericoli delle tentazioni della vita terrena; altri, al contrario, ritengono contenga un insegnamento morale e soprattutto, il pannello centrale è stato considerato come una rappresentazione del paradiso perduto.
La prima fonte storica che nomina questo trittico è del 1517: il canonico Antonio de Beatis (segretario del cardinale Luigi d’Aragona) ce ne fornisce una descrizione; all’epoca, l’opera era parte della decorazione del palazzo dei conti della Casa di Nassau (Bruxelles).
Si ritiene che il committente del Giardino fosse Enrico III di Nassau-Breda (1483-1538), Statolder (carica esistente tra la metà del XV secolo fino al 1795, nella regione dei Paesi Bassi; designava il luogotenente civile del sovrano) d’Olanda e Zelanda, dal 1515 al 1521, Barone di Breda e Conte della Casa Nassau. Enrico aveva raccolto nei suoi possedimenti una vasta collezione di opere d’arte e curiosità esotiche. Questa sua passione irriducibile per l’arte era condivisa con Filippo il Bello (Filippo IV di Francia, 1268-1314, re di Francia dal 1285 fino alla morte) suo amico e forse, anche avversario: nella corsa a conquistare le opere di Bosch che entrambi ammiravano.
La notorietà del Giardino delle delizie fu davvero grande e si può toccare con mano: fu oggetto di un elevato numero di copie. Morto Enrico III, il trittico passò al nipote Guglielmo I d’Orange (1533-1584, capo degli olandesi durante la Guerra degli ottant’anni); nel 1568, fu confiscato dal Duca d’Alba (1507-1582, generale spagnolo, governatore del Ducato di Milano; viceré del Regno di Napoli e governatore dei Paesi Bassi spagnoli) che lo portò in Spagna, qui passò nelle mani di Don Fernando di Toledo, figlio naturale del Duca. Nel 1591, fu acquistato da Filippo II di Spagna (1527-1598, re di Spagna, dal 1556 fino alla morte) che nel 1593 lo trasferì all’Escorial. L’ultima tappa del Giardino di Bosch fu il Museo del Prado, dove giunse nel 1939, qui sono custoditi diversi altri lavori dell’artista fiammingo.
Il Giardino delle delizie fu realizzato in un periodo vivacizzato da molte scoperte e avventure, quando i ritrovamenti del Nuovo Mondo affascinarono tutti: poeti, scrittori e, ovviamente, anche i pittori. Ma non basta questo a spiegare la presenza nel trittico di Bosch di creature fantastiche e singolari, l’opera fa riferimento anche ad altre iconografie. I viaggi esotici e le relative scoperte a essi associati hanno però sicuramente influenzato il pannello di sinistra, dove troviamo animali come giraffe e leoni.
Nel pannello centrale, nell’ampio giardino rappresentato, sono raffigurate un’infinità di figure maschili e femminili nude, circondate da tanti animali (asini, cervi, leopardi, pantere, leoni, liocorni, orsi, grifoni, pavoni, corvi, unicorni, cammelli, ecc., tratti dal repertorio dei bestiari medievali), fiori, frutti e piante di ogni tipo. Proprio questa particolare porzione del dipinto, posta al centro del pannello, rappresenta il grande Giardino “delle delizie” da cui il trittico prende il nome. Bosch, qui, ha mescolato creature d’invenzione con elementi reali e raffigurato frutti dalle dimensioni esagerate. Le figure umane si intrattengono in liberi scambi amorosi e in molte altre attività, svolte a coppie o in gruppo. Tutto in questa parte del dipinto sembra immerso in un’atmosfera giocosa, pervasa da una sorta di innocenza primordiale.
Nella parte in primo piano, con il fiume al centro, le figure nude sono divise in gruppi e sono attorniate da strani vegetali, conchiglie e oggetti curiosi. A volte, i personaggi sono colti mentre mangiano frutti o in qualche modo occupati con volatili di varie specie raffigurati con dimensioni esagerate, specie sul lato sinistro del pannello. Le dimensioni e la prospettiva non sono rispettate in modo rigido: ci sono figure minuscole appoggiate ad anatre di dimensioni enormi o ad altri volatili ugualmente giganteschi. Altrettanto sovradimensionati sono i frutti e i fiori. Ci sono anche pesci che si muovono sul terreno; personaggi intrappolati in strane bolle o dentro fragole e lamponi.
Lo stile generale del dipinto è di carattere concitato; le figure sono ritratte in pose dinamiche; inoltre, la grande luminosità e i contrasti di colore, insieme alla grande varietà di soggetti ritratti, rimandano allo spettatore una scena vivace e animata, dove è possibile scoprire qualcosa di nuovo a ogni occhiata, ma bisogna avere pazienza e un occhio allenato ai dettagli.
