Il Caffè: periodico italiano, manifesto per il pensiero illuminista

“Cose e non parole” è uno dei motti del “Caffè”, periodico italiano pubblicato dal 1° giugno 1764 al 26 maggio 1766.

Il Caffè, periodico nato con l’obiettivo di attraversare e spiegare la realtà, e non solo di riprodurla in modo passivo, nasce a Milano, grazie ai fratelli Pietro (1728 – 1797, filosofo, economista, storico e scrittore italiano) e Alessandro Verri (1741 – 1816, scrittore e letterato), e a Cesare Beccaria (1738 – 1794, giurista, filosofo, economista e letterato, tra i massimi esponenti dell’illuminismo italiano), nonché al gruppo di intellettuali che faceva parte dell’Accademia dei Pugni, composto, oltre che dai fratelli Verri da: Luigi Stefano Lambertenghi (1739 – 1813); Giambattista Biffi (1736 – 1807, scrittore italiano); Pietro Secchi; Alfonso Longo (1738 – 1804, abate e intellettuale illuminista lombardo); Cesare Beccaria.
I fondatori del Caffè provengono dall’aristocrazia ma sono di fatto i portavoce delle richieste culturali, politiche e sociali delle classi emergenti che desideravano svecchiare le istituzioni e semplificare l’apparato statale.

L’Accademia dei Pugni, detta anche Società dei Pugni, era un’istituzione culturale. Fondata nel 1761 a Milano, divenne un luogo di riferimento per la discussione pubblica ed è proprio nel suo seno che si posero le basi per la creazione de “Il Caffè”.
Questo giornale dal nome curioso assunse ben presto le sembianze di un foglio periodico all’avanguardia, che occuperà un posto in prima fila nella fase riformistica italiana. Inoltre, considerati i suoi obiettivi e la sua vocazione generale, sarà tra i principali strumenti di diffusione del pensiero illuminista in Italia.

Stile brillante e poco accademico, il Caffè rivoluzionò il concetto di cultura e anche quello di divulgazione dell’informazione. Esso proponeva un’informazione alla portata di tutti, sulla linea del principio illuminista, con l’obiettivo di migliorare la società e usare la conoscenza in modo intelligente.
Ovviamente, in linea con la sua idea di apertura verso un pubblico più vasto, il linguaggio del nuovo periodico è nettamente all’opposto del classicismo e del purismo linguistico. Il tono degli articoli è quindi colloquiale e schietto, e manifesta l’intento degli scriventi di creare un rapporto nuovo con i lettori: cordiale, aperto e disponibile.

Il clima giusto per il fiorire delle idee illuministe e la nascita di movimenti e anche di giornali come il Caffè inizia a crearsi dopo la pace di Aquisgrana, nel 1748, quando le tensioni tra Impero Asburgico, Inghilterra, Prussia, Spagna e Francia si allentano e tra le nazioni c’è distensione e dialogo. Intanto, in Italia le idee illuministe iniziano a prendere campo, soprattutto a Milano e a Napoli, grazie alla presenza di sovrani riformatori.

Il Caffè, di cui furono pubblicati nel complesso 74 numeri (rilegati poi in due volumi corrispondenti alle due annate), usciva ogni dieci giorni e la stampa veniva fatta a Brescia (all’epoca territorio veneziano), per evitare la censura della Lombardia austriaca.
In quanto ad argomenti, il periodico rispettava quanto dichiarato da Pietro Verri nell’articolo di apertura: “cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità”.

In quanto ai firmatari del Caffè, compaiono diversi nomi, oltre a quelli dei fratelli Verri: Cesare Beccaria; Carlo Sebastiano Franci (1715 – 1772); Pietro Francesco Secco Comneno (1734 – 1816, uomo di vasta cultura letteraria ed economica); Giuseppe Visconti di Saliceto; Paolo Frisi (1728 – 1784, matematico, astronomo, presbitero e pubblicista italiano, figura di spicco della matematica e delle scienze nell’Italia della sua epoca, noto soprattutto per i suoi lavori di idraulica); Luigi Stefano Lambertenghi; Alfonso Longo; François de Baillou (1700 – 1774, ottico francese); Ruggero Boscovich (1711 – 1787, gesuita, astronomo, matematico, fisico, filosofo, diplomatico e poeta dalmata della Repubblica di Ragusa); Gian Rinaldo Carli (1720 – 1795, di origine istriana, scrittore, economista, filosofo, storico e numismatico); Giuseppe Colpani (1739 – 1822, poeta o ragionatore in versi della compagnia del Caffè).