L’interpretazione del Giardino di Bosch è una sfida che tuttora impegna gli studiosi. I singoli temi possono essere in qualche modo spiegati, ma le relazioni che legano i vari elementi tra loro sono ancora indefinite e le interpretazioni risultano contraddittorie. Per le analisi, non si è lasciato nulla di intentato: si è fatto ricorso al folklore, all’astrologia e persino all’alchimia, ma il mistero è ancora fitto.
Bosch ha lasciato un’eredità in alcuni artisti, anche se, considerata l’unicità delle sue opere, la sua influenza è stata di minor impatto rispetto ad altre figure artistiche. Ritroviamo, però, citazioni al suo Giardino in autori quali, Pieter Bruegel il Vecchio (1525/1530 ca. – 1569), Giuseppe Arcimboldo (1527-1593) e David Teniers il Giovane (1610-1690).
Nel XX secolo, l’opera di Bosch ha investito le fantasie dei primi surrealisti: Joan Miró (1893-1983) e Salvador Dalí (1904-1989), ma è stata anche fonte di ispirazione per altri artisti, come René Magritte (1898-1967) e Max Ernst (1891-1976).
In copertina: particolare dal pannello centrale del trittico “Giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch
Émile Zola fu un grande scrittore che impiegò il metodo scientifico nei suoi romanzi, per analizzare e mettere a nudo la società francese del suo tempo.
29 settembre 1902, muore Émile Édouard Charles Antoine Zola (Parigi, 2 aprile 1840 – Parigi, 29 settembre 1902); figura poliedrica fu: scrittore, giornalista, saggista, critico letterario, ma anche filosofo e fotografo. È stato uno degli esponenti di maggior spicco del naturalismo. Le sue opere ebbero un enorme successo e sono state tradotte, pubblicate e commentate in tutto il mondo. La sua attività di scrittore ha lasciato un segno profondo nel mondo letterario francese e molti sono gli studi storici fatti sui suoi romanzi e sulla sua vita.
Tra le sue opere più note citiamo un ciclo di venti romanzi, pubblicati tra il 1871 e il 1893, i “Rougon-Macquart”, dove è descritta la vita di una ricca famiglia, attraverso il suo albero genealogico, e al contempo, è mostrata la storia di un’epoca: dal colpo di Stato di Napoleone III, nel dicembre 1851, fino alla sconfitta di Sedan che condusse la Francia sull’orlo della rovina.
Zola fu un assiduo sostenitore della ricerca della verità che trasfuse nelle sue opere letterarie, applicando il metodo scientifico all’osservazione della realtà sociale. Diede vita a un mondo immaginario di grande potenza ed efficacia che suscitava domande angosciate sulla società. Annotava osservazioni e documentazioni su qualsiasi argomento; illustrò la società del Secondo Impero, mostrandone: la durezza (specie verso i lavoratori); le aberrazioni; i successi.
Lo scrittore non prese posizione solo attraverso i suoi romanzi, ma fece sentire la sua voce di fronte a delle ingiustizie, anche pubblicamente. Negli ultimi anni della sua vita, fu coinvolto nell’affare Dreyfus. Nel gennaio del 1898, pubblicò sul quotidiano L’Aurore il famoso “J’Accuse… !”, una lettera, diretta al Presidente della Repubblica.
“L’affare Dreyfus” andò così: nel 1894, Alfred Dreyfus, ufficiale di artiglieria dell’esercito francese, fu accusato di essere una spia dei tedeschi e per questo, fu degradato e poi processato e condannato all’ergastolo. Alcuni intellettuali fecero notare diverse anomalie riguardo alle accuse rivolte all’ufficiale ebreo, ma la voce che si fece sentire più forte di tutte, fu proprio quella di Zola. Nel suo “J’Accuse”, lo scrittore parlava di complotto, di documenti d’accusa falsificati e fece persino i nomi degli ufficiali dell’esercito che avevano architettato la congiura ai danni di Dreyfus. Una congiura che aveva tutto il sapore dell’antisemitismo, in un clima politico avvelenato dalla recente perdita, per opera dell’Impero tedesco di Bismarck, dell’Alsazia e di parte della Lorena.
Per le sue accuse, Zola fu multato e condannato a un anno di carcere, che evitò con l’esilio. Le sue parole però, avevano scosso le coscienze. Oltre a svelare la verità, ebbero un effetto dirompente: l’edizione de L’Aurore che conteneva la sua lettera, vendette oltre 300.000 copie (di media ne vendeva 20.000 al giorno). A furore di popolo si ottenne la revisione del processo, ma era ancora lunga la strada per il re-integro e la liberazione di Dreyfus. Bisogna attendere il 12 luglio del 1906: dopo 11 anni dall’inizio del processo, finalmente, la Corte di Cassazione accolse la richiesta di revisione del processo a carico di Dreyfus. Era ormai chiaro che tutto “l’affaire” era stato un errore giudiziario, una terribile macchinazione messa in piedi solo per individuare un capro espiatorio.
Quando finalmente Dreyfus fu liberato, Zola era già morto, da ben quattro anni (29 settembre 1902). La sua morte è rimasta un mistero e tuttora, ci si chiede se sia stato un incidente o un omicidio orchestrato dalla Destra reazionaria, proprio per la posizione da lui assunta nell’ “affare Dreyfus”. Lo scrittore aveva un nutrito numero di nemici: durante la sua esistenza espresse sempre la sua opinione e non accettò compromessi.
La morte di Zola fu archiviata dagli investigatori come morte accidentale, da avvelenamento da monossido di carbonio, dovuta alle esalazioni di una stufa. Nel 1953, Pierre Hacquin, un farmacista, disse al giornalista Jan Bedel che era stato il fumista, Henri Buronfosse – che lo aveva confessato ad Hacquin – a ostruire intenzionalmente il camino di casa dello scrittore.
Dopo tali rivelazioni, si profilò l’ipotesi di assassinio politico: il farmacista e il fumista facevano parte di un gruppo di nazionalisti antisemiti e reazionari. Buronfosse era però già morto, nel 1928, e non si trovarono sufficienti prove per riaprire il caso.
Zola aveva costruito tutta la sua vita e anche la sua arte sull’onestà intellettuale e non tacque mai di fronte a ciò che riteneva scorretto o ingiusto sia che si trattasse dell’ipocrisia e dell’immoralità della borghesia francese sia che riguardasse questioni artistiche. Si schierò, ad esempio, dalla parte degli Impressionisti e di Manet, mentre schernì i pittori dell’Accademia, con il loro dipinti ammantati di retorica e privi di qualsiasi attinenza con la realtà del tempo.
Non ebbe molti amici, non solo perché non accettava compromessi, ma anche per il suo carattere aspro. Nonostante ciò, alcuni grandi lo apprezzarono e gli furono vicini per tutta la vita: Anatole France (1844-1924), ad esempio, che al suo funerale fece un’orazione commovente ed Édouard Manet (1832-1883), altro amico fedele, che riuscì, in un dipinto, a ritrarre con grande accuratezza il temperamento ombroso di Zola.
P.S. “L’affaire Dreyfus” e il J’Accuse di Zola determinarono la nascita dell’impegno intellettuale. L’editoriale di Zola fece della parola intellettuale un simbolo dell’impegno civile, un titolo di gloria. Prima dell’affare Dreyfus, invece, “intellettuale” aveva una connotazione negativa: si parlava di “giudizio intellettuale”, come di qualcosa di trascurabile o incomprensibile.
In copertina: particolare del Ritratto di Émile Zola di Édouard Manet (1868)
Oggi 19 settembre cade l’anniversario della morte di Italo Calvino (Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 – Siena, 19 settembre 1985).
Per me questo grande scrittore è indissolubilmente legato a un ricordo e a un libro magnifico: “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”. Calvino scrisse queste lezioni in occasione dei sei discorsi da tenere all’Università di Harvard, per l’anno accademico 1985-1986, nell’ambito delle prestigiose “Charles Eliot Norton Poetry Lectures”.
Purtroppo, non riuscì a partecipare: morì improvvisamente, il 19 settembre, a seguito di un ictus, ma le sue lezioni erano a buon punto, mancava solo l’ultima, la sesta. Il libro fu pubblicato postumo, nel 1988 e il titolo dell’edizione italiana fu scelto dalla moglie, Esther Judith Singer.
L’argomento di ogni lezione trae ispirazione da un valore della letteratura che Calvino riteneva fondamentale e che per lui, era alla base della letteratura per il millennio che si stava affacciando. Calvino aveva scelto l’ordine delle lezioni e delle parole a esse associate in base alla loro importanza. Si parte con quella che riteneva fondamentale e si prosegue con quelle meno essenziali: Leggerezza; Rapidità; Esattezza; Visibilità; Molteplicità; Coerenza (solo progettata).
Della prima lezione, quella appunto dedicata alla leggerezza, ho un ricordo preciso e su questo intendo soffermarmi: attraverso la vicenda di Medusa e Perseo, scelta tra gli altri esempi che illustrano in modo magistrale questa particolare qualità.