Il Caffè sia per il titolo sia per l’impostazione risulta del tutto nuovo nella tradizione italiana, e l’idea di base era quella di presentarlo come il compendio delle discussioni che avevano luogo in un caffè.
Esso seguiva il filone di molti altri giornali nati nello stesso periodo in Inghilterra e in Francia, e serviva da manifesto per il pensiero illuminista. Infatti, nel Settecento, l’Europa era diventata la culla dell’illuminismo: filosofia dominante che voleva eliminare le tenebre dell’ignoranza e aprire la mente, quindi, illuminarla. In particolare, il periodico milanese prese spunto dai giornali inglesi: The Spectator (“Lo spettatore”) e The Tatler (“Il chiacchierone”) di Addison e di Steele.

Considerato che, il Caffè si distingueva per temi e stile dal panorama tradizionale dell’epoca e oltretutto, riuscì a riunire le firme più prestigiose del momento, non stupisce che, in breve tempo diventasse una sorta di modello che ispirò i maggiori intellettuali dell’Illuminismo milanese.

Anche il nome del periodico, pensato in chiave metaforica, anticipa i temi e le modalità di intrattenimento. La denominazione allude a un fenomeno particolarmente diffuso ai tempi dell’Illuminismo: quella di frequentare locali dove si serviva caffè. In tali luoghi privilegiati, si poteva, in libertà, intraprendere discussioni, dibattiti sociali, culturali, economici e politici, e tutti, senza eccezioni, potevano intervenire nei discorsi ed esporre la propria opinione.

Di pari passo con l’apertura a tutti delle botteghe di caffè, anche la redazione del periodico di Verri era interessata a cogliere e consultare nuovi interlocutori che non fossero solo eruditi e letterari, ma anche gente comune: artigiani, donne, piccoli professionisti. Ai quali ci si rivolgeva senza filtri. In tal modo, e questa è la vera rivoluzione messa in atto dai fratelli Verri e dai loro collaboratori, il sapere non è più qualcosa di immobile, bensì un flusso di nozioni in continuo divenire. I temi sui quali poteva intervenire la gente comune erano di vario genere: economia, agricoltura, medicina e politica. Si dava così vita a un vivace dibattito, gestito su più fronti. Grazie a tale impostazione, il sapere e la conoscenza furono trasformati da beni di lusso a beni comunitari, condivisibili.

Inizialmente, le botteghe di caffè si diffusero soprattutto in Inghilterra. Tutti avevano accesso a tali locali, a patto che, fossero disposti a pagare il prezzo della consumazione e si poteva restare per leggere i giornali esteri oppure per godersi un’amabile conversazione.

La pianta del caffè, recentemente importata dal Medio Oriente, sembrava possedere grandi virtù salutari e secondo i lumi, bevendo caffè si potevano “risvegliare” le virtù dell’uomo.
La diffusione della salutare bevanda e la nascita dei locali, dove si poteva consumare il caffè, segnano, a detta di Pietro Verri, anche la fine delle taverne, considerate ormai luoghi rozzi e arretrati: “il tramonto della civiltà del vino, fatta di deliri, ebbrezze, invasamenti e l’inizio della civiltà del caffè, fatta di riflessione, meditazione, chiarezza di idee”.

Oltre a essere luoghi di piacevole ritrovo, le botteghe di caffè furono madrine e ispiratrici di riviste che propugnavano libertà di pensiero e di comunicazione, proprio come il Caffè che ebbe anche un erede nel periodico letterario napoletano: Il Caffè del Molo, edito in Napoli dal 1829 al 1832.

Per quanto riguarda i nostri tempi, lo spirito che animava il periodico di Verri non è del tutto scomparso: in Italia, esistono ancora salotti letterari, dove ci si riunisce, si legge, si discute e ci si confronta su temi d’attualità di vario genere.
Nati come luogo di ritrovo e di arricchimento, conferiscono un qualcosa in più alla città e mantengono viva la possibilità di conversare e discutere amichevolmente.

L’arte di pescare aringhe rosse nei gialli che più gialli non si può

Immaginate di essere un detective alle prese con un caso intricato. Seguite una traccia che sembra promettente, raccogliete indizi, formulate teorie… e poi, ta-da! Scoprite che era tutto un abbaglio, una deviazione studiata ad arte dall’autore per portarvi fuori strada. Ecco, avete appena abboccato a un’aringa rossa!

L’aringa rossa è il depistaggio, è quel dettaglio (cosa, persona, situazione) che ha il compito di distrarre il lettore, facendogli credere di essere sulla buona strada per scoprire qualcosa… quando in realtà non è così. È come guardare il gioco di un illusionista.

Crea suspense, ingaggia il lettore coinvolgendolo nell’indagine, sostiene il ritmo, amplifica l’effetto di quando ci sarà davvero il colpo di scena.

Ma perché proprio un’aringa e non un granchio?

La tradizione vuole che i cacciatori usassero proprio le aringhe affumicate (che nel processo assumevano un colore rossastro) per addestrare i loro cani. Trascinavano questi pesci sul terreno per creare false piste e insegnare ai cani a non farsi distrarre durante la caccia. Oppure venivano usate per distrarre i cani dei concorrenti… Da qui, il termine è passato alla letteratura per indicare quegli elementi della trama inseriti appositamente per sviare il lettore.

L’aringa rossa è uno strumento prezioso – direi un passaggio obbligato – per gli scrittori di gialli, thriller e mystery.

Ma attenzione: come in cucina, anche in narrativa il segreto sta nel dosaggio. Una falsa pista ben piazzata deve essere:

  • abbastanza convincente da attirare l’attenzione del lettore e distrarlo dal vero colpevole o dall’indagine
  • sufficientemente integrata nella trama da non sembrare posticcia
  • non troppo ovvia da risultare banale
  • non così dominante da far perdere di vista la vera storia
  • non ripetuto allo sfinimento da far perdere fiducia al lettore.
    Facile no?
“Ah, ma io sapevo che quello era il McGuffin!”
Eh no, sapevi male.

Il McGuffin è un altro espediente narrativo ancora. Il McGuffin è qualcosa (un oggetto) che tutti i personaggi vogliono disperatamente, ma il contenuto in sé non è importante per la storia. Classico esempio: la valigetta di Pulp Fiction.

Il McGuffin serve a far muovere la trama (è il motivo per cui i personaggi agiscono) mentre l’aringa rossa serve a ingannare il lettore distraendo dalla vera direzione della trama (è una falsa pista, abbiamo detto, no?). Il McGuffin resta importante fino alla fine (anche se poi il suo contenuto non lo è), mentre l’aringa rossa perde di importanza una volta rivelato l’inganno. Nel caso del McGuffin, è cercato attivamente dai personaggi; nel caso dell’aringa rossa spesso i personaggi lo ignorano (è più destinato al lettore).

Quindi: il McGuffin è come un cane da caccia che insegue una preda: non importa quale sia la preda, l’importante è continuare a inseguirla. L’aringa rossa è invece la falsa traccia lasciata per confondere il cane: svelato l’inganno, esaurisce la sua funzione.

Se vuoi andare a pesca o a caccia di storie… patrizia@cartaforbicesasso.com

La pistola di Čechov

Indossate le cuffie e rispondete alla domanda.

La pistola di Čechov è:

  1. La Magnum rubata all’ispettore Callaghan da Anton Pavlovič Čechov e conservata al British Museum
  2. Un principio della narrativa
  3. L’arma con cui il Colonnello Mustard ha ucciso il maggiordomo nella biblioteca di Tudor Hall

Come dite? La terza? Nahhhhh.
La risposta giusta è la due.

È il principio secondo cui “Se nella storia compare una pistola, questa prima o poi dovrà sparare”.

Cosa significa?

In generale: niente oggetti di scena, niente elementi della trama superflui, niente personaggi inutili! Se un autore inserisce in un romanzo un elemento (come può essere una pistola appesa a una parete), deve servire a qualcosa, altrimenti va asciugato (leggasi: rimosso).

E non pensiate che valga solo per i gialli.

Se in un romanzo faccio comparire nel primo capitolo, accanto al protagonista Mario, lo zio Antonio, mi dilungo in una sua descrizione, faccio emergere la sua storia, beh lo zio Antonio deve avere un ruolo nel romanzo, deve rivelarmi (e deve poterlo fare solo lui) qualcosa del protagonista, oppure qualcosa della storia altrimenti ci dispiace per lo zio Antonio ma deve essere mandato a casa.