Intanto, andiamo a conoscere meglio i due protagonisti della storia. Medusa (“protettrice”, “guardiana”) è una figura della mitologia greca; è una Gorgone (mostro della mitologia greca). In tutto le Gorgoni sono tre: Medusa, appunto, Steno ed Euriale. Tutte figlie di Forco e Ceto, divinità marine.
Queste creature mitologiche avevano un incredibile potere: erano in grado di pietrificare chiunque incrociasse il loro sguardo, ed erano immortali, a parte Medusa. L’aspetto delle Gorgoni cambia con il passare del tempo: anticamente, erano rappresentate come donne orrende, munite di ali d’oro e mani di bronzo; avevano un viso rotondo e al posto dei capelli, una massa di serpenti. Erano dotate di una grande bocca con zanne suine. In versioni cronologicamente più avanzate, il loro aspettò mutò decisamente in meglio: avevano sembianze di bellissime ragazze, ma per chioma avevano sempre dei serpenti. Anche il luogo in cui vivevano muta con il passare degli anni e degli autori da cui sono nominate, prima pare fossero rintracciabili nell’Oceano Occidentale, poi in Libia.
Come Medusa, anche Perseo appartiene al mondo della mitologia greca, è un eroe, figlio di Zeus e di Danae, nipote del re di Argo, Acrisio, ed è ricordato soprattutto per le sue imprese eroiche: l’uccisione di Medusa e il salvataggio di Andromeda (diventata poi sua moglie) da un mostro marino. Dalla moglie Andromeda ebbe diversi figli, tra cui spiccano: Elettrione (nonno di Eracle) e Gorgofone (madre di Icario e nonna di Penelope, sposa di Odisseo).
Presentati i due protagonisti, possiamo procedere con il racconto mitologico che li riguarda: la morte di Medusa. Fu Polidette, re di Serifo, a inviare Perseo a uccidere la Gorgone, con la speranza di sbarazzarsi di lui, per poter sposare sua madre, Danae. Prima di affrontare Medusa, Perseo deve rintracciare le ninfe dello Stige, invisibili e introvabili, per questo si trova a dover convincere le Graie (o Forcidi, custodivano l’accesso al luogo in cui vivevano le Gorgoni e simboleggiavano i vari momenti della vecchiaia; non erano mai state giovani e possedevano un solo occhio e un solo dente, in comune) a rivelargli la dimora delle ninfe dello Stige, per poter ottenere gli oggetti che gli erano indispensabili per condurre a termine la sua impresa.
Le ninfe dello Stige consegnano all’eroe alcuni gadget davvero straordinari: sandali alati e l’elmo dell’invisibilità di Ade. Inoltre, da Ermes, Perseo riceve un falcetto adamantino. Così attrezzato, giunge al cospetto delle Gorgoni e le trova addormentate. Atena guida l’eroe e sorregge lo scudo, dal cui riflesso Perseo osserva l’immagine di Medusa per colpirla, senza rischiare di restare pietrificato. L’eroe taglia la testa della Gorgone e dalla ferita mortale escono: Pegaso, il mitico cavallo alato, e il gigante Crisaore, i figli che Medusa ha concepito con Poseidone.
Le sorelle della Gorgone si destano e cercano di inseguire Perseo, ma l’elmo l’ha reso invisibile e l’eroe fugge in groppa a Pegaso, portando con sé la testa di Medusa rinchiusa in un sacco. Secondo altre versioni del mito, dal sangue di Medusa si originò l’anfesibena (mitico serpente con due teste, dotato di occhi che rilucono come lampade) e alcune alghe pietrificate, al contatto con la sua testa, si trasformarono in corallo (o “gorgonia”).
Il mito di Perseo e la morte di Medusa sono ripresi da Calvino per simboleggiare la leggerezza: Perseo indossa sandali alati e decapita Medusa sostenendosi a ciò che vi è di più leggero, venti e nuvole; inoltre, l’eroe evita la visione diretta della Gorgone: osserva la sua immagine riflessa nel suo scudo. Le immagini di leggerezza non finiscono qui. Dal sangue di Medusa nasce Pegaso: dalla pesantezza della pietra si manifesta l’opposto, la leggerezza di un cavallo alato.
Calvino recupera il mito di Medusa e Perseo e nel complesso rapporto che li lega individua diversi richiami alla leggerezza, come la delicatezza con cui l’eroe si prende cura della testa della Gorgone che è uno strumento così potente tanto che Perseo la usa con grande efficacia contro i suoi nemici, ma al contempo è molto fragile e l’eroe la posa con gentilezza quando deve abbandonarla temporaneamente per svolgere delle faccende.
Ma il vero miracolo della leggerezza si manifesta nella mutazione provocata dalla testa di Medusa, posata su ramoscelli marini che vengono trasformati in coralli, così le ninfe, per potersi adornare di coralli, si avvicinano all’orribile testa del mostro e aggiungono alghe e ramoscelli.
In copertina: Pegaso e Crisaore nascono dal corpo di Medusa in un’illustrazione di Edward Burne-Jones
La prima volta che ho visto la Galleria sono rimasta folgorata dalla sua bellezza. Ci sono tornata più volte e l’incanto non è passato. L’ho fotografata da molte angolazioni, cercando di strapparle quell’alone di fascino che emana; l’ho immortalata con ogni tempo atmosferico, azzerando le presenze al suo interno o cercando dei soggetti singolari di passaggio: coppiette, agenti in divisa. Qualche settimana fa mi sono chiesta quale fosse la sua storia e ho fatto alcune interessanti scoperte…
La Galleria Vittorio Emanuele II, a Milano, è una galleria commerciale che unisce piazza Duomo a piazza della Scala. Al suo interno ospita eleganti negozi e locali; sin dalla sua nascita costituì un ritrovo per la borghesia milanese e per questo fu soprannominata il “salotto di Milano”. Lo stile della Galleria è neorinascimentale; è tra i più noti esempi di architettura del ferro europea; è il modello della galleria commerciale dell’Ottocento, un luogo all’avanguardia: uno dei primi esempi di centro commerciale ante litteram al mondo.
Nella città di Milano, i passaggi coperti con funzione di portici risalgono all’epoca medievale. Nel Duecento, Bonvesin de la Riva (1250 ca. – 1313/1315, autore di origine lombarda, probabilmente milanese; ritenuto il padre della lingua lombarda) nel suo trattato “De magnalibus urbis Mediolani” (Meraviglie di Milano, del 1288; scritto in latino e concepito come una cronaca) registrava la presenza di circa sessanta porticati a Milano. Il destino dei porticati subì una svolta con l’ascesa degli Sforza e successivamente, con la dominazione spagnola: furono progressivamente demoliti, ne sopravvissero pochi.
All’unità d’Italia, Milano giunse priva di quella tradizione di passaggi e porticati che ritroviamo in città come Torino e Bologna; all’epoca, la città poteva vantare solo la galleria De Cristoforis, un passage che rispondeva alle tendenze delle principali capitali europee, dotate di passaggi con copertura in ferro e vetro a scopo commerciale (galerie Vivienne, Parigi; Burlington Arcade, Londra).
Nel 1839, Carlo Cattaneo (1801-1869; patriota, filosofo, politico, politologo, linguista e scrittore italiano) fu uno degli animatori del dibattito che riguardava il rifacimento della zona prospiciente al Duomo. Maturò l’idea di una via che congiungesse la piazza del Duomo con quella della Scala. All’epoca la piazza davanti al Duomo era piccola e irregolare, e ritenuta indegna della cattedrale della città. Inoltre, c’erano anche problemi di viabilità: il traffico cittadino, in netto aumento, non era più sostenibile, perlomeno mantenendo le strette strade di origine medievale.
Si decise di dedicare la via al re Vittorio Emanuele II per due motivi: l’entusiasmo per l’indipendenza dall’Austria; la speranza di ottenere più facilmente i permessi (si ottenevano con decreto reale) per le espropriazioni necessarie per realizzare l’opera. La dedica al re è stata collocata sul frontone dell’arco d’ingresso e recita: “A Vittorio Emanuele II. I milanesi”.
I decreti regi per i permessi furono firmati tra il 1859 e il 1860: uno per l’esproprio dei palazzi da demolire; l’altro per la demolizione del coperto dei Figini e del Rebecchino, entrambi occupavano l’attuale piazza Duomo; l’ultimo servì ad autorizzare una lotteria, finalizzata a ottenere i fondi per la costruzione della via.
Il 3 aprile 1860, il Comune di Milano bandì il concorso per edificare la nuova via. Il progetto iniziale prevedeva una semplice strada porticata e fu istituita una speciale commissione per vagliare i progetti. Giunsero innumerevoli proposte, tra le quali ne furono scelte 176, esposte successivamente alla Pinacoteca di Brera. In questa prima occasione, non fu nominato alcun vincitore, ma vennero fornite indicazioni più precise riguardo al progetto e stavolta, prese campo l’idea del passaggio coperto.
Fu indetto un secondo concorso, nel febbraio del 1861; furono valutati 18 progetti, ma anche stavolta, non fu eletto un vincitore. Tra i progetti, quattro furono ritenuti più meritevoli quelli di: Davide Pirovano, il cui progetto era ispirato all’architettura palladiana; Paolo Urbani, per la scelta di un’architettura eterogenea che combinava forme lombarde e venete; Gaetano Martignoni, per unire le due piazze, aveva proposto una galleria a croce greca; Giuseppe Mengoni, le sue scelte architettoniche si ispiravano ai palazzi comunali del Trecento.