Quindi: tutto ha una funzione, gli elementi superflui devono essere rimossi. Tutto deve essere essenziale.

Se poi cambiamo angolazione ed entriamo nel particolare, la pistola di Cechov si usa per indicare anche un elemento introdotto nella narrazione in modo all’apparenza casuale e che rivelerà la propria importanza al momento del colpo di scena. In altre parole, per stordire il lettore con un colpo di scena, l’ideale è far apparire un oggetto o un elemento che lo anticipa non la scena prima, bensì molte scene prima, tanto che il lettore se ne è dimenticato. Anzi, se lo scrittore è bravo, il lettore non lo ha neanche realizzato: il suggerimento è di nasconderlo, confonderlo per depistare il lettore che quasi non se ne accorge, e che si stupirà quando scoprirà che invece quell’oggetto o quell’informazione è essenziale.

Morale della storia: tutto deve avere ha uno scopo, tutto deve essere seminato al momento opportuno!

E l’aringa rossa, allora? Ah beh, quella è un’altra storia… Stay tuned.

Giornale de’ Letterati: tra le più antiche riviste della stampa italiana

Il “Giornale de’ Letterati”, una delle prime riviste pubblicate in Italia, fu la capostipite di una serie di periodici che portavano lo stesso nome e che aiutarono a vivacizzare discussioni di argomento culturale e scientifico a cavallo tra il Seicento e il Settecento.

La vera destinazione di una rivista è rendere noto lo spirito della sua epoca“, questo è ciò che sosteneva Walter Benjamin (1892 – 1940, filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco) nell’annuncio della rivista: “Angelus Novus“. In effetti, le riviste non servivano solo a comunicare notizie ai lettori contemporanei, ma erano anche luogo di discussioni e dibattiti su temi di vario genere: culturali, artistico-letterari, politici, sociali e persino scientifici e religiosi. Le pagine stampate consentivano una partecipazione più concreta, soprattutto perché prendevano in esame i vari fenomeni dall’interno.

Tra le prime riviste italiane che si occupò di diffondere argomenti culturali, ci fu il “Giornale de’ Letterati”, nome che non fu utilizzato da un’unica rivista: in realtà ce ne furono diverse che impiegarono lo stesso titolo e furono fondate in varie città italiane fra il XVII e il XVIII secolo. Comunque, la prima a fregiarsi di questo nome fu stampata a Roma e il suo fondatore fu l’abate Francesco Nazzari (1638 – 1714).

Il primo numero del “Giornale de’ Letterati” vide la luce il 28 gennaio 1668. Questo trimestrale è ritenuto una delle più antiche riviste della stampa italiana. Esso conteneva notizie ed estratti, sull’esempio del “Journal des Savants”, di opere prevalentemente scientifiche che si pubblicavano in Italia e all’estero e divenne un modello per varie e successive riviste letterarie.

Inizialmente, la rivista di Nazzari fu pubblicata con i caratteri tipografici dello stampatore Nicolò Angelo Tinassi. Per procurarsi materiale da stampare, il suo fondatore, incoraggiato dal futuro cardinale Michelangelo Ricci (1619 – 1682), diede vita a una società di letterati e di intellettuali, incaricati di fornire i riassunti delle opere in lingua straniera pubblicate in Europa. Dal canto suo, Nazzari curava le novità che giungevano dalla Francia.

Nel 1675, la rivista cambiò stampatore. I nuovi caratteri impiegati furono quelli di Giacomo Mascardi (1637-1722, nipote omonimo del fondatore della stamperia) e Benedetto Carrara ne divenne il finanziatore.

Tinassi, il precedente stampatore di Nazzari, proseguì con la pubblicazione di una rivista parallela che impiegò lo stesso nome, diretta da Giovanni Giustino Ciampini (1633 – 1698, storico, matematico, giornalista, archeologo e scienziato). Da quel momento, uscirono due periodici differenti, stampati nella stessa città e con lo stesso titolo: il trimestrale di Nazzari, che continuò ad essere stampato fino al 1679 e il mensile omonimo che proseguì la sua attività fino al 1683 (dal 1681, cambiò la direzione che da Giovanni Ciampini passò all’abate Filippo Maria Vettori).

Negli anni successivi, il titolo “Giornale de’ Letterati” fu usato per altre riviste stampate in altre città e in periodi diversi:

  • a Parma, dal 1686 al 1690;
  • a Ferrara, nel 1688;
  • a Modena, dal 1692 al 1698 (direttore, come quello di Parma, fu Benedetto Bacchini e finanziata anch’essa da Gaudenzio Roberti);
  • a Roma, stampata dai fratelli Pagliarini dal 1742 al 1759. Ebbe fra i principali ispiratori Giovanni Gaetano Bottari;
  • a Firenze, fondata da Ottaviano Buonaccorsi, pubblicata dall’aprile 1742 a tutto il 1753;
  • a Pisa, nel 1771, fondata da Angelo Fabroni e chiusa nel 1796 per l’invasione napoleonica. Lo stampatore fu il Pizzorno (l’ultimo volume fu stampato dal Landi).

La Gaxeta: il primo giornale parla veneziano

La Gaxeta veneta, data alle stampe nel Cinquecento, è l’antenato dei nostri attuali giornali.

La “Gazeta” o “gazzetta” (in dialetto veneziano “gaxeta”), in origine era il nome popolare di una moneta d’argento della Serenissima Repubblica di Venezia del valore di due soldi. Il nome sembra derivare da “gazza”, ma in realtà si dibatte ancora riguardo al suo etimo che resta incerto.
Questa moneta, emessa a partire dal 1539 sotto il dogato di Pietro Lando (1539-1548), aveva il titolo di 0,948 e un peso di 0,24 grammi. Su un lato era raffigurata la giustizia seduta, sul retro il leone di San Marco.

Nel 1563 a Venezia fu pubblicato il primo “foglio avviso”. Venduto al pubblico al prezzo di una gaxeta (due soldi), prese il nome proprio dalla moneta: “La gazeta dele novità” o “Gaxeta”.
Denominarlo come una moneta fu abbastanza naturale: rispecchiava le attitudini commerciali di Venezia. Con il tempo, il nome fu italianizzato e si trasformò nel più ben noto “Gazzetta”.

La Gaxeta aveva come scopo di tenere costantemente aggiornata la popolazione.
In quel periodo le relazioni fra Venezia e il sultano turco si erano incrinate e il governo della città aveva reagito diffondendo dei “Fogli di avviso”: cercava in tal modo di guidare le coscienze. I fogli della Gaxeta continuarono poi a essere prodotti e distribuiti in formati da otto o sedici pagine.

Nato come una sorta di bollettino aggiornato, la Gaxeta riportava notizie di battaglie, assedi e spostamenti di truppe. Tali argomenti erano preziosi in particolare per i commercianti e i banchieri che cercavano, tenendosi informati, di curare i loro interessi. Ovviamente, i problemi insorti con il sultano turco li riguardava da vicino: minacciava i floridi commerci che avevano correntemente con il mondo orientale.

Nello stesso periodo in cui si stampava la Gaxeta, nacque anche la prima forma di pubblicità. Sui fogli di giornale si riportavano i prezzi di merci da acquistare e persino notizie su fiere e mercati più importanti.

Tale genere di fogli informativi iniziano a comparire anche all’estero. Ad esempio, in Germania circolava un giornale manoscritto con contenuti simili alla Gaxeta veneziana, altrettanto accadeva in Inghilterra, dove le notizie erano riportate su fogli volanti.

I fogli volanti vennero abbandonati gradualmente, per passare al formato del giornale vero e proprio, anche se il foglio, singolo o multiplo, rimase per almeno altri cinquant’anni, dopo che il giornale aveva assunto più o meno le fattezze di quello attuale.

Come Scrivere un Personaggio Credibile e Memorabile

Partiamo dal principio base: non c’è storia senza personaggi.
E se c’è una cosa che unisce tutti gli scrittori, da quello che scribacchia sui tovaglioli al veterano con scaffali pieni di premi letterari, è questa: tutti amano i loro personaggi. Ma come fare in modo che anche i lettori li adorino e li ricordino? Cinque (rectius: sei, anzi sette…che faccio, lascio?) regole spicce da tener presente.