Non avendo ancora trovato il progetto idoneo, fu bandito un terzo concorso, nel 1863. Stavolta furono considerati solo otto progetti: tre richiesti dalla stessa commissione; cinque presentati spontaneamente. Il vincitore fu Giuseppe Mengoni, al quale furono richieste delle modifiche ad alcune parti del suo progetto. Mengoni aveva proposto una galleria unica, mentre il progetto finale sarà quello di una galleria a croce, con l’aggiunta di alcuni dettagli stilistici.
Il 7 marzo 1865, il re Vittorio Emanuele II posò la prima pietra della Galleria. La costruzione fu affidata alla società inglese City of Milan Improvements Company Limited. I lavori, a parte la realizzazione dell’arco trionfale d’ingresso, furono ultimati in meno di tre anni. Ci furono alcuni problemi, a causa del fallimento della società appaltatrice. Questo fatto allungò i tempi di completamento dei lavori che terminarono nel 1878, quando anche l’arco d’ingresso e i portici settentrionali di piazza Duomo furono terminati. Mengoni non riuscì a vedere finita la grandiosa opera: morì cadendo da un’impalcatura durante un’ispezione.
Poco tempo dopo l’inaugurazione, la Galleria divenne il luogo di ritrovo preferito dalla borghesia che frequentava i nuovi negozi, i ristoranti e i caffè. Alcuni di questi esercizi commerciali hanno resistito al passare degli anni e sono tuttora in attività. Sin dalla sua apertura, la Galleria fu dotata di tutte le ultime trovate tecnologiche, come l’illuminazione a gas. Le lampade sull’ottagono erano accese da un congegno automatico chiamato “rattin” (“topolino” in milanese), una piccola locomotiva che accendeva progressivamente i lumi.
La Galleria non fu solo punto di ritrovo per la borghesia, ma anche centro vitale della politica milanese. Gli avvenimenti politici di maggior rilievo che la videro protagonista furono: gli scontri tra operai e polizia il 1° maggio del 1890; i conflitti dei moti di Milano che videro il loro culmine con il cannoneggiamento sulla folla ordinato da Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924, generale italiano), nel 1898.
A causa della loro vicinanza, la Galleria e il teatro alla Scala furono da subito legati sia perché quest’ultima costituiva il punto di transito per recarsi a teatro sia perché qui si radunavano cantanti e musicisti che desideravano essere scritturati nei teatri della Lombardia.
A inizi Novecento, la Galleria si impose ulteriormente, diventando un luogo cruciale per la vita mondana e per la scena musicale milanese. Inoltre, fu al centro di tutti gli avvenimenti più importanti della città: eventi culturali, come gli incontri dei futuristi; scontri tra interventisti e neutralisti allo scoppio della I Guerra mondiale; manifestazioni dopo la guerra. Durante la II Guerra mondiale, la Galleria subì i bombardamenti degli alleati, come il resto della città, e riportò diversi danni: fu distrutta la copertura di vetro, parte della copertura metallica e le decorazioni interne.
La Galleria fu oggetto di diversi restauri nel corso degli anni, gli ultimi, furono piuttosto approfonditi e risalgono al periodo tra marzo 2014 e aprile 2015. In vista dell’Expo, si attuarono tutti i lavori che erano stati trascurati in precedenza e tra i vari interventi c’è quello che ha riportato gli intonaci ai colori originari.
La Galleria ha incontrato il favore di artisti e intellettuali, ispirando rappresentazioni pittoriche e citazioni di vario genere da parte di letterati e scrittori. Luigi Capuana ne “La Galleria Vittorio Emanuele” dice che “è il cuore della città. La gente vi s’affolla da tutte le parti, continuamente, secondo le circostanze e le ore della giornata, e si riversa dai suoi quattro sbocchi […] Tutte le pulsazioni della vita cittadina si ripercuotono qui”.
Non so voi, ma io mi trovo d’accordo con la conclusione di Mark Twain che nel suo diario di viaggio, “Vagabondo in Italia”, affermò: “Mi piacerebbe viverci per sempre”.
“I Buddenbrook” è il primo romanzo di Thomas Mann, dove l’autore segue le vicende di una famiglia per ben quattro generazioni. L’opera è una sorta di complessa partitura musicale, dove i personaggi sono gli strumenti. Nella parte finale, lo scrittore, attraverso l’improvvisazione al pianoforte di Hanno, ci fa assaporare in modo concreto la sua grande musica fatta di parole.