  1. Conosci il Tuo Personaggio Come le Tue Tasche
    Ancora meglio, conosci cosa ha il tuo personaggio in tasca quando cammina! Non basta sapere che Marco fa l’idraulico o che Anna è una ballerina professionista. Devi scavare a fondo! Cosa rende Marco nervoso? Qual è il più grande sogno di Anna? Non tutto deve finire nel romanzo. Ma il suggerimento è di scrivere una scheda personaggio per tenere traccia della sua storia, di come lo stai costruendo e farlo muovere in scena in modo coerente. Se hai necessità, io ho diverse check list da utilizzare: scrivimi.
  2. Difetti: Il Sale della Vita (e della Narrazione)
    Siamo onesti, nessuno vuole leggere di Mr. Perfettino o Ms. Infallibile. Che noia! Aggiungi qualche difetto (anche due… o tre) al tuo personaggio per renderlo più umano. Non limitarti ai difetti fisici, esplora le imperfezioni emotive, i suoi vizi. È il mix di pregi e difetti che lo renderà indimenticabile. Ricorda: è meglio un personaggio che mastica rumorosamente la gomma o uno che ha paura dei ragni rispetto a un eroe senza macchia e senza paura!
  1. Azione: Dimmi Cosa Fai e Ti Dirò Chi Sei
    Metti il tuo personaggio alla prova! I personaggi compiono scelte. Mettilo davanti a un bivio, sfidalo a singolar tenzone. Le sue azioni, soprattutto “sotto stress”, riveleranno la sua vera natura. Le decisioni che prende devono essere coerenti con il suo carattere (e torniamo al punto 1 senza passare dal via) e con il suo sviluppo lungo la storia. E se decidi di fargli affrontare una situazione da incubo, meglio ancora: è proprio nei momenti di crisi che i veri eroi emergono.
  1. Parole, Parole, Parole
    I dialoghi sono un’arma potentissima nell’arsenale di uno scrittore. Il modo in cui un personaggio parla, cosa dice – e anche cosa non dice – può rivelare moltissimo della sua personalità. Ha dei tic linguistici? Ha studiato? È un bambino? Usa espressioni dialettali? Di fronte a cosa resta in silenzio? Urla? Impreca? Usa i dialoghi per svelare dettagli nascosti e per dare profondità al tuo personaggio.
  1. Relazioni: Il Cuore Pulsante della Narrazione
    Le relazioni definiscono chi siamo, e lo stesso vale per il tuo personaggio. Come si comporta con gli amici? E con i rivali? E l’amore, come lo vive? E come si rivolge al cameriere al ristorante? Che figlio è? Che madre è? Che vicino di casa è? Ogni interazione è un’opportunità per esplorare e mostrare le diverse sfaccettature del tuo personaggio. Usa le dinamiche di relazione per rendere i tuoi personaggi ancora più completi e tridimensionali.
  1. Bonus track: Il Conflitto!
    Ah, il conflitto! È l’ingrediente segreto che trasforma una storia interessante in una avvincente. Un personaggio senza conflitti è come il pesto senza aglio: manca qualcosa di fondamentale. Che sia un conflitto interiore (il classico dilemma morale) o esteriore (un nemico giurato, una situazione impossibile), il conflitto è ciò che spinge il tuo personaggio a evolversi. E non dimenticare: il conflitto non deve essere sempre gigantesco o epico. Anche le piccole tensioni quotidiane possono rivelare molto di un personaggio.
  2. Bonus Track 2: Il Cambiamento!
    Un personaggio statico, che non cambia è come un film senza colonna sonora: piatto e monotono. L’arco di trasformazione del tuo personaggio è ciò che lo rende dinamico e interessante. Mostra come cresce, cambia davanti alle scelte e alle difficoltà (torna al punto 3 sempre senza passare dal via) o viene influenzato dagli eventi della storia. Questo cambiamento può essere positivo o negativo, ma deve essere coerente e credibile.

    Quasi quasi la prossima volta parlo di dialoghi.

    Se vuoi conoscere le molteplici personalità di un editor, fai un passo indietro…

Una stanza piena di gente: le molteplici personalità dell’editor

Dietro ogni romanzo ben fatto, ogni racconto che colpisce, c’è un editor.

L’editor c’è, ma non si vede. Resta tra le quinte, compare solo quando c’è un problema da risolvere, come il signor Wolf di Pulp Fiction.

Ma come si racconta la mia professione?

L’editor è un tecnico radio: si occupa di ripulire la voce dell’autore dai rumori di fondo per farla emergere dalla pagina forte e chiara. Non la appiattisce, non la standardizza; al contrario, fa di tutto per renderla unica, esaltarla.

L’editor è il ponte tra l’autore e il lettore, lavora per assicurarsi che il messaggio dell’autore sia chiaro, coerente e coinvolgente, che i suoi personaggi non si perdano, che le fila della sua storia non lascino vedere il lavorio delle varie stesure che si sono sovrapposte nel tempo (e chiunque scrive sa che possono essere moltissime!).

L’editor è lo sparring partner dell’autore: fa proposte, suggerimenti, commenti in un continuo scambio con l’autore che rimane comunque libero di decidere cosa è meglio per la sua creatura.

È un giardiniere, un mentore, un parolaio, un investigatore, un alleato, un chimico, un sous chef, un avvocato di difesa…

Ha bisogno di una cassetta degli attrezzi ben fornita:

  • una buona dose di empatia (capacità di ascolto, dialettica e anche negoziale)
  • una solida formazione (tecniche narrative e non solo)
  • un’ampia conoscenza del mercato editoriale
  • strumenti pratici (sembra banale, ma quando mi è andato in crash il programma di videoscrittura sono impazzita perché gli strumenti “open” non bastano)
  • Curiosità, sensibilità, pazienza

    Avete capito perché amo il mio lavoro? Perché è variegato, mai ripetitivo e mi richiede ogni giorno competenze e capacità diverse. Mi tiene allenata, viva.

    Mi piace o quando smonto e rimonto un romanzo, quando un autore trova una casa editrice grazie al suo talento e al lavoro fatto insieme, quando i personaggi vengono a trovarmi la notte…

    Ho detto personaggi? Nel prossimo appuntamento vi racconto su cosa mi concentro quando metto a fuoco i protagonisti di una storia.

    Nel frattempo, se volete conoscere meglio il mio lavoro, vi invito a entrare nel mio sito: www.cartaforbicesasso.com

La nascita di giornali e riviste e la loro evoluzione

Giornali e riviste a stampa compaiono più o meno negli stessi anni, un po’ in tutta Europa, sulla scia dell’invenzione di Gutenberg. La loro fortuna e diffusione aumenta considerevolmente nel corso dei secoli.

La nascita dei giornali è strettamente legata all’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455). Questa nuova tecnica, introdotta in Europa da Gutenberg (1400 ca. – 1468), orafo e tipografo tedesco, rappresentò una vera e propria rivoluzione e produsse al contempo molti cambiamenti nella società dell’epoca.

Inizialmente, i giornali erano dei semplici fogli di informazioni che venivano distribuiti alla popolazione.
Verso la metà del 1500, a Venezia, si stampava la “Gaxeta” un foglio che prendeva il nome dall’omonima moneta che si pagava per acquistarla.
Successivamente, il nome mutò in “Gazzetta”. Questo termine fu adottato non solo in Italia ma anche in altri paesi ed era sinonimo di giornale.

Aumentano le informazioni e di pari passo cresce il numero di pagine dei giornali che riportano notizie di vario genere.

Quasi contemporaneamente, nel 1600 compaiono in Francia e in Inghilterra le prime riviste. Negli anni seguenti, accade lo stesso in Italia e in Germania e, ancora più avanti si affermano anche nel resto d’Europa e negli Stati Uniti.

Questi giornali escono con cadenza periodica, di solito una volta al mese, e trattano di scienza, filosofia, letteratura. Sono chiaramente rivolti a dei lettori colti e intendono diffondere informazioni sui progressi della scienza e anche su ciò che avviene nel mondo della cultura.

Dal 1700, tali periodici aumentano notevolmente e si specializzano, ognuno eleggendo un unico tra gli argomenti culturali finora trattati.
Queste riviste hanno un’ampia diffusione, grazie soprattutto alla maggiore alfabetizzazione delle persone che sono quindi più attratte dalla lettura, ma anche perché i progressi della scienza e le nuove scoperte attirano l’interesse.
In questa fase, c’è anche una certa diffusione del romanzo, di ogni genere, in particolare quelli d’avventura e la lettura diventa uno dei passatempi preferiti della nuova classe borghese. Inoltre, la grande diffusione della stampa comporta un abbassamento dei prezzi e quindi, consente a molte più persone di poter accedere a libri e riviste.