Paul Thomas Mann, più conosciuto come Thomas Mann (Lubecca, 6 giugno 1875 – Zurigo, 12 agosto 1955), è stato uno scrittore e saggista tedesco. All’inizio, la sua vita professionale sembra essere orientata verso il settore commerciale, ma la scrittura è una forte tentazione, tanto che ben presto finirà per dedicarsi solo alla letteratura. La sua affermazione come scrittore avviene nel primo dopoguerra e, passando di successo in successo, Mann finirà per diventare il massimo rappresentante della letteratura tedesca e nel 1929, vincerà persino il Premio Nobel.
Una delle opere più famose di Thomas Mann è il romanzo, “I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia”, pubblicato nel 1901, è il primo romanzo dello scrittore tedesco. Nel libro è narrata la progressiva rovina di una famiglia benestante della borghesia mercantile di Lubecca. E la vicenda che si svolge tra il 1835 e il 1877, abbraccia ben quattro generazioni.
Per costruire il complesso intreccio de “I Buddenbrook”, Mann si ispirò alla sua storia familiare e, al contempo, si profuse in letture e studi di opere simili alla sua, che trattavano saghe familiari, ad esempio, Il ciclo de “I Rougon-Macquart” di Émile Zola; le opere di Jonas Lie e Alexander Kielland, che trattavano vicende di famiglie di estrazione borghese. Inoltre, furono di ispirazione anche i libri dei fratelli Jules e Edmond de Goncourt e quelli di Paul Bourget.
Mann consegnò il manoscritto de “I Buddenbrook” il 15 agosto 1900 all’editore Fischer, che lo considerò di lunghezza eccessiva. La prima edizione del romanzo, uscì nell’agosto del 1901. Il successo dell’opera arrivò più tardi, con la stampa di un’edizione economica che a Lubecca letteralmente spopolò: c’era una forte curiosità, per il fatto che il figlio di un senatore aveva messo in piazza la vita della sua famiglia.
Le novità che Mann introduce con questo romanzo sono: la scrupolosa ricostruzione sociale e il minuzioso approfondimento delle componenti psicologiche dei personaggi. La storia si dipana in un lungo arco di tempo e, ovviamente, non c’è un solo protagonista. Lo scrittore si sofferma sui vari componenti della famiglia, spostandosi di generazione in generazione, prestando particolare attenzione ad alcuni più che ad altri.
La parte finale de “I Buddenbrook” è ad esempio dedicata quasi completamente ad Hanno, l’ultimo erede maschio della famiglia. Hanno ha un carattere sensibile, è timido e fragile, tutto l’opposto dell’erede che avrebbe voluto avere suo padre, Thomas Buddenbrook, che considera la spiccata sensibilità dell’animo di suo figlio, una debolezza che si aggiunge a quella fisica.
Uno dei pochi svaghi che Hanno si concede è la musica, suonando il pianoforte di casa. La musica consente al ragazzo di essere se stesso, di esprimere i più profondi moti del suo animo, soprattutto, quando si concede delle improvvisazioni alla tastiera.
Se il padre cerca inutilmente di instradarlo verso il mondo degli affari, senza riuscirvi, questo tentativo, destinato all’insuccesso, non rappresenta nell’economia del romanzo una sconfitta, bensì una vittoria: perché Hanno segue la sua passione artistica e non si sacrifica alla volontà della famiglia. Questo personaggio è riuscito a raggiungere, a differenza degli altri, una dimensione più alta della vita.
Anche per Thomas Mann la musica aveva una notevole importanza e lo si percepisce dalla cura con cui descrive il monologo sonoro improvvisato da Hanno al pianoforte. Il ragazzo rimasto solo nel salone dà liberamente sfogo alla sua interiorità e lo scrittore delinea con grande precisione ogni passaggio, dal comparire di una melodia, un tema di breve respiro che si evolve in variazioni sempre nuove, mentre il ritmo incalza. Seguendo le parole dello scrittore, possiamo quasi udire la musica prendere vita, dipanarsi dalle mani di Hanno.
Se nei primi due terzi del romanzo la musica ha un ruolo secondario, nell’ultimo terzo de “I Buddenbrook”, il soggetto musicale diventa centrale e addirittura fondamentale per gli sviluppi e per la conclusione della storia.
Quando dipinse “Notte stellata” Vincent van Gogh non pensava al dieci di agosto, la notte di San Lorenzo, ma il suo quadro a me fa pensare proprio a questa particolare notte, la notte dei desideri e delle stelle cadenti che rivedo nei vortici di luce che riempiono il cielo del suo dipinto.