In Europa, nei secoli successivi, proliferano i periodici, curati da Accademie, da intellettuali, da scrittori o da giornalisti. Alcuni hanno breve durata, mentre altri godono di successo e fortuna, arrivando addirittura ai nostri giorni.

Nell’Ottocento, nelle riviste iniziano a comparire anche delle illustrazioni. Le prime sono di xilografie in bianco e nero. Successivamente, si passa alle litografie anche a colori.
Si cerca in tutti i modi di interessare i lettori, puntando anche su copertine sempre più accattivanti.

Dalla fine del XIX secolo fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’arte dell’illustrazione grafica acquista sempre più importanza, dando vita a una vera e propria arte che gareggia con la pittura, grazie all’intervento di grandi artisti.

Per quanto riguarda i contenuti testuali, le riviste letterarie di questo periodo pubblicano saggi, articoli in tema, interviste, recensioni e biografie, Inoltre, tra le pagine si possono trovare anche racconti e poesie sia di autori affermati sia di esordienti.

Autografi e tanta emozione in libreria

Scrivere è un mestiere solitario. Lo dicono i grandi scrittori e io, umilmente, condivido.

Condivido l’aspetto della solitudine, ma soprattutto, il fatto che fare lo scrittore è praticare un mestiere. Infatti, se cercate la voce “mestiere” nel vocabolario Treccani troverete: “attività, di carattere prevalentemente manuale e appresa, in genere, con la pratica e il tirocinio, che si esercita quotidianamente”, e in effetti, questa è l’attività principale di chi come me si ritrova a fare questo lavoro.

Inoltre, mi sento di aggiungere che per scrivere è necessaria anche una quotidiana ricerca. Documentarsi, infatti, è parte integrante del mestiere di scrittore e l’aspetto della manualità, almeno per me, è prendere appunti, a mano, per studiare l’eventuale location oppure per caratterizzare i personaggi o ancora, per registrare la cronologia degli eventi e fissare la trama.

Ogni giorno sento la necessità di scrivere, aggiungo, tolgo, leggo, studio e mi documento, ma la parte più difficile resta sempre quella: il romanzo è pronto e deve essere inviato a una casa editrice. È la parte più difficile perché in questa fase si concentrano le speranze e spesso si sperimentano le frustrazioni.

Quando ho spedito il giallo “Presente sospeso” alla “Golem Edizioni”, una casa editrice indipendente di Torino, mi sono giocata il tutto per tutto. Se avessi subìto un rifiuto, avrei “appeso le scarpe al chiodo”.

Il mio più grande desiderio era quello di tornare in libreria, per godere di quella particolare emozione che solo chi ama aggirarsi curioso tra scaffali pieni di libri può capire. Perché chi scrive deve amare anche leggere e la lettura ha i suoi rituali, e i libri sono oggetti quasi sacri e chi li ama, adora toccarli, annusarli, sfogliarli e magari desidera in qualche modo di interagire con loro.

A me, per esempio, capita di lasciare un libro sul comodino o accanto alla poltrona preferita, in attesa del momento in cui posso dedicarmi alla lettura.
Dopo una giornata frenetica di lavoro o piena di incombenze, leggere è un toccasana, una terapia per l’anima, e io tengo conto di ciò quando presto le parole ai protagonisti dei miei romanzi.

Scrivere poi, può essere paragonato a viaggiare e il viaggio è quello che ogni autore fa con se stesso, magari accompagnato dai suoi personaggi e dalle emozioni che loro trasmettono.

Molti dei miei personaggi sono nati per dare voce a chi in vita non ne ha avuta una, perché magari non ha trovato il coraggio oppure non ha avuto il tempo per raccontare la propria storia.

Per quanto riguarda il pubblico dei lettori, quando ho la possibilità di incontrarlo, come nel firmacopie di Presente sospeso – cosa che non mi capitava da un po’, avendo scelto negli ultimi anni l’autopubblicazione – il calore e l’emozione che si provano sono qualcosa di incredibile, che non si riesce a descrivere.

In certi momenti poi, si pensa a chi ti ha sempre sostenuto e ha creduto in te, e allora si ricordano in particolare coloro che non ci sono più, ma che sono comunque presenti e sai che vegliano su di te.

In memoria di Adria Pannelli
Sconosciute onde ti culleranno nel tuo amato mare.