“Per quanto mi riguarda, nulla so con certezza. Ma la vista delle stelle mi fa sognare” (Vincent Van Gogh)
Vincent van Gogh (1853-1890) dipinse la “Notte stellata” (De sterrennacht) nel 1889. Questo famoso dipinto rappresenta un paesaggio notturno di Saint-Rémy-de-Provence e fa parte delle opere che il pittore realizzò durante il suo anno di degenza in una clinica per alienati mentali. In questo periodo, van Gogh ebbe una intensa fase creativa, dipinse molte opere e al contempo, si affrancò dalla visione impressionista: nei suoi quadri la realtà era rielaborata attraverso l’immaginazione.
La data esatta della realizzazione della Notte stellata non è precisamente definita, si propende per il 19 giugno del 1889, perché l’artista nomina il quadro “un paesaggio con gli ulivi e anche uno studio di un cielo stellato”, in una lettera al fratello Theodorus (1857-1891, antiquario olandese, fratello minore di Vincent). Ma ci sono altre lettere che indicano una data antecedente, come quella che descrive il presunto paesaggio ritratto nel quadro: “Questa mattina dalla mia finestra ho guardato a lungo la campagna prima del sorgere del Sole, e non c’era che la stella del mattino, che sembrava molto grande” (Lettera n. 593 a Theo, 2 giugno 1889). Facendo tutte le debite osservazioni di natura astronomica e aggiungendo ad esse le deduzioni derivanti dalla corrispondenza del pittore, le date più probabili sono due: il 19 giugno o il 23 maggio.
All’inizio Vincent van Gogh tenne con sé la Notte stellata, poi la inviò al fratello insieme con altri quadri. L’anno successivo, l’artista si uccise, in un campo di grano maturo. Theo morirà nel 1891 e il dipinto passerà nelle mani della sua vedova, Johanna Gezina van Gogh-Bonger (1862-1925, pittrice olandese), per finire, successivamente, nelle collezioni del poeta Julien Leclercq. Poi il dipinto passò per varie altre mani, fino a giungere al suo ultimo e definitivo approdo: nel 1941, la Notte stellata fu acquistata dal Museum of Modern Art di New York.
Nella Notte stellata, van Gogh dipinse ciò che vedeva dalla stanza del manicomio di Saint-Remy, ma noi, guardandolo, non vedremo un paesaggio reale, bensì, un’interiorizzazione della realtà: l’espressione pittorica del mondo intimo dell’artista, vibrante delle sue emozioni e delle sue paure.
Nel 1888, prima di scegliere l’internamento volontario a Saint-Rémy, Vincent scrisse: “Con un quadro vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica. Vorrei dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui un tempo era simbolo l’aureola, e che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori […]. Ah il ritratto, il ritratto che mostri i pensieri, l’anima del modello: ecco cosa credo debba vedersi” (Vincent van Gogh, Arles, 3 settembre 1888).
In copertina: particolare della “Notte stellata” (De sterrennacht) di Vincent van Gogh, conservato presso il Museum of Modern Art di New York
Mentre si viaggia i pensieri corrono. Non è facile registrare lo stormo di idee che si muovono nella testa, mentre un treno sferraglia. La mente si riempie di sensazioni, di ricordi, di emozioni e, invariabilmente, di considerazioni, quasi filosofiche, che sembrano trovare terreno fertile nel viaggio, nello scorrere rapido dei paesaggi che altro ancora richiamano e altre idee e altre parole creano…
Sono di nuovo sul treno per Milano e la vita mi sembra correre come questo vagone tra l’azzurro del mare e i tetti delle case.
Tutto sembra sfuggire, come i particolari che non riesco a decifrare al di là del finestrino. Perdiamo sempre qualcosa: i personaggi dei libri che muoiono – sì, muoiono anche loro -; certe abitudini che abbiamo ormai rinserrato nelle nostre giornate, nei mesi trascorsi, negli anni passati.
Bisogna cedere all’evidenza del cambiamento, della mutazione per la mutazione; del moltiplicarsi dei segni nuovi; dell’affacciarsi di cose nuove dentro cose vecchie, come albe e tramonti che ci danno l’illusione che tutto resti uguale, mentre niente è lo stesso, perché se il mondo e le cose che abbiamo attorno non cambiassero, siamo noi, inevitabilmente, a cambiare.
I giapponesi che, sicuramente, sui cambiamenti hanno riflettuto più di noi, hanno addirittura un termine ad hoc, per un specifico tipo di cambiamento: Kaizen (composto da KAI: cambiamento, miglioramento e ZEN: buono, migliore) che significa cambiare in meglio, miglioramento continuo. Questa parola è stata coniata, nel 1986, da Masaaki Imai (Tokyo, 31 agosto 1930, economista giapponese, consulente sulla gestione della qualità), per illustrare la filosofia di business che sosteneva i successi dell’industria nipponica negli anni Ottanta.
